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Roma,16 aprile ore 18 p.za Augusto Imperatore, 4 (sede della FUIS) Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa presentano la ANTOLOGIA DI POESIA “Il rumore delle parole. Poeti del Sud” Estratto (IV)  POESIE di Silvana Palazzo, Marisa Papa Ruggiero, Giulia Perroni, Gino Rago, Lina Salvi, Daniele Santoro a cura di Giorgio Linguaglossa Roma, EdiLet, 2015 pp. 280 € 18

Antologia Il rumore delle parole (2)Roma,16 aprile ore 18 p.za Augusto Imperatore, 4 (sede della FUIS) Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa presentano la ANTOLOGIA DI POESIA “Il rumore delle parole. Poeti del Sud” EdiLet, pagg. 280 € 18

Brodskij una volta scrisse che la longitudine e la latitudine cambiano la lingua. Di più, la longitudine e la latitudine cambiano anche il linguaggio poetico; in esso si verificano delle interferenze, dei disturbi, delle influenze; i sostrati storici delle varie civiltà che si sono depositate in un territorio sedimentano, fermentano, e affiorano, prima o poi, nella lingua di relazione e nel linguaggio poetico. Ciò che si credeva «periferia» diventa «centro», e viceversa. La storia si diverte spesso a riposizionare le tessere del puzzle secondo un ordine imprevedibile e inimmaginabile agli inizi. E ciò è avvertibile anche in questa antologia intergenerazionale nella quale c’è una vasta gamma di ricerche stilistiche nella sostanza molto diverse da quelle che si perseguono a nord del Rubicone o al centro del Lazio. Un elemento questo da non sotto valutare che ha una sola spiegazione: la definitiva emancipazione della poesia del Sud da quella che si fabbrica nelle fucine di Roma e di Milano. La poesia del Sud non va a prendere il tè in alcuna contrada esotica, e questo è un buon risultato, non va più a rimorchio della poesia del Nord, anzi, possiamo affermare che la poesia del Sud si è completamente emancipata, ha un passo sicuro, procede in varie direzioni contemporaneamente, ricerca una propria identità. È questa la ragione fondante che può giustificare una antologia della poesia del Sud: la sua centripeta vitalità, il suo andare dentro il linguaggio poetico a far luogo dalla periferia. La diacronia del linguaggio poetico è racchiusa nel moto del pendolo, ad un periodo di espansione e di egemonia del Nord e del Centro subentra un periodo di riflusso e di rilancio della poesia del Sud.

    Gran parte anche della migliore produzione poetica delle ultime generazioni sembra scrivere poesia come se fosse  dentro una «vacanza» della ragione, della Lingua, ma la lingua ha una sua ferrea legislazione fatta di regole sintattiche e semantiche che nessuno può infrangere. Spesso trovo  incomprensibili certi libri di poesia (sicuramente per miei limiti) ma anche perché ormai oggi ciascuno scrive per se stesso, ciascuno si fabbrica in privato un proprio idioletto senza curarsi di quel dialetto della comunità nazionale qual è diventato l’italiano letterario (per non parlare del fenomeno dei dialettismi poetici che sorgono un po’ come funghi in ogni parte della penisola quale epifenomeno del novecentismo tardo novecentesco). La grandissima parte dei più giovani pensa alla poesia come a un affare privato che più privato non si può, che anzi debba essere un privato privatissimo, la privatizzazione del privato, talché la lingua in cui quel privato si esprime ne è il corrispondente linguistico: di qui la «privatizzazione» della lingua in idioletto. È chiaro che in queste situazioni viene meno la necessità di un ermeneuta, il quale non ha più alcuna ragion d’essere. Per fortuna, in questa Antologia mi sembra di notare una inversione di tendenza, ci sono chiari esempi di una poesia che va verso la pubblicizzazione del privato, in cui il privato si allontana dal quotidiano e il quotidiano dal quotidiano presuntivamente posto. E questo è un segnale molto positivo.

