(Arte visuale di Milan Nápravník)
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Caro Giorgio,
più di una decina di anni fa, contattai una ventina di artisti/pensatori/scrittori/ecc. di varia nazionalità e chiesi loro di rispondere alla domanda su cosa fosse il surrealismo, secondo loro, lasciando volontariamente aperta la modalità della risposta. Alcuni preferirono una risposta testuale (saggistica, poesia o prosa breve) altri visuale (fotografia, stampa, ecc.).
Nell’attesa di pubblicare un giorno questo materiale, ti allego il testo “La triade” di Milan Nápravník, la risposta dell’autore alla domanda in questione.
Sempre di Nápravník, ti segnalo alcune uscite che lo riguardano. A questo indirizzo (http://vocifuoriscena.blogspot.com/2021/09/milan-napravnik-e-la-tecnica.html) troverai la sua descrizione del metodo da lui inventato dell’inversaggio (te ne allego un paio nel caso tu non conosca il genere). Qui invece (http://vocifuoriscena.blogspot.com/2021/09/antonio-parente-la-traduzione-di.html) troverai l’intervista che mi hanno fatto per parlare della traduzione di questo romanzo/non romanzo. E poi ancora qui (http://vocifuoriscena.blogspot.com/2021/09/su-milan-napravnik-di-ladislav-fanta.html) il ricordo di Ladislav Fanta dell’autore.
Saluti da una Finlandia già un po’ freddina,
(Antonio Parente)
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Nessun oggetto surrealista, nessuna immagine, anche se estremamente sorprendente per il nostro desiderio del miracoloso o dell’incantevole, crea l’essenza del surrealismo, ma la concretizza soltanto. Sebbene venga spesso sottolineato come il surrealismo sia ‘nato’ nelle menti dei poeti, anche una poesia surrealista non è che la concretizzazione del principio poetico, degli incontri inaspettati, soddisfacente il naturale desiderio umano del miracoloso, dell’incanto, del provocatorio e della scoperta. Il surrealismo ispira l’immaginazione del poeta, ma esso stesso non ne è requisito o garanzia.
Le chiavi per comprendere il mistero del surrealismo si trovano, per lo più inosservate, proprio accanto alla porta che l’epigono cerca di sbloccare invano con il grimaldello del fantastico speculativo. È la triade surrealista di “Libertà, Amore e Poesia”, le tre pietre angolari del surrealismo, nella cui interazione dialettica è esso stesso in grado di rinascere in ogni momento. Tutte e tre sono fragili: non sono condizioni necessarie per la sopravvivenza biologica degli individui né della comunità. Non solo i celenterati, ma anche le persone della pratica quotidiana possono farne a meno; e quindi esistono non soltanto individui ma intere culture capaci di vivacchiare in condizioni di non libertà, senza amore e sicuramente senza poesia. La triade surrealista la si può esperire come bisogno reale solo laddove il desiderio umano si afferma contro la necessità di sopravvivenza attraverso un’esperienza miracolosa, degna del fatto che l’esistenza umana, spesso fin troppo tormentata, valga la pena di essere vissuta.
È un modo di vivere in cui grande rispetto è assegnato all’intelligenza emotiva dell’essere umano come soggetto pensante e sofferente e non biologico, intellettualmente incapace, eternamente conforme al profitto e al dominio nella lotta competitivamente inferiore del tutti contro tutti. È una vita che oltrepassa coscientemente il suo livello evolutivo biologico, controllato solo dagli istinti elementari della necessità della semplice sopravvivenza, livello da cui derivano i bisogni primitivi di conquista e accumulo di proprietà materiale, di appropriazione delle femmine e, in definitiva, la necessità di massacri ritardati di guerre concorrenziali; tutto ciò attraverso una negazione estremamente pericolosa e totale dei risultati positivi della cultura dell’intelligenza appresa. In questo modo, sovrapponendosi al livello delle profonde esperienze emotive, con le quali i prodigi dell’essere vivente si trasformano in prodigi dell’essere creativamente libero, la vita può diventare Eros, storia concreta e voluttuosa della coscienza che riflette su se stessa e, in un contesto più generale, della fase evolutiva, consapevole dei valori umani e culturali, della specie dotata delle capacità di pensiero e sentimento più complesse.
