
karel-teige-collage-1937-1940 1
«E che siamo rimasti senza ordine e senza rivoluzione, / magnanimi e caduchi, e sembra bello / aver sbagliato in molti, in tutti» (E.V.).
Emilio Villa nasce ad Affori (Milano) nel 1914 e muore il 14 gennaio 2003. Villa scrive anche in italiano, lingua che però non ha mai amato perché a suo parere lingua di schiavitù d’una Ytaglya pomposamente accademica. Ha preferito scrivere nel dialetto milanese, ma soprattutto in un latino di proprio estrosissimo conio, con saporose deviazioni in greco antico, provenzale e inserti semitici, per approdare infine ad un francese sui generis che farà stordire i nativi di quella madrelingua. La contorsione alla quale sottopone l’idioma, ne deforma l’uso corrente, pur non scendendo mai a velleitarie stravaganze, bensì scavando all’interno del linguaggio ove crea sperimentali inedite situazioni.
Con Villa si concretizza l’evento d’una poesia che è abbozzo filologico ed opera d’ermeneuta in un impasto magmatico ed enigmatico (Tagliaferri in Parole silenziose, Opera Poetica I citata).
Tale non è ancora il caso della raccolta Oramai del 1947, scritta in italiano con ricorsi al gergale e al dialettale e in toni crepuscolari cui allude il titolo della raccolta, di perdita irrecuperabile, toni che tenderanno in seguito ad elevarsi in accenti sempre più accesi ove quell’oramai si tradurrà in nostalgia per una perduta innocenza edenica.

In questa visione del mondo la storia è rifiutata: Anche all’osteria crediamo di essere all’osteria, e invece siamo tutti quanti nella storia, buon Pascarella. Invece la storia è uno sbaglio continuo, che non si ferma e non si stanca mai di sbagliare, di rifare, di rivedere, di ricredersi, di affermare oggi per rimangiarsi tutto domani (recensione a Stalin, zar di tutte le Russie di E. Lyons, su L’Italia che scrive, dicembre 1941).
Al rifiuto della storia si ricollega la critica del rapporto tra cose e parole: chi che aspetta di sentire le parole? / o voi / aspettare di sentir le cose tra le cose? Ogni si aspetta / di udire le cose e le parole? Ma chi cosa / e parole che dice, dove sono (Si, ma lentamente, 1954), e Villa opterà definitivamente di parlare parole e non più cose.
Ma di cose si parlerà ancora in La tenzone, finta forma provenzale di scambio alternato di strofe, composta in un impasto di dialetti lombardo e romanesco e parole inventate, un’invettiva contro l’Ytaglya del dopoguerra.
Negli anni cinquanta Villa si impegna a fondere le esperienze di glottologo, filologo, traduttore e poeta per crearsi una propria lingua che Tagliaferri descrive quale espressione personalissima della vocazione neoalessandrina della nostra epoca (in Parole silenziose, cit.), tesa alla coesistenza di esperienze provenienti da culture disparate e soprattutto nella direzione d’un passato remotissimo, verso il mistero delle origini del linguaggio, ben oltre il sincretismo tra ellenismo ed ebraismo?, tanto da chiedersi se un cromlech non fosse più intenso e spasmodico del Partenone o del colonnato berniniano (da Ciò che è primitivo in Arti visive, maggio 1953).

Emilio Villa
In quest’alveo confluisce l’esperienza biennale (1950-52) in Brasile, ove la cultura letteraria, specie da parte del gruppo di poeti concreti Noigandres, prendeva a modello Pound, Joyce e Cummings.
Tra le tecniche che acquisisce c’è il collage di frammenti di situazioni liriche, mezzo che risale al découpage poétique di Blaise Cendrars e che avrà enorme fortuna presso Apollinaire, Pound, Eliot, Gide, per non parlare degli esperimenti dada e del recente cut up anglo-americano di Brion Gysin e William Burroughs.
Accanto al collage, compare una singolare variante della glossolalia, che è quel parlare strano già menzionato da San Paolo in una lettera ai Corinzi, una forma presente in certe situazioni di esaltazione mistica presso molte comunità religiose. La glossolalia villana scaturisce dal fermento d’una materia linguistica densa di bisticci fonici, di congetture etimologiche, di accostamenti inaspettati ove il suono genera il senso rischiando ognora il nonsenso. E Villa è sempre disponibile a svincolare l’eufonia dal significato: certi passaggi sono del tutto oscuri pur se qualcosa si percepisce di fosforescente come tra fantomatiche presenze abissali. Ecco la voce d’una Sibilla: Sibilla spuria sibillina discissa per os / sibilla umbra sedumbrans ad umbris umbrarumque mysticantia sibilla sexus (in Sibilla Burri) oppure Sibilla labialis, alis labi queas, limine clam / sigillata, sillaba labyrinthia, labilis labi lilium (in Sibilla labia, 1980-84).
Si crea così una zona ove regna il massimo grado di ambiguità semantica in un divenire senza fine. Va da sé che la glossolalia villana è l’apoteosi del multilinguismo filologico, nelle lingue semitiche i giochi etimologici sono frequenti, nonché del neologismo elevato a metodo del comporre: il poeta agisce sulla fisicità della parola, nel sottosuolo delle sedimentazioni linguistiche.
Per fare un esempio, preso dalla raccolta Verboracula (su rivista Tau/ma, 1981) il nome Artemis vien fatto nascere da sequenze foniche sumere e accadiche. Ecco il testo:
leges sumerice arade.me.dim.a
ara, seu akkadice namru h.e.splendescens
splendit splendita splenduit
aut itu, h.e.exiens (luna) in coelo
ovvero
leggi in sumero arade me dim sa
ara? ossia in accadico namru cioè splendescens
splendit spendida splenduit
oppure itu cioè exiens (luna) in coelo
ove ara sumero e namru accadico significano splendere e me sumero significa il potere divino.
Tali esiti corrispondono al diverso atteggiamento che nel ventesimo secolo lo scrittore ha assunto nei confronti del linguaggio, pensato non tanto quale veicolo di significati, quanto puro materiale da analizzare in un continuo processo di associazioni e dissociazioni che parte dalla Parole in Libertà futuriste e dal linguaggio transmentale zaum? di Velemir Chlebnikov, Aleksej Krucenych e Iliazd, per sfociare nel totale disimpegno dal senso che è proprio del dada. In alcuni autori il pensiero pare svilupparsi dal suono, si tende a pensare con l’orecchio piuttosto che con la testa: suono simile vuol dire significato simile già scriveva Igor G. Terent’ev nel 1919 (in 17 attrezzi senza valore, Tiflis), e in realtà in ogni poeta c’è un aspetto transrazionale.

Emilio Villa
In Linguistica (da E ma dopo, 1950) Villa scriveva: Non c’è più origini. Né si può sapere se. / se furono le origini e nemmeno, ciò ch’è conseguente con quel senso di perdita assoluta già adombrato in Oramai. Ma la ricerca d’una lingua edenica non l’abbandonerà mai e l’apparenta a Chlebnikov, anch’egli poeta filologo che scava nelle parole e le ricostituisce con inediti impasti di radici, suffissi e prefissi: l’esperimento linguistico si fa atto estetico. Pure affine alla scissione congiunzione verbale di Villa è la fonoscrittura di Chlebnikov, cioè ricerca di intime fusioni di sonorità simpatetiche e scisse dai significati. Così in Villa il processo di accumulazione tramite l’uso di suffissi e prefissi in un processo di nominazione che è tutto un andirivieni di richiami etimologici.
Centrale, nell’universo poetico di Villa, è il ruolo della Sibilla, vox clamantis in tenebris verborum, che impersona la fondamentale ambiguità del linguaggio tramite la figura dell’enigma, che già per Aristotele è l’antenato della metafora. L’enigma è una messa in crisi della facoltà comunicativa: se la parola è dono divino, ecco che l’enigma è posto dal dio all’uomo in un cortocircuito semantico.
Per comprendere meglio l’idea villana del rapporto tra il divino e l’umano, giova rifarsi agli estratti dell’incompiuto saggio L’arte dell’uomo primordiale, stesi verso il 1965, ove il sacrificio, il sacrum facere, l’uccisione della vittima, è considerato atto nutritivo divinizzante ma al contempo immanente, senza trascendenza: il Nutriente-Nutritivo-Assoluto è pura sostanza e insieme simbolo. L’atto di violenza è positivamente naturale e il segno-incisione-ferita è simbolo di trasfusione di energie vitali. Con la nascita della pittura, dell’arte cosiddetta preistorica, il segno, come espressione del simbolo, tende a sostituire il rito sacrificale. Nell’arte contemporanea Villa vede l’atto del taglio in Fontana, nella cucitura dei sacchi in Burri, nel dripping di Pollock, un ritorno ai segni-simboli primordiali, dai quali l’uomo storico e tecnologico s’è fatalmente allontanato (A. Tagliaferri, in Su E. Villa, il Verri n. 7-8, novembre 1998).

A sua volta l’impossibilità di attingere all’ineffabilità d’un linguaggio primigenio comporta l’accettazione che la poesia non è purezza, ma un compromesso che rispecchia la condizione umana di perdita del divino, dell’infanzia, forse dell’animalità infantile e quindi di caduta, forse d’un peccato originale, d’una colpa oggettiva e di cacciata dal paradiso terrestre, di forzata discesa dagli spazi aerei della selva ancestrale. Se è compromesso, la poesia dovrà accettare la degradazione della lingua, l’informale materico, e in questo senso la poesia di Villa corrisponde agli esisti dell’espressionismo astratto d’un Pollock, d’un Gorky o all’informale tragico d’un Burri: un lessico informale dunque della langue nulle, degré zéro (in L’homme qui descend quelque. Roman métamytique, Magma, Roma, 1974): uno spazio nel quale la frase si dissolve e non sarà più recuperabile che a tratti, rischiando ad ogni passo di precipitare nel vuoto del nonsenso, nel trou del nulla o del caos primigenio? e Trou s’intitolano quattro poemi che si richiamano ai buchi di Fontana, coevi alla serie delle Sibyllae.
Nell’orizzonte poetico di Villa permane un valore astorico, assoluto, quel deus absconditus che è al contempo l’effimero e l’eterno, l’inizio e la fine, l’uroburos.
Se il dada Schwitters crea i Merz con materiali di scarto, dal canto suo Villa schizza con gesto tragicamente derisorio, sul blanc immacolato della pagina, potenza originaria inanis et vacua? ma già Mallarmé aveva scritto che la destruction fut ma Béatrice? un melting pot lessicale che mescola e rimescola serie di bisticci paradossali, una continua deformazione ? contaminazione dei termini, l?uso indifferente di diverse lingue e crea un idioma onnicomprensivo, inarticolato, totale, polisegnico, farcito d’accidenti ortografici e i parole-baule arboraranea (albero-ragno), obnubiubilanti deo (annuvolato-giubilante dio), nuxnox (noce-notte)? e parole scisse? m’ori (un) tur (nascono-muoiono), nomina (nomi-presagi), babelica e ierofantica ricerca dei fondamenti delle cose-parole, spersi nella dedalea Ragnatela di sussurranti millenni?.
(Commento di Pino Corrias, la Repubblica, 07/01/2005)

Emilio Villa dormiva per terra avvolto in fogli di giornale. Traduceva dall’assiro. Si pettinava, a metà cena, con un pettinino azzurro. Sputava nel minestrone prima di mangiarlo. Era amato dalle contesse. Cucinava trippe. Campava vendendosi un Consagra o un brano ritradotto del Qohelet. Fondava numeri zero. E dal molto che fece, scivolò dentro al “caldo rumore dei tempi vuoti”.
Vertiginosa fu la sua avventura, per il suo pieno di parole, segni, sguardo, sistematicamente svuotati fino al silenzio della malattia, e al nulla degli addii, e alla (scampata) distruzione delle sue carte. Lui che pure camminò dentro al secondo Novecento italiano, poeta di ermetica purezza, saggista di strabiliante erudizione, cacciatore di artisti, profeta di tutte le avanguardie tra gli atelier di Brera, a Milano, e le soffitte di Piazza del Popolo, a Roma, amico di Duchamp, Breton, Matta, esegeta di Alberto Burri, Lucio Fontana, Piero Manzoni, traduttore della Bibbia e dell’Odissea, viaggiatore senza spiccioli, notturno, eccessivo, innamorato di donne innamorate, che visse tra migliaia di foglietti, cancellandosi.
La sua fama ha avuto parecchie ridondanze, ma sempre in memorie aleatorie, in carte di artisti introvabili, in testimonianze d’occasione, in ricordi quasi del tutto cancellati. Mai un racconto sistematico, salvo qualche pagina che gli dedicò Giampiero Mughini. Mai la trama fitta del suo passaggio.
Se ne incarica adesso Aldo Tagliaferri, che gli è stato amico e allievo per una quarantina d’anni, con Il clandestino (“Vita e opere di Emilio Villa”, DeriveApprodi, pagg. 207, euro 14), biografia accurata e persino troppo lineare, cominciando dallo specchio del titolo, lui davvero clandestino per indole, stile, carattere, raccontandoci il filo e i nodi della sua vita, ma poi scordandosi di restituirci l’avventurosa matassa che fu.
Avventura che comincia nel 1914, nebbia di Affori e sterpaglia milanese, padre in eclisse definitiva, madre portinaia, infanzia solitaria e poetica fin dalla profezia capovolta del maestro elementare: «Tu non sarai mai buono a far stare in piedi una frase».
Villa frequenta per un paio di anni il liceo Parini, poi il seminario. Parla correntemente il milanese e il latino. Parla il francese, il tedesco e l’inglese. Studia il greco antico, l’ebraico, il fenicio, il caldeo, segue i corsi di assirologia al Pontificio Istituto Biblico. Ammira D’Annunzio con “tutto il suo carico di gloria e di tristezza”. Legge Nietzsche, ma scivola dentro alla tonante depressione di Cioran con la sua “disgrazia di essere nato”. Studia Leonardo, annota la più bella tra le sue lezioni, quella che dice: «Ogni cosa in natura si fa per la sua linea più breve». Ma naturalmente lui dispera di imboccarla e viaggia al contrario.
Gli rotola addosso la guerra. Diserta, finisce in un campo di prigionia in Olanda, muore di fame, torna in Italia arruolato a forza, scappa, si fa (per l’appunto) clandestino a Milano dove «acquisisce uno stile di vita che gli diventa presto congeniale: compare, se ne va, d’improvviso ricompare dopo assenze anche lunghe e sempre fa perdere le proprie tracce».

Anita Ekberg in Chiamami Buana (Call Me Bwana) di Douglas Gordon, 1962.
A Milano incontra Lucio Fontana. Lo colloca ai vertici della sua idea di arte, con Rothko e Pollock, il vuoto e il pieno della vita che lo attraggono e lo consumano. Viaggia in Brasile, vive svendendo tele e disegni di Perilli, Turcato, Dorazio. Torna, scopre Mimmo Rotella, scrive di Nuvolo, Cagli, Capogrossi. Disintegra il realismo socialista. Quando si trasferisce a Roma vede i sacchi di Burri e li illumina con il suo inchiostro: «Intendevamo i sacchi e le muffe quali parvenze di una stratificazione del mondo affiorato, o come si direbbe “conscio” (…) Erano i materiali più prossimi e analoghi alla suscettibilità e incertezza del deserto mondano, della assurdità totale e incoerenza della storia: i materiali sorpresi nella crisi del compianto».
Abita in case precarie, soffitte, atelier prestati, e qualche volta dorme sulle panchine. Si occupa di tutto, dal teatro ebraico, alla pop art, dal greco antico, alla poesia dei Novissimi. Quando Roberto Bazlen, consulente di Einaudi, lo incontra in via Margutta a Roma, anno 1954, resta affascinato dalla sua erudizione eccentrica e inattuale. Legge i brani che Villa sta traducendo dalla Bibbia. Gli offre il primo (e unico) contratto per continuare a tradurla e consentirgli di campare lungo i perigliosi Anni Cinquanta.
È, secondo testimonianze, “incredibilmente colto, disordinato e sporco”. È piccolo, tozzo, ma con voce che incanta. Ha le tasche piene di poesie, brani tradotti, appunti, illuminazioni. I fogli finiscono dentro a scatole e valigie. Le valigie viaggiano di casa in casa.
Dopo la Bibbia traduce l’Odissea per l’editore Guanda. Scopre i Finnegans Wake di Joyce e dimentica Carlo Emilio Gadda. Ai bordi delle sue disordinate traiettorie nasce tutta la nuova arte italiana che archivia metafisica e realismo, reinventa il pop, asseconda l’astratto, approfondisce il concettuale. Villa è profeta e comparsa di quasi ogni inaugurazione che conti. Scrive presentazioni, cataloghi, ammira Mario Schifano, Lo Savio, Fabio Mauri. Tra i giovani predilige Piero Manzoni, “giovane discendente di Duchamp”, con i suoi batuffoli di cotone, la sua merda d’artista inscatolata, i suoi bianchi poetici. Manzoni un giorno di aprile 1961, lo firma come “opera d’arte vivente”. Villa lo ringrazia in milanese, “brau te me piaset”.

anna magnani
Nanni Balestrini che all’epoca dirige la Feltrinelli e pure lo ammira come poeta («grande abbastanza da affiancarsi a Montale») gli pubblica Attributi dell’arte odierna 1947/1967 che rimarrà la sua unica raccolta non clandestina di scritti, anche se oggi introvabile.
Cancellandosi e disperdendosi, Villa accresce lo stupore degli altri e la propria solitudine. «Uomo esule – scrive Tagliaferri – di un mondo cattivo del quale non bisogna essere mai partecipi». Uomo senza alcun rispetto né interesse per le cose che abbandona appena lo ingombrano, come un armadio con le ante dipinte da Nuvolo, come una Prinz mai usata, come una scultura di Lo Savio, come una intera cassa di manoscritti. «Persino la Pietà di Michelangelo presa a martellate lo lasciò del tutto indifferente».
La sua vitalità (cibo, scrittura, incanto per il teatro di Carmelo Bene) viaggia verso un orizzonte perfettamente nero. Non c’è sapere trasmissibile. Non ci sono parole per spiegare. Non c’è soluzione all’enigma. Non c’è uscita dal labirinto. Scrive: «Guardavo, scrutavo l’orecchio di mia madre, quello di mio fratello? e sempre la stessa cosa: vedevo il labirinto, il canale che portava a un punto buio, e in fondo deve esserci l’abisso, un abisso grande come il pozzo in campagna, come certi strapiombi del sogno (…) Quella era forse la primissima idea del labirinto di cui l’uomo è al tempo medesimo architetto e prigioniero, ideatore e vittima». Poi venne l’ictus che gli tolse per sempre la parola, anno 1986, e la paralisi…

Totò
da Oramai (1936-1945; edizione 1947)
da Emilio Villa “L’opera poetica” L’Orma, Roma, 2014 pp. 770 € 45
Nottata di guerra
La notte che c’era il nubifragio, molte mamme
addormentate nella piena con la lingua secca,
io cominciavo a immaginarmi la ragazza
che adagio se la sfoglia, e dice: «ce l’ho lunga,
rara, rosa, bella» e trema come una foglia:
e l’erbe parvero sanguinare sotto la forbice dei lampi,
e noi non per niente dovevamo pensare alla salsa
inglese, alla trota moribonda con gli occhi nel sugo
delle vetrine tra le foglie di senna, con il prezzo
al minuto sul banco marmoreo, e alla stadera: allora,
primizia colore di pelle di pollastro, filamentosa,
una figliola in bianco poggiava le sue tette stagne
sul cristallo delle bacheche, e con il mignolo
piluccava l’uvetta nel mollo del panettone:
era la notte che c’era il nubifragio, e molte
ruote di lontano perdevano i tubolari nella palta,
e una zona di ragne baluginanti per l’aria alta,
orme sovrane e incerti passi sull’immobile
insonnia che divide i morti di qua dai vivi di qua.
.
Il bersagliere svegliato morto
C’è chi sogna in sogno i guadi degli specchi, e chi nel sogno,
e c’ chi mangia in sogno radi
minestroni d’avena o di tritello con i ceci secchi, e mela
gelata:
però non sapevi dire le cose che so dire io, c’è differenza
seria, e facile
forse non ti sembra il dire le cose di valore
sull’argomento di un soldato morto, anche
davanti a un gregge di colonnelli repubblicani
in adunata: eppure parli;
parli, e c’è chi misura il terreno e chi il creato,
chi governa la patria desolata dei fenomeni,
senza o durante il buio: rode
allora umiltà la tua umiltà, e requie
la tua requie:
è larga come il sacco a bottino la tua voglia
paesana di morire in tanti, a mille e mille
e non più mille, in grande abbondanza:
e si sa mai, si sa: la branda
carica, la mattina del 15/6
di giugno, si sa mai: o è scoppiata
una bomba a mano in sogno, e il cuore
non ha tenuto: oppure hai sognato una fame
così viva, così generosa, così
per tutti, da morire tu da solo, uno
per tutti noi che dormivamo vicini alla tua branda,
rattrappiti, come zampe di gallina
nel gelo:
sveglia, Remo, salta su,
c’è la stufa da inviare, la vita
della vita incomincia dopo la sveglia;
e ricomincia dopo il contrappello, quella tromba; e
“durare” te lo dissi in fondo alla palta in postazione
“e durare è un’usura, un sopruso”, le parole
di un intellettuale sono profonde…
ma chi in questi giorni, a queste aree crepa
è un fesso, è un mascalzone, un traditore:
e tu lì smorto come una patta lavata,
e guardavi fiorire di coralli e miche e colla
i fili delle vergini sulle travi del plafone;
la saliva era il sapore, nel cielo del palato,
dell’ultima mattina di tua vita, tremolava
come l’acqua specchiandosi sul cielo degli archi
nei pomeriggi che c’è il sole: nessuna femmina
potrà mai scrivere di essere stata tua moglie,
adesso che i tuoi testicoli uno direbbe che sono
il collo del tacchino assassinato fuori del campo:
e penserebbe cosa strana di trovare
il bottoncino madreperla delle mutande
cucito con il refe nero: e tu non puoi continuare
a vedere i tuoi occhi fiorire nel gelo, i tuoi occhi
non vedono più il tuo sguardo scintillare come la mica
negli oblò dei tendoni le sere verso il tardi:
e l’aria del tuo cranio ora rimonta la rugiada
teutonica, il cranio è un uovo spaccato nottetempo
contro le cripte della sigfrido:
e così solo tu mi sembri la medesima
tua dècade, il tuo
stesso nemico senza fine, e poca
lealtà; mentre le facciate lunghe di Milano
sorridono malinconiche chilometri e chilometri
di nebbia al di là delle alpi: il merlo
è volato sul cotogno: e c’è chi sogna
il sogno; e la trasferta?
Senti dalla finestra una voce rovinata:
E il terzo battaglione
è il figlio della vacca?
la truppa è stanca morta
un mazzo che ti spacca!

Marcel Duchamp
Ormai
Un giorno la giovinezza, con circospezione
abbandona arbitrariamente i capolinea. Ecco.
E io ricordo le finestre che s’accendono al pianterreno
sul vialone, e somigliano così profondamente ai radi
ragionamenti che faremo sul punto di morire,
in articulo, con l’ombra degli amici, a fior di mente.
Invero
non so più se viva tra le secche
ancora il suo tepido serpire, adesso,
in province gelate, come una romanza
fine e perenne sul filo della schiena, ma davvero
so che nelle lacrime lombarde, ove credemmo
di mieterci a vicenda, vagabondi baleni
dissipavano i veli nuziale alle riviere.
Ed era un nome d’alta Italia, a ripensare bene,
era un nome questa raffica, che non osi
più inseguire? E la felicità dell’occidente
si salva in occidente?
Disabitate ormai le alzaie, e disperando
ormai del nostro sentimento (e la nebbia
ormai mietuta che ci stringe a mezza vita),
disabitate le alzaie e disperando ormai,
se la patria fosse una cittadinanza unica, reale,
andrebbe ricordata in un risucchio, a capofitto
per le celesti aiuole, la parte più dimessa
del nostro pensare lontanamente: andrebbe
ricordato uno spesso passaggio di brumisti
e di taxi, quel che tossisce sul margine caduco
del Naviglio, o libero tra le pioppe luccicanti
che i diti dl vento tamburellano lassù, il brivido
dell’ultimo brum, in una corsa matta, che ci porta
via tutti i fanali e il nostro cuore salutando.