italia tripartita Per via del fatto che la poesia si è prosasticizzata è invalso un equivoco: che il limen divisorio tra la poesia e la prosa sia effimero, equivoco; ma gli autori di questa Antologia dimostrano quantomeno di volerlo sciogliere. C’è un nodo, se non si scioglie questo nodo non sarà possibile scrivere una poesia adulta, emancipata. Così, la poesia contemporanea rischia di stare in mezzo al guado, di nuotare in una forma ibrida, nuotare con i salvagente. Basterebbe eliminare gli a-capo e riscrivere tutto in prosa per accorgersi che spesso il testo ne guadagnerebbe in linearità sintattica e alla lettura. E allora, chiedo: perché scrivere in forma-poesia cose che potrebbero suonare meglio nella forma della prosa?; è questo il nodo che la poesia italiana contemporanea si trova a dover sciogliere. Il verso è una «entità» che bisogna provare e riprovare; innanzitutto, come prescriveva Fortini, occorre provare «la resistenza dei materiali», intendendo dire che il verso poetico è un qualcosa che offre una «resistenza» alla lettura (e alla scrittura), come la resistenza che comporta un materiale qualsiasi quando viene attraversato dalla corrente elettrica: in mancanza di questa resistenza il verso non è più un verso ma semplicemente (e rispettabilmente) prosa.

   Direi che per la poesia degli autori antologizzati sia prioritario l’atto della narratività. La poesia si costruisce come una riflessione su un oggetto dove il momento dell’analisi precede appena d’un soffio il momento della sintesi. Riflessione e meta riflessione, retrospezione e prospezione, osservazione del dettaglio e visione dell’insieme. Una procedura che predilige lo scorrimento (a secondo della necessità della composizione) della narratività è una procedura che rimanda ai rapporti di inferenza e inerenza tra gli oggetti, tra le loro qualità e le loro alterità, ovvero, tra le parole. Una strada duale, sostantivale e relazionale, tra le parole e, quindi, tra i significati delle parole e gli oggetti referenziati dalle parole. Questo tipo di procedura non si differenzia da quella perseguita dalle scritture iperrealiste in auge in Occidente, ricade pur sempre nel demanio della narratività.

Giorgio Linguaglossa foto da tessera ministeriale

Narratività ed iperrealismo sembrano andare a braccetto: molti autori di questa antologia prediligono l’ingrandimento progressivo delle unità verbali prese ciascuna per sé collegate insieme mediante nessi sintattici, congiunzioni e/o particelle avversative, ricostituendo un periodare intuitivo (nel senso dell’immediatezza del linguaggio del quotidiano) al fine di rafforzare gli elementi significanti del linguaggio; oppure operano attraverso l’isolamento e l’ingrandimento di singole parole-immagini. Procedura già anticipata da un quarantennio da un film come Blow up di Antonioni, dove un fotografo, che ha scattato numerose fotografie in un parco, rientra nel proprio studio, e qui viviseziona le immagini attraverso ingrandimenti successivi e arriva ad identificare, stesa dietro un albero, una forma supina: un uomo ucciso da una mano armata di rivoltella che, in altra parte dell’ingrandimento, appare tra il fogliame di una siepe. Ci sono autori che tentano di ripristinare il giro frastico su un’orma endecasillabica, altri fingono un endecasillabo che non c’è, altri ancora derubricano la questione. È chiaro che qualcosa è cambiato, c’è un cambio di passo: il passato sembra essersi allontanato, molto di ciò che, nel bene e nel male, doveva cadere è caduto. È crollato non solo il paradigma ma l’idea stessa del paradigma: il canone si è dissolto in mini-canoni, è stato falsificato e clonato e moltiplicato in un brodo di coltura che, paradossalmente, non è escluso che possa dare i suoi frutti nell’imminente presente che si chiama futuro. È anche questa una delle ragioni di una antologia della poesia del Sud.

(dalla Prefazione di Giorgio Linguaglossa)

Silvana Palazzo

Silvana Palazzo

Silvana Palazzo

Appena entro in quella piccola e oscura stanza
ne esco subito per cercare il sole.
Sulla porta vedo l’ombra di mia madre
che mi prende per mano per ricondurmi là;
l’altra di me resta chiusa dentro la stanza:
non avverte alcun richiamo, che invece io
mi porto dietro per andare lontano.
Fu così che lasciai quella fredda mano
e mi allontanai piano dalla stanza
e da quella presenza

*

Ricordo il colore dei suoi vestiti
stesi al sole. Erano grandi le coppe
dei seni a cui da bambina m’abbeveravo.
Il bianco del latte, l’odore di pelle,
il rifugio più puro in un mondo sicuro.

