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POESIE di Luigi Fontanella da “L’adolescenza e la notte” (2015) con due Commenti di Giorgio Linguaglossa e Flavio Almerighi uno stralcio della prefazione di Paolo Lagazzi e una Intervista all’Autore di Flavio Almerighi

bello volti in serie Luigi Fontanella vive tra New York e Firenze. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica.  Fra i titoli più recenti: L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Mondadori, Almanacco dello Specchio, 2009), Controfigura (romanzo, Marsilio, 2009), Migrating Words (Bordighera Press, 2012), Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Premio Prata, Premio I Murazzi), Disunita ombra (Archinto, RCS, 2013, Premio Città di Sant’Anastasia). Dirige, per la casa editrice Olschki , “Gradiva”, rivista internazionale di poesia italiana (Premio per la Traduzione, Ministero dei Beni Culturali, e Premio Catullo) e presiede la IPA (Italian Poetry in America). Nel 2014 gli è stato assegnato il Premio Nazionale di Frascati Poesia alla Carriera.   luigi.fontanella@stonybrook.edu

Luigi Fontanella foto, 2014 Grecia

Luigi Fontanella foto, 2014 Grecia

 Luigi Fontanella L’adolescenza e la notte Passigli, Firenze, 2015 pp. 86 € 12.50

Stralcio dalla Prefazione di Paolo Lagazzi

 Una specie di solitudine amorosa, o di amore per gli altri intriso di solitudine, di amarezza, di un sentimento d’inappartenenza serpeggia lungo le istantanee di questo “album” di foto sui generis, di questo “libro” di cui l’autore accarezza le pagine mentre vorrebbe lacerarle, forse perché sa che nessun destino, nemmeno il suo di poeta, può mai essere racchiuso in qualche forma compiuta, che tutto è insieme se stesso e altro da sé, che la vita è “un’avventura continua” che potrebbe a ogni istante risucchiarci nel vuoto. Così l’anàbasi, a tratti, diventa una catàbasi, una discesa nelle spirali della pena come nella poesia che comincia con versi carcerari e un po’ tremendi (“Ci fanno l’appello. Uno per uno / ogni mattina, consegnati / in una colonia estiva“) e che termina con una confessione di sgomento “cosmico”, di lutto da orfano del vero Dio (“Siamo figli di un dio secondario. / Nessuno ci difenderà, / nessuno forse veramente ci ama“). Non è questo, tuttavia, il punto d’approdo dei versi. Solo attraverso un resoconto totale con gli anni della sua sofferta eppure dolcissima crescita al mondo, del suo apprendistato, della sua educazione sentimentale il poeta sa di poter rappresentare ai nostri occhi le radici del proprio destino, della propria chiamata alla poesia. Affondando in un terreno nutrito insieme di corpi e voci, di “scorie” e pugni, di passioni e disamori, di gesti vivi come tiri in porta e di nomi risonanti come echi mitici, queste radici si diramano nello spazio e nel tempo, crescono lentamente e in modo inarrestabile, diventano albero, spingono la loro linfa verso il cielo.

Nella seconda sezione del libro una specie di alone arcano e impronunciabile come il bisbiglio di una divinità del nulla assorbe ogni cosa, custodisce e rinnova le parole e i silenzi di una vita ormai a lungo vissuta. La notte è la cifra di tutti i conti che non tornano e insieme una forza “intatta, / senza compromessi” nel suo buio splendore, nel suo invocare “una calma rivolta”, un lento dissesto dei falsi grumi della realtà. Di notte si può leggere, sperando che i libri sfuggano al vento del nonsenso… Soprattutto, di notte si può ricordare. Ecco che, allora, mentre “gli spettri dei corpi che fummo” si staccano dalle pareti del buio, l’infanzia ritorna in punta di piedi. Il bambino mai morto nel poeta lo chiama a nuove avventure: le minuscole, spudorate mani del primo rinascono nei gesti del secondo mentre, raspando contro i suoi fogli, scavando nelle “caverne” della scrittura, cerca il centro proibito della vita, quel pozzo fragile e immenso dove ogni notte il mondo precipita per salvare un po’ d’amore, qualche illusione, o almeno la luce silenziosa dell’alba.

Luigi Fontanella L'adolescenza-e-la-notteCommento di Giorgio Linguaglossa

 Luigi Fontanella  prova, scarta, rifiuta, è insoddisfatto, quest’ultima sua opera la si può definire come un cantiere aperto, tentativi riusciti, tentativi scoperti, tentativi immaginati, nondimeno egli è sicuro del suo linguaggio, ogni parola è frutto di una risonanza, di una profonda meditazione. In un certo senso, proprio del poeta è non esser mai sicuro del proprio linguaggio, il suo è un procedere per deragliamenti, sillabazioni, citazioni dalle ombre dei ricordi, lampeggiamenti e lacerti del proprio quotidiano di un tempo passato alla ricerca della verità del tempo vissuto. Direi che Fontanella ha l’angoscia dell’espressione perché rifiuta la maldestra ottemperanza ad una espressione incompiuta e insufficiente dei linguaggi poetici già collaudati. Il linguaggio non può non apparirgli insufficiente e inadeguato, almeno finché non sia stata trovata l’espressione che più si avvicina alla cosa desiderata o designata.

Anche Carlangelo Mauro in un recente libro di approfondimento critico su alcuni poeti contemporanei, aveva notato «però che nella produzione più recente Fontanella va praticando una poesia in prosa diversa dal verso lungo del poemetto, mi riferisco in particolare alla sezione di “Inediti” (202-2005) contenuta in L’azzurra memoria, che all’uscita aveva già attirato l’attenzione di Cucchi come tendenza foriera di possibili positivi sviluppi (M. Cucchi “Gazzetta di Parma”), già visibili nella più ampia e interessantissima campionatura della sezione “Intermezzo” di Oblivion (2008), caratterizzata da una maggiore asciuttezza e antiliricità, non immune da proficue influenze della cosiddetta linea lombarda come si è ampliata e diversificata, rispetto alla sua prima fase, in questi ultimi anni».*

Altrove, a proposito di Oblivion lo stesso critico annota che «la capacità di fare vera poesia è quella di dare un senso – attraverso la memoria letteraria, per quella necessità straordinaria che diviene “agnizione”, anzi quasi una illuminazione – al “bighellonare” qualsiasi al vedere un oggetto qualunque come può essere un vuoto contenitore di merci; capacità di partire dalla quotidianità più prevedibile per approdare all’utopia di uno sguardo che cerca, con ogni sforzo visivo, la poesia che giace nel fondo delle cose e nella coscienza, attende come un “fiore azzurro”, simbolo in Fontanella, della vita sognata e trasformata attraverso l’immaginario, di essere colta».*

Interessante un’auto dichiarazione di poetica dello stesso Fontanella nella quale il poeta afferma di non credere ad una poesia e ad un linguaggio sganciati dalla «materia magmatica» come dal «senso ludico» insito in essi e aggiunge: «Da qui anche quell’atteggiamento cautelativo di certa critica conservatrice di fronte – ancora oggi – a poeti che hanno apertamente (e soffertamente) sfidato o sperimentato le risorse estreme della propria lingua poetica, magari anche ‘giocando’ con essa […] Con questo non voglio dire che un poeta scriva solo per giocare (che sarebbe cosa, comunque, bellissima)». ** L’adolescenza e la notte è il tentativo del poeta di scavare tra le ombre proiettate all’interno della sua «caverna»:

Scavo ogni notte nella mia caverna
penetro nelle tacche della ruota dentata

L’arte poetica è considerata alla stregua di una maieutica, di una discesa anagogica al fondo dei ricordi tra l’inconscio e il preconscio. Come si può evincere dallo stralcio di poesie presentate, Fontanella predilige una dizione scabra, ossuta, irta di determinativi, di sostantivi, di cose; l’armonia è la risultante di diversi fattori, ma non nel senso di una sinfonia eseguita da un’orchestra, quanto di una musicalità scabra nella quale l’autore immette le sue variazioni metriche. È in questa atonalità di fondo che si può parlare di dissimmetria della musicalità della poesia di Fontanella; il suo allontanamento dalla tonalità metrica dell’endecasillabo novecentesco è del tutto visibile ed eloquente; la  metricità della sua poesia deriva da un procedimento per associazione e per contatto tra segmenti metrici fortemente dissonanti e dissociati calati in un «parlato» basso, di derivazione sicuramente meneghina ma, insomma, direi ormai ampiamente invalsa e collaudata nella poesia italiana più recente e metricamente più evoluta.

