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POESIE EDITE E INEDITE di MARINA CVETAEVA (1892-1941) e ARSENIJ TARKOVSKIJ (1907-1989) – Una storia d’amore in versi – A cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

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Arsenij Tarkovskij

Nessuna di queste poesie di Marina Cvetaeva è stata tradotta in italiano ad eccezione di “Elabuga”, pubblicata e tradotta da Gario Zappi nel suo Poesie scelte di Arsenij Tarkovskij, Scheiwiller, Milano, 1988.
Si tratta di un ciclo di poesie palesemente scritte da Arsenij Tarkovskij à la màniere della Cvetaeva (vedi l’uso delle lineette). L’uno risponde all’altra.

“Io ascolto, non dormo, mi chiami, Marina…”
Gli ultimi anni della vita di Marina Cvetaeva sono stati studiati a fondo ma l’esatta data del suo incontro con Arsenij Tarkovskij non si trova da nessuna parte. E’ noto che pretesto della conoscenza fu la traduzione da parte di Tarkovskij dei versi del poeta turkmeno Kemine. Il titolo completo dell’opera è “Raccolta di canti e versi nella traduzione di Arsenji Tarkovskji con l’aggiunta di racconti popolari scelti sulla vita del celebre poeta”. L’accordo per l’edizione fu stipulato il 12 settembre del 1940 ed il libro uscì probabilmente dopo un mese.
La famosa brutta copia della lettera della Cvetaeva a Tarkovskji, appuntata nel quaderno di ottobre del 1940, fu ricopiata per qualcuno da Ariadna Efron. (1)

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Marina Cvetaeva, 1914

“…Caro com.(pagno) T.(arkovskij),
la Vostra traduzione è una meraviglia. Che cosa potete fare – quando siete Voi stesso?
Perché per un altro poeta potete – tutto. Trovate (amate) – e le parole saranno vostre.
Presto Vi inviterò – una di queste sere – ad ascoltare versi (i miei) di un libro futuro. Per questo datemi il vostro indirizzo affinché l’invito non vada vagando – o non resti qui come questa lettera.
Vi pregherei molto di non mostrare a nessuno questa mia letterina, io sono una persona appartata e scrivo a Voi – a che vi servono gli altri? (mani ed occhi) e non dite a nessuno che presto, uno di questi giorni, sentirete le mie poesie, presto ci sarà da me una serata aperta ed allora verranno tutti. Io adesso Vi chiamo da amico.
Ogni manoscritto – è indifeso. Io nella mia interezza – sono un manoscritto
M. C.”

Questa tarda lettera dell’ultima Cvetaeva è totalmente giovanile nello spirito.
La traduzione di Tarkovskij capitò alla Cvetaeva, probabilmente, tramite una sua intima conoscente, la traduttrice Nina Gherasimovna Berner Yakovleva. In gioventù aveva preso parte ad un circolo artistico-letterario alla Bolshaya Dmitrovka, di cui era coordinatore Brjusov. Lì aveva visto per la prima volta Marina ed Asja Cvetaeva, accompagnate da Maximilian Voloscin.
Se giudichiamo dalla lettera, essa è indirizzata ad un uomo già conosciuto, per il quale è nata una simpatia. I due poeti potevano già essersi incontrati a qualche serata letteraria o ad una riunione di traduttori … Ma la Berner asserisce che si conobbero proprio da lei.
E’ sicuramente noto il loro incontro nella casa di Nina Gerasimovna nel vicolo Telegrafnij.

Marja Belkina ricorda quella stanza nella “kommunal’ka” : “…pareti verdi, dove si trovava una mobilia antiquata fatta di un legno rosso e negli scaffali libri francesi con le copertine di pelle.”

Marina Arsen’evna Tarkovskaja, figlia del poeta, nel suo libro Schegge di specchio, uscito di recente, ricorda così: “Sono andata laggiù diverse volte con la mamma – lei era amica di Nina Gherasimovna. La stanza era pitturata di un color verde antico – questo in un’epoca di carta da parati a basso prezzo e decorazioni di argento costoso. Ricordo che c’era lì una mobilia di un legno rosso – uno scrittoio, un divano e una credenza sormontata da un antico specchio. Sia il colore delle pareti che il mobilio si addicevano molto alla padrona di casa , una snella bella donna dai capelli rossi che anche negli anni maturi era assai piacente.”
La stessa Nina Gherasimovna ricordava: “ Si sono conosciuti a casa mia quel giorno. Ricordo molto bene quella giornata. Per qualche motivo uscii dalla stanza. Quando tornai, erano seduti vicini sul divano. Dai loro volti emozionati capii: era successa la stessa cosa alla Duncan e ad Esenin. Si sono incontrati, si sono librati in alto, si slanciati l’uno verso l’altro. Un poeta verso un altro poeta…”.

