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La triade, di Milan Nápravník, (1977) Sul surrealismo ceco, La tecnica dell’inversaggio, traduzione di Antonio Parente, Due inversaggi di Milan Nápravník, Poesie kitchen di Giorgio Linguaglossa, Il 6 aprile 1958, receipt n. 57521, receipt 77985, receipt 77981,  La poesia non è altro che una disciplina della magia (m.n.)

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(Arte visuale di Milan Nápravník)

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Caro Giorgio,
più di una decina di anni fa, contattai una ventina di artisti/pensatori/scrittori/ecc. di varia nazionalità e chiesi loro di rispondere alla domanda su cosa fosse il surrealismo, secondo loro, lasciando volontariamente aperta la modalità della risposta. Alcuni preferirono una risposta testuale (saggistica, poesia o prosa breve) altri visuale (fotografia, stampa, ecc.).
Nell’attesa di pubblicare un giorno questo materiale, ti allego il testo “La triade” di Milan Nápravník, la risposta dell’autore alla domanda in questione.
Sempre di Nápravník, ti segnalo alcune uscite che lo riguardano. A questo indirizzo (http://vocifuoriscena.blogspot.com/2021/09/milan-napravnik-e-la-tecnica.html) troverai la sua descrizione del metodo da lui inventato dell’inversaggio (te ne allego un paio nel caso tu non conosca il genere). Qui invece (http://vocifuoriscena.blogspot.com/2021/09/antonio-parente-la-traduzione-di.html) troverai l’intervista che mi hanno fatto per parlare della traduzione di questo romanzo/non romanzo. E poi ancora qui (http://vocifuoriscena.blogspot.com/2021/09/su-milan-napravnik-di-ladislav-fanta.html) il ricordo di Ladislav Fanta dell’autore.
Saluti da una Finlandia già un po’ freddina,
(Antonio Parente)
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Nessun oggetto surrealista, nessuna immagine, anche se estremamente sorprendente per il nostro desiderio del miracoloso o dell’incantevole, crea l’essenza del surrealismo, ma la concretizza soltanto. Sebbene venga spesso sottolineato come il surrealismo sia ‘nato’ nelle menti dei poeti, anche una poesia surrealista non è che la concretizzazione del principio poetico, degli incontri inaspettati, soddisfacente il naturale desiderio umano del miracoloso, dell’incanto, del provocatorio e della scoperta. Il surrealismo ispira l’immaginazione del poeta, ma esso stesso non ne è requisito o garanzia.

Le chiavi per comprendere il mistero del surrealismo si trovano, per lo più inosservate, proprio accanto alla porta che l’epigono cerca di sbloccare invano con il grimaldello del fantastico speculativo. È la triade surrealista di “Libertà, Amore e Poesia”, le tre pietre angolari del surrealismo, nella cui interazione dialettica è esso stesso in grado di rinascere in ogni momento. Tutte e tre sono fragili: non sono condizioni necessarie per la sopravvivenza biologica degli individui né della comunità. Non solo i celenterati, ma anche le persone della pratica quotidiana possono farne a meno; e quindi esistono non soltanto individui ma intere culture capaci di vivacchiare in condizioni di non libertà, senza amore e sicuramente senza poesia. La triade surrealista la si può esperire come bisogno reale solo laddove il desiderio umano si afferma contro la necessità di sopravvivenza attraverso un’esperienza miracolosa, degna del fatto che l’esistenza umana, spesso fin troppo tormentata, valga la pena di essere vissuta.

È un modo di vivere in cui grande rispetto è assegnato all’intelligenza emotiva dell’essere umano come soggetto pensante e sofferente e non biologico, intellettualmente incapace, eternamente conforme al profitto e al dominio nella lotta competitivamente inferiore del tutti contro tutti. È una vita che oltrepassa coscientemente il suo livello evolutivo biologico, controllato solo dagli istinti elementari della necessità della semplice sopravvivenza, livello da cui derivano i bisogni primitivi di conquista e accumulo di proprietà materiale, di appropriazione delle femmine e, in definitiva, la necessità di massacri ritardati di guerre concorrenziali; tutto ciò attraverso una negazione estremamente pericolosa e totale dei risultati positivi della cultura dell’intelligenza appresa. In questo modo, sovrapponendosi al livello delle profonde esperienze emotive, con le quali  i prodigi dell’essere vivente si trasformano in prodigi dell’essere creativamente libero,  la vita può diventare Eros, storia concreta e voluttuosa della coscienza che riflette su se stessa e, in un contesto più generale, della fase evolutiva, consapevole dei valori umani e culturali, della specie dotata delle capacità di pensiero e sentimento più complesse.