* Carlangelo Mauro Liberi di dire. Saggi su poeti contemporanei Sinestesie, Avellino, 2013 pp. 26,7
** op. cit. p. 19
 

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

 Commento di Flavio Almerighi

Il nostro cortile è un campo di battaglia
piccoli trionfi o cadute nella polvere
tra Tonino Iannone e Franco Arpino.
Bisogna sbrigarsi a crescere (p. 37)

L’adolescenza è stata inventata durante la seconda metà del XX secolo. Prima i bambini diventavano adulti, strappati alla fanciullezza venivano mandati nei campi e nelle fabbriche, cosa che accade comunemente anche oggi in molti paesi “in via di sviluppo”.  Erano adolescenti molti milioni di caduti durante le guerre mondiali dentro e fuori i campi di battaglia. Dopo gli anni Quaranta del secolo scorso l’adolescenza è diventata un diaframma sempre più consistente tra l’infanzia e l’età adulta, un business, infine uno status perenne causa la crisi dell’ultimo decennio, adolescenti fino ai quarant’anni, precari, bamboccioni.

Un tempo la notte atterriva, il buio che portava era assoluto e senza penombre, la mancanza di luce diurna generava mostri e paura. Il tempo ha ideato lune sempre più importanti e la notte non è più vissuta nel terrore di essere divorati o posseduti durante il sonno, è diventata il momento più romantico, libero, raccolto dell’intera giornata. Ha acquisito fascino e talento.

L’adolescenza e la notte, ultima fatica poetica di Luigi Fontanella (Passigli, 2015), mette insieme con originalità due concetti, due mondi,  apparentemente lontani. O forse nessuno prima ci aveva mai pensato. Assimila il ricordo al dormiveglia, l’evocazione al momento migliore per evocare. La notte è una donna incinta, dentro di lei batte già un altro cuore. Ho tratto un’infinita bellezza dalle letture e riletture di questo libro affascinante cui non trovo punti deboli o criticità. Un lavoro molto maturo. Ho voluto per questo confrontarmi direttamente con l’autore ponendogli alcune domande,

ecco, rifletto sognando, sempre
così dovrebbe essere il mondo
senza astio e senza invidia (p. 65)

Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, 'I've only the ...

Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the …

Qual è il trait-d’union tra l’adolescenza e la notte in questo libro?

Inizialmente non c’era un concreto e preciso nesso, se non quello della mia volontà di unire due nuclei di lavoro che si interseca(va)no tra immaginazione e memoria; qualcosa che Paolo Lagazzi ha poi in buona parte intuito nella sua Prefazione. Rimando anche alla mia Nota finale. Potrei aggiungere, a posteriori, ma in modo abbastanza scontato, che le due parti del libro rappresentano l’alfa e l’omega di ogni umana esistenza: l’infanzia/adolescenza e la tarda maturità/senilità. Ma in questo non c’è alcuna “autoindulgenza”: sono semplicemente fasi della vita che io credo convivano talora armonicamente, talora ossimoricamente, talora addirittura in modo buffo.

Anni giovanili: un luogo nostalgico e non più raggiungibile?

Luogo, almeno per ciò che mi riguarda, nient’affatto nostalgico, in quanto a me sembra di vivere, almeno psicologicamente, una specie di eterna giovinezza. Ad essa attingo continuamente, con una naturale disponibilità a farmi sorprendere dalla cosiddetta Realtà o – come diceva la Ortese (la più grande scrittrice del nostro Novecento) – dall’Irrealtà quotidiana.

Come mai la scelta di non titolare i brani?

Ho dato un titolo alle mie poesie nei miei anni giovanili. Ora lo faccio molto raramente perché mi sembra una cosa posticcia, stucchevole, che quasi mai nasce insieme a una poesia, cioè al suo farsi. In genere i titoli delle poesie si stilano quasi sempre “a freddo”, dopo averle scritte.  E poi, non mettendo un titolo a ogni testo, a me sembra di dare una maggiore continuità tra una poesia e l’altra, come in una sorta di continuum interiore che va rincorrendosi, così come avviene con l’eco (mi viene in mente un bellissimo quadro di Delvaux intitolato appunto L’écho).

Soprattutto nella sezione “La notte” ho notato uno stile discorsivo di tipica matrice angloamericana contemporanea. Si sente influenzato dall’ambiente in cui vive e dagli autori con cui giunge a contatto?

 È probabile che questo “stile discorsivo” mi derivi, in parte, sia dalla mia intensa lettura di poeti americani contemporanei sia da un mio desiderio di riscoperta e di rilettura di un filone presente anche nella nostra letteratura, e cioè quello legato alla “ballata” (nella poesia medievale un grande Maestro in questo senso è stato Guido Cavalcanti), o al “racconto onirico in versi” (un mio libro, intitolato Bertgang, uscito tre anni fa presso Moretti & Vitali Ed., riflette esattamente questa mia disposizione).

A tutto ciò occorre aggiungere una mia affezione o “empatia” verso il genere del poème en prose; penso a grandi modelli come quelli di Baudelaire e Campana, o, per avvicinarci a qualche esempio più recente, a certi componimenti in prosa poetica dell’ultimo Raboni.

Come vede il momento attuale della poesia italiana?

Lo vedo zoppicante e nebuloso, con una schiera sempre più crescente di poeti della Domenica e sempre meno lettori. C’è inoltre una preoccupante disaffezione alla poesia in senso generale, già a partire dai quotidiani e dalle riviste: luoghi dove i libri di poesia trovano poco, pochissimo spazio critico. Manca poi in Italia una vera educazione alla Poesia; per es. non ci sono corsi universitari dedicati esclusivamente ad essa, come diversamente avviene in Paesi come l’Inghilterra, la Spagna, gli Stati Uniti, ecc.

In questo modo i percorsi, le strade della poesia diventano più difficili e contorti. Allo stesso tempo, penso che un vero poeta, nonostante le difficoltà crescenti e la frantumazione qualunquistica della comunicazione, in particolare telematica, dove ognuno può improvvisarsi poeta e può crearsi il proprio blog (ci sono per fortuna alcune buone eccezioni, ma sono poche), abbia il dovere di essere coerente prima di tutto con se stesso, cercando una sua strada che poi corrisponde alla sua personale verità.  Credo che già questa fedeltà alla propria voce, al proprio credo, al proprio modo di esprimerlo (Pasolini diceva che su tutto si può barare tranne che con lo stile) sia già un importante obiettivo per il “ruolo” che ogni poeta dovrebbe ascrivere a se stesso nell’odierna società.  Non credo al poeta/profeta; credo, voglio credere, però, come già mi è avvenuto di dire, a quel poeta che sia sensibile ai guasti della sua “civiltà”, e reagisca nella maniera a lui più congeniale, cioè da poeta, e dunque con la sua parola, senza mai sacrificare l’immaginario che è dentro di lui. Che sappia insomma, baudelairianamente, esprimere l’utopia nella carne del linguaggio. Sarebbe bello se la Poesia contribuisse davvero a migliorare il mondo in cui viviamo.

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

Non sono mai entrato nella vita.
Mai appartenuto a qualcuno. Storie
che giungevano al termine, al punto
verticale della fine. Ma mi commuovo
per un nonnulla, l’adolescenza
è assoluta ed eterna
è l’unica cosa che resta.

*

A occhi socchiusi scorrono
vilipendi e ferite. La sfida
è per chi ci precede. Oppure
làsciati andare:
la nebula mente
soffia un breve respiro.

*

Si preparava la scenografia
del futuro. Il principio era questo:
un momento e già subito un ammasso di anni… Oggetti
accumulati che col tempo
perdono ogni precisa identità
ogni significato. Rivivono
in occhiate notturne
prima di andare a letto
solo di passaggio solo di passaggio
appena fissati per un attimo
e già rientrati in se stessi.
Scenografia che andrebbe scompigliata
dovrei disfarmene, distruggerla.
Mi sopravvivrà
chissà in quale altro spazio
chissà per quali altri immemori occhi.

*

Corriamo in fila
di fronte al padre di Tonino Iannone,
giardiniere sempre un po’ stupito, un po’ trasognato.
In altre stanze smania
una figlia di nessuno.
Chi raccoglierà queste nude foglie?
Il tempo cambierà in fretta.
Nessuno scende più per quella
stradetta che ci conduceva a Fratte:
tutto stravolto tuto stritolato
in un subbuglio di crescita orrenda. Nulla
più riconoscibile.
Salerno, Via Parmenide 30:
cinque anni della mia adolescenza.