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Un poeta verso un altro poeta… Questo è molto importante. Quando Tarkovskij giunse nel 1925 a Mosca per studiare, Marina Cvetaeva già da tre anni viveva in Cecoslovacchia. Ma i suoi versi erano molto conosciuti da coloro i quali si interessavano di poesia. I suoi testi si potevano trovare nei negozi di libri usati, potevano essere letti o scambiati tra amici. Il giovane poeta stimava molto la Cvetaeva come un maestro, come un “maitre”, una collega più grande. Marina Arsen’evna scrive che a lei, nata nel 1934, Tarkovskij aveva dato il nome Marina in onore del poeta Cvetaeva.

Quando si incontrarono, Marina era appena tornata dalla Francia. Tarkovskij in quell’estate del 1939 con la sua seconda moglie Antonina al e la loro figlia Elena viveva in Cecenia Inguscezia, dove traduceva i poeti locali.
Aveva alle spalle l’antico, amaro amore per Maria Gustavovna Fal’z, dopo il fortunato matrimonio con Maria Ivanovna Visnjakova, la nascita in famiglia dei due figli Andrej e Marina, poi l’uscita dalla famiglia per Antonina Aleksandrovna Trenina per un amore appassionato… Scrive i suoi splendidi versi ma per l’uscita del suo primo libro ci volevano ancora degli anni, per cui la vita lo costringeva a darsi da fare con le traduzioni.
Tarkovskij non è semplicemente un poeta – è un vero poeta.
Egli non poteva non apprezzare i versi di Marina Cvetaeva, non poteva non passarle accanto anche nella vita senza fermarsi.
Si, sugli anni ’40 della Cvetaeva è stato scritto non poco. Fu un periodo difficile, pesante, insopportabile…tutte queste parole sono appropriate… Tuttavia per un poeta sempre- al di là di tutte le sciagure ed infelicità – più terribile di tutto è il vuoto del cuore.
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  Alfonso Berardinelli “AVVISO AL FATTO: SE LA COLLANA DI POESIE MONDADORI CHIUDE È PERCHÉ NON CI SONO PIÙ POETI PUBBLICABILI”  “Se Lo Specchio chiude, insomma, qualche ragione c’è” – con un Commento di Giorgio Linguaglossa: “siamo arrivati allo stadio zero della poesia”;

la Poesia è nuda

la Poesia è nuda

da Il Foglio 15 luglio 2015

Che succede? Il Fatto quotidiano è un giornale a cui piace mettere lo stile cinico al servizio dell’etica pubblica. Quando parla di poesia, però, si intenerisce. In un articolo di Pietrangelo Buttafuoco (9 luglio 2015), che ne riprendeva uno di Alessandro Zaccuri uscito in precedenza su Avvenire, si parla di licenziamento (scandaloso?) del dirigente Antonio Riccardi dalla Mondadori, nonché della paventata chiusura della più famosa collana italiana di poesia, denominata Lo Specchio. Sì, proprio quella in cui noi liceali di mezzo secolo fa leggevamo Ungaretti, Montale, i lirici greci e Catullo tradotto da Quasimodo, e più tardi Auden e Paul Celan, Zanzotto, Giudici, Ted Hughes, Denise Levertov, Iosif Brodskij…

 Che Lo Specchio abbia avuto grandi meriti lo si sa, lo si dovrebbe sapere. Ma è anche abbastanza risaputo che da venti o trent’anni le sue scelte poetiche italiane sono molto o troppo discutibili, fino a privare la collana del suo antico prestigio.
Il titolo dato all’articolo di Buttafuoco invece che allarmare fa un po’ ridere: “Che Mondadori è se rinuncia alla poesia?”. Non è che la Mondadori rinunci ora alla poesia, ci aveva già rinunciato da tempo, infilando nella sua collana una crescente zavorra di poeti “cosiddetti”…

 No, mi sto sbagliando. Di poeti da pubblicare in Italia non ce ne sono poi molti. O meglio, ce n’è un tale mostruoso e informe numero che il difetto, ormai, non può essere imputato a questa o quella collana (anche se…!). Il difetto è nel fatto che si creino collane di poesia, dedicate, intendo, esclusivamente alla poesia. Meglio sarebbe mescolare poesia e prosa. Una volta aperta una collana di poesia bisogna poi riempirla. Con che cosa? Con quello che c’è.