La “libertà” è oggi, all’inizio del XXI secolo, una parola alla moda che, a causa del costante abuso pubblicitario, è diventata talmente banale da perdere qualsiasi contenuto e significato. Nemmeno un fascista dozzinale, che apertamente raccomanda, approva e pratica la tortura dell’uomo sull’uomo, dimentica di sottolineare che lo fa per salvare o in favore della presunta, succitata  libertà. Il surrealismo, tuttavia, considera la cosiddetta “libertà” di affari, dominio, usurpazione e sfruttamento come un concetto vergognoso. Pertanto, nemmeno per un attimo rinuncia al significato originale ed emancipatorio del termine “libertà”, ed è pronto a difenderla sempre e ovunque.

L’“Amore”, parola che a partire almeno dall’inizio della civiltà cristiana si è dissolta nei diluenti dei falsi contenuti, per il surrealismo significa solo l’amore tra due soggetti che nel reciproco fascino e stupore sublimano il congiungimento sessuale di fusione erotica degli amanti, nel piacere estatico, insostituibile, dell’abbandono. Da questa sorgente poi sgorga l’acqua viva di ogni creatività umana.

E infine, la “Poesia” – il membro più esoterico ma allo stesso tempo meno sfruttabile della triade surrealista, poiché fortunatamente si trasforma immediatamente nel suo opposto quando si cerca di farne uno strumento di sfruttamento delle emozioni e delle idee umane, un mezzo di manipolazione utilitaristica e condizionamento della coscienza sociale.

Nel surrealismo, tuttavia, il termine “poesia” non comprende solo l’area della poesia scritta, ma anche, e in particolare, la poetica dell’esperienza e la filosofia della vita. La poesia di pensieri ed emozioni crea il mondo nel quale riusciamo miracolosamente a vivere, a meno che non si sia vincolati da un attaccamento al bisogno materiale o spirituale, guidati dalla timidezza conformista o persino da avidità ed egoismo inferiori. A meno che non si vedano negli alberi della foresta solo potenziali assi da ricavare dai loro tronchi devastati per profitto, invece che organismi viventi di pari diritti e valore, grazie alla cui bellezza e proprietà simbiotiche possiamo respirare liberamente e svilupparci sbigottiti dalla nostra percezione, cognizione e comprensione.

Il surrealismo continua ad esistere pur nella certezza di non essere principalmente letteratura o arte,  poiché è soprattutto un invito ad una vita onesta, intelligente e che onora la libertà. È un impegno per l’inalienabilità della creatività e dell’intelligenza del pensiero e dell’azione umana, un fermo impegno per una vita che valorizzi i valori dello spirito indipendente. André Breton in questo senso ha incluso nelle fondamenta del surrealismo, per il dispiacere di ogni essere distorto, un imperativo morale che era e rimane valido: Non sottomettersi mai ai miserabilismi del tempo. Il suo amico, Marcel Duchamp, in seguito commentò: “Breton era un ammiratore dell’amore in un mondo che crede nella prostituzione”. Senza la regola di una ferma integrità, il Surrealismo autentico è impossibile.

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(Arte visuale di Milan Nápravník)

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«L’unione inversa di parti bilateralmente simmetriche di una singola struttura è uno dei principi morfologici fondamentali della natura, l’archetipo organizzatore del macro e del microcosmo. In quel momento mi fu chiaro il contenuto magico del messaggio che mi aveva raggiunto in quella nebbiosa giornata autunnale. Soltanto allora mi fu evidente che la forza numinosa di quella mia visione non era il risultato della crisi soggettiva, quantunque sconvolgente. Il suo effetto ammaliante prendeva origine dal contatto magico del subconscio con l’archetipo dell’universo, dal cogliere, sul campo irrazionale, uno dei segreti più profondi della realtà. La demonizzazione animistica di quest’attimo fu, poi, conseguenza della percezione magica, che registra sempre la realtà interiore come una parte integrante della realtà psichica. Solo allora la mia vista interiore si rischiarì. Come in una sintesi onirica mi resi conto del principio simmetrico delle formazioni cosmiche, dei poli magnetici, delle strutture cristalline e biologiche. Nei giorni e nelle notti seguenti, in preda ad una trance superficiale, passai in rassegna ciò che mi circondava, riconoscendo all’improvviso dei e demoni di antiche religioni, i volti assorti, indagatori, beffardi e malevoli della realtà, privati delle maschere civilizzatrici dell’utilità e dell’applicabilità immediate. Arrivare alla decisione di usare questo potenziale magico per tracciare immagini col metodo della visione inversa fu quindi un breve passo.

