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Donatella Costantina Giancaspero, Per un progetto che unisca cinema e poesia, con una poesia esemplificativa

 

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A. Tarkovskij, Stalker, 1979

Costantina Donatella Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, Edizioni d’arte Il Bulino (Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013, terza classificata al Premio Astrolabio (Pisa). Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).

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Tarkovskij Nostalghia (1)Care amiche, cari amici che mi seguite sempre con interesse e affetto, oggi vorrei parlarvi di un progetto a cui ho pensato di recente, un progetto a cui tengo molto, perché si propone di riunire in sé due arti, cinema e poesia, apparentemente diverse tra loro, ma in realtà, come vedremo, assai affini.

Per arrivare a illustrarvi il mio progetto, prendo spunto da alcune riflessioni sull’estetica cinematografica del regista russo Andrej Tarkovskij. Mi soffermerò dunque su alcuni punti sostanziali del suo pensiero.

Il principale stabilisce che la materia prima del cinema non è la narrazione, ovvero non è la letteratura, nella quale tutto viene espresso per mezzo della lingua. In tal senso, il regista disconosce il ruolo della sceneggiatura quale mezzo necessario alla realizzazione dell’opera cinematografica. Scrive Tarkovskij: «La tendenza più spaventosa, più perniciosa per il futuro film consiste nel tentativo di attenersi esattamente nel proprio lavoro a ciò che è stato scritto sulla carta, di trasferire sullo schermo delle costruzioni pensate precedentemente, spesso puramente intellettualistiche. Una banale operazione di questo genere è in grado di effettuarla qualsiasi artigiano dotato di una certa professionalità». Invece, Tarkovskij considera il cinema un’arte «immediata», analogamente alla musica, ma anche alla poesia, come ben sappiamo: insomma, a tutte quelle espressioni artistiche che «non hanno bisogno di un linguaggio mediato».

Per Tarkovskij, l’idea fondamentale del cinema consiste nel «tempo»: «il tempo registrato nelle sue forme e manifestazioni fattuali». In sostanza, l’immagine cinematografica non è altro che «l’osservazione di un fatto che si svolge nel tempo». Lo spettatore ricerca nel cinema un’esperienza del tempo, «di quello perduto, o di quello che finora non ha trovato. L’uomo ci va alla ricerca di un’esperienza vitale del tempo, perché il cinema come nessun’altra forma d’arte, amplia, arricchisce e concentra l’esperienza fattuale dell’uomo […] Nel cinema autentico lo spettatore non è tanto uno spettatore quanto un testimone».

È interessante verificare in concreto come Tarkovskij arrivi a «scolpire il tempo» (vedi la sua famosa opera, dal titolo, appunto, Scolpire il tempo) nell’immagine cinematografica, come riesca a distaccare questa dalla logica pura e semplice della narrazione, per inserirla in una dimensione temporale. Lo spiega assai bene un ampio articolo, Conversazione sul cinema di Andrej Tarkovskij, a firma di Paolo Landi e Paolo Lago, pubblicato su Effettonotte online, rivista di critica cinematografica. Ne riporto qui uno stralcio:

«Nel cinema di Tarkovskij la scansione temporale viene in qualche modo marcata – e per questo si stacca dalla logica sequenza degli eventi della storia tout court – soprattutto quando ci si trova in situazioni di analessi e scarti temporali, cioè quando l’azione viene vissuta come un ricordo, come ad esempio ne Lo specchio. Prendiamo in considerazione le prime sequenze di questo film: la donna sullo steccato, l’arrivo del medico e le vicende iniziali nella dacia. Essendo tutte immagini di un sogno, o comunque di un ricordo, lo scalpello del tempo agisce con maggior forza. Esse emergono dalle lande desolate del ricordo e del passato, perciò si presentano scolpite sull’incedere del tempo, che non è un tempo che si realizza nell’hic et nunc. Allora, anche se in queste immagini sussiste pure una storia e una narrazione, gli stessi movimenti della macchina da presa fanno in modo che quest’ultima sia comunque secondaria, e anche che le stesse parole che si scambiano i personaggi di quest’analessi siano subordinate all’incedere scultoreamente definito del tempo. Emergono, proprio in queste sequenze, due elementi che si legano, nel cinema di Tarkovskij allo scorrere del tempo: il vento e il fuoco. Sono quasi due elementi che il regista utilizza per destrutturare e deistituzionalizzare l’azione, la logica degli eventi della storia narrata. Tramite il vento e per mezzo del fuoco si vuole forse imprimere all’intero film un andamento anti-narrativo ed “anti-spettacolare”, creare insomma, per dirla con Deleuze, il contrario di ‘immagini-movimento’».