 Di poeti pubblicabili, cioè leggibili (anche se poco vendibili) in Italia ce ne sono circa una dozzina, magari anche venti, o se proprio si vuole si arriva a trenta. Non c’è quindi sufficiente materia per alimentare e tenere in vita le grandi, medie e minime collane che esistono. E’ ovvio, è inevitabile che si pubblichi semplicemente quello che c’è, procedendo secondo ben noti opportunismi (tanto la critica di poesia beve tutto oppure tace): prima viene l’amico, poi l’amico dell’amico, poi quello che si mette al tuo servizio, prima ancora quello che ha potere, o quello che insiste e non demorde, quello che se non lo pubblichi si inalbera, quello che poi te la farà pagare, quello che minaccia il suicidio…

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

 Che la poesia non abbia mercato (se non eccezionalmente) dovrebbe essere un dato acquisito da ogni editore che conosca l’abc del suo mestiere. E’ così vero che mezzo secolo fa un poeta non ingenuo come il tedesco Enzensberger, in uno dei suoi fondamentali saggi, teorizzò la poesia come “antimerce”. Una tale teoria non era nata allora e non doveva essere presa troppo alla leggera: perché messa in mani stupide, diventa una teoria stupida. Quando Enzensberger parlò di poesia come antimerce erano anni in cui il mercato veniva visto come una bestia nera da ogni scrittore che si rispettasse e che volesse essere accolto negli esclusivi circoli di élite.

 Negli anni Sessanta ormai quella teoria aveva cominciato però a invecchiare: invece che come un fatto editoriale, la non facile vendibilità della poesia fu intesa come un programma letterario e diventò illeggibilità: poesia scritta per non essere letta, un vuoto riempito di parole. Solo che fra invendibilità e illeggibilità c’è una differenza. E’ la differenza che la neoavanguardia, per esistere come eterna provocazione, doveva fare finta di non capire. Il poeta tedesco aveva parlato di antimerce per mettere le mani avanti, ma scrisse le sue opere poetiche distinguendo bene fra il loro “valore d’uso” (possibilità di leggerle) e “valore di scambio” (vendibilità). Enzensberger in effetti è uno dei poeti europei più leggibili di fine Novecento.

Qui sorge un problema. Cosa vuol dire essere leggibili? Rimbaud e Mallarmé non è facile leggerli, ma non sono certo illeggibili. Richiedono un’intensificazione, una focalizzazione dell’atto di leggere. Chiedono di essere riletti. Invece leggere o rileggere molta poesia delle neoavanguardie è impossibile perché è inutile. Leggi e non sai che cosa c’è da leggere. Rileggi e non fai nessun passo avanti. Se nella rilettura non succede niente di nuovo e di fruttuoso, questa esperienza diventa retroattiva: dimostra che anche leggere è stato inutile.

 Accanto all’articolo di Buttafuoco, il Fatto pubblica un’intervista ad Andrea Cortellessa, il quale si occupa anche della evidente impreparazione del professor Asor Rosa in materia di letteratura attuale (vedi il suo “Scrittori e popolo / Scrittori e massa”). Questa impreparazione (oltre a moventi di cortigianeria editoriale) porta Asor Rosa a occuparsi quasi esclusivamente di autori Einaudi, casa editrice alla quale lo vediamo aggrappato da decenni con tutte le sue forze. Ma Cortellessa condivide con il professore un’idea che a me pare bizzarra, o che più precisamente è una fede: la poesia, poiché non ha mercato, sarebbe secondo loro migliore e più onesta della narrativa. Macché, non è così. E’ mediamente peggio della narrativa, proprio perché non ha mercato, non ha lettori. E un’arte senza pubblico (come la pittura) marcisce su se stessa, si autodistrugge immaginandosi libera e incontaminata. Per scrivere un romanzo o anche un mediocre romanzetto ci vuole un minimo di tecnica artigianale. Per scrivere il novanta per cento delle poesie italiane che circolano oggi, perfino antologizzate e commentate dai nuovi accademici, non ci vuole nessuna qualità, se non forse un po’ di specifica astuzia, dato che risultano essere niente e non si capisce, letteralmente non si capisce, come abbiano trovato qualcuno disposto a scriverle.

 Se Lo Specchio Mondadori chiude, insomma, qualche ragione c’è.

giorgio linguaglossa

giorgio linguaglossa, 2010

Commento di Giorgio Linguaglossa

È ovvio che condivido in pieno il giudizio di Alfonso Berardinelli, mi sembra ineccepibile. Mi sembra ineccepibile la valutazione di Berardinelli secondo il quale negli ultimi 30 anni le scelte editoriali dello Specchio siano state «quantomeno discutibili», e lo sono state, a mio avviso, perché non si è fatta più ricerca dei testi migliori, si è preferito rinunciare a ricerche lunghe e laboriose per preferire la scorciatoia della pubblicazione degli “amici” e dei sodali. Di questo passo, l’appiattimento qualitativo ha finito per deteriorare tutto il comparto della «poesia» e i lettori (intendo per lettori quei coraggiosi che acquistavano libri di poesia) si sono assottigliati fino a scomparire del tutto.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa, 2008

Non voglio fare una facile polemica, anzi il mio cordoglio è vero e sincero, per una collana (lo Specchio) che probabilmente chiuderà per assenza di utenti, ma è pur vero che quando un manager fallisce lo si cambia, questo almeno è il metodo adottato nei sistemi a economia capitalistica, può darsi che un altro manager-poeta riesca dove il precedente aveva fallito, e quindi è naturale che la proprietà editoriale cambi strategia e uomini. E non avrei nulla da eccepire neanche se la proprietà editoriale decidesse di sopprimere la collana un tempo prestigiosa de Lo Specchio se considerasse ormai il comparto in perdita irrimediabile. Una azienda in perdita e un prodotto privo di utenti, sono una contraddizione in termini.