Per far risaltare la sua forza magica, non era possibile usare nessun altro mezzo se non quello delle tecniche fotografiche capaci di riprodurre l’impressione della realtà con fedeltà naturalistica. Tecniche a metà tra macchina fotografica e laboratorio, che riorganizzai in cucina di alchimista, dove creavo una nuova realtà partendo dagli ingredienti che trovavo. Il fatto di trasfondere vitalità spirituale in alberi, pietre, micro e macrostrutture che di solito nel mondo reale passavano inosservati, elevava l’attività creativa al rango di reale creaturazione del mondo. Ciò produceva l’identificazione con animali, piante e minerali, processo questo favorito dalla magia e represso dalla civilizzazione: nel momento in cui la natura si psicologizza, l’essere umano ne diviene parte.

Per caratterizzare questo metodo nella maniera più precisa possibile, lo chiamai inversaggio, parallelamente alla denominazione dei metodi creativi surrealisti più antichi introdotti da Max Ernst. Questa mia scoperta l’ho connotata con la seguente definizione:

L’inversaggio è un metodo surrealista di creazione della realtà magica attraverso l’unione di due o più immagini inverse di oggetti reali, delle loro parti o di strutture immateriali, superficiali. Il principio dell’inversione non è basato su tendenze estetiche del conscio, ma preesiste come archetipo morfologico dominante nel subconscio, vale a dire nella realtà irrazionale. Il carattere archetipico dell’inversione dà luogo all’inversaggio, che origina dalle immagini fotografiche della realtà  creata dall’azione di acqua, fuoco, ghiaccio, calore, erosione, corrosione, gravità, divisione cellulare, crescita ecc., con una implicita forza numinosa. Il significato extra-estetico dell’inversaggio non può essere altro che il rivolgere la nostra attenzione verso una percezione alternativa, magica e, in questo modo, sconvolgere il monopolio della repressiva visione ottica cosiddetta “oggettiva” della costruzione unilateralmente razionalistica del mondo.»

(Maggio 1977, Milan Nápravník)

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cari amici,
a proposito di ‘vuoto’ vi sottopongo una poesia (kitchen) di nuovo conio, è la prima volta che tento un’opera siffatta, che adotta il verosimile (quasi un testo narrativo con degli a-capo) per introdurre in esso un clinamen, un inverosimile, un ultroneo, un personaggio illogico che finisce per destabilizzare l’ordine del discorso del verosimile cangiandolo in inverosimile e ultroneo. Ho tratto lo spunto iniziale da un testo di Milan Nápravník dal quale ho ripreso alcune frasi liberamente da me interpolate. È stato il mio modo di rendere omaggio al poeta ceco e di sviluppare il suo testo surrealista in direzione di una poesia italiana kitchen. In fin dei conti, è vero ciò che dice Nápravník, che «la poesia non è altro che una disciplina della magia». Seguono altre 2 Kitsch poem. (g.l.)

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Giorgio Linguaglossa

Il 6 aprile 1958

Il 6 aprile 1958, poco dopo la mezzanotte,
passeggiavo con la pittrice Zlata Adamová
per un viale alberato in direzione del cimitero ebraico
e invece, non so come, sbucammo
davanti all’insegna luminosa del wine bar “V Zátiší” in piazza Betlémské
Praga a quell’ora è silenziosa e deserta

Sul lato sinistro di via Liliová
al primo piano di una finestra aperta era appesa
una gabbia con un canarino
Giunti nei pressi
l’uccello improvvisamente si risvegliò dal torpore
prese a cantare
o meglio, a singhiozzare in modo bizzarro

I nostri passi echeggiavano nel vuoto di Malá Strana
“il silenzio di questa città totalitaria è così opprimente”
– pensai –

Zlata allora viveva in via Všehrdova
ma deviammo per via Platnéřská e quindi via Kaprova,
lungo gli alberi,
prima di dirigerci verso il Rudolfinum al di là del ponte Mánes

Forse non intendevamo tornare a casa,
o forse sì,
i nostri passi sembravano guidati da smisurate forze inconsce.