*

Ristabiliamo le distanze
fra ciò che è sempre stato imminente
e il vuoto che ci è accanto.
La tua voce è in quell’orlo
che corona il cratere. Un sibilo
e si disperde la polvere del giorno. Non sai
più se è ieri o domani
perché domani e ieri
sono precipitati nel nulla
e le sillabe impazzite
si confondono tra di loro.
La nostra adolescenza
resta incisa in un’espressione
un po’ casuale, in un profilo sghembo,
in un gesto che non è mai nato
ma che c’è sempre stato.

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

Talvolta la notte sorprende
chi l’attraversa. La notte
che assorbe tutto, che custodisce
o rinnova il silenzio, i giochi della mente,
incoscienze, il sangue di qualche innocente.

La sacra notte, che a tua volta sorprendi
nel suo grumo, intatta,
senza compromessi. Una storia
come immaginata, perfetta nei suoi
scismi, nei suoi effetti, nei suoi delitti.

Come quella volta –
4 febbraio 1983 – che l’attraversasti barcollando
il sangue ti colava sulla fronte
sempre di più, avanti, nel buio pesto
dalla 207 fino a 100 Park Terrace West.

A casa lo specchio ti rimandò
la tua faccia inorridita… telefonasti
a Judith meccanicamente, ti disse soltanto
di socchiudere la porta d’ingresso
prima che tu, immemore, stramazzassi a terra.

Poi altri spazi, bianchi, bianchissimi.
Tutto più leggero, tutto più soffice
come la neve che trasognato
vedevi turbinare nei fiocchi
che si stampavano sul parabrezza.

Ora è solo racconto, film muto, labbra
semoventi di barellieri e infermieri
le identiche domande ogni poco:
sogno e realtà nell’unica sequenza,
sempre la stessa, sempre la stessa.

È solo un racconto,
film muto che ripete la notte: questa
notte che si è data appuntamento
con un’ altra di trent’anni fa.

Mount Sinai, 4 febbraio 2013
*

Adesso nell’oscurità
tutto appare composto e fermo.
Tutto già ben disposto
ben organizzato, mentre
guardo di nuovo i miei libri allineati.
Stanotte non voleranno via
dai loro ripiani. Non permetterò
che precipitino giù, che abbandonino
il proprio abitacolo, legati
uno accanto all’altro
per puro destino alfabetico.

*

Siamo tutti e tre
in un grande letto: Anna, l’antica
e tu la presente, una
accanto all’altra, ed io
nel mezzo, in perfettissima armonia.
Stringo la mano ad ambedue
dolce e silenziosa la nostra intesa.
… ecco, rifletto sognando, sempre
così dovrebbe essere il mondo
senza astio e senza invidia.

*

Acquetarsi infine
sottrarsi almeno per un breve intervallo
da ogni male, libero volare
assottigliarsi gradualmente
fono a svanire nel buio, essere
tu il buio, il buio assoluto.

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DODICI POESIE SCELTE di Antonio Coppola da “Maschere, pelle e Dio” (2014) con un Commento di Paolo Carlucci

uwe gressmann Antonio Coppola è nato a Reggio Calabria vive a Roma dal 1970. Si laurea all’Università di Roma La Sapienza in Lettere Moderne; giornalista-pubblicista dal 1972, ha scritto su quotidiani Nazionali, quali: Momento sera, Avanti, Il Secolo, Giornale d’Italia, Giornale di Calabria e riviste: La fiera Letteraria, Il Veltro, Libri e riviste d’Italia, La Vallisa, Capoverso, Lettere Meridiane, Quaderni di Rassegna Sindacale e Medicina dei Lavoratori (editi dalla CGIL). Ha pubblicato Terre al bivio; Frontiera di maschere (con pref. di Saverio Vollaro) in successione: Caro Enigma, A colloquio con il padre, La memoria profonda, Da Emmaus le parole, Morte ad Halabja, Gli angeli del Bonamico, La Poesia nella Scuola (incontro con l’autore), L’ombra dei gigli infranti, Nei vivai di Dio. Di recente, a cura dell’autore, esce La luce trasgressiva e, successivamente, Voci contro nella poesia contemporanea italiana e straniera. Ha fondato ed è direttore responsabile di  foglio di poesia e Quaderno quadrimestrale di Poesia Cultura letteraria e Arte. Attualmente è direttore della rivista di letteratura I fiori del male.  Gli sono state dedicate due monografie di approfondimento alla sua opera poetica, la prima di Maria Grazia Lenisa, l’altra, più recente, da Francesco Dell’Apa. Ha scritto saggi su autori italiani e stranieri.

Werner Haselhuhn, Herbstliche Baumlandschaft, 1994

Werner Haselhuhn, Herbstliche Baumlandschaft, 1994

Commento di Paolo Carlucci

L’orizzonte credo più autentico entro il quale collocare la poetica di Antonio Coppola sia quello di un impeto vitale che si fa onda di storia, cellula di ricordo. E’ cuneo di forza in lui l’accostare il fuoco barocco della parola-immagine allo stordimento del presente. E’ in questo iato che l’impeto lirico, appassionato e struggente si fa in Coppola cifra di uno sradicamento, c’è sete di una ricerca nella rovina di un’onda storica che, spezzandosi, rinvergina il suo sogno poetico, intenso canto di una memoria sentimentale e sociale. Queste riflessioni scaturiscono dalla lettura dei suoi versi, editi e inediti ed  ora raccolti in un volume corposo, anche in virtù di traduzioni in inglese e francese di alcune sillogi  che provano del Nostro la fedeltà alla Musa. Poesia / Ti allevo da prima il diluvio. Sin dalla seconda raccolta, Frontiera di maschere(1978), Antonio Coppola rivendica come sua radice di poeta, l’urgenza lirica. La seta dei ricordi domina, infatti, molte delle sue vedute del Sud. Fermo al tuo giorno d’ognissanti,/ ricordi il mattino che vedesti cantare/ la civetta?… La casa  ha un  lontano sapore di anice/ rigida balaustrata–/ t’appartiene un grumo di memorie, un raspo di uva saccheggiata.

Ernst Hassebrauk, Landstrasse im Fruehlingswind

Ernst Hassebrauk, Landstrasse im Fruehlingswind

Il vento del mito del Sud lo affascina, spaesandolo  però come  apolide della memoria. Pure nella folla di un’umanità di maschere, cappelli abbassati in questa giungla divoranti semidèi, irrompe il bisogno di una passione totale, che  smalta di etica verghiana le sue amare riflessioni sull’uomo solo ruggine di tempo colto nella sua somiglianza al contadino strapaese / chiuso in fradici ricoveri,/ la lezione dura al vento, al mare/ il pescatore infilza il sarago. Offre spesso squarci descrittivi di paesaggi meridionali graffiati dalla fiumara del tempus edax della storia, il suo io è già una maschera che nel ricordo ha la sua essenza. Nel piano ondulato di prospere viti / l’occhio ballerino dell’allodola / si grazia di giallo… Lavora il calzolaio alla suola battuta… Un contadino mi racconta come quest’anno la filossera ha distrutto il frutto sulla vite. Sale da questi paesaggi dell’anima una sete di domande, la ricerca nella pelle degli umili il mistero di un Dio ucciso e risorto come pungolo di un divenire, essere nella storia. Lo testimoniano ampiamente numerose liriche sia inedite che più recenti come quelle raccolte nella sezione  Paesaggi, folgorazioni  e sradicamenti (2014) e cresce questo sdegno in alcune importanti poesie di testimonianza civile dedicate ai naufragi dei migranti a Lampedusa, dove la voce dei morti si fa corale atto d’accusa contro la falsa Italia  matrigna e ha reminiscenze classiche come il ricordo delle Sirene.

antonio coppola da giovane

antonio coppola da giovane

Questo impegno di poeta civile e appassionato sempre si condensa nell’ultima parte dell’opera, dedicando un vero libro vibrante di sdegno alla tragedia dei curdi massacrati da Saddam Hussein in genocidi verso cui l’occidente spesso ha chiuso colpevolmente gli occhi in nome di realpolitik internazionale. Un epicedio in undici stazioni dove maggiormente sentiamo  quella pelle della vita farsi maschera, simbolo nella morte atroce domanda più spinosa di pace e di amore. Per l’amore di Dio non lasciate sola una madre, / un figlio ha sotto la terra / ucciso dai gas tossici di Saddam/.Siete tanti fantomas che avete terrore/ e lo stesso terrore con cui / mi guardi  e io  ti guardo. E in questo tragico muto guardarsi di maschere c’è forse più vero e duro  quel canto di vita nella storia che il poeta ci dà come una domanda aperta.

(Paolo Carlucci)

 

Lorenzo Calogero La casa a Melicuccà

Lorenzo Calogero La casa a Melicuccà

 

 

 

 

 

 

Lungo i ginepri 

Scenderà questa notte opaca,
spalancata intorno al fosso.
Nella resta dei limoni un lepre
si sgarbuglia dalla cenere di un falò.
Lungo i ginepri in fila indiana
sale questa notte già cielo
come il vento come il fiume
scappa e non sa dove fermarsi.
Scende dalla strada il giocoliere
su un cuscino di foglie,
dal laghetto la murena
in una subacquea acrobazia
sparisce nel biancore delle pietre.

.
Gli uccelli nel ronco

Il tempo era di Quaresima canto di nenia
quando i suoni a mezzodì spalancano
forcipe di pettine; la crisalide appesa
nel becco d’una averla nell’afrore dei fieni.
Non esageravo nel contare gli uccelli
nel ronco in un profumo di sambuchi.
Il dolce aere calmo più d’un campanile,
c’era pure un silenzio dorato che traversava
il rumore dei morti, isolava la nostra quiete
in un ricordare sinistro.
Fu un suono semplice dell’aria
a far cambiare le nostre risate
in nenia di gruppo; la morte rumorosa
all’oltraggio dei vivi. Siamo qui
ad ascoltare quella musica che ebbe un dolore
sordo, inquieto: giorno e notte la faccia
dura della luna l’avevo davanti china
sui nostri persi volti gelidi, sul prato
odoroso l’altra morte sovrumana.

.
Una Scilla variopinta

Presto svanirò in questo mare
di triboli e curve di cielo
in una Scilla variopinta
addormentata sul sentiero fiorito.
L’onda scavalla i recinti
le azalee nane paiono ruscelli
si trascinano fino agli ulivi della Piana.
I tuoi capelli d’oro sopra l’acqua
brillano da un capo all’altro
e il gracidare acuto dell’ilo
si ode tra i sassi roventi.

foto anni Sessanta

foto anni Sessanta

Nuvole abbrancate

Questi giovedì di penitenza
si schiantano nelle cento valli
in un cielo minaccioso; sui crinali
novembre rovescia l’ombra dei morti.
Nel buio del fogliame s’intravedono i colli
nella celeste indifferenza. Tra i rovi
è impigliata una cinciallegra lungo
la strada dei pruni storti nelle macchie.
L’Aspromonte agro e temuto celeste sonno
ha riammesso la vita dal suo inferno. Accanto
le nuvole abbrancate alla Calabria.

.
Dio è morto?

Non saprei quale strada rifare
per cercarti Dio, sopra le selve
le foreste o tra gli spazi infiniti, (nell’attesa?)
Ti cerco nella voce che canta il creato
per rintracciare la strada del mio paese;
che ne faccio del tempo seminato.
La terra del mio paese piange,
certo che nessun Dio più nascerà;
la terra in cui sono nato
è il più dolce guanciale.
Sono già deserto: il roveto brucia,
placa Signore la sgradevole sorpresa,
eri l’accordo mio di tutti gli uomini.
Gli uomini ti hanno ucciso,
ti abbiamo ucciso mio Dio!
Si è spezzato il grappolo, sei morto:
fa il miracolo, inarca gli orizzonti
dividi le acque dalle acque,
fai dell’Uno che sia Tua somiglianza,
salva l’innocenza, le nostre anime.
Antonio Coppola - Maschere, pelle e DioUna Parca

Dalle casematte torno alla strada
frequentata che porta alla carrabile.
Azzurra la trasparenza dell’acqua
nel luogo in cui si spande la luna,
una Parca lavorando la tela
spezza il filo della vita:
furiosa così non l’avevo mai vista.
In questi sassi siedo ero e sono
l’ultima cosa che mi rimane.

 

.
Il tuo corpo caldo

Mia amica Telka ti scrivo
nella sonorità insonne delle ore
mio custodito ricordo del tuo corpo
caldo che le mie mani raccontano.
Ti scrivo in attesa di un paradiso
cui conviene restare e aspettare,
sacrifico le distanze invasate di verde
per te in questo affocato inverno.
Ti scrivo nelle adunanze delle anime
per giungere insieme a una soglia
intenerita nel mio calore igneo.

.
Madre prudente

Mi viene in dono, madre,
quell’attimo vivo che non si ripete
né la voce di quando c’eri;
resterò solo in questa avara terra.
Quanto hai patito prima di me
nel vuoto e nel bisogno
di aggrapparti a noi a quell’onda
che ci separò. Quanto il tuo cuore
fu disaminato cruccio non lo saprò mai.
Dall’oblio avrai sollievo non da noi
ma da Dio -tunica rossa di gemme-
Madre prudente non ti chiederò
altro che restare giorno e notte vicino.
Un giorno che non sarò mai esistito
mi camminerai accanto in terra incerta.

 

Antonio Coppola e Giorgio Linguaglossa 2014 Roma presentazione alla FUIS

Antonio Coppola e Giorgio Linguaglossa 2014 Roma presentazione alla FUIS

Ho ripassato i ritratti familiari

Nella luce dove tutto è prevedibile
la memoria ha un segnale che si avverte.
Ho ripassato i ritratti familiari, le pareti
dove appesi rimasero i quadri, la chiesa
dove andavi a genufletteti. “L’aria
è spenta, il tempo sembra un teatro dismesso
un fondo opaco nelle acque buie
del nostro sonno”. Spaesato nel paesaggio
la casa ingoia ogni imago.
Non sono lieto dei miei ricordi:
cammina dentro l’ombra della notte
il mio sarcofago che deambula.

.

Ti amerò in paradiso

Ora ch’è finita la stagione dei lampi
ti amerò in un paradiso lontano
con le mie settanta primavere.
Ancora da solitario inamabile
mi tufferò nell’anima
nell’imponderabile sogno
per poi benedire le cose perdute.
Su ogni antera di papavero
ci sei tu, rosso palpito vespertino
a bruciare mille e poi mille corolle.
Afferrerò la speranza -cellula dea-
in supplente e squallido contrario
sul filo di una condanna annunciata.

 

I fiori del male rivista di letteratura diretta da Antonio Coppola

I fiori del male rivista di letteratura diretta da Antonio Coppola

 

Un fato greco

Nel cuore di due mari
ho edificato la mia Itaca;
di giorno il grecale da’ staffilate
alla mia isola oltre il promontorio
di Scilla; dai terrazzi agguanto il sole
con le mani ma è solo illusione di mare.
Vengo di rado fanciullo bianco
per terre segrete che non conosco,
un fato greco nel mio cuore povero
ma felice, oggi inaspettatamente ferito.

.

.
Provocazione di poeta

E sotto forma d’amore
che ho inquinata l’anima,
ma qui taciuta perfino la falena,
che sia Dio l’ossessione o bellezza?
E’ certamente il guizzo,
l’epilogo il cui delirio
fu provocazione di poeta.

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELL’ADDIO (Parte II) Mark Strand, Marco Onofrio, Anna Ventura, Adam Vaccaro, Ivan Pozzoni, Antonio Spagnuolo, Antonio Coppola, Alberto Figliolia

Ravenna chiesa di San Vitale Teodora- e la corte di Costantinopoli mosaicos-bizantinos-muestran-emperatriz

«Il tema dell’addio. L’addio è una piccola morte. Ogni addio ci avvicina alla morte, si lascia dietro la vita e ci accorcia la vita che ci sta davanti. Forse il senso della vita è una sommatoria di addii. E forse il senso ultimo dell’esistenza è un grande, lungo, interminabile addio».

Mark Strand april 1992

Mark Strand april 1992

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mark Strand

From the long sad party

Someone was saying
something about shadows covering the field, about
how things pass, how one sleeps toward morning
and the morning goes.

Someone was saying
how the wind dies down but come back,
how shells are the coffins of wind
but the weather continues.

It was a long night
and someone said something about the moon shedding its white
on the cold field, that there was nothing ahead
but more of the same.

Someone mentioned
a city she had been in before the war, a room with two candles
against a wall, someone dancing, someone watching.
We began to believe

the night would not end.
Someone was saying the music was over and no one had noticed.
Then someone said something about the planets, about the stars,
how small they were, how far away.

Mark_Strand

Mark_Strand

Dalla lunga festa triste

Qualcuno diceva
qualcosa sulle ombre che coprivano il campo, su
come le cose passano, come ci si addormenta verso il mattino
e il mattino se ne va.

Qualcuno diceva
di come il vento si spegne ma poi torna,
di come le conchiglie sono le bare del vento
ma le intemperie continuano.

Era una lunga serata
e qualcuno diceva qualcosa sulla luna che cosparge di bianco
i campi gelidi, e che non c’era niente da aspettarsi
se non sempre le stesse cose.

Non so chi parlò
di una città in cui era stata prima della guerra, una stanza e due candele
al muro, qualcuno che ballava, qualcuno che guardava.
Cominciammo a credere

che la sera non sarebbe mai terminata.
Qualcuno diceva che la musica era finita e non se n’era accorto nessuno.
Poi qualcuno disse qualcosa sui pianeti, sulle stelle,
di quant’erano minuscoli, quant’erano lontani.

marco onofrio

marco onofrio

marco onofrio emporium

 

 

 

 

 

 

 

Marco Onofrio

Un grande addio

La vita è l’arte dell’addio:
è lunga l’arte dell’addio
per imparare ad accettarlo
che la vita è tutto un addio
interminatamente
inesorabilmente
istante dopo istante
un grande addio.

 

Anna Ventura

Anna Ventura

 anna_venturaAnna Ventura

Non tu, domani

È il senso dell’addio,
questa nausea leggera,
quasi una spossatezza che,
all’improvviso, viene.
Sai bene che non puoi farci niente:
qualcosa, dentro, si è spezzato.
Non è la fine del mondo, è solo
un altro coccio rotto che si allinea
tra il vasellame che stipa gli scaffali
di questa lunga credenza dove
si chiudono le cose.
Qualcuno – non tu – domani
tenterà un restauro.

.

In un cesto di paglia

Qui c’è un topo di panno rosso,
lungo pochi centimetri
dono di una magica signora
che abitava sopra di noi, al mare:
l’aveva fatto lei, con le sue mani fatate
per regalarmelo
il ventisei luglio del millenovecentoquarantotto,
giorno di Sant’Andrea e mio onomastico.
C’è il vestito di organza verde,
a pallini bianchi, per i grandi balli del Liceo. C’è
Giuseppe De Robertis,
l’iride blu sotto il basco dello stesso colore,
quando mi strizzava l’occhio, a Firenze,
perché lui era la Letteratura e io
una conversa decisa a farsi suora.
Ci sono anche la menta, il farro,
l’olio di frantoio, il pepe e il sale,
gli ingredienti della cucina povera, tutti
in un cesto di paglia:
che non sia solo una metafora.

da Tu quoque Antologia, (Poesie 1978-2013) Edilet, 2014

adam vaccaro

adam vaccaro

 adam vaccaro Fronte SeedsAdam Vaccaro

Presente passato

E mi trascino dietro tante cose
povere cose
orgogliose
inaridite e dense di vita
facce e case
onde sonore profumi
che sogno sempre
di lasciare per sempre
e poi ritrovo
in un angolo inventato
di pensieri e ricordi
di ombre col loro
presente passato.

(1976)

La lingua tra i denti

La luna girando non berrà questo piombo
che la lingua curerà girando tra i denti
quasi un segno d’appuntamenti in un sogno
di tutte le notti (dove) chiacchierando privo
di questa stupida penna che la carta bucherebbe

Mi verrai incontro col tuo viso generoso e
quello scempio di corpo insanguinato abbandonato
all’ignobile richiamo che t’ha lasciato là
carponi sull’asfalto

Chiacchierando mi dirai finalmente
che solo oltre oltre
ci ospiterà la verità

Ah verità verità che hai sempre
così paura d mostrarti e vivi
rintanata
come fossi una ladra ma non sai
che qui ormai è tutto uno show
un bellissimo show dove i ladri
sono lustri e belli come il sole

(E) chiacchierando forando il tuo sguardo
di padre capace con un bacio
d’affogare i miei occhi ti dirò che stupido
stupido destino a non darti mai
di rubare neppure una patata (*)

Tu col viso rosso mi farai
e non fare il fesso
guarda come volo
come volo leggero
senz’ombra di piombo

(aprile 1989)

(*) Il riferimento è al campo di prigionia in Germania, in cui mio padre venne tenuto tra il ‘43 e il ‘45 a raccogliere patate, con la proibizione assoluta di rubarne qualcuna.

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

 Ivan Pozzoni Patroclo non deve morireIvan Pozzoni

My brother is dead – frater meus mortuus est

Non ho mai temuto di rinchiudermi in una cella francescana,
frate Leone butterato, 1.83 cm x 90 kg, colosso di porcellana,
a chiedermi come fai ad essere ancora innamorata e attratta,
me lo domando ogni volta che mi accosto un boccone al viso,
ingurgito tutto, desidero invadere il mondo, come un frastornato Narciso,
non mi muovo, disoccupato immerso nel lavoro, mi invento nomade sedentario
non rimanendomi altro da donarti che un bicchiere di Bellini misto ad un abbecedario.

Annego la mia fragilità in cocktail di alcool, Delorazepam e Paroxetina,
mi immergo nella lotta sondando Bauman, distante da una generazione allevata a cocaina,
convertendomi in menestrello – dovrei assomigliare a un elfo, non ad un troll-
canto con la sgraziata cacofonia, in un capannone industriale, di una fresatrice Bosch,
sperso auf Das Narrenschiff, sperimentati tutti i vizi, e, adesso, avanti marsch
con amore, casa, affitto, bollo, benzina, neutralizzato anarchico in dolce quarantena,
mi batto, cotidie, a disinfettare i tuoi sogni da trentenne minacciati da cancrena.

Non è che la bruttezza mi avvantaggi sul carattere, schivo come Salinger
il successo di The Catcher in the Rye, non riuscendo a trasformarmi in challenger
delle angoscianti sfide di ogni giorno, morto di fame vs. morto di fame,
mi avvicino ad essere l’anti-eroe omerico zittito da Odisseo, Tersite,
soffrendo mal di testa atroci dovuti a calci in culo e sinusite,
barcollo, senza mai mollare, ai ripetuti cali di energia:
governi corrotti, disoccupazione e riforme inutili fanno una bella sinergia.

Giano bifronte è morto nell’utero d’una vita baldracca
che non desidero affrontare coi lamenti striduli d’una checca,
resto da solo, davanti alla tastiera, condannato a smettere di battere a quattro mani,
troppo spesso, sciocco arrogante, m’arrogo d’esser Gulliver tra lillipuziani,
e non considero un disonore, ogni volta, debuttare a fianco d’un debuttante,
significa che l’arte non è morta, infettata dalla necrosi del contante. Continua a leggere

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DEL VIAGGIO E DELL’ESTRANEITA’ (Parte III) Adam Vaccaro, Salvatore Martino, Stelvio Di Spigno, Gian Piero Stefanoni, Antonio Coppola, Matteo Veronesi, Domenico Alvino

buenos aires

buenos aires

 grattacieli-di-vetro-riflettenti-manhattan-new-york.

grattacieli-di-vetro-riflettenti-manhattan-new-york.

I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia «tra Atene e Gerusalemme», «tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione». «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».

 

adam vaccaro

adam vaccaro

    adam vaccaro Fronte SeedsAdam Vaccaro

Carovana

Carovana giungeva da chissà dove andando verso
chissà dove – attento non avvicinarti troppo che
ti portano via, dicevano trepide le madri – in quel
accampamento accanto alla fontana dal nome che
sonava quasi onomatopeico – scintillante Ciciliano! –

in concerto con pentole e voci di bambini e urla di
volti scuri, baffi e occhi neri, cercine e zinali chini
intorno a fuochi pentole fumanti e assi traballanti
di farina impastata dalle mani volteggianti di una
maga che – con occhi spiritati s’un dente unico re

duce rimasto al centro della bocca come punzone –
fissandomi mi disse, tu hai nel nome il destino di
– di cosa? dissi spiritando gl’occhi a specchio – di
andare fuori e essere contro – e contro cosa?, ilare
e curioso chiesi – occhi fissi negli occhi di carbone

della bambina attaccata al magico manto del suo zinale –
mentre lei rideva ridiventata con noi bambina tra asini
cavalli e tende delle allegrie accampate, ma mi forava
per sempre anima e memoria un sibilo dal suo punzone:
oh piccolino mio, ma contro tutto il bel mondo che c’è!

(Inedita)
27 febbraio 2014

.
L’ala sottile

Quell’ala sottile che ci raggiunge
e si apre come una vela sull’infinito
non è l’ultimo vento che ti aprirà le mani
ché l‘universo è pregno di mille altri universi
che tu ancora non sai

(inedita)
18.12.2012

COPERTINA SALVATORE MARTINO sonetto  salvatore martino

Salvatore Martino

IX

Sopra un cavallo rosso s’avventura
all’incontro temuto e così forte
il più invocato quello della morte
ma il cavaliere va senza paura

Farnetica una strana congettura
di scardinare le temute porte
il bastione invocato tante volte
domestico rifugio di sventura

Il viaggio della vita è così breve
e così lunga la dimenticanza
la cenere che plasma i nostri corpi

Nel bozzolo di seta siamo avvolti
dal tempo e così privi di speranza
ma il cavallo nel vento è così lieve

XV

Il viaggio che sarà dopo la morte
l’unico attraversato da una mèta
è immagine per noi già consueta
del dio che ha scardinato le tue porte

Tutte le vanità saranno accolte
come polvere fredda di cometa
dentro un ossario azzurro che ci vieta
di esorcizzarlo il furto della sorte

Chissà se lo potremo rimandare
l’incontro da nessuno stabilito
il treno che attendeva il suo binario

Se anche questo viaggio è immaginario
persino l’illusione ci ha mentito
il Nulla attende il nostro naufragare

Da Nella prigione azzurra del sonetto 2009

stelvio di spigno   stelvio-di-spigno-la-nudita
Stelvio Di Spigno

Marca

Quando gli uomini del bar del Crocifisso
rincasarono per le ore troppo piccole
un’auto perse il gusto del paesaggio
perché la notte quando viene è per tutti

e io che guidavo mi girai per vedere
quanto era rimasto nel bagagliaio o sul sedile
da snocciolare agli amici di Fermo:

c’era sempre un triangolo tra Gaeta Formia e Iripinia
mentre partivo da un luogo in cui credevo fermamente
e volevo cambiare strada, ininterrottamente,

ma c’era quel bagaglio che pesava
e inoltre era una notte di pensieri in cantilena
con davanti un futuro di colline e di mare
e un chiosco per chi batte strade nuove e si vuole salvare,

poi ci aiutammo a capire esattamente
che era solo libertà con i suoi neon, può mettere paura
se la incontri per prima,
ma alla fine niente va perduto e ciò che avanza
è tutto amore di una terra in pace.

.
Partire, tornare

Spalle alla poppa del traghetto, nel mare
non c’è altra vita che non sia la nostra.

Spalle alla nave che ci salva, ma la mia mente
è ancora ferma sul treno che mi ha portato qui,
e non c’è niente che la possa distrarre
da quel gemere di binari e ferraglie,
che è giusto il rumore di un viaggio.

Il profilo di Napoli scompare nella sua distruzione,
ma stavolta sono io a girare la testa, per non vedere
quanto intatto resta in me,
mentre con gioia e tradimento lo abbandono.

Come andrei, dove andrei, se potessi
far sparire queste macchie solari
che affondano la retina nel buio del nonsenso,
cancellare la nausea di ogni luogo conosciuto,
o soltanto intravisto o immaginato,
perché basta così poco per fare una scoperta…

Ma ancora non so se è più dolce partire o tornare,
mentre gli spruzzi di un mare forza tre
portano il sale del mondo fino al fondo delle labbra,
aspettando che smuova le cose come sono
fino a dove possiamo ancora indovinarle;
perché è questo che si cerca dal mare,
questo aspetta ogni vero navigante.

Mentre il nostro, di mare, mia donna,
si ferma fino a Procida e ritorno.

gian piero stefanoni  gian piero stefanoni copertina
 

 

 

 

 

 

 

 

Gian Piero Stefanoni

La prima cosa

(su alcuni versi di Seferis)
La prima cosa fu il viaggio,
e la casa ed il cane invecchiato che aspetta
per morire il ritorno.

Ma il respiro ed il freddo
che vennero dopo
all’inizio non furono dati;
col cammino tenne dietro il ricordo,
nella navigazione, nel passo
il valico lasciato alle spalle, il carico
sempre più ingombro di rimostranze e paure.

Per questo forse qualcuno
cedette all’attesa segnata sullo scudo
dalle pelli del nemico battuto:
imprese e nomi somiglianti alla propria cacciata
rosa nel volto dai colpi del vento.

(Da Quaderno di Grecia, LaRecherche.it, 2011)

.
Corte

Sei Tu Signore
le mie meraviglie,
il mio viaggio nei luoghi
della Tua incarnazione.

Per quali foreste
mi porterai oggi,
per quale letto di foglie?

Fammi solo essere
e dammi solo un posto
per pregare e renderTi grazie
nelle tue gole, nelle tue rive
in questa terra in cui ancora risuona
e per sempre Santa la Tua scrittura.

Corte- Golfo d’Ajaccio, giugno 2010

(Da Roma delle distanze, Joker, 2011)

antonio coppola

antonio coppola

 

I fiori del male rivista di letteratura

I fiori del male rivista di letteratura

 Antonio Coppola

Un viaggio trasversale

Un viaggio trasversale lo facciamo da anni
con una frequenza insolita, da uomini rupestri;
ci aspetta l’altro viaggio non itinerante, cupo
guidato da un’ala di zolfo d’angelo gay.
Aspettaci in quel buio sordido a spandere
il fiato lungo sugli omeri tra teschi quello di tuo padre
è in prima fila parato a festa per incontri plurimi.
Forsennato e ambiguo giostra nei misteriosi anfratti
dei pianeti a cercare i figli degeneri quaggiù protetti.
Il pianeta è un’orgia di mani, di smorfie mascherate
dove la luce dei candelabri si schianta su visi stravolti.
Il figlio degenere se la spassa menandosela manualmente.

C. Escher colomba

C. Escher colomba

 Matteo-VeronesiMatteo Veronesi

I Elegia della memoria e del viaggio

Non è che memoria ogni viaggio

Diviene
solo immagine pura, soltanto
un fantasma tremante ogni meta
come un’Itaca opaca, un’isola
svanente, appena
toccata, e abbandonata –
così è ogni viaggio, già
tracciato e concluso, partenza
e ritorno, nel giro del pensiero –
così ogni vita, ogni respiro, il verso
che lacera lo spazio come lama
e poi di nuovo regredisce al bianco
lunare deserto dell’origine

E tutto è parola, visione che vibra
e vacilla nel suono che la suscita –
picchi lontani, luminìo di acque
tenui parole affidate alle foglie
e sorrisi specchiati dalla neve –
e ogni viaggio non è che memoria Continua a leggere

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SUL TEMA DELL’ISOLA DEI MORTI di Böcklin (Stige o Acheronte) – Poesie inedite di Steven Grieco Rathgeb, 

onto Steven 1

Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi

 

 La spiaggia di Levrechio sull’isola di Paxos si trova di fronte alla foce dell’Acheronte fiume che attraversa l’Epiro, regione nord-occidentale della Grecia, e si congiunge col mare nei pressi della cittadina di Parga.
L’Acheronte è un affluente del lago Acherusia e nelle sue vicinanze sorgono le rovine del Necromanteio, l’unico oracolo della morte conosciuto in Grecia. Ma Acheronte (in greco Ἂχέρων, -οντος, in latino Ăchĕrōn, -ontis) è anche il nome di alcuni fiumi della mitologia greca, spesso associati al mondo degli Inferi.
Secondo il mito sarebbe proprio un ramo del fiume Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba, attraverso il quale Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti; suoi affluenti sarebbero i fiumi Piriflegetonte e Cocito. Il suo nome significa “fiume del dolore”. (nota di Francesco Aronne)

Steven Grieco 2

arnold bocklin Toteninsel (L’isola dei morti)

 

 Steven Grieco

Steven J. Grieco, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka, in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Ha pubblicato, in autopubblicazione, nel 2002 Maschere d’oro (poesie italiane 1985-1996) e Nel caleidoscopio; indirizzo e-mail: protokavi@gmail.com. Nel 2016 pubblica poesie in italiano e in inglese Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, Milano) e dieci sue poesie sono comprese nella antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

 

 

 

 

 

 

Era buio: feci per salutarti, cerimonioso,
come un tempo i poeti cinesi.
Tutto intorno i battiti, frullio d’ali
di un grande uccello iridescente
che si libera a poco a poco.

Lui aprì la porta appena, senza farsi notare,
poi tornò a sedere di là
Un soffio d’aria
appena spirò dalla porta socchiusa,
svelando il suo ascolto.

Sotto i colpi ripetuti il buio impallidì,
le acque si aprirono
tra Rodi e i massicci dell’Anatolia –
blu quell’orizzonte dove tu,
minuscolo nella distanza,
già ti trovavi, da tempo incamminato
come un viaggiatore.

Io, tu, Lui. Parole senza senso in questo
unico sforzo, questo istante sospeso.

Ammiccava la brezza, guardando nessuno.
Quel divincolarsi sempre più serrato, frenetico,
concluso infine da un botto lacerante.
Poi il congedo: ali chiare,
l’innalzarsi possente, senza lasciare alcun resto.
Silenziosamente, lui venne a chiudere la porta.
Frantumi e schegge

Onto Grieco

Steven Grieco Rathgeb grafica di Lucio Mayoor Tosi

 

Non ho altro da dirti che questo per descriverti.
Con tutto quello che mi mostri
non riesco a sottrarti nulla.
Al contrario,
le certezze si fanno sgangherate,
sbattono nel vento le porte di vecchi ricordi,
i vicoli e sentieri nel mio pensiero
trasaliscono, poi tacciono.

Ritrovando la propria estraneità,
io torno in questo immaginare
che si compie altrimenti.

Così svanisce ogni ricerca,
la valigia cede metro per metro
il carico di lucenti cianfrusaglie.
Esperienze, comprensioni, illuminazioni:
come la ricchezza dell’avaro
tutto questo si riduce a un bisbiglio
dietro l’angolo.

Arnol Bocklin Isola_dei_Morti versione originale

arnold bocklin Toteninsel (L’isola dei morti)

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

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Antonio Coppola   DODICI POESIE EROTICHE “Specchio di malie”

antonio coppola

antonio coppola

 

Laura Antonelli nel film mamma mia come sono caduta in basso

Laura Antonelli nel film mamma mia come sono caduta in basso

Antonio Coppola è nato a Reggio Calabria vive a Roma dal 1970. Si laurea all’Università di Roma La Sapienza in Lettere Moderne, giornalista-pubblicista dal 1972, ha scritto su quotidiani Nazionali, quali: Momento sera, Avanti, Il Secolo, Giornale d’Italia, Giornale di Calabria e riviste: La fiera Letteraria, Il Veltro, Libri e riviste d’Italia, La Vallisa, Capoverso, Lettere Meridiane, Quaderni di Rassegna Sindacale e Medicina dei Lavoratori (editi dalla CGIL). Ha pubblicato Terre al bivio; Frontiera di maschere (con pref. di Saverio Vollaro) in successione: Caro Enigma, A colloquio con il padre, La memoria profonda, Da Emmaus le parole, Morte ad Halabja, Gli angeli del Bonamico, La Poesia nella Scuola (incontro con l’autore), L’ombra dei gigli infranti, Nei vivai di Dio. Di recente (a cura di Coppola) esce La luce trasgressiva e, successivamente, Voci contro nella poesia contemporanea italiana e straniera. Ha fondato ed è direttore responsabile de I fiori del male prima “foglio di poesia” poi Quaderno quadrimestrale di Poesia Cultura letteraria e Arte. Gli sono state dedicate due monografie di approfondimento alla sua opera poetica, la prima di Maria Grazia Lenisa, l’altra, più recente, da Francesco Dell’Apa. Ha scritto saggi su autori italiani e stranieri.

 

laura antonelli sul set

laura antonelli sul set

Oh amore, mia cascata
di voglie non m’impedire
che nulla avvenga:
io sono già sogno,
vento di Calabria
che si prepara alla notte.
 

 

 

 

 

Un secolo fu soltanto ieri,
poi fummo turbine
e dardo di Cupido amante;
ora qualunque omaggio
mi venisse darò un poco
di furia del mio sangue.

 

laura antonelli sul set

laura antonelli sul set

 

L’onda va tra i tuoi seni,
giunge a me il profumo
dei meli, su gli arenili
la bellezza di Eurione
languì vicino al mio corpo.

 

*

 

Mia fanciulla dai seni azzurri
scaldami e giaci sopra me,
come è intensa la vita,
in che modo il passar degli anni
attira visioni che tornano amore.

 

laura antonelli

laura antonelli

 

 

 

Brucio di te, amata amante
e ti guardo mistero su me,
fumo in me trattengo
posseduta donna, inclita.

 

*

 

Non so di te che l’impercettibile
inconscio, unica malia
gli occhi felini da preda possibile;
oh vicina o lontana amata
che muovi e sorpassi il tempo! Continua a leggere

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Su “La Grande Bellezza” di Roma, capitale dell’Impero universale. Poesie di Giorgio Linguaglossa, Francesco Tarantino, Antonella Antonelli, Antonio Coppola

Scene from film CALIGULA (1979) starring HELEN MIRREN.   FOR USE Immagini tratte dal film Io Caligola (1979) di Tinto Brasscaligola 1

Giorgio Linguaglossa

a Giulio Decimo sulla Grande Bellezza dell’Urbe

Un giorno o l’altro scriverò una lettera
a Giulio Decimo, gli dirò della Grande Bellezza dell’Urbe,
gli dirò che c’è un tempo interiore
ed un tempo esteriore,
gli dirò che è tempo di rientrare in patria,
gli dirò che gli ostracismi sono finiti,
che l’imperatore ha condonato gli eslegi
ed ha concesso l’indulto a tutti i malfattori,
gli scriverò: «ti prego Giulio Decimo
torna nella tua Roma, ritorna come sei,
come un cittadino qualunque: se sei povero
ritorna come povero, se sei ricco ritorna
in quanto ricco; le tue sostanze?, no
mio caro, non verranno confiscate,
e poi, perché dovrebbe?
Caligola_film_1979In fin dei conti Cesare è clemente, magnanimo,
preferisce tenere in vita i suoi nemici,
così può sempre ricattarli, morti non saremmo
utili alla sua causa, non credi?.
In fin dei conti, si vive bene qui nell’Urbe,
qui il tedio non è di casa, gli amores
non mancano, le matrone non sono certo caste
Caligula 3-come nella sperduta Bitinia, alle terme
non ci si annoia, e poi qui tutto è spettacolo
circense, qui tutto è frivolo e leggero,
dal Tevere spira il tiepido vento del Tirreno
e gli uccelli gorgheggiano anche d’inverno,
e l’inverno è mite quant’altri mai
e ci sarà dolce annegare in questa città».
Devo affrettarmi a scrivere a Giulio Decimo,
devo fare in fretta, gli dirò che mi sono ricreduto,
lo pregherò di tornare, che il tempo si è compiuto,
gli dèi sono fuggiti, che la città eterna
continuerà ad essere eterna, e così via…
mi devo sbrigare, sì,
scriverò a Giulio Decimo, gli dirò
di far presto, che non è mai troppo tardi,
di non frapporre il tempo al tempo,
così potremo reciderci le vene dei polsi
al tepore delle vasche delle terme,
e insieme brinderemo con il rosso vino di Falerno,
potremo vivere gli ultimi istanti della nostra vita
che ormai non ha più senso…

Giorgio Linguaglossa e Socrate

Giorgio Linguaglossa

Risposta di Giulio Decimo a Germanico

Caro generale Germanico
il tuo fidato amico Giulio Decimo è stanco
ha il ventre molle e le gambe malferme,
sono vecchio caro amico
per tornare a Roma,
e poi, come ci tornerei?, da vinto?, da servo?,
perdonami Germanico, perdona
la mia stoltezza, o la mia viltà,
chiamala come vuoi,
la nostra è stata una seconda Teutoburgo,
caligolasiamo dei vinti, amico mio, e poi
quale Roma vedrei?, la Roma di Mecenate
con il suo codazzo di poeti di corte
e di pretoriani?, no, caro amico,
risparmiami questo scacco, quest’onta,
un’altra disfatta sarebbe rovinosa,
non potrei tollerarla,
preferisco stare qui, nella mia villa
a Calcedonia, lontano dalla vile lussuria dell’Urbe
voglio stare qui all’ombra del sicomoro
e al dolce canto degli uccelli
ad occuparmi della mia insalata che coltivo
con mestizia,
Roma è un lontano ricordo
che voglio allontanare sempre di più,
sempre di più.
Voglio dimenticare Roma, le sue meretrici
e i suoi poeti di corte,
voglio dimenticare la mia vita passata,
le nostre gloriose battaglie,
le nostre ingloriose sconfitte,
adesso voglio riposare, lasciami,
amico mio riposare all’ombra del sicomoro
e al dolce canto degli uccelli.
Dimenticami.

