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Dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva dei recenti orientamenti fiolosofici, Una poesia di Montale e Poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talìa, Giuseppe Gallo, Ewa Tagher, a cura di Giorgio Linguaglossa, Aggiungo una postilla sulla Nuova poesia

La gioconda in bikini

Da Vico ad Heidegger si compie il tragitto che traduce e trasborda le categorie antropologiche del pensiero poetico del filosofo napoletano nelle categorie dell’ontologia del novecento, con Heidegger il pensiero mitico di Vico viene assorbito e tradotto nei termini di una moderna filosofia dell’esistenza intesa come indagine ontologica dell’EsserCi.

Con la parola Heimatlosigkeit (senza patria), Heidegger accenna mnesicamente all’assenza-perdita della «patria» quale «casa», «dimora» per l’uomo dell’Occidente.
«Wir irren heute durch ein Haus der Welt» – «Noi erriamo oggi nella casa del mondo»1, scrive Heidegger, perché ci manca il linguaggio. Senza casa e senza linguaggio, l’uomo vaga alla ricerca di una dimora da abitare e una parola da pronunciare; l’uomo erra nel mondo come uno straniero perché privo di una «patria» rimane privo anche di un «linguaggio», è il tempo della povertà che si annuncia, quella povertà inneggiata da Hölderlin, Quell’antico apoftegma: «il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo», non è più pronunciabile nel mondo moderno, l’uomo del capitalismo cognitivo è costretto ad abitare una casa linguistica non più accessibile e così viene spinto a costruirsi una dimora provvisoria, precaria, instabile, che fluttua all’imperversare degli eventi avversi senza sapere a quale corrimano aggrapparsi e quale maniglia afferrare.

L’ontologia negativa di Heidegger era incentrata sull’assioma: «l’Essere è ciò che non si dice». Da qui il passo successivo è il silenzio come impossibilità di dire ed esperire il silenzio. La grande poesia primo novecentesca di Eliot, La terra desolata (1922) e gli Ossi di seppia di Montale (1925) ne sono la eloquente esemplificazione; il non detto diventa più importante del detto, il non si dice più importante del si dice. Tutta l’impalcatura della colonna sonora della poesia primo novecentesca viene calibrata sul parametro del silenzio, di ciò che non si dice, di ciò che non può essere detto. Tutta l’impalcatura indicativo-ostensiva del linguaggio poetico primo novecentesco più maturo tende a periclitare nello spazio del silenzio quale «altro» indicibile per impossibilità del dicibile. L’intenzionalità significante tesa all’estremo tenderà a sconfinare nel silenzio dell’impossibilità del dire. Montale sarà il maestro indiscusso di questa impossibilità del dire:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.1.
(Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925)

Il pensiero filosofico e la pratica poetica di questi ultimi decenni è orientata invece verso una ontologia positiva, afferma che l’Essere è ciò che si dice, ciò che non è detto sconfina non più nel silenzio del dire ma nel nulla dell’essere. Ci troviamo davanti ad una rivoluzione copernicana nella sfera del pensiero filosofico e del linguaggio poetico.
Le poesie della nuova ontologia estetica, sono una calzante esemplificazione di questa rivoluzione copernicana. Il dire che si esaurisce nel detto, il detto che si esaurisce nell’esser stato detto, in un passato che non è più. Tutta l’impalcatura fraseologica e la denotazione proposizionale di ogni singolo verso della nuova fenomenologia del poetico indicano una compiuta ostensività della significazione, chiudono la significazione nel detto e non la riaprono che nella proposizione successiva, che si chiude anch’essa nel detto. Così, la poesia diventa composizione di singole tessere, di frammenti, enunciati assiologicamente non-orientati che periclitano verso il nulla della significazione, enunciati che non possono sporgersi oltre nel silenzio dell’essere per la priorità del nulla che percepiscono, per la estrema vicinanza del nulla di cui hanno percetto.

Aggiungo una postilla.