Ma, analizzando la filmografia di Tarkovskij si potrebbero trovare molti altri importanti esempi di questo tempo «scolpito» nell’immagine. Per ulteriori approfondimenti, sarà utile la lettura dell’articolo citato.
Detto questo, io penso che la nostra poesia contemporanea potrebbe ispirarsi fortemente al tipo di estetica cinematografica fin qui esaminato. E, del resto, Tarkovskij stesso aveva colto, tra poesia e cinema, una straordinaria affinità. Ora, esattamente in questa ottica, trova la sua ragione d’essere la mia proposta di un progetto che incarni la più stretta relazione tra le due arti.

Tarkovskij Nostalghia (2)

E veniamo alla proposta concreta. Sul piano pratico, il progetto riguarda la realizzazione di un cortometraggio pensato dal regista con riferimento a un testo poetico di autore contemporaneo, da lui scelto oppure a lui proposto dal poeta stesso; un testo, in ogni caso, che contenga in sé alcuni indispensabili caratteri progettuali di originalità e innovazione.

L’intento del progetto è di porre in dialogo due autori, ciascuno nell’ambito della propria materia artistica (cinema, da una parte, poesia, dall’altra), ciascuno con la propria distinta personalità, con il proprio stile, la propria sensibilità, che lo rendono unico. Un dialogo, dunque, privo di qualsiasi proposito illustrativo, o didascalico da parte del regista nei confronti del testo poetico. Come insegna Tarkovskij, il compito del cinema, infatti, non è quello di riprodurre la letteratura, per il semplice fatto che il cinema «non ha linguaggio» e non può fare altro che mostrarsi «senza intermediari».

Ora, più la poesia perderà essa stessa il proprio aspetto «letterario» e riconoscerà, intrinseco alle immagini, il «tempo», quel tempo tarkosvkijano «scolpito» nell’inquadratura cinematografica, più la poesia sarà vicina all’essenza del cinema. E il regista, nel realizzare il progetto che io propongo, ossia quello di un cortometraggio pensato sul testo poetico, potrà sentirsi in totale sintonia col poeta, pur muovendosi in assoluta autonomia espressiva.
Solo un suggerimento tecnico: in coda al cortometraggio e prima dei titoli finali, si farà scorrere il testo e il nome del poeta.

A questo proposito, torna utile citare un precedente nella musica: il compositore francese Claude Debussy usava collocare i titoli dei suoi Préludes alla fine del brano, tra parentesi e preceduti da puntini di sospensione, con un significato quindi semplicemente allusivo rispetto all’evento musicale in sé. Non che l’evento non fosse in relazione col titolo, non che l’associazione titolo-musica risultasse arbitraria. La particolare collocazione del titolo stava a indicare, nell’intento dell’autore, il superamento di quella che poteva definirsi rappresentazione, o “pittura in musica”, e, dunque, il superamento, se vogliamo, di quella «letteratura» disconosciuta da Tarkovskij.

L’opera cinematografica così concepita, avvalendosi del supporto della casa di produzione, potrebbe essere presentata nell’ambito di qualche rassegna cinematografica o festival di richiamo internazionale, sia in Italia che all’estero, come, ad esempio, quello ben noto di Berlino, o quello di Rotterdam, o il Clermont-Ferrand Short Film Festival che, a tutt’oggi, costituisce la più importante manifestazione francese dedicata al cortometraggio.

In conclusione, cari amici, mi auguro che abbiate trovato interessante il mio progetto e spero vivamente che potrà incontrare il favore di molti artisti della regia cinematografica, con il sostegno degli organi competenti, poiché davvero mi sembra di aver dato vita a un’idea importante, in grado di realizzare il più autentico, il più costruttivo connubio tra due forme espressive, cinema e poesia, tra le più nobili dell’Arte intera. Continua a leggere

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Questionario a cura di Giancarlo Stoccoro Otto Domande da Poeti e prosatori alla corte dell’Es, AnimaMundi edizioni, 2017 pp. 320 € 18 – con una Risposta alle Domande di Giorgio Linguaglossa con Due poesie di Mario M. Gabriele da In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017) – Una poesia di Lucio Mayoor Tosi e Steven Grieco Rathgeb

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Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: «poesia fossile»

Giancarlo Stoccoro, nato a Milano nel 1963, è psichiatra e psicoterapeuta. Studioso di Georg Groddeck, ne ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia   Georg Groddeck Una vita, di W. Martynkewicz (IL Saggiatore, Milano, 2005). Da parecchi anni, oltre all’attività clinica,  si occupa di formazione e conduce incontri sulla relazione medico-paziente secondo la metodica dei Gruppi Balint e ha  pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche. Ha frequentato intorno ai vent’anni il circolo letterario comasco Acarya e sue poesie sono presenti nell’antologia Voci e immagini poetiche 3. Per le edizioni Gattomerlino/Superstripes è uscita nel giugno 2014 la silloge di poesie Il negozio degli affetti e in ebook presso Morellini Note di sguardo. Nel 2015 esce Benché non si sappia entrambi che vivere. Nel 2015 il saggio I registi della mente (Falsopiano), curato da Ignazio Senatore, contenente il lavoro Ciak. Si sogna! L’esperienza di Kiev.