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caligola

Francesco Tarantino

Al generale Germanico

dal suo devoto liberto lasciato a marcire in provincia

Io sono deluso,
amareggiato, disgustato!
¿Come potrei, e con quale coraggio,
rientrare nei ranghi
senza disseppellire le mie spade
e marciare alla testa dei soldati?
No, mio alto generale,
e non ti ringrazio di avermi chiesto
di tornare alla corte dei soloni
– che Dio li fulmini! –
francesco tarantino 0Immagino le strade ancora piene
di meretrici e mercanti d’Oriente,
angoli bui dove trama e ordito
sono un unico atto già in scena.
No, mio generale resto ove sono!
Mi ricordo bene Giulio Decimo,
fu proprio lui a suggerirti:
“lascialo a marcire in provincia
sbollirà i suoi bollori”.
E così è stato!
Ho lasciato le spade e l’arroganza
per abitare in via delle cetre,
non ho più centurie da comandare
Caligula 8e coi vecchi mangio cipolle
e mastico erbe amare.
Tu lo sai, generale,
dove inizia l’inganno: Menenio Agrippa
che indusse la plebe a ricominciare
a servire i cialtroni e le matrone.
Mio amato generale, sai
che il tuo liberto
non è un collaborazionista.
Scrivi a chi vuoi ma io resto in Bitinia
e se passerai di qui
ti offrirò del vino amabile
e una cetra da pizzicare:
sarà bella l’Urbe, ma qui la vita
tiene ancora un senso e gli uccelli
cantano e cantano davvero
tra le foglie degli alberi che ancora
svettano verso il cielo.

caligola in portantina

 Francesco Tarantino

La Grande Bellezza?

Trascino ormai le gambe
in un tempo che fu di Grande Bellezza
lungo ville e splendidi viali
con intorno lo sconcio
di un insulso ed insano blaterare
di ostinate nobiltà decadute.
E m’incammino
lungo un Tevere che esonda la storia
e annega ogni voce contraria
all’acqua che più non racconta
e raccoglie solitudini e detriti.
¿A che serve estrinsecare domande
che dall’anima salgono alla mente
se non hai di fronte un santo penitente?
Non avrai alcuna risposta
da intellettuali e cardinali
che per denaro hanno venduto l’anima:
dispensatori d’indulgenze
chiusi in una liturgia obsoleta
di giaculatorie e travisamenti.
Non basta un tiro d’eroina,
uno sballo, né un blando spino;
una futile danza in compagnia
dimenticando d’esser stato spia!
¿Dov’è finita La Grande Bellezza?
Più non la trovi e neanche la vedi;
più ti manca e più s’allontana:
forse l’hai perduta con l’innocenza!

Antonella Antonelli3

Scene from film CALIGULA (1979) starring HELEN MIRREN. FOR USEAntonella Antonelli

Ambrosia della decadenza

Il vapore sale dall’acqua
mi sento nascosta, ma la voce arriva
nevrotica, sclerotizzata dietro un suo acuto

“allora, Ambrosia, tornerà mai
il terrone Vegezio a Roma?”

“Non lo so. Dalla sua ultima mail
ho intuito…”
Sghignazza la cagna
“capito…che ama vivere a Los Angeles.
Ama la polvere.”

“Sei meno di un chicco di polvere
mia povera Ambrosia”

“non lo siamo forse tutti?”

Immergo la testa,
a naufragare in una pozza
non è complicato. Vedo il mio fiato
risalire in piccole bolle sputate
e la tua figura plastificata, denudarsi.
Mi tocchi, pensi di poterti concedere tutto
in questa nostra Roma di segreta bellezza,
deturpata dall’arroganza della decadenza.
Mi stringi in un abbraccio maschio

Antonella Antonelli in orange“lasciami!”
“Sei arrabbiata?”
“E forse… sono qualcosa?”

Avessi un lavoro
non starei a fare il giunco

“Vieni questa sera da Pompeo Magno?”

Mi chiedi rivestendoti.
E come potrei mancare?
Mi ha già versato tutti i sesterzi,
“Il patto va rispettato”
mi ha detto tenendo il suo fallo tra le mani
come fosse un gladio.

È lontana Los Angeles, la polvere del deserto
è vita, davanti a questo tirare di bighe
e facce truccate di un carnevale perenne.
Mi circondo col peplo, appunto la spilla,
vorrei infilarla nella spalla
per risentire il dolce rimpianto
del dolore.
Un gesto e tutto cadrà a terra.
Come le statue maschie del Gianicolo e
le vie maschie di questa Roma femmina,
zoccola, sdolcinata e papalina,
inquinata dalle stesse famiglie
dai geni contorti e gemelli.

“Tiriamo su i capelli mia signora”
“Mia piccola ancella, fuggi, stanotte fuggi.
E resta quella che sei,
ché niente, sarà più lo stesso.”
“State male mia signora?”
“Mai stata meglio. Non quello, passami la recta.”
“Vi vestite da sposa mia signora?
E’ una festa in maschera?”
“Tutto è in maschera oggi a Roma.
E questa storia, finirà nella storia.
Passami il velo”.
“Quale?”
“Quello rosso, non vedi?”
“Non si è mai vista una sposa così…”

caligola 1Accadono cose strane a volte, di notte.
Non ci sono più ratti né reclute, tutti nascosti.

“Chiama il taxi ora. È l’ora.”
“E le scarpe?”
“Indosserò stivali.”

L’aria profuma di pino.
Perché continuano a mettere questi
“odori chimici” nelle macchine?
Temono il fumo, lo smog, il sudore, la carne…
niente sa più di sé.

Fanno rumore gli scarponi sulla ghiaia.
Questa storia, dunque, finirà nella storia.
Il velo rosso si accosta al viso
come il sangue delle ferite ai vivi.

“Fermi!
Avete portato le vostre spade?
Allora su,
sparate!”

caligola_malcolm_mcdowellcaligola malcolm_mcdowell
Antonio Coppola

La città impazzita ( I-IV)

1
Che ci sta a fare una città
posata sulla terra ferma
(mare avvelenato per affari suoi)
le confessioni degli uomini,
i lamenti, le inedite storie.
Da una parte le medaglie
i monumenti gli alberi, le bandiere
gli inni di Dio, la paranoia dappertutto.
Dentro le orecchie delle vecchie o
dei bambini le nostre voci, questo sto
ascoltando muto, desolato nei diritti.
2
Questa città così infantile, folle,
ancora sventola bandiere.
I predatori sono ovunque
sfilano per i loro anniversari;
se un poco ti ribelli è arrivato
l’attimo ultimo; gira l’amato
paesaggio e non puoi far niente
vederlo così triste, non puoi neppure
cantargli una canzone. In questo luogo
sono nato e sento ogni notte squillare
il telefono, par che mi prelevano i gendarmi.
Cosa ho fatto di male, oh amor mio!
ANTONIO COPPOLA 19983
Terra in cui sono nato forse
non abbastanza intonato, da anni vivo
prigioniero in altro luogo, ma sempre
prigioniera la mia vita perché ero
e sono sopravvissuto, poi tornai a casa
al confino, roba da seppellire laggiù
con l’ultima bandiera che mi rimase.
Là la mia vita fu un codice
di annunci funebri, la strada a perdita
d’occhio termina su un filo di lana
e/o continua dall’altra parte.
4
Vissi le amarezze, i tornaconti
gli anni che mi visitarono;
ora sono a parlare di queste cose,
non seppi resistere alle voci del padre
che in scena fa l’ultima apparizione.
Quelle voci
l’ho nel mio cranio e vissi ascoltando
tutto questo dentro le orecchie.
Ora chiudo il respiro
in quest’aria pesante della città.
Merda, Merda, Merda.
Qui per la mia pazzia
ho vissuto abbastanza.

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ANTOLOGIA III PER IL PARNASO – Francesca Diano, Antonio Sagredo, Alberto Figliolia, Maria Grazia Insinga, Francesca Tuscano, Ivan Pozzoni, Antonio Coppola, Marisa Papa Ruggiero, Francesco Tarantino

Parnaso-Apollo-Venere-Mercurio-e-le-Muse-di-Andrea-Mantegna

Francesca Diano

Congedi.FOTO FRANCESCA 2
Viatico in undici stazioni

I
L’ESCLUSA

Andavo per strade coperte di polvere
L’orlo della mia gonna sfilacciato
Non si curava di fango o sterco
I piedi scalzi – segnati dal rifiuto persino della terra.
Signori o plebei – non facevo alcuna differenza
Nessuna presenza era presenza
Ed ogni assenza – assenza.
Mi dolevano le ossa – ero una casa diroccata
Disabitata persino da me stessa
Preda di predatori e depredata di me. Continua a leggere

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