La «nuova poesia» si muove all’interno di un orizzonte del positivo significare, va alla ricerca del significato come di un positivo assoluto, e così facendo, ogni enunciato viene inghiottito nel significato positivo, nel positivo significare: un darsi che è un togliersi, un positivo che si rivela essere un negativo. Le fraseologie restano come appese all’appendiabiti di una sospensione trascendentale, intersoggettiva, sopra l’abisso del nulla dal quale provengono e nel quale torneranno. Paradosso nel paradosso: il positivo significare che periclita nel negativo significare in quanto il discorso poetico si situa proprio sul crinale della differenza tra il così posto e il togliersi del così posto in non-posto. Esemplari in proposito sono queste composizioni:

L’orologio sonnecchia e regredisce a tempi di forchetta
Tutta questa responsabilità in mano agli interrogativi.
I testi risultano incomprensibili
La legge dei puzzle violata come donna nel bottino di guerra.

Persino i punti esclamativi inorridiscono
risalgono le mura a pugnalate e colpiscono oltre i merli.

Bisognerà porre rimedio alla sintassi.
Perché collegarla al logos?

Forse funziona con un pistone in meno
e tagliando i dentifrici.

Dunque niente tubi e se necessario farli saltare
Prima che arrivino ai denti.

La locusta, una delle tre posate in tavola, pronuncia le preghiere a rovescio
Il suo Dio opera a meraviglia senza maschera e divieti.
Promette di preparare l’espresso dalla posa del caffè.

Il bicchiere si fa beffe di chi apre le labbra?

Nel sogno l’autore si cancella volontariamente
– Voglio che un’ape entri nell’incubo 2022 – dice

Almeno una, ma il produttore è schiavo di una voglia incontrollabile
E il sole del risveglio non fa che prendersela con l’ astro del momento
Il parassita che lo rende zombi.

(inedito di Francesco Paolo Intini, 2022) Continua a leggere

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La poetry kitchen è un genere di poiesis che può sorgere e proliferare soltanto in concomitanza con una emergenza, Inedito di Mario M. Gabriele, Il Barista e la signorina Mary, Poesia dialogica, Archeologia del rumore, Dialogo Lucio Mayoor Tosi e Giorgio Linguaglossa

Foto manichino con vestiti su stampelle

cara Ewa Tagher,

«Benvenuti in tempi interessanti», scrive Slavoj Žižek.

Benvenuti in tempi di nuovo realismo kitchen. Viviamo in un mondo totale, totalmente aperto, totalmente bucato, come uno scolapasta, che sfugge alla legge del terzo escluso e al principio di non contraddizione, così come al principio di ragion sufficiente, un mondo ragionevolmente deficiente. In questo mondo soltanto può crescere e prosperare la poetry kitchen.

La nostra poesia, la poetry kitchen, è un genere di poiesis che può sorgere e proliferare soltanto in concomitanza con una emergenza, infatti essa emerge in contemporanea con la Sars Cov2 o Covid19, quando il mondo sembra saltato come da un fungo atomico, il nuovo reale emerge dall’oscurità del precedente reale e pone nuovi problemi filosofici, politici, etici e poietici. È il reale che preme, emerge, viene alla ribalta e decide del tramonto della vecchia metafisica e della vecchia patria linguistica delle parole.

È il reale che decide della decadenza di interi generi letterari tradizionali, compreso il genere della antologia. È il reale che ha derubricato la tradizionale critica letteraria in pourparler, è il reale che ci spinge alla ricerca di nuovi strumenti e metodi di fronte allo strapotere dell’industria dell’intrattenimento culturale. Decostruzionismo, critica reader oriented, teoria della ricezione, neoermeneutica, new historicism, cultural studies, hanno indirettamente posto in evidenza un problema divenuto palese: quello della perdita di funzione della tradizionale critica letteraria, di avere cioè l’esclusiva nel giudicare e promuovere le nuove opere, giudicate e promosse, piuttosto, dal mercato e dalle Istituzioni deputate.