 

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Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?

Otto Domande

1| Quest’anno (2016) ricorrono i 150 anni dalla nascita dell’ “analista selvaggio”, la cui celebre frase «non è vero che noi viviamo, in verità noi in gran parte veniamo vissuti» ha trovato eco nelle testimonianze di molti autori sulla nascita delle loro opere. Per citarne solo alcuni, Jean Cocteau affermava: «noi non scriviamo, siamo scritti»; Edoardo Sanguineti (che si riconosceva “groddeckiano selvaggio”): «si è scritti oltre che scrivere e più che scrivere»; Edmond Jabès, forse il più dissacrante di tutti: «ho scritto un solo libro ed era già scritto».

Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?

2| Nel lasciarsi andare all’ascolto delle proprie intime profondità «si spalanca un abisso che può travolgere» (Andrea Zanzotto).

Poesia, questione d’abisso, come diceva Paul Celan? Se è vero che la poesia ha una base necessaria e autobiografica, legata forse a un trauma originario dell’infanzia (secondo Jean Paul Weber, ripreso da E. Sanguineti ne “Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo”) e sicuramente agli eventi significativi della nostra vita, ha per Lei anche una valenza salvifica?

3| «Nei sogni siamo veri poeti» (Ralph Waldo Emerson) ovvero «il poeta lavora» quando dorme (Saint-Pol-Roux). Per lo psichiatra esistenzialista e fenomenologo Ludwig Binswanger il sogno è una forma specifica di esperienza (Sogno ed esistenza), per il regista russo Andrej Tarkovskij la poesia è «una sensazione del Mondo, un tipo speciale di rapporto con la realtà». Quale relazione c’è per Lei tra sogno e poesia?

4| Con Freud i sogni sono diventati la via regia dell’inconscio e vanno contestualizzati attraverso l’interpretazione, per non restare lettere mai aperte come già si leggeva nel Talmud. Recentemente alcuni psicoanalisti ritengono più raccomandabile non solo e non tanto interpretare, cioè rendere conscio ciò che è inconscio, quanto giocare col sogno, sognare sul sogno e col sogno, rispettare l’illusione o per ampi tratti favorirla. Riguardo la poesia Elias Canetti, in Un regno di matite, ha scritto: «Giochiamo con i pensieri, per evitare che diventino una catena» e ha ammonito: «Triste interpretazione! Morte delle poesie, che si spengono per astenia quando vien loro tolto tutto quel che non contengono».

Lei è d’accordo o ritiene che l’Es venuto alla luce nella poesia necessiti ancora di essere decifrato? È fedele all’Es che erompe nella scrittura o lo tradisce traducendolo? O forse è applicabile alla Sua scrittura la parola tedesca “Umdichtung” (che significa una poesia elaborata a partire da un’altra)?

5| Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: «poesia fossile». «Un tempo ogni parola era una poesia», «un simbolo felice» (Emerson). «Gli dei concedono la grazia di un verso, ma poi tocca a noi produrre il secondo» (Paul Valéry).

Oppure: «Se la poesia non viene naturalmente come le foglie vengono ad un albero, è meglio che non venga per niente» (John Keats).

Come nasce la sua poesia e come si sviluppa?

Quali condizioni la favoriscono?

6| «Ogni pensiero inizia con una poesia» dice Alain ed è noto che nella storia dell’umanità la poesia ha preceduto la prosa.

La poesia ricorda l’infanzia dell’uomo e i poeti sono dei grandi bambini, degli «eterni figli» (tema ripreso anche da Sanguineti). Per altri versi, la poesia afferirebbe al codice materno mentre la prosa a quello paterno: la prima, secondo lo psicoanalista Christopher Bollas (ne: La mente orientale) è più legata alla presenza di pensieri-madre, «strutture (che) mantengono il tipo di comunicazione che deriva dal modo di essere della madre col suo bambino» con forma sintattica più semplice e più vicina al linguaggio orientale, la seconda al linguaggio occidentale e paterno, basato su espressioni verbali più articolate e complesse che ci lasciano meno liberi, sacrificando l’invenzione a favore dell’argomentazione.