La “libertà” è oggi, all’inizio del XXI secolo, una parola alla moda che, a causa del costante abuso pubblicitario, è diventata talmente banale da perdere qualsiasi contenuto e significato. Nemmeno un fascista dozzinale, che apertamente raccomanda, approva e pratica la tortura dell’uomo sull’uomo, dimentica di sottolineare che lo fa per salvare o in favore della presunta, succitata libertà. Il surrealismo, tuttavia, considera la cosiddetta “libertà” di affari, dominio, usurpazione e sfruttamento come un concetto vergognoso. Pertanto, nemmeno per un attimo rinuncia al significato originale ed emancipatorio del termine “libertà”, ed è pronto a difenderla sempre e ovunque.
L’“Amore”, parola che a partire almeno dall’inizio della civiltà cristiana si è dissolta nei diluenti dei falsi contenuti, per il surrealismo significa solo l’amore tra due soggetti che nel reciproco fascino e stupore sublimano il congiungimento sessuale di fusione erotica degli amanti, nel piacere estatico, insostituibile, dell’abbandono. Da questa sorgente poi sgorga l’acqua viva di ogni creatività umana.
E infine, la “Poesia” – il membro più esoterico ma allo stesso tempo meno sfruttabile della triade surrealista, poiché fortunatamente si trasforma immediatamente nel suo opposto quando si cerca di farne uno strumento di sfruttamento delle emozioni e delle idee umane, un mezzo di manipolazione utilitaristica e condizionamento della coscienza sociale.
Nel surrealismo, tuttavia, il termine “poesia” non comprende solo l’area della poesia scritta, ma anche, e in particolare, la poetica dell’esperienza e la filosofia della vita. La poesia di pensieri ed emozioni crea il mondo nel quale riusciamo miracolosamente a vivere, a meno che non si sia vincolati da un attaccamento al bisogno materiale o spirituale, guidati dalla timidezza conformista o persino da avidità ed egoismo inferiori. A meno che non si vedano negli alberi della foresta solo potenziali assi da ricavare dai loro tronchi devastati per profitto, invece che organismi viventi di pari diritti e valore, grazie alla cui bellezza e proprietà simbiotiche possiamo respirare liberamente e svilupparci sbigottiti dalla nostra percezione, cognizione e comprensione.
Il surrealismo continua ad esistere pur nella certezza di non essere principalmente letteratura o arte, poiché è soprattutto un invito ad una vita onesta, intelligente e che onora la libertà. È un impegno per l’inalienabilità della creatività e dell’intelligenza del pensiero e dell’azione umana, un fermo impegno per una vita che valorizzi i valori dello spirito indipendente. André Breton in questo senso ha incluso nelle fondamenta del surrealismo, per il dispiacere di ogni essere distorto, un imperativo morale che era e rimane valido: Non sottomettersi mai ai miserabilismi del tempo. Il suo amico, Marcel Duchamp, in seguito commentò: “Breton era un ammiratore dell’amore in un mondo che crede nella prostituzione”. Senza la regola di una ferma integrità, il Surrealismo autentico è impossibile.
(Arte visuale di Milan Nápravník)
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«L’unione inversa di parti bilateralmente simmetriche di una singola struttura è uno dei principi morfologici fondamentali della natura, l’archetipo organizzatore del macro e del microcosmo. In quel momento mi fu chiaro il contenuto magico del messaggio che mi aveva raggiunto in quella nebbiosa giornata autunnale. Soltanto allora mi fu evidente che la forza numinosa di quella mia visione non era il risultato della crisi soggettiva, quantunque sconvolgente. Il suo effetto ammaliante prendeva origine dal contatto magico del subconscio con l’archetipo dell’universo, dal cogliere, sul campo irrazionale, uno dei segreti più profondi della realtà. La demonizzazione animistica di quest’attimo fu, poi, conseguenza della percezione magica, che registra sempre la realtà interiore come una parte integrante della realtà psichica. Solo allora la mia vista interiore si rischiarì. Come in una sintesi onirica mi resi conto del principio simmetrico delle formazioni cosmiche, dei poli magnetici, delle strutture cristalline e biologiche. Nei giorni e nelle notti seguenti, in preda ad una trance superficiale, passai in rassegna ciò che mi circondava, riconoscendo all’improvviso dei e demoni di antiche religioni, i volti assorti, indagatori, beffardi e malevoli della realtà, privati delle maschere civilizzatrici dell’utilità e dell’applicabilità immediate. Arrivare alla decisione di usare questo potenziale magico per tracciare immagini col metodo della visione inversa fu quindi un breve passo.