*

Vorrei uscire da me stessa
per vedere come sono.

*

Nessuno può togliermi i ricordi,
tranne la memoria.

*

È il dolore che mi chiama
e non io lui. Mi scivola addosso
senza ch’io me ne accorga e
quasi come una tempesta
entra dritto nella mia testa.
*

Ti ho riposto in un cassetto
come un oggetto rotto
anche se sembrava indistruttibile.
Spero solo che tu lì stia abbastanza stretto
sì da soffocare dentro quel cassetto
maledetto.
*

La rosa pervinca è rinata.
Eppure fu l’anno scorso che la piantai,
sopravvissuta sei all’invernata
ed oggi come per incanto sei sbocciata.

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero

Marisa Papa Ruggiero

UN INTENSO VENIRE
Dentro ogni morte, viva

Il papiro conserva la mente del fiume
e il fiume conosce la lingua dei voli,
dei fibrosi pilastri regnanti
sul fiume
la turgida lingua narrata al germoglio
che s’alza nell’aria
e lecca i lobi del sole
che spinge da dentro il suo verde
la sua anima sposa del fiume

ed è qui sulla pietra a seccare
srotolando una mappa non sua
l’urlo imploso nel fango, il coltello
la pesatura sulfurea della fame e la sete
intesa dal giunco
dall’airone che danza sull’acqua
e rammenta
il monsone e i vascelli di fibra
la calce arsa piegare la luce
il presagio
affidato alla mano dov’è scritta
la storia
Dalle lettere sguscia
lo scriba recando una torcia
e scruta nel fondo
e scruta nel fondo del fiume

L’occhio è rizoma ligneo

Nella sabbia una sillaba aurea
resiste alla sete
A spinte esatte toccarti dentro
al centro di parola pompare ossigeno
sulle corde vocali
leccarti il respiro e poi aspirarlo

La corrente risale al delirio del delta
che continua a spostarsi
Il già avvenuto è materia-voce che ritorna
dentro un altro battito, tu
Migrante, esisti nel disegno
che ti ritrae in sovrimpressione
a pelo d’acqua
qui sei il canto al sole dell’Arpista
e la forma del suono tra le dita
sei Anubis, l’imbalsamatore sacro
che sa come far combaciare
il vuoto alla sua carne

sa come annodare l’occhio a tutti
i cloni di me vissuti
a tutte le assenze abitate
nella mia carne, intatte

.
Una ferita interna, ma visibile

Il papiro è la mappa inchiostrata viva
e l’occhio che la guarda
Osserva se stesso, il Sosia,
nella forma di un volto arboreo
disceso nel fiume
Nella ferita osserva
il cifrato del seme, il punto
della forma più centrale
Nella gola dell’Assetato scioglie
isotopi del quarzo,
nel Superstite muto che strofina
pietre e sale per farne parole
percorrendo l’intera lingua
del fiume
più giù dei cento gradini, e ancora cento
quanti i foglietti cementificati
del calendario in tasca
aprendo tutti gli strati
come un passaggio di foresta
più giù del nervo stellare
alle aeree radici fossili sospese sul nulla
alle infinite dinastie alfabetiche
già accadute
– che nuovamente accadono –
alle millenarie catene arboree
delle nostre arterie

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Giulia Perroni

[…]

Vieni alla notte regina i miei sforzi disperdono i cancelli
il focolare semina al mare lucciole di sguardi, Semiramidi nude
orchestre esangui di un più felice ascolto, pungiglione dell’aria si discinge
la favola degli occhi di chimera abbrutita per forti desideri che si intoppano al grido.
Tu sei bianco veliero il resto notte come dal fango di una notte chiara il duello maestoso
ci ripara e fa dei sogni ortografie pungenti, seminari nascosti, derisorie celebrità degli angeli divisi
dalle piccole lune che sui fiori lanciano tare, gemme di mestieri, turlupinanti semi sconosciuti:
li aspetta nel riflesso un cavaliere, rematore di dubbi e di latrine, splendido quanto basta
un falconiere che ha rami di viaggio

