Roberto Onofrio è nato a Roma nel 1963. Ha studiato fisica presso l’Università “La Sapienza” di Roma conseguendo la laurea nel 1986 ed il dottorato nel 1991. Ricercatore presso il dipartimento di fisica ed astronomia “Galileo Galilei” dell’Università di Padova dal 1991, ha trascorso diversi periodi di ricerca presso l’Università di Rochester, NY, il Massachussetts Institute of Technology, MA, i Los Alamos National Laboratories, NM. Attualmente è visiting scientist presso l’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics di Cambridge, MA, e visiting professor presso il Dartmouth College, NH. È Fellow dell’American Physical Society dal 2009, e autore di oltre centotrenta articoli su rivista e comunicazioni a congressi su tematiche di teoria quantistica della misura, fenomeni macroscopici in elettrodinamica quantistica, atomi ultrafreddi, fisica delle particelle elementari ed astrofisica.

Roberto Onofrio
Ispirato dall’articolo di Marco Onofrio apparso su questo blog il 15 ottobre 2014, ho provato a raccogliere alcune delle mie riflessioni sul problema della meritocrazia in Italia. Data la mia visuale un po’ anomala rispetto alla maggioranza dei commentatori del blog, come scienziato che trascorre una parte consistente dell’anno all’estero, spero che i miei commenti siano stimolanti, o almeno possano far capire meglio alcune caratteristiche, in apparenza sorprendenti, del ‘sistema Italia’. La mia tesi di fondo è che non ci si può stupire della situazione attuale dato che essa è il risultato quasi deterministico, causale, della convoluzione di eventi storici peculiari della Penisola. Se si accetta questo assunto ne conseguono diversi vantaggi, anzitutto minori arrabbiature – in quanto si possono razionalizzare situazioni altrimenti percepite come grottesche –, e si può provare a convogliare energie intellettuali in direzioni più costruttive della pura demoralizzazione o dell’abbandono.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/10/15/la-letteratura-invisibile-pensieri-a-briglia-sciolta-di-marco-onofrio-sul-sistema-letterario/
La prima domanda a cui proverò a rispondere brevemente nasce dal bisogno di capire la specificità del ‘sistema Italia’: cosa rappresenta di unico al mondo l’Italia? L’aspetto immediato che risalta del nostro Paese è che è l’unico tra i membri del G7 con una civiltà plurimillenaria ad alto impatto storico. Roma è al tempo stesso la capitale di un Paese industrializzato (come del resto lo sono Berlino, Londra, Ottawa, Parigi, Tokio, Washington) e la ex-capitale politica e culturale di una civiltà antica (come del resto Alessandria, Atene, Bagdad, Damasco, Gerusalemme, Istanbul, tra le altre). Questo aspetto unico, all’intersezione tra l’attuale e l’antico, affascina milioni di turisti e visitatori ed è qualcosa di cui essere ben orgogliosi, anche perché mostra una grande solidità e continuità storica, e una notevole capacità di resilienza.

roberto cicchinè untitled 2009
Tuttavia, questo è in parte anche il tallone di Achille del ‘sistema Italia’. La complessità culturale sviluppata in circa trenta secoli ha portato anche ad una stratificazione su tutti gli aspetti che determinano la funzionalità di una nazione moderna. Il richiamo alle tradizioni è spesso invocato per evitare radicali cambiamenti di rotta, per cui tutto appare come eccessivamente complicato nella vita quotidiana, in particolare nel campo legislativo e giudiziario. Inoltre, in tempi non troppo lontani il continuo richiamo ad un passato glorioso e le conseguenti politiche imperialistiche hanno anche provocato tragedie, ad esempio i due interventi ritardati ed entusiastici (e quindi in principio con la piena conoscenza e coscienza delle difficoltà alle quali si andava incontro con la scelta belligerante) nelle due guerre mondiali del secolo scorso, con le gravi perdite umane, materiali e morali che scontiamo ancora oggi. Ma l’unicità dell’Italia ed alcuni dei suoi mali odierni nascono da molto lontano, e dal modo col quale si è reagito a forze storiche esterne alla Penisola, come cercherò di sintetizzare nel seguito, per quanto si possa riassumere la storia di un Paese così complesso in poche righe.
La repubblica romana, e il successivo impero nel quale essa si trasmutò, si basava su una disciplina ferrea, un forte senso dello Stato ed uno strumento militare efficiente. È interessante al proposito leggere un brano di Simone Weil: «I Romani hanno conquistato il mondo con la serietà, la disciplina, l’organizzazione, la continuità delle idee e del metodo, con la convinzione di essere una razza superiore e nata per comandare, con l’impiego meditato, calcolato della più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda più ipocrita». Sebbene sia necessario contestualizzare queste considerazioni – Simone Weil le scrive nel 1940 tentando di tessere delle analogie con la Germania di allora; in realtà la civiltà romana nasce e si sviluppa come civiltà inclusiva e multietnica, a differenza della Germania nazionalsocialista – è chiaro che Roma ha costituito un codice di comportamento studiato, emulato e raffinato dai successivi imperi di stile occidentale fino ai giorni nostri. In questo contesto il rapporto tra cultura e politica si limita, essenzialmente soltanto dopo la conquista della Grecia e dei regni ellenistici, alla dimensione celebrativo-trionfalistica, soprattutto a compensazione delle viceversa molto umili origini di Roma stessa.
La situazione cambia drasticamente con la caduta dell’impero romano. Il vuoto di potere da esso lasciato nella Penisola viene colmato dalla Chiesa. Quest’ultima, pur dotata di una propria struttura militare, per ovvie ragioni di immagine morale edifica progressivamente un poderoso e capillare impianto ideologico-culturale, costringendo le opposizioni ad agire di conseguenza. È la nascita di quello che oggi chiameremmo ‘soft power’, ovvero potere esercitato non sulla base della forza bruta di tipo militare, ma sulla base del dialogo e del controllo culturale sia ai vertici, sia alla base, anche attraverso la costituzione di ordini religiosi con scopi ben definiti. Il successivo mecenatismo nei vari stati della penisola durante l’Umanesimo e il Rinascimento è il riflesso locale di questa scelta, e la relazione tra cultura e potere diviene ancora più stretta durante quella che potremmo definire come la prima controrivoluzione italiana, più comunemente nota come Controriforma. In reazione alla Protesta si decide per un irrigidimento della cultura, che deve essere filtrata attraverso alcuni meccanismi tesi a garantirne la conformità con i dogmi della variante cattolica del Cristianesimo.
Se da una parte l’Italia evita sanguinose guerre religiose come in Germania, Francia, Inghilterra – un risultato tutt’altro che trascurabile – d’altra parte ciò ritarda la nascita di quella diversità culturale che è caratteristica del mondo moderno. Ne sono vittime quelle personalità che avrebbero potuto portare la Penisola ad una civiltà avanzatissima per l’epoca. In particolare gli impedimenti alla diffusione delle opere di Giordano Bruno nell’ambito filosofico e cosmologico, di Tommaso Campanella in campo religioso e politico, e Galileo Galilei nel rapporto tra scienza, tecnologia e società, risultano in una autodecapitazione culturale dell’Italia, che da lì in poi si avvia ad un ruolo secondario di potenza culturale, cedendo la fiaccola del primato ai Paesi del nord Europa. Il latino, anziché essere concepito come lingua franca per le lettere e le scienze in grado di permettere il dialogo colto nell’intera Europa, diventa primariamente uno strumento di autoconservazione della classe dirigente e di intimidazione delle classi subalterne, come farà poi brillantemente notare il Manzoni nel suo capolavoro.
L’unificazione politica della Penisola apre delle speranze nella seconda metà dell’Ottocento, anche a causa di una struttura dichiaratamente laica dello Stato unitario. Tuttavia, con modalità che non solo a posteriori appaiono scellerate, lo Stato unitario si lancia in un vasto programma imperialista, sproporzionato alle risorse, ambendo a colonie e al controllo del Mediterraneo. Questo in alternativa alla soluzione più razionale e realistica, e cioè dedicarsi alla costruzione di uno Stato coinvolgente le masse popolari, con tangibili vantaggi per esse rispetto agli statarelli preesistenti, e come modello alternativo alle potenze coloniali: il che avrebbe suscitato l’ammirazione e la stima del mondo intero. L’ingordigia dell’Italia unita traspare da qualsiasi analisi oggettiva e disadorna dei deliri patriottici che si tramandano di generazione in generazione sui banchi di scuola. L’Italia ha sempre dichiarato guerra, mai subìto una singola dichiarazione di guerra; e spesso, a giochi fatti, ha chiesto più del dovuto in base agli effettivi risultati sul campo di battaglia. Il disprezzo dei vinti si manifesta evitando o rimandando la resa e la diretta cessione dei territori richiesti, spesso attraverso un intermediario. Questo avviene ad esempio con l’Impero austriaco nel 1859 dopo Solferino e San Martino, e nel 1866 dopo Custoza e Sadowa; con la Francia nel 1940; con la Grecia l’anno successivo. Del resto è un esperto di diplomazia del livello di Bismark ad osservare sarcasticamente che l’Italia ha denti piccoli ma grande appetito. La credibilità politica italiana e il prestigio culturale del Paese ne fanno le spese, e nascono innumerevoli incidenti politici e diplomatici. Queste profonde incomprensioni, unite a quella che viene percepita in Italia come la grande jacquerie del XX secolo, ovvero la formazione di un embrione di Stato dei lavoratori nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, sono tra i fattori principali ai quali l’Italia risponde, in linea con la sua natura, con una seconda controrivoluzione: il ventennio fascista.

Antonio Gramsci
È in tale contesto di forte controllo dello status quo e di capillare repressione politica che si inserisce il concetto di egemonia culturale di Antonio Gramsci, anche a causa della sua analisi del ‘soft power’ della Chiesa cattolica. La nascita di un solido partito comunista nel secondo dopoguerra si basa sull’idea di conquistare il potere estendendo man mano il consenso sia a livello popolare sia nell’élite culturale. Nasce una forte competizione dialettica tra i due maggiori partiti popolari nel Paese, che riporta temporaneamente l’Italia nel novero della nazioni creatrici di cultura: il neorealismo è solo l’aspetto più evidente di questa stagione felice. Il tutto anche alla luce di un ripensamento della politica internazionale che finalmente vede l’Italia rinunciare una volta per tutte a megalomanie imperialistiche, con una politica di raccolta nella ovvia ricostruzione materiale e morale del Paese. Competizione culturale tra i due maggiori partiti, reclutamento delle energie sul territorio, abbandono di velleità da grande potenza e forti aiuti economici esterni per impedire il passaggio dal campo capitalista al campo socialista, consentono all’Italia di godere di un periodo di rinascita che però, proprio per la fragilità di tutti questi elementi e per la mancanza di piani a lungo termine per sfruttare al meglio la situazione favorevole, si rivela effimero.
Con la caduta del muro di Berlino prima, e la dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche poco dopo, si dissolvono tutte queste condizioni. La competizione culturale non ha più ragione di esistere, la globalizzazione è in contrasto palese con la politica di raccolta prima praticata, gli Stati Uniti d’America si ritirano progressivamente investendo aiuti altrove, ad iniziare dai Paesi dell’Europa dell’est in precedenza membri del Patto di Varsavia. Infine, l’Italia torna, anche se in ambito europeo, ad una politica interventista con consistente impiego di uomini e mezzi in tutte le operazioni militari susseguenti, inclusi quei contesti, come nel caso libico, dove le azioni portano palesemente alla destabilizzazione di un’area limitrofa e alla parziale compromissione degli stessi interessi economici italiani. A questo si aggiungono mali di lunga durata, quali l’assenza di meccanismi sistematici di formazione della classe dirigente, che in un Paese moderno avvengono attraverso il sistema universitario. L’Italia del secondo dopoguerra emerge sì ferita da un dissesto umano, morale e materiale, ma è almeno rappresentata da personaggi della statura di Alcide De Gasperi, in precedenza rappresentante al Parlamento austriaco, e Palmiro Togliatti, braccio destro di Stalin. La visione globale assimilata da queste esperienze storiche risulta preziosa per la ricostruzione del Paese, e per il suo inserimento nel novero delle Nazioni Unite. Da questo punto di vista ogni paragone con la classe dirigente di oggi è, nella maggioranza dei casi, abbastanza patetico.
Non che manchino le energie intellettuali, ma nel momento stesso in cui un Paese ha disseminato sul territorio più di un centinaio di sedi universitarie, la maggior parte delle quali carenti di infrastrutture necessarie per poter definire un luogo di studio quale ‘università’, manca il confronto tra idee diverse derivanti dalla presenza nella stessa sede di giovani provenienti da tutte le regioni. Il tutto degenera in un localismo (peraltro vulnerabile a corruzione locale nell’assegnazione di cattedre, di posizioni amministrative, di gestione dell’edilizia) ed un orizzonte limitato nello spazio che rendono uno scenario con l’emergenza degli equivalenti di De Gasperi o Togliatti altamente improbabile. Con pochissime eccezioni, le università italiane si muovono ormai in un ambito regionale, senza perseguire la formazione di una classe dirigente con visioni di ‘interesse nazionale’. Ciò rende il Paese molto suscettibile a spinte centrifughe, e non sarei sorpreso (fortunatamente non avrò la possibilità di verificarlo) se tra meno di un secolo l’Italia decidesse più o meno spontaneamente di tornare ad una confederazione di statarelli controllati da forze esterne. Sarebbe stato più opportuno incoraggiare studenti e docenti alla mobilità nazionale ed internazionale, concentrando gli investimenti su una trentina di università storiche di alto livello, con diritto assicurato allo studio, alloggi e mense per tutti, e solide infrastrutture di ricerca, affiancate ove possibile e necessario da istituzioni parauniversitarie finanziate da enti regionali e provinciali. Ora è troppo tardi per cambiare rotta, la situazione è purtroppo irrecuperabile.
Alla luce di queste brevi e superficiali considerazioni, sarebbe incredibile e quasi fantascientifico pretendere che il settore culturale propriamente detto segua una dinamica diversa dall’attuale involuzione politica ed economica del Paese. Il piattume culturale discusso nell’articolo di Marco Onofrio e nei successivi 125 commenti, è assieme la causa e l’effetto di politiche effimere, opportunistiche, ambiziose oltre ogni misura, che si susseguono da secoli – per ragioni che poco hanno a che fare con la cultura nel senso stretto del termine. Ogni Paese sconta la mancanza di lungimiranza ed io mi stupisco, al contrario di Marco, del fatto che l’Italia sia ancora, nonostante tutto, un Paese vivace, nel quale parecchi individui lottano quotidianamente e producono cultura, se non di primo livello, almeno di discreta qualità, e con grande onestà intellettuale. Sono gli eredi dei Bruno, dei Campanella, dei Galilei, dei Gramsci, e come tali devono essere pronti a sconfitte locali e a grosse amarezze, quali l’Italia ha sempre riservato ai suoi figli migliori, salvo poi eventualmente idealizzarli post mortem.