Giunti che fummo nella piazza davanti al Rudolfinum
lungo il marciapiede
ma sul lato opposto della strada
barcollando si faceva strada verso di noi
un Signore altissimo e magrissimo con un cilindro liso e sdrucito
appoggiandosi ad un bastone da passeggio
con il pomo d’avorio
e un ombrello trafugato dallo studio di Magritte

«La giraffa non è figlia dello scimpanzé
ma neanche lo scimpanzé è il padre della giraffa!
Kafka ha falsificato il romanzo!
– gridò in preda al furore –
il Signor K. è una invenzione stolida!»

In quel frangente
davanti a noi si materializzò una giraffa
la quale si sedette graziosamente su un soggolo
del bar di piazza Rudolfinum
inghiottì un caffè dopo aver litigato con un punto e virgola,
e deglutito un sandwich

«Non c’è usucapione per la speranza
ma c’è il cordoglio per l’Agenzia dell’Erario»
– disse con accento securitario –

Detto ciò la giraffa saltò alla guida di un monopattino
e si avviò
in direzione del vuoto di Malá Strana

«La lobotomia è il tocco finale
di un grande parrucchiere», aggiunse
e sparì nella foschia

receipt n. 57521

It’s Your Lucky Day – Open for $50!

In data odierna il gatto Carneade ha spedito un podcast
al Presidente Biden

V’è registrato: «una pillola di Betaprotene
ogni 12 ore toglie il mal di gola»

il triangolo scaleno è la figura geometrica
che il Presidente Mattarella predilige

il Signor Posterius invia un sms al mago Mandrake
c’è scritto:
«Il Signor Prius stasera va alla prima della Scala
con l’abito di gala e una gardenia»

Wanda Osiris a cavallo con il frustino ammorbidisce
la groppa ad un fantino renitente alla coscrizione

Apre la porta e gli dice:
«No Campari, no party»
poi ci ripensa e dice:
«It’s wonderful to kiss you»

dal baldacchino dei saltimbanchi esce un avatar
su un monopattino

prende l’ombrello dall’attaccapanni
e un cappello a cilindro
e spara un colpo di revolver ad uno struzzo che passava di lì
senza ragione
un topo di fogna improvvisamente prese ad abbaiare

Il pappagallo Totò ha spedito una lettera
tramite il Politburo al poeta russo Brodskij
con su scritto:
«I like you, bijou»

Il poeta russo dall’al di là manda un sms a Putin,
c’è scritto:

«Il Green Pass è pronto per la presa della Bastiglia
fissata per il 14 luglio 1789»

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Intervista a Pavel Řezníček (1942-2018) a cura di Viki Shock, pubblicata su Babylon n.7, 05. a cura di Antonio Parente, Due Prose e Poesie, Alla portineria dell’Hotel Kempinski

Intervista a Pavel Řezníček a cura di Viki Shock, pubblicata su Babylon n.7, 05.

Quando e dove dove sei nato?

Sono nato il 30 gennaio 1942 a Blansko, porta d’ingresso al Carso moravo e all’abisso di Macocha (“Abyssus abyssum invocat”). Serbo una copia del Giornale popolare (Lidové noviny) di quel giorno. I Giapponesi fronteggiavano Singapore, che sarebbe caduta il giorno seguente, Hitler tenne un discorso al Reichstag. Come sottolineo, di sicuro disse: “Parteigenossen, attenzione! È nato Řezníček!”. La temperatura registrata quel giorno fu -27 ° C. Erano trascorsi nove anni dalla presa di potere del Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei.

Da dove venivano i tuoi genitori?

Mio padre dal paesino di Lažánky, oggigiorno parte di Blansko. Lì nacque anche il padre di Vítězslav Nezval, e mia nonna era fidanzata con suo zio Gustav. I parenti lo dissuasero dicendo: “Non te la prendere, è una miserella.” Mia mamma era di un altro paesino, Rudice, anch’esso credo sia oramai parte di Blansko. Non ci sono mai stato, ma a quanto pare c’è un mulino a vento interessante.

Come si conobbero?

I miei genitori non mi confidavano i loro ricordi erotici, quindi non so. Mio padre si sposò ormai trentatreenne, in quanto prima aveva vagato per la Francia e lavorato come meccanico in Corsica, ad Ajaccio. Una volta tornato a Blansko, si sposò subito. In seguito, è stato funzionario tecnico.