(Giorgio Linguaglossa)

gif tacchi a spillo

Inedito di Mario M. Gabriele

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017) è in corso di stampa Registro di bordo. Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). È presente nella Antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019

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Il Barista e la signorina Mary

Barista: Oggi è venuto a trovarci Berry Stone.

Mary: Sembrava un acchiappafantasmi

dopo il film Gosth.

Barista: Non è che lui abbia visto

la luce del faro sparire e luccicare

ai bordi di Terranova

fino a trovarsi un lavoro in città

con pochi dollari al giorno,

perdendo tempo

con la metafisica dell’Essere?

Mary: Non ti rispondo. E’ un problema

così ostico da restare muti.

Barista: Provò a resettare la caldaia.

Fuori faceva freddo e non c’erano alcove.

Mary: Buona norma è passare il tempo

bevendo Apple jack.

Barista: Il buffet è pieno di pop corn e Kitch

puoi prendere ciò che vuoi!

Mary: Berry dice che il vero paradigma

è ciò che resta nella mente.

Barista: Certe volte mi chiedo

come abbia fatto Mister H

ad aprirti il cuore?

Mary: Sono cose che accadono.

Come già ti ho detto,

il Signor H significava tutto per me:

amore, HI FI, Count Basie e Eagles

e Hotel California.

Barista: Devi sapere, secondo quanto dicono

quelli della King Dome House,

che egli aveva uno strano rapporto

con le camicie Paul Smith

e con Sara Zucker quando riprese

il programma Next Gen della Nba.

Mary: Me ne parlava sempre

tutte le volte sotto il Ghetto di Varsavia.

Barista: Lei sa come vanno a finire certe cose.

Dimmi solo da che parte si va nel bosco

a cercare gli Elfi.

Mary: Hai sette colpi per il Winchester,

una tazza di tequila,

e una donna per coprirti

lungo il viaggio inutile.

Barista: Forse sarebbe meglio dilatare i tempi,

mettere a fuoco chi va e chi viene

con un nuovo plot, tanto da finire

Beat Beat Gasoline di Gregory Corso

con un fiuto verso l’anima

e il cimitero degli inglesi accanto a Shelley.

Mary: Il paesaggio è quello onirico

ma di un blu di microtesti

con approdi nell’ignoto.

Barista: A volte penso a Isea, donna di musica e polvere,

un Nulla con le sue ottave genesi,

come nuvole di fumo

spinte in futuro dal fiato del vento.

Mary: Con il Signor H abbiamo parlato

di galassie in espansione,

di mondi finiti in trucioli e frammenti

come in una story-board.

Barista: Dico ciò che vedo e sento.

Guardo lo spazio antistante il negozio

dove sostano le matrioske.

Ho tanti conflitti da sub-plots

da non portare mai la pace sul sagrato.

Mary: Si stacca dal cane Chaney,

apre scatolette di Arcaplanet,

tiene in mente la Lambada,

il ballo di Al Pacino nel remake

“Profumo di donna”. Continua a leggere

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Nietzsche, Sul concetto di «catastrofe», poetry kitchen, Slavoj Žižek, Giorgio Linguaglossa, poesia di Francesco Paolo Intini, Marina Petrillo Quadri e illustrazione di Marie Laure Colasson e Lucio Mayoor Tosi

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, la macchia, 35×35, acrilico, 2020]
Osserviamo attentamente, ed ecco che emerge una “macchia” (nella parte inferiore, centrale, a sx?). Soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione, ovvero, guardando il quadro obliquamente fino a non poter distinguere la partitura dei colori, l’ osservatore potrà realizzare che quella zona non riconoscibile corrisponde ad un buco nero: il punto/centro geometrale cartesiano è perduto, quello che emerge è la zona di angoscia che non può essere raffigurata se non da una macchia nera. L’indicibile. L’irrappresentabile. La catastrofe.