La mia follìa protesta e gioca a dadi tutte le mura uguali alla mia barca, nel firmamento quando il cielo esangue muta in pesce la luna

Amici, sui selciati c’è il silenzio che suscitò le brame di una vita ora che il vento in punta di coltello armeggia con il buio

I poveretti ora che il freddo chiama hanno un Natale infisso nelle ossa il male è tutto calvo e una campana fiuta il vento nel fosso

Il gemito dei fiori è rivolto laggiù nella cappella? Se un uomo muore solo per le strade che dice il cielo blu delle formelle? Avrà rimorsi il tenue scalpellino che frantumò le dalie e gli occhi rossi di un tremendo messaggio pellegrino a ridosso dei lupi?

I fratelli all’addiaccio hanno speranza che il Natale risusciti preghiera o una coperta gialla nella stanza o un fuoco in un cerino battagliero?

La volta è conquistata da smeraldi e il cielo ha un dito blu nelle formelle, il tempio solitudini di smalto nei forzieri improvvisi

Gesù, apri le braccia!

Gino Rago

Gino Rago

Gino Rago

da L’arte del commiato (2005)
Le mani (I)

Le mani… Serve ai remi
ali hanno messo a navi
dalle rosse prore; a terra
alla bipenne davano la spinta decisiva
come al dardo
nel cuore smanioso d’una cerva.
Titillano da sempre
l’essenza della creta, s’infilano
nel sangue per la vita, carezzano
criniere, incidono sui tronchi
i segni senza tempo
dell’amore. Nell’orto degli umani
spasimi – vergogna dell’uomo
che piega l’altro uomo – invocavano
unguenti ai fili spinati, si aggrappavano
a ferri di galera per un acino d’aria
o un grappolo di luce, attendevano
il samaritano, reggevano corpi fenduti,
svenati da pallottole o da lame. Le mani…
La vita a me le ha chiuse spesso a pugni
per un’idea casta di libertà completa,
poi le ho intrecciate a preghiera
verso i troni d ’oro delle aurore
prima d’affondarle
nel pozzo senza fondo dei misteri.

da L’arte del commiato (2005)

Le mani (II)

Oggi, nell’aria ionizzata
sul mare di memorie del color
dell’ambra, disegno parabole fiacche,
a malapena qualche curva breve.
Vertigini di escluso… Amai –
amo – pastore delle balze d’oleandri
su alvei di sputi, le tue mani a conca
nella grazia verde d’una ciba.
Nessuna mano mai eguaglierà la tua
quando fa figliare
la capra nella sete
in un letto di polveri e letame.
Ricordi miei bassi, pezzi
d’eternità, epifanie di fiabe sconosciute,
molecole solari, schegge
d’un angelo terragno senza voce.
Le mani… Le vostre, mie creature
a questo mondo offerte senza veli,
costi quel che costi non sporcatele mai:
siano sempre bianche
come spaccature d’aprile nella neve.

Nuvole stanche di cielo


Lascia che i tigli giochino
con l’acqua della grazia
o con la sabbia – ferma –
nella tua clessidra:
hai conosciuto le guglie
di Chartres, le cicogne
a Colonia, i gabbiani
di Ostenda, le nuvole
stanche di cielo
nel viaggio a caderti nell’anima.
Non contare i cerchi
Concentrici del tronco:
le nebbie normanne delle falaises
t’hanno riavvolta
nell’eternità. In te respira
la luna – scudo, bussola, moneta
sul traghetto estremo del poeta –
e sei nel mito
giacché tu sola sai la legge del mare,
del caso, della necessità.

Lina Salvi

Lina Salvi

Lina Salvi

Non ho voglia del deserto
della sua violenza calma
cavalcate ai margini del cielo,
nel deserto già ci sono
ahlan wa salan (*),
nel deserto popolato di uomini
buie città, annuvolate,
assediate di ogni specie animale,
alberi con rami tondi,
bocche infuocate.
Del viaggio nella tundra, nel polare,
che dico? Se non quel volteggiare
in aria-terra,affondare
il piede in una zolla
del viaggiatore la sua ombra
così lunga, così distante.