Per far risaltare la sua forza magica, non era possibile usare nessun altro mezzo se non quello delle tecniche fotografiche capaci di riprodurre l’impressione della realtà con fedeltà naturalistica. Tecniche a metà tra macchina fotografica e laboratorio, che riorganizzai in cucina di alchimista, dove creavo una nuova realtà partendo dagli ingredienti che trovavo. Il fatto di trasfondere vitalità spirituale in alberi, pietre, micro e macrostrutture che di solito nel mondo reale passavano inosservati, elevava l’attività creativa al rango di reale creaturazione del mondo. Ciò produceva l’identificazione con animali, piante e minerali, processo questo favorito dalla magia e represso dalla civilizzazione: nel momento in cui la natura si psicologizza, l’essere umano ne diviene parte.
Per caratterizzare questo metodo nella maniera più precisa possibile, lo chiamai inversaggio, parallelamente alla denominazione dei metodi creativi surrealisti più antichi introdotti da Max Ernst. Questa mia scoperta l’ho connotata con la seguente definizione:
L’inversaggio è un metodo surrealista di creazione della realtà magica attraverso l’unione di due o più immagini inverse di oggetti reali, delle loro parti o di strutture immateriali, superficiali. Il principio dell’inversione non è basato su tendenze estetiche del conscio, ma preesiste come archetipo morfologico dominante nel subconscio, vale a dire nella realtà irrazionale. Il carattere archetipico dell’inversione dà luogo all’inversaggio, che origina dalle immagini fotografiche della realtà creata dall’azione di acqua, fuoco, ghiaccio, calore, erosione, corrosione, gravità, divisione cellulare, crescita ecc., con una implicita forza numinosa. Il significato extra-estetico dell’inversaggio non può essere altro che il rivolgere la nostra attenzione verso una percezione alternativa, magica e, in questo modo, sconvolgere il monopolio della repressiva visione ottica cosiddetta “oggettiva” della costruzione unilateralmente razionalistica del mondo.»
(Maggio 1977, Milan Nápravník)
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cari amici,
a proposito di ‘vuoto’ vi sottopongo una poesia (kitchen) di nuovo conio, è la prima volta che tento un’opera siffatta, che adotta il verosimile (quasi un testo narrativo con degli a-capo) per introdurre in esso un clinamen, un inverosimile, un ultroneo, un personaggio illogico che finisce per destabilizzare l’ordine del discorso del verosimile cangiandolo in inverosimile e ultroneo. Ho tratto lo spunto iniziale da un testo di Milan Nápravník dal quale ho ripreso alcune frasi liberamente da me interpolate. È stato il mio modo di rendere omaggio al poeta ceco e di sviluppare il suo testo surrealista in direzione di una poesia italiana kitchen. In fin dei conti, è vero ciò che dice Nápravník, che «la poesia non è altro che una disciplina della magia». Seguono altre 2 Kitsch poem. (g.l.)
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Giorgio Linguaglossa
Il 6 aprile 1958
Il 6 aprile 1958, poco dopo la mezzanotte,
passeggiavo con la pittrice Zlata Adamová
per un viale alberato in direzione del cimitero ebraico
e invece, non so come, sbucammo
davanti all’insegna luminosa del wine bar “V Zátiší” in piazza Betlémské
Praga a quell’ora è silenziosa e deserta
Sul lato sinistro di via Liliová
al primo piano di una finestra aperta era appesa
una gabbia con un canarino
Giunti nei pressi
l’uccello improvvisamente si risvegliò dal torpore
prese a cantare
o meglio, a singhiozzare in modo bizzarro
I nostri passi echeggiavano nel vuoto di Malá Strana
“il silenzio di questa città totalitaria è così opprimente”
– pensai –
Zlata allora viveva in via Všehrdova
ma deviammo per via Platnéřská e quindi via Kaprova,
lungo gli alberi,
prima di dirigerci verso il Rudolfinum al di là del ponte Mánes
Forse non intendevamo tornare a casa,
o forse sì,
i nostri passi sembravano guidati da smisurate forze inconsce.
Giunti che fummo nella piazza davanti al Rudolfinum
lungo il marciapiede
ma sul lato opposto della strada
barcollando si faceva strada verso di noi
un Signore altissimo e magrissimo con un cilindro liso e sdrucito
appoggiandosi ad un bastone da passeggio
con il pomo d’avorio
e un ombrello trafugato dallo studio di Magritte
«La giraffa non è figlia dello scimpanzé
ma neanche lo scimpanzé è il padre della giraffa!
Kafka ha falsificato il romanzo!
– gridò in preda al furore –
il Signor K. è una invenzione stolida!»
In quel frangente
davanti a noi si materializzò una giraffa
la quale si sedette graziosamente su un soggolo
del bar di piazza Rudolfinum
inghiottì un caffè dopo aver litigato con un punto e virgola,
e deglutito un sandwich
«Non c’è usucapione per la speranza
ma c’è il cordoglio per l’Agenzia dell’Erario»
– disse con accento securitario –
Detto ciò la giraffa saltò alla guida di un monopattino
e si avviò
in direzione del vuoto di Malá Strana
«La lobotomia è il tocco finale
di un grande parrucchiere», aggiunse
e sparì nella foschia
receipt n. 57521
It’s Your Lucky Day – Open for $50!
In data odierna il gatto Carneade ha spedito un podcast
al Presidente Biden
V’è registrato: «una pillola di Betaprotene
ogni 12 ore toglie il mal di gola»
il triangolo scaleno è la figura geometrica
che il Presidente Mattarella predilige
il Signor Posterius invia un sms al mago Mandrake
c’è scritto:
«Il Signor Prius stasera va alla prima della Scala
con l’abito di gala e una gardenia»
Wanda Osiris a cavallo con il frustino ammorbidisce
la groppa ad un fantino renitente alla coscrizione
Apre la porta e gli dice:
«No Campari, no party»
poi ci ripensa e dice:
«It’s wonderful to kiss you»
dal baldacchino dei saltimbanchi esce un avatar
su un monopattino
prende l’ombrello dall’attaccapanni
e un cappello a cilindro
e spara un colpo di revolver ad uno struzzo che passava di lì
senza ragione
un topo di fogna improvvisamente prese ad abbaiare
Il pappagallo Totò ha spedito una lettera
tramite il Politburo al poeta russo Brodskij
con su scritto:
«I like you, bijou»
Il poeta russo dall’al di là manda un sms a Putin,
c’è scritto:
«Il Green Pass è pronto per la presa della Bastiglia
fissata per il 14 luglio 1789»
Karel Šebek (1941-1995), 3 X Nulla, Cura e introduzione di Petr Král, Traduzione di Antonio Parente, Mimesis-Hebenon, Milano 2015, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa: Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio
Karel Teige, collage
Commento di Petr Král
Karel Šebek, agente doppio di se stesso, castoro-conquistatore, protettore e protégé di sua nonna, usurpatore e liberatore segreto di Jilemnice, mascotte e fantasma degli Istituti di Dobřany, Sadská e Kosmonosy, guardiano notturno e scrivano che con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre.