Che rapporto hai avuto con i tuoi genitori?

Di mio padre avevo paura e mi nascondevo per evitarlo. Era il dittatore della famiglia, avevamo paura di parlare in sua presenza. È per questo che oggi sono, segretamente, un anarchico. Mia madre era dolce e gentile, anche lei soffriva la dittatura di mio padre.

E il rapporto dei tuoi genitori con il sistema socialista?   

Nella nostra famiglia, l’atteggiamento verso il sistema socialista  fu sempre negativo. Fino alla sua morte, mio padre tenne sul muro di casa i ritratti di Masaryk e Beneš, ascoltava Radio Free Europe. Mi ricordo che nel 1952 ascoltammo alla radio la trasmissione in diretta del processo a Slánský.

Che scuola hai frequentato dopo le elementari a Blansko?

Dopo la scuola primaria e la scuola civica, come si chiamava allora, ho frequentato il blocco scolastico che durava undici anni, e che era l’equivalente dell’odierno ginnasio. La scuola era ed è tuttora situata in Via dei legionari a Brno. Prima della guerra la frequentarono anche Karel Čapek e Bohumil Hrabal, in effetti come punizione, a causa del loro scarso rendimento nelle scuole boeme, quindi posso dire che sono stati miei compagni di classe. Ottenni la licenza nel 1959: con un bel sei in matematica sul diploma.

Quando hai iniziato a scrivere e cosa leggevi?

In tutte le interviste sottolineo quale decisiva e vasta influenza abbiano avuto su di me i romanzi di Jaroslav Foglar “Il mistero del rompicapo” (Záhada hlavolamu) e “Il quartiere dei boia insorge” (Stínadla se bouří). Instillarono in me il senso del mistero, del grottesco e del romantico, che tuttora mi ossessionano.  Anche adesso, se a volte mi sento giù, prendo a sfogliare gli albi con i racconti delle Frecce veloci (Rychlé šípy), erroneamente chiamati fumetti. Provo ancora gli stessi sentimenti di 55 anni fa, le stesse sensazioni visive, olfattive e quasi uditive come allora… e mi pacifico. Intorno ai quindici anni fui preso dalla letturomania. Come ci sono i grafomani, così esistono anche i letturomani. Nella sala lettura dell’Università di Brno, lessi tutta la letteratura mondiale a disposizione: Zola, Flaubert, Maupassant, Dostoevskij, Cechov, Thomas Mann, Stefan Zweig ecc. ecc. E qui mi imbattei anche nel libro di Vítězslav Nezval “Le correnti poetiche moderne” del 1937 ; che impressione mi fece! Si parlava di Tristan Tzara, André Breton e Benjamin Péret. Solo anni dopo ho scoperto che la traduzione di Nezval della famosa poesia di Péret “Me ne andrò, se vuoi” (J’irai veux-tu) è un po’ falsificata. L’ho letta in originale, e nella traduzione mancano dei versi, tipo: C’era una casa enorme, il cui proprietario era la morte violenta. C’era una casa enorme, il cui proprietario era mezzo culo. Maggiori informazioni su questo caso le si trovano nel mio romanzo “Stelle di una volta”. E, naturalmente, leggevo Světová literatura, la rivista della letteratura mondiale, diretta dal 1956 da Jan Řezáč, che oggi, a 84 anni, è mio amico.  

Come sei arrivato al Surrealismo?

Quando svolsi il servizio militare a Pilsen (1961-1963), vivevo nella stessa baracca del poeta Petr Král, con il quale strinsi amicizia. Fu lui a prestarmi l’opera, in francese, di Nadeau “Storia del Surrealismo” (Historie du surréalisme), che portai nel carniere insieme alla maschera antigas per l’intera durata del servizio. Non ci capii troppo, né Petr ebbe su di me l’effetto di sviluppare una propensione per il Surrealismo. Eppure riuscii a leggere qualcosa del libro e ad ascoltare qualcosa da Petr. Dopo il servizio militare, tornai a Brno e mi iscrissi alla scuola per archivisti e bibliotecari, dalla quale venni espulso al secondo anno per le assenze. Avevo abbastanza tempo e decisi così di allestire una serata al teatro Convenzione dedicata alla poesia surrealista, intitolata “La coda del diavolo è un biciclo.” Cosa che avvenne. Presentai i testi di  Breton, Tzara, Dalì e Péret. Uscì anche una breve nota sul Giornale Letterario (Literární noviny); ne inviai il ritaglio ad André Breton al famoso indirizzo 42, rue Fonatine, Parigi. Stranamente, viveva ancora lì in quel memorabile 1965. La mia lettera lo raggiunse. Anche se non mi rispose direttamente, pubblicarono un breve articolo sulla mia attività sulla rivista “La Bréche”, a firma del suo amico Radovan Ivsič, il surrealista croato che viveva a Parigi, al quale Breton aveva passato la mia lettera. Incontrai e discussi con Ivsič pochi anni fa al vernissage della mostra su Toyen. Iniziai, quindi, nel 1965 il mio percorso surrealista, a scrivere e a tradurre.