Giorgio Linguaglossa 

Sul concetto di «catastrofe»

Nietzsche scrive:

«Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente: l’avvento del nichilismo.
Questa storia può essere raccontata già oggi, poiché qui è all’opera la necessità stessa. Questo futuro parla già per cento segni, questo destino si annuncia dappertutto; tutte le orecchie sono già ritte per questa musica del futuro. Tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso una catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa; come un fiume che vuole sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare»1

«“Tutte le cose diritte mentono,” borbottò sprezzante il nano. “Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo”» (La visione e l’enigma)

La zona grigia di compromissione in cui tutti ci muoviamo, è già in sé una ideologia.
Abbiamo dato agli azzeccagarbugli la lingua del Principe di Salina.
Sullo sfondo di una realtà che sparisce per lasciare posto all’iperrealtà, alla pseudorealtà e alla iporealtà, alla ipoverità, alla pseudoverità e alla iperverità, la distanza tra segno e referente, tra segno e cosa, si fa squarcio insondabile. Dal capitalismo della produzione e dei consumi, oggi ci troviamo immersi in un capitalismo semiurgico, capitalismo della manipolazione dei segni, semiotico, semantico nel quale le parole diventano insensibilmente innocue, si iperbarizzano, si atrofizzano, entrano nel frigorifero e da lì ne escono a temperatura sotto zero, pronte per essere impiegate nelle catene di montaggio dei significanti e dei segni.

Il linguaggio che impiega la poetry kitchen, a ben guardare, è un linguaggio rifritto, di seconda o terza cottura. Tutta la migliore poesia di oggi è di seconda o terza cottura, ripassata in padella. I puristi del bel verso eufonico sono quei tuttofare disposti a tutto. Così come anche in pittura. Guarda i vari strati di pittura, gli strati di colore, i graffi, le smagliature, i tagli, le ulcerazioni sovrapposte intendo, sui quali il pittore stende la pittura, ehm, definitiva, volevo dire ultima, giacché di definitivo nell’arte di oggi non è rimasto un bel niente, sono il conglomerato di una idea di poiesis che si fa per sporcificazione, quando invece non c’è bisogno di alcuna sporcificazione, è il reale stesso in modo oltraggioso sporcificato oltre misura. La poesia della poetry kitchen mi dà la sensazione di una scrittura un po’ improvvisata, come se fosse una scrittura ancora da ultimare. Ma è che non è più possibile pensare di scrivere una scrittura definitiva e definita, oggi non è più pensabile pensare di licenziare una scrittura poetica ultimata. Oggi è forse possibile soltanto una scrittura che porti con sé un quantum di improvvisazione, di oscillazione, di inquietudine e di incertezza… Che poi è, mi sembra di capire, quella cosa che sta a cuore alla nuova fenomenologia del poetico. La nuova poesia ha in sé il marchio di fabbrica della propria vulnerabilità e della tendenza alla disparizione oltre che all’ammutinamento. La poiesis tende all’ammutinamento nella misura in cui tende all’ammutolimento. La costituzionalizzazione della poiesis che ha avuto luogo a partire dagli anni sessanta ad oggi è stato un prodotto storico inevitabile, ma questo non è un motivo sufficiente per considerare eterno ciò che è soltanto un prodotto storico.

Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, voI VIII, tomo II [Frammenti postumi 1887-1888], tr. it. di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 1971, pp. 392-393)

«Benvenuti in tempi interessanti»

di Slavoj Žižek

«Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»

«Non abbiamo un linguaggio idoneo per esprimere lo stato di catastrofe in cui ci troviamo.» (g.l.)

top pop poesia, poetry kitchen,  poetry buffet e top picture

Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia.
L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.
I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche…
I grandi poeti pensano al dolcificante in dosi macropatiche…
È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.
Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà.
Ripeto, Faust chiama Mefistofele per una metastasi, dal titolo eloquente del libro di Francesco Paolo Intini. Continua a leggere

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