Nato il 3 aprile 1941 a Jilemnice, misteriosamente scomparso nella primavera del 1995 (come lui stesso aveva predetto in un testo degli anni Sessanta Il mondo si punisce e piange: «I cani da caccia non fiutano ancora il luogo dove una volta mi smarrii del tutto»); dal momento che il suo corpo non è stato mai trovato, si può supporre si sia trattato di omicidio più che di suicidio, che in precedenza aveva invano tentato più volte. Cugino del poeta e psicoanalista Zbyňek Havlíček, fu grazie a lui che si avvicinò alla poesia e prese a conoscere i surrealisti di Praga, soprattutto i rappresentanti della «terza generazione surrealista», con i quali socializzò intensamente prima della partenza di alcuni di loro per l’esilio. Sempre con l’aiuto di Havlíček, divenne infermiere dell’ospedale psichiatrico di Dobřany, dal quale tentò di fuggire in Germania in compagnia di due ricoverati, e dove fece ritorno come paziente successivamente all’arresto del trio di fuggitivi da parte della polizia; soggiornò di nuovo a Dobřany anche prima della sua scomparsa, avendovi trovato l’anima gemella e protettrice (e anche co-autrice) nella dottoressa Eva Válková.
petr kral
L’opera di Šebek fu influenzata da una serie di artisti surrealisti, da quelli – cechi o stranieri – che aveva conosciuto grazie alla sua opera di instancabile copista dei loro testi, a quelli che prese a frequentare di persona. Dai poeti che lo colpivano in modo particolare non esitava a prendere in prestito temporaneamente sia il tono sia l’intero stile figurativo, sviluppandolo, però, in modo proprio e portandolo a nuove conclusioni e a scoperte di paesaggi sconosciuti. Nella sua poesia possiamo distinguere varie fasi; dopo i primi testi di inizio anni Sessanta, dove prevale soprattutto l’influenza di Zbyňek Havlíček e Vratislav Effenberger – e dove il lirismo del primo si fonde con “l’immaginazione critica” dell’altro – nel 1963 rimane ammaliato dall’opera di Stanislav Dvorský (grazie alla lettura di Binari e poi anche dei testi che faranno parte di Gioco al recinto), sviluppandone gli impulsi in sistemi erratici personali, in monologhi “assurdi” e in statici microdrammi tra le quattro mura (Conversazione, 3 volte Jilemnice); verso la fine degli anni Sessanta riecheggiano nei testi di Šebek anche le poesie dell’estensore di questa nota, con il quale è in sistematica corrispondenza epistolare. Agli inizi degli anni Settanta, successivamente alla morte di Zbyňek Havlíček, nei testi di Šebek ricompare parzialmente il lirismo iniziale di Havlíček (soprattutto nel ciclo istigato dalla sua relazione con Hana K., conosciuta durante il suo soggiorno a Kosmonosy) e, contemporaneamente, aumenta anche il numero di immagini autodistruttive; per fortuna, però, l’umorismo rimane un tratto permanente di questi testi. Dopo diversi cicli di poesie scritti individualmente per vari amici, ai quali li invia come ripetute grida d’aiuto, scrive anche delle interpretazioni poetiche dei disegni di alcuni di essi, in particolare di Martin Stejskal (che Šebek stesso portò da Jilemnice introducendolo tra i surrealisti di Praga) e di Pavel Turnovský. Purtroppo crescono anche i suoi tentativi di suicidio e i soggiorni negli istituti, durante uno dei quali porta a termine, nel 1990 – prima di tale anno, a quanto pare, vi fu una lunga pausa nel suo lavoro, un silenzio durato vari anni – un testo esteso e, come lui stesso affermò, riscritto più volte, 3 x nulla, dove a suo modo fa i conti con Dio o con la propria “figura paterna”.
Il punto di vista delle poesie di Šebek muta nel corso degli anni, la fantastica obiettività delle immagini dei primi testi acquista successivamente un senso maggiormente psicologico, e alla fine i suoi scritti scadono in una confessione personale; František Dryje è l’unico critico ad evidenziare, a tal proposito, i limiti di un tale sviluppo, altri – come Jan Nejedlý – sottolineano invece in maniera abbastanza banale questa psicologizzazione. Ad ogni modo, le beffarde diagnosi del mondo nei testi di Šebek lasciano il campo ai resoconti sulle difficoltà che all’autore procura il vivere nel mondo; i testi vanno concentrandosi sempre più su poche permutazioni di motivi ossessivi, mentre assistiamo ad una nuova ripresa lirica in quei testi scritti per la dottoressa Válková (o insieme a lei) che il poeta compone negli anni di poco precedenti la sua scomparsa. L’esperienza poetica delle prime composizioni e «corse», il cui sarcasmo e apertura al mondo per fortuna non scompaiono completamente nemmeno nelle confessioni successive, continuando così ad aprire anche alle scoperte poetiche impersonali e agli sguardi innovativi sulla realtà.
fotofilm realizzato da Cristina Boldrin e Disan Danilov Дисан Данилов per il Ponte del Sale
Contrariamente alle affermazioni di alcuni commentatori, anche gli scritti creativi iniziali di Šebek possono essere considerati poesia, ma quei testi improvvisamente crescono in ampiezza ed entrano in una particolare tensione con la prosa, alla quale a tratti si avvicinano; nei testi più lunghi di Šebek, inoltre, i brani di prosa sono intervallati da versi, mentre alcuni sono scritti completamente in prosa. Nel percorso dal delirio surrealista all’ossessione “involta su se stessa” alla maniera di Dvorský, Karel crea anche un particolare stile ostinatamente descrittivo, con il quale gioca con i più piccoli dettagli di scenari e scene della vita quotidiana (Il giorno di scuola murato, Discussione) e al cui impatto coinvolgentemente mostruoso partecipa anche la costruzione della frase, anormalmente estesa (catene illimitate di complementi aggettivali e avverbiali) sommariamente dichiarata dai critici come mera goffaggine. Nei testi più tardi, all’oscillazione tra versi e prosa va aggiungendosi anche lo snodamento dei diversi significati oggettivi e simbolici delle espressioni usate, dove anche i più urgenti degli ultimi continuano a serbare la possibilità di un ritorno e la capacità di ritrasformarsi dalle immagini dell’ansietà di Šebek in un coltello o in una vespa veri e propri. Il verso del poeta, è vero, perde, con la sua tendenza alla confessione, l’estensione prosastica e si accorcia sensibilmente, ma anche in questo senso non chiude la via del ritorno: nelle interpretazioni delle opere di pittori suoi amici, nel testo dove alle visioni in libertà si alterna il loro commento autoriale “auto-critico” (Poche parole aggiuntive) o nella meditazione notturna 3 x nulla, il verso riacquista ampiezza e anche una struttura dettagliata, il monitoraggio dello sviluppo del pensiero poetico supera la sua sintesi figurativa.
I periodi più ispirati della sua opera sembrano essere gli anni 1962-1963, 1973-1974 e quelli a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. La seguente selezione dei suoi scritti è tratta dagli archivi personali di Stanislav Dvorský, Jan Gabriel e mio personale. Le uniche correzioni che ho apportato riguardano evidenti refusi ed errori grammaticali.
Giorgio Linguaglossa in ascensore, Praga, hotel Bila Labut, 21 agosto 2018
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio – Una poesia composta interamente di «stracci»
«Come un pescatore che cattura se stesso con l’amo»
Nella poesia di Karel Šebek ci troviamo il «chiacchiericcio», una grandissima quantità di chiacchiericcio, discorsi strampalati, scombiccherati, casuali, variegati. Poesia magistrale nel suo sottrarsi a qualsiasi intentio comunicativa o comunicazionale, a qualsiasi intenzione suasoria, assertoria, assolutoria, consolatoria, ma anche rigorosamente severa nel suo ritrarsi dinanzi a qualsiasi reintroduzione del «senso» (parente del suasorio e del sensorio e quindi morfologicamente concetto conformistico). Karel Šebek è forse tra i poeti cechi che ho letto nelle traduzioni di Antonio Parente, l’autore più nichilistico il più drastico nel suo progetto di disimpegno nel disegno di una poesia priva di funzione poetica, di utilizzabilità. Una poesia infungibile e inutilizzabile che avrebbe mandato in visibilio Pasolini e avrebbe fatto infuriare Montale. Leggiamo qui:
«…in cortile crescono i surrealisti e fanno smorfie agli esistenzialisti mentre m metto in piedi davanti alla mia porta come se facessi la fila per la carne.
In realtà ho cominciato a trasformarmi in cane giù all’inizio del testo quando mi sono addormentato alla macchina da scrivere col metro in mano. Ma il mio abbaiare si sentirà solo tra un istante. Finora luccica al buio soltanto il collare, tempestato di mirtilli. le orme portano dalla porta al tavolo e poi continuano nelle singole pagine. Ce ne sono esattamente tante quante i residenti di questa casa. Per il momento non ci diamo fastidio l’un l’altro quando scriviamo anche se abbiamo tutti la stessa pelliccia.
(Le righe successive devono essere lette solo con gli occhi chiusi. Allo stesso modo sono anche state scritte. Chi non lo farà sia pronto a sopportare le conseguenze delle proprie azioni:)».
Noi sappiamo che nella poesia italiana che si fa oggi, ad esempio quella che corre in certa editoria maggioritaria, si utilizza un «chiacchiericcio», un descrittivismo tipico dei chierici, un descrittivismo senza costrutto, senza teleologia, senza metafisica, a vanvera, una fraseologia-pretesto, senza contesto, che è la contraffazione della «chiacchiera» eliotiana, quella sì, di nobile ascendenza!. In Eliot c’è sì la chiacchiera, ma dietro di essa c’è una metafisica, è questa la differenza tra i poeti di rango e i versificatori di oggidì. Nella poesia neorealista che si fa oggi in Italia non c’è davvero niente da scoprire, non c’è nessun accadimento, non c’è evento. L’aspetto grottesco del neorealismo fraseologico nostrano è che i letterati domenicali vogliono apparire intelligenti, e invece la poesia tira loro un tiro mancino, li sgambetta, gettandoli sul lastrico della banalità.
In Šebek, dicevo, c’è un progetto poetico agguerrito, micidiale, perseguito con grande severità: quello di voler sottrarsi a qualsiasi utilizzazione del suasorio e/o dell’anti suasorio. La sua poesia è esteticamente inaccettabile, e tale vuole essere; vuole essere qualcosa di infungibile. Un progetto poetico serissimo che non concede nulla a nessuno, che chiude tutti i rubinetti all’ermeneutica su ciò che è del poetico e dell’anti poetico, o dell’anipoetico, su ciò che è sensato e su ciò che non lo è. Qui siamo veramente dinanzi ad una scrittura ridotta allo zero della significazione in sibemolle, neutralizzata in quanto consapevole del proprio effimero non-progetto.
Ora, dicevo, questo non-progetto, questo grottesco-non-grottesco, che è un progetto perseguito con grande determinazione, portato alle sue estreme conseguenze, ha qualcosa di grandioso e di serissimo. Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio. Una poesia composta interamente di «stracci», come noi della nuova ontologia estetica stiamo propugnando da tempo. Come scrive Petr Král, Šebek «con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre».
Karel Šebek (1941?)
Poesie di Karel Šebek
Questa città è una purea pepata di tanto in tanto dai poliziotti
in libreria
la carta si rivolta
insieme allo stomaco
la carta è la coccinella dai sette punti lo stomaco perfettamente
vomitevole
da qualche parte sopra la ringhiera dell’alba
perché non voglio sottrarmi alla malattia mortale della notte
la sola a produrre i batteri fantastici della poesia
contagiosa come l’idea di se stessi in un film
visto attraverso lo spioncino nella camera da letto del lupo
è stato tanto tempo fa
sento ancora il colpo di martello
nel bel mezzo della mia nascita
quando al mio posto è giunta la peste e lo scorbuto
la peste è giunta come si è allontanata
sono la peste nelle arterie della salamandra
bombardata da tempo immemorabile da un sacco di bombi
sopra di me il boccale come la bandiera sul defunto
la cicoria della morte fiorisce lentamente
come si va sformando il tendone da circo sul mondo
e come forse una volta scomparirà per sempre il terribile spettro
dell’essere umano
il rumore infernale della macchina che mi fa la terza guerra
mondiale nella testa
alla quale romperei volentieri il muso che le manca così
dannatamente
come a me i trampoli alti centinaia di metri
in modo che conosca la delizia oltrenube della solitudine
in modo che possa finalmente liberarmi dalla catena maledetta
delle parole
e il mio amore non marcisca sul foglio
le frasi si intrecciano si annodano perciò invidio anche il gomitolo
di serpenti
sono veri compagni con i testicoli come se mandati dal cielo
ed è una frase la cui arguzia riempie la pancia fino a quando
non scoppia
nel pollaio del mio sistema nervoso
e una ragazza facile che mi rende difficile il cervello
mi canta sulla strada per l’incesto
fino al punto in cui arriva l’agognato lusso della guerra
(1978)
* * *
Lì dove sbocciano i fiori dei naufraghi
su una nave che è porto per se stessa
infido come una scure con la quale ho colpito il bagno
a mezzanotte
poiché conosco le lune e suoi pazienti
che contemplano la luna ad ogni luna
come fosse lo stipendio mensile
dopo questi roditori davvero non rimarrà più nulla
nemmeno il piatto in mano al cameriere
questo giocoliere con la sete e la fame
diverse da quello che ho in mente
è la somma delle bolle al naso
così come il latte è proprietà delle mucche
genero il testo come un idiota
nella cassa bucata della vita
come in un cappello in cui tuona
il fulmine tradisce la sorte
e io
omaggiato di ortica al posto del rasoio
osservo il feretro della città marciare in un unico luogo
lo sgambettio da zero all’infinito
i sorrisi impastati di fango
osservo l’essenza della realtà come di un cinghiale
e il manicomio è la mia seconda casa
non sono versi da recitare sul podio
ma chiodi per la vostra bara
nella bara c’è buio
e il buio è quello che mi è rimasto dall’infanzia
è malinconico e spezzerebbe anche il cuore di un orso
che un bel giorno ha demolito la classe scolastica e mi ha mangiato
la merenda
come mille diavoli appena rilasciati dal carcere
come un libro con migliaia di orecchie d’asino reale
che mi porta ad esplorare l’interno del mio occhio
finalmente vedo davvero dentro di me
vedo l’amo che lancia un messaggio di avviso alle carpe
l’infinita solitudine del pescatore la solitudine che possiede
quest’amo
e la nostra terra lebbrosa di idiozia
l’idiozia di cui sono formato
la scacchiera sparpagliata della verginità del comunismo
poiché è notte e la notte è solitudine bellezza e sangue
poiché è notte e io noto la notte
la notte sparviero
(1978)
* * *
I denti delle unghie nel cervello
di bambino con la tenerezza di leone
davanti alla gabbia come in gabbia
il bambino con la criniera di leone
quando la pioggia recita una poesia
sul vento che lo porta
dalla scuola costruita da scheletri di insegnanti
davvero dei crani nudi
la lama prende vita nelle mie mani
nell’isola di voce o in cima alla torre
appuntita e tagliente come la solitudine di una matita inutilizzata
e le sue labbra al di là di tutti i poeti e delle loro opere
mi trasformo in un cannibale baciando le labbra
e il compasso un tempo da qualche parte traccia la copia di
un’antica foresta
vado per funghi
e i funghi raccolti come la raccolta di opere del comunismo
richiedono tatto noto solo al carnefice
ultimo nel fiacchere della speranza
il carnefice muore nell’ultimo giustiziato
e lo stupendo volto del piatto
inghiotte la fame si rimpinza di fame
la torre della fame del pranzo
quando le rose cadono dal cielo
e il giardino si solleva nell’aria
e così ci incontriamo
anche se fosse col muso rotto
e la mia insonnia
adesca gli uccelli notturni
come i maccheroni di lombrichi
al centro della città c’è la città
nella casa la casa
il mio letto con tante porte e finestre
che non ho la risolutezza di andarmene
perché esiste una sola
isola nel mio occhio
dietro le sbarre delle palpebre
quando la mostruosità di cui sono composto dorme
e dall’abbandono sguscia la poesia come un uovo che cova
la gallina
(1978) Continua a leggere →
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