Ora sei in pensione, ma che lavoro facevi prima?

Per quarant’anni sarei voluto essere scrittore freelance. Il sogno è diventato realtà: da due anni sono un pensionato a piede libero. Come ho già detto, dopo il servizio militare e la scuola per archivisti, dalla quale fui espulso, ho fatto quello che ho potuto. Più di tutto, sono stato magazziniere. La migliore caratterizzazione del mio lavoro la pronunciò mia figlia a quattro anni “Papà di mattina fa il cassettaio e di pomeriggio lo scrittore.” Sono andato in pensione come subalterno postale.

Come hai vissuto l’agosto del 1968?

L’agosto del ’68 l’ho vissuto a Brno. La cosa divertente è che la sera del 19 agosto ero tornato a casa dopo aver soggiornato per una settimana a Vienna. Se l’invasione russa fosse avvenuta mentre ero ancora sul treno Vindobona, sarei certamente rimasto lì, invece persi l’occasione. Almeno ho vissuto tutto in prima persona. Tutti i cechi divennero agitatori, con il loro russo incerto dicevano ai soldati dell’Armata: “Cosa ci fate qui, da noi la controrivoluzione no.” All’hotel Padovec, mentre spiegavo la cosa ad un sergente russo, qualcuno dal tetto gettò verso di lui un contenitore da cinque litri di cetrioli sott’aceto. Il sergente senza scomporsi prese la mira e sparò una mitragliata verso il tetto. Poi continuammo a parlare come se niente fosse. Al soldato che distribuiva volantini contro Dubček dissi: “Dammelo, lo uso quando vado in bagno!”; il russo mi rispose, “Leggi e vedrai, carogna!”. Lo usai al gabinetto.

Nel ’74 hai fondato quello che sembra essere il più antico samizdat ceco, Doutník (Sigaro). Eri già a Praga o abitavi ancora a Brno? E perché, in effetti, ti sei trasferito a Praga?

Sigaro lo fondai nel 1974 a Praga. Tuttavia, non è una rivista periodica, ma un’antologia che viene pubblicata una volta all’anno. Mi trasferii a Praga perché mi considero un cosmopolita e Brno mi andava stretta. Mi irrita la città e odio l’argot locale.

Hai avuto contatti con l’underground? Ne facevano parte anche i bohemién di Brno, che hai immortalato nella trilogia Stelle di una volta (Hvězdy kvelbu)?

Purtroppo, devo ammettere che la cosiddetta bohème di Brno non era affatto underground. Eravamo giovani arrabbiati, ma anche scrittori e pittori. Goldflam, J.H. Kocman, K. Fuksa, l’“anziano” Jiří Veselský, che chiamavamo vecchio anche se aveva solo 35 anni. Nel pub Koruna fondai l’omonima antologia samizdat. Il letterato Jiří Olič ripete spesso di aver esordito proprio su Koruna, quindi fui io ad introdurlo sulla scena letteraria ceca, ha ha… Nel 1987 conobbi a Praga Jáchym Topol, il quale pubblicò i miei scritti sulla rivista illegale Revolver Revue. Ho pubblicato anche su Lidove noviny, quando era illegale, Host, Komunikace e altrove. Anche su Svědectví (Testimonianza) di Tigrid e Listy (Fogli) di Pelikán. Ivan Havel pubblicò pochi esemplari del mio romanzo Il soffitto nell’edizione Expedice, Jiří Olič a sua volta i miei quattro libri nell’edizione illegale Fragment a Bratislava. Non ricordo tutte le mie pubblicazioni illegali.