VERSO UN NUOVO PARADIGMA POETICO

Cambiamento di paradigma (dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza), è l’espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo de Palchi, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck: «Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.”

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

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Arsenij Tarkovskij – Poesie Inedite, traduzione di Donata De Bartolomeo


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Arsenij Aleksandrovic Tarkovskij nasce nel 1907 a Elizavetgrad, oggi Kirovograd, in Ucraina. È all’ambiente familiare che Arsenij deve l’amore per la letteratura e le lingue – il padre è poliglotta e autore di racconti e saggi – come anche la conoscenza del pensiero di Grigorij Skovoroda. Nella seconda metà degli anni Venti frequenta i Corsi Superiori Statali di Letteratura e scrive corsivi su «Il fischio», rivista dei ferrovieri, a cui collaborano anche Bulgakov, Olesa, Kataev, Il’f e Petrov. Tra il ’29 e il ’30 inizia a scrivere poesie e drammi in versi per la radio sovietica, ma nel ’32, accusato di misticismo, è costretto ad interrompere la sua collaborazione. Nello stesso anno nasce il figlio Andrej. Inizia a tradurre poesie dal turkmeno, ebraico, arabo, georgiano, armeno. Nel dicembre ’43, dopo essere stato insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in guerra, è ferito gravemente e gli viene amputata una gamba. Nel ’46 viene rifiutata l’edizione del suo primo libro in quanto i suoi versi vengono ritenuti ‘nocivi e pericolosi’. Solo nel ’62 esce il primo volume di poesie:Neve imminente, cui seguiranno nel ’66 Alla terra ciò che è terreno, nel ’69 Il messaggero, nel ’74 Poesie, nel ’78Le montagne incantate, nel 1980 Giornata d’inverno, nel 1982 Opere scelte. Poesie. Poemi. Traduzioni. (1929-1979), nel 1983 Poesie di vari anni. Nel 1986 muore in Francia il figlio Andrej. Nel 1987 esce Dalla giovinezza alla vecchiaia, titolo deciso dalla casa editrice contro il volere dell’autore, e Essere se stesso. Muore a Mosca il 27 maggio ’89.
Le sue opere pubblicate finora in Italia in volume sono: Poesie scelte, Milano, Scheiwiller, ’89. Poesie e racconti, Pescara, Edizioni Tracce, ’91. Poesie scelte, Roma, Edizioni Scettro del Re, ’92. Costantinopoli. Prose varie. Lettere, Milano, Scheiwiller, ’93.

arsenij 9Strilli Kral Lungo i marciapiedi truppe d'assentiStrilli Král Il giorno va spegnendosi

 

E il buio e la vanità non sfioriranno
la rosa di giugno sulla finestra
e la via sarà luminosa
e il mondo sarà benedetto
e benedetta la mia vita
come lo fu tanti anni fa.

Come tanti anni fa – quando
gli occhi appena aperti
non capivano come fare,
l’acqua piombò sull’erba
e, con essa, il primo temporale
già imparava a parlare.

In questo giorno io vidi la luce,
l’erba rumoreggiava al di là della finestra,
oscillando nelle boccette di vetro
e si fermò sulla soglia degli anni
con le ceste nelle mani ed in casa,
ridendo, entrò la fioraia…

La pioggia perpendicolare lavò l’erba
e dal basso la rondine prese il volo
e questo giorno fu il primo
tra quelli che, come per miracolo, in realtà
brillavano, come sfere, frantumandosi
nella rugiada su un petalo qualunque.

(1933)

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La culla

Ad Andrej T.*

Lei:

Passante, perché non dormi per tutta la notte,
perché ti trascini e ti trascini,
dici sempre le stesse cose
e non fai dormire il bambino?
Chi ti ascolta ancora?
Cosa hai da dividere con me?
Lui, come un bianco colombo, respira
nella culla fatta di corteccia di tiglio.

Lui:

Scende la sera, i campi diventano azzurri, la terra orfana.
Chi mi aiuta ad attingere l’acqua dal pozzo
profondo?
Non ho nulla, ho perduto tutto lungo il cammino.
Dico addio al giorno, incontro la stella. Dammi da bere. Continua a leggere

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