(*) saluto di benvenuto

*
Del deserto non ha voglia
la signorina dolce-morte,
così distante, così vicina,
dissimula un pungolo del sangue,
quel sabato mattina sul monte,
all’alba-tramonto a precipizio,
sul sentiero gelato, sul Jebel Ram.
Si raccolgono del bosco
alcune spore, rami secchi,
scavati gusci, vermi, misere
forme di sopravvivenza, esistenza
del nero adamantino.

*

Quel sonno del deserto rallegra,
dove l’Asia incontra l’Africa
labirinto di montagne e canyon
non la crepa nel muro,
fuga del Dio salvato, sabbie
rosa e sorgenti d’acqua,
qualunque cosa non ha verso,
qualunque autunno non più
albero, ombra, terra
iniziali di argilla, – pietra
sgretolate le gambe molli
qualunque intreccio possibile,
salviamoci dalla distanza, rifugio
dal sorriso giudice o sbirro,
dall’ incudine del sole.

*

Incudine del sole pennellate
di giallo nel deserto dell’antichità,
dissuaso i popoli del Wadi Ram,
a vuoto giro sulle dune, valli
incrociate, fauna selvatica,
coniglio semplicemente acquattato –
uomini – chiusi senza rifugio,
schiavi sulla punta dell’altipiano,
del corpo che non mente distanze
dal tre, dal bacio incrociato,
distanziato, del paesaggio,
passaggio a gesti più laterali,
impronta di un Dio selvatico.

daniele santoro

daniele santoro

Daniele Santoro
Dalla silloge inedita Triumphus feritatis

Clinia il pitagorico ha un metodo infallibile per vincere l’ira (Ateneo, XIV, 624A)

Perde le staffe raramente Clinia
ma se lo smuove l’ira (può accadere)
come la vince lui non c’è nessuno.
È un saggio dopotutto
sa come si controllano gli istinti.

Afferra la sua lira e suona,
suona finché non gli si calmi l’ira
finisce addirittura a volte si commuova
per come è strappalacrime la melodia.

.
Il “trionfo” di Giugurta

Per mezza Roma, portato in pompa magna,
il Re-Spauracchio lo hanno vestito a festa
peggio di un baldraccone per come l’han conciato
e il popolo non si è risparmiato negli applausi
alla sua apparizione, anzi l’ha accompagnato
in processione
e con che par-te-ci-pa-zio-ne!

Poi che fu giunto a sera nel carcere Tulliano, gli aguzzini
gli hanno mozzato i lobi delle orecchie
a furia di scippargli gli orecchini
gli hanno strappato gli abiti di dosso
e pezze per i piedi ne hanno fatto,
un calcio nel sedere e lo hanno chiuso
nudo Giugurta
in gabbia a scatenar la rabbia a dar di matto.

La durò poco in fondo, presto uscì da morto
Giugurta lo scannammo come si scanna il porco.

.
Catone il Censore, ostile all’introduzione a Roma della cultura greca, rimbrotta il figlio Marco che ha osato menzionargli un trattato di prescrizioni mediche del greco Ippocrate (Plut., Cat. 23, 5)

Quale cultura greca, figlio mio, quale trattato
medico di Ippocrate, fammilpiacere!
L’ho scritto io un trattato bello e pronto a toglierti
ogni giorno il medico d’intorno se lo avessi letto!

Che? forse quando la malattia ti ci ha costretto a letto
non t’abbia io curato a te, alla mamma e a tutti i familiari?
e bada non vi ho messo mai a digiuno
e sì che avrei dovuto Marcolino, che mi fai il sapientino,
per questo è che mi arrabbio!

Vedi, bambino mio, Ippocrate al tuo babbo gli fa un baffo.
Anch’io per ogni acciacco ho le mie cure
e sono assai migliori delle sue:
una fettina d’anatra non manca o di piccione
non senza un beverone di verdure è la mia guarigione!

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