Due mondi alternativi, la prosa e la poesia, o due parti che possono entrare in rapporto e/o in successione? Qual è la Sua esperienza al riguardo?

7| Il momento della scrittura o “l’attimo della parola” accade, per Peter Handke, in presa diretta con l’esperienza; per dirla con Borges (in: L’invenzione della poesia), «la poesia è sempre in agguato dietro l’angolo». E per lei? Ha anche Lei un taccuino che l’accompagna in ogni luogo?

8| C’è un altro aspetto del rapporto tra scrittura e Es che vorrebbe affrontare?

Hanno risposto alle domande: Franco Loi, Milo De Angelis, Maria Grazia Calandrone, Donatella Bisutti, Franca Mancinelli, Fabio Pusterla, Franco Buffoni, Umberto Piersanti, Laura Liberale, Giovanna Rosadini, Francesca Serragnoli, Miro Silvera, Giovanni Tesio, Alessandro Defilippi.

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Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile

Risposta a tutte le Domande di Giorgio Linguaglossa

La tradizione metafisica, ci dice Derrida, vede nell’essere un assoluto, una sostanza impredicabile perché presente in ogni predicazione.

Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile. L’essere cioè diventa la condizione, il presupposto incluso tuttavia trascendens il linguaggio. Dire che il «linguaggio è dimora dell’essere» (Heidegger) se da un lato esclude la possibilità che l’essere possa essere detto dal linguaggio come una referenza diretta, dall’altra tende a porre l’essere stesso in una prospettiva sfuggevole e indeterminata – l’essere si rivela come qualcosa di «pienamente indeterminato» afferma Heidegger – e, allo stesso tempo, fondativa, proprio in quanto si tratta di una indeterminazione inclusa nel linguaggio stesso. Citando Lacan possiamo affermare che «l’inconscio è strutturato come un linguaggio». Appunto, si ricade sempre di nuovo nel problema del linguaggio. Ma, per rispondere alla domanda di Giancarlo Stoccoro, dirò che il rapporto che lega l’essere al linguaggio è il medesimo che collega l’inconscio (che comprende anche l’Es) al linguaggio.* L’inconscio è l’indeterminato, il «campo incontraddittorio» dove tutti i relitti e i residui dei linguaggi accumulati e sedimentati oscillano e vibrano in uno stato di permanente agitazione molecolare. Non ci può essere contraddizione in quel «campo incontraddittorio» se non come collisione di molecole, di atomi, di spezzoni, di frammenti, di rappresentazioni cieche. La «nuova ontologia estetica» attribuisce grandissima importanza a quel «campo incontraddittorio» che è l’inconscio (una sorta di campo gravitazionale biologico), perché lì si trovano, nel profondo, quelle cose che Tranströmer chiama, con una splendida metafora,  «le posate d’argento»:

le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

(Tomas Tranströmer)

Ad esempio, nel libro di Mario Gabriele, In viaggio con Godot (Roma Progetto Cultura, 2017), è il linguaggio stesso ad essere in «viaggio» (non è più il «soggetto» che è in viaggio), in una traslocazione locomozione senza tregua… È il linguaggio che si sottrae a se stesso in una traslocazione continua… Il linguaggio cessa di essere fondazionale ma appare, si rivela, per il suo essere in costante e continuo rinvio… il linguaggio in quanto potenza del rinvio, meccanismo che crea e decrea il senso per via della stessa logica differenziale che vede nel meccanismo del rinvio la sua ragion d’essere, si serializza in una molteplicità di sintagmi, di frammenti, di reperti, di calchi, di fonemi… E il sogno che cos’è se non una fantasmagoria di sintagmi, di frammenti, di reperti, di calchi, di fonemi… Qui è il linguaggio dell’Es o dell’inconscio che parla.

[Ora i miei morti sono quelli che non ricordo (Mario Gabriele)]

giorgio linguaglossa

19 novembre 2017 alle 10:00

Lucio Mayoor Tosi mi chiama in causa, che devo dire? Dire della mia ammirazione e sorpresa per la poesia di Mario Gabriele? Lui ha fatto propria l’affermazione di Adorno secondo il quale «già l’arte è inutile per gli usi dell’autoconservazione». La poesia di Mario parte tutta da lì. E poi dalla constatazione che la poesia è altamente tossica e nociva. Direi che è il poeta italiano che sta tutto intero dalla parte della rappresentazione della «falsa coscienza» della società mediatica nella quale siamo immersi a bagnomaria ogni giorno. La sua è una poesia immersa totalmente nella «ontologia della falsa coscienza». Continua a leggere

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