In Cecoslovacchia, venivi pubblicato solo in samizdat, ma uscivi anche all’estero, anche se a volte era difficile contrabbandare il manoscritto attraverso il confine. Al traduttore italiano Giuseppe Dierna fu confiscata al confine la traduzione del tuo romanzo, che dovette ritradurre da capo. Hai avuto problemi per il fatto che i tuoi libri venivano pubblicati in Francia e in Italia?

Confesso che nonostante la prefazione di Milan Kundera alla mia pubblicazione per i tipi Gallimard di Parigi, qui non ebbi problemi a causa dei miei libri. Peccato… Ma nella primavera del 1989, fui interrogato due volte dal capitano Kysilka alla centrale della polizia segreta in via Bartolomějská per un famigerato samizdat.

La terza parte di Stelle di una volta ha luogo in un manicomio. Sei mai stato rinchiuso in un istituto mentale?

Ero spesso al manicomio, non come paziente ma come visitatore. Mi capitava spesso di visitare Karel Šebek a Kosmonosy, Bohnice e Dobřany. Questo poeta maledetto era un ingrato. Un giorno mia moglie gli cucì i bottoni dei pantaloni laceri. Gli spedii una cartolina a Bohnice, chiedendo “Karel, come va la nuova braguette?” (volevo essere garbato, per questo l’uso della parola straniera). Lui mi rimproverò chiedendomi di non scrivere più cartoline con volgarismi. Gli risposi che avevo volutamente usato la parola francese (braguette). Sì, obiettò, ma mi disse che la sua dottoressa parlava francese e si era sentita oltraggiata. Conoscevo più di un matto, e andavo a far loro visita. Tra questi un certo Fr. H di Černá Hora, vicino Brno. Mi raccontò che un giorno nel mese di febbraio era fuggito per 40 chilometri attraversando prati e boschi, solo in maglietta e stivali, fino a Brno, gridando “Dio, Dio!”. E i boschi rispondevano “Diavolo, diavolo!”. Sosteneva di essere il Signore del mondo. Raccontai questa storia a Hrabal, che la usò in uno dei suoi libri. Fr. H. diventò d’un tratto Tonda Hulík di Krkonoš.

E cosa mi dici di Hrabal? Negli anni ‘80 sedevi insieme a lui nella birreria La tigre d’oro (U Zlatého tygra). Che impressione ti ha fatto quel grande conversatore?

Con Hrabal iniziammo a vederci dal 1974 ogni mercoledì alla birreria U Sojků (Dai Sojka) di Letná. Era il giorno degli amici di Boudník (Merhaut, Hamer, Hampl, Michalek). Quando si scoprì che tra di noi c’era un agente della polizia segreta, ci trasferimmo dirimpetto al Plzeňský dvůr (La corte di Pilsen). Il poliziotto venne anche lì. Gli amici di Boudník cominciarono a raccogliersi altrove. Io presi ad incontrare Hrabal il martedì, alla Tigre, tra i suoi vecchi amici. Sotto le piccole corna vicino alla toilette c’erano tre tavoli. Ad uno sedevano i seguaci di Zahradník, all’altro quelli di Hrabal, e al terzo la Polizia segreta. Uno di loro, un colonnello ci disse: “Ragazzi, non fate caso a noi. Noi ci occupiamo del Sud America, voi non ci interessate”. Se leggi Frolík, i servizi segreti cechi davvero preparavano una rivolta in Sud America. Anche l’insurrezione comunista in Indonesia era stata cosa loro. Al pub, Hrabal non si comportava da affabulatore. Parlava dello Slavia, la sua squadra del cuore, della birra e malediceva la situazione politica. Di donne non si parlava, Hrabal, almeno in pubblico, sembrava non esserne interessato. Anche se in gioventù aveva avuto una dopo l’altra quattro amanti, le cui foto ho visto in qualche rivista, quindi di donne scriveva soltanto. Dopo il funerale della moglie, affermò di volersi portare a letto l’urna con le ceneri. Lo zio Pipin lo teneva in una cassetta di legno per le birre – così ci disse. Non era un cinico; andai al funerale della moglie, era sconvolto e disse: “Ora cambierà la poetica.” Sono stato anche al suo funerale, e vorrei correggere un errore radicato. Si dice che i Rom suonassero la canzone “Pianto gitano.” Conosco questa canzone, ma lì non fu suonata, piuttosto risuonarono le note della canzone di un film, “Fascination”. Era un buon uomo e gli volevo bene. Era un surrealista del popolo, come lo definì Oleg Sus.   

Come hai vissuto gli eventi del novembre 1989 e il periodo successivo, quando finalmente iniziarono ad essere pubblicati ufficialmente i tuoi libri?

Il novembre 1989 lo vissi con grande entusiasmo. Non credevo che il comunismo sarebbe un giorno caduto, forse che si sarebbe riformato, ma niente di più. Era come se la luna fosse caduta sulla terra – semplicemente impensabile. Naturalmente, accolsi con euforia la pubblicazione dei miei libri. Ma con la pubblicazione arrivò anche la congestione. Come su un tapis roulant, ogni settimana escono circa cinque libri superiori alla media. Secondo la mia esperienza, se il libro non vende entro una settimana, rimarrà in deposito. Nel giro di un mese, nessuno sa più che è stato pubblicato. Oggi non basta essere sopra la media, oggi devi essere sopra sopra la media! Forse questo è un bene. Non forse, sicuramente!

Di che confessione sei? Hai una tua visione del mondo?

Ai primi di febbraio del 1942, sono stato battezzato nella Chiesa cattolica di San Martino a Blansko. Quindi sono un cattolico, ma solo all’anagrafe. Verso la Chiesa e i preti ho forse lo stesso rapporto affettuoso di Jaroslav Hašek. Non ho nulla in contrario. Ho conosciuto alcuni cattolici, ed erano persone molto intelligenti. Io sono ateo … no, no, non è la parola giusta, io sono un deista, vale a dire che riconosco che il mondo è stato creato da una forza superiore, che poi si è allontanata, ha smesso di prendersene cura, e il mondo è governato da leggi proprie. Un deista simile fu, ad esempio, Voltaire o J. J. Rousseau. Ora pronuncio un’idea poco originale – Dio è grande burattinaio (che si annoia nella volta celeste), che per suo piacere gioca con noi il teatrino delle marionette. “To morón tu theu”, che è greco antico per “la follia divina”. O è un grande romanziere, scrive romanzi e fa quel che vuole dei suoi personaggi. Poiché non conosce il dolore umano, fa soffrire le persone nei suoi libri, perché ci considera letterariamente. Anche io occasionalmente ho assassinato qualcuno nei miei libri – e non mi ha fatto male!

E cosa ti dà fastidio al giorno d’oggi?

Oggigiorno mi infastidisce il concetto di “mercato” e che tutto viene convertito in denaro. Ammiro il capitalismo della Prima Repubblica, anche se sono di sinistra. È stato un capitalismo dal volto umano, non come oggi – selvaggio. Ma sai che anche nella Prima Repubblica c’era la censura? Quindi il principio è – non idealizzare nulla!Pavel Reznicek Hrabal

Pavel Řezníček Bohumil Hrabal

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Pubblichiamo qui alcune poesie di Pavel Řezníček, tradotte da Antono Parente.

Oggi, nelle società post-democratiche dell’Occidente parliamo una lingua balneare, l’esistenza dell’esserci è stata ridotta a «nuda vita», a vacuum, a vita vegetativa, biologica. Il cosiddetto «privato» riflette questa condizione di animalità diffusa, dove l’esserci è stato ridotto alla condizione animale, non per nulla la politica dei paesi post-democratici fa riferimento alla «pancia» non alla «testa» degli elettori. È la «pancia» quella cosa che rende evidente la degradazione sub-umana a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta. La «nuda vita» corrisponde alla «pancia» e ai suoi appetiti perfettamente comprensibili. Anche la poiesis che si fa oggi in Occidente è perfettamente commestibile perché si rivolge alla pancia. Nelle nostre società post-democratiche è la retorica che sa parlare alla «pancia», la retorica ridotta a sofisma, a «chiacchiera» a discorso da risultato. Ciò che si legge nella pittura, nel romanzo e nella poesia di oggi altro non è che «chiacchiera», discorso da risultato, «borborigmo della pancia», «ciarle» che si rivolgono al sistema simpatico e parasimpatico, al sottosuolo dell inconscio, alle esistenze ridotte a «nuda vita».

Pavel Řezníček (1942-2018)

Alla portineria dell’Hotel Kempinski
Un uomo in attesa
Inghiotte quelli che escono

Il poeta Byron ingoiava solo i diabetici
Dalla sua ultima vittima si emanò un fumo fosforescente
Byron fu immediatamente arrestato e impagliato sul posto

Questo accