Da Vico ad Heidegger si compie il tragitto che traduce e trasborda le categorie antropologiche del pensiero poetico del filosofo napoletano nelle categorie dell’ontologia del novecento, con Heidegger il pensiero mitico di Vico viene assorbito e tradotto nei termini di una moderna filosofia dell’esistenza intesa come indagine ontologica dell’EsserCi.
Con la parola Heimatlosigkeit (senza patria), Heidegger accenna mnesicamente all’assenza-perdita della «patria» quale «casa», «dimora» per l’uomo dell’Occidente.
«Wir irren heute durch ein Haus der Welt» – «Noi erriamo oggi nella casa del mondo»1, scrive Heidegger, perché ci manca il linguaggio. Senza casa e senza linguaggio, l’uomo vaga alla ricerca di una dimora da abitare e una parola da pronunciare; l’uomo erra nel mondo come uno straniero perché privo di una «patria» rimane privo anche di un «linguaggio», è il tempo della povertà che si annuncia, quella povertà inneggiata da Hölderlin, Quell’antico apoftegma: «il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo», non è più pronunciabile nel mondo moderno, l’uomo del capitalismo cognitivo è costretto ad abitare una casa linguistica non più accessibile e così viene spinto a costruirsi una dimora provvisoria, precaria, instabile, che fluttua all’imperversare degli eventi avversi senza sapere a quale corrimano aggrapparsi e quale maniglia afferrare.
L’ontologia negativa di Heidegger era incentrata sull’assioma: «l’Essere è ciò che non si dice». Da qui il passo successivo è il silenzio come impossibilità di dire ed esperire il silenzio. La grande poesia primo novecentesca di Eliot, La terra desolata (1922) e gli Ossi di seppia di Montale (1925) ne sono la eloquente esemplificazione; il non detto diventa più importante del detto, il non si dice più importante del si dice. Tutta l’impalcatura della colonna sonora della poesia primo novecentesca viene calibrata sul parametro del silenzio, di ciò che non si dice, di ciò che non può essere detto. Tutta l’impalcatura indicativo-ostensiva del linguaggio poetico primo novecentesco più maturo tende a periclitare nello spazio del silenzio quale «altro» indicibile per impossibilità del dicibile. L’intenzionalità significante tesa all’estremo tenderà a sconfinare nel silenzio dell’impossibilità del dire. Montale sarà il maestro indiscusso di questa impossibilità del dire:
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.1.
(Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925)
Il pensiero filosofico e la pratica poetica di questi ultimi decenni è orientata invece verso una ontologia positiva, afferma che l’Essere è ciò che si dice, ciò che non è detto sconfina non più nel silenzio del dire ma nel nulla dell’essere. Ci troviamo davanti ad una rivoluzione copernicana nella sfera del pensiero filosofico e del linguaggio poetico.
Le poesie della nuova ontologia estetica, sono una calzante esemplificazione di questa rivoluzione copernicana. Il dire che si esaurisce nel detto, il detto che si esaurisce nell’esser stato detto, in un passato che non è più. Tutta l’impalcatura fraseologica e la denotazione proposizionale di ogni singolo verso della nuova fenomenologia del poetico indicano una compiuta ostensività della significazione, chiudono la significazione nel detto e non la riaprono che nella proposizione successiva, che si chiude anch’essa nel detto. Così, la poesia diventa composizione di singole tessere, di frammenti, enunciati assiologicamente non-orientati che periclitano verso il nulla della significazione, enunciati che non possono sporgersi oltre nel silenzio dell’essere per la priorità del nulla che percepiscono, per la estrema vicinanza del nulla di cui hanno percetto.
Aggiungo una postilla.
La «nuova poesia» si muove all’interno di un orizzonte del positivo significare, va alla ricerca del significato come di un positivo assoluto, e così facendo, ogni enunciato viene inghiottito nel significato positivo, nel positivo significare: un darsi che è un togliersi, un positivo che si rivela essere un negativo. Le fraseologie restano come appese all’appendiabiti di una sospensione trascendentale, intersoggettiva, sopra l’abisso del nulla dal quale provengono e nel quale torneranno. Paradosso nel paradosso: il positivo significare che periclita nel negativo significare in quanto il discorso poetico si situa proprio sul crinale della differenza tra il così posto e il togliersi del così posto in non-posto. Esemplari in proposito sono queste composizioni:
L’orologio sonnecchia e regredisce a tempi di forchetta
Tutta questa responsabilità in mano agli interrogativi.
I testi risultano incomprensibili
La legge dei puzzle violata come donna nel bottino di guerra.
Persino i punti esclamativi inorridiscono
risalgono le mura a pugnalate e colpiscono oltre i merli.
Bisognerà porre rimedio alla sintassi.
Perché collegarla al logos?
Forse funziona con un pistone in meno
e tagliando i dentifrici.
Dunque niente tubi e se necessario farli saltare
Prima che arrivino ai denti.
La locusta, una delle tre posate in tavola, pronuncia le preghiere a rovescio
Il suo Dio opera a meraviglia senza maschera e divieti.
Promette di preparare l’espresso dalla posa del caffè.
Il bicchiere si fa beffe di chi apre le labbra?
Nel sogno l’autore si cancella volontariamente
– Voglio che un’ape entri nell’incubo 2022 – dice
Almeno una, ma il produttore è schiavo di una voglia incontrollabile
E il sole del risveglio non fa che prendersela con l’ astro del momento
Il parassita che lo rende zombi.
(inedito di Francesco Paolo Intini, 2022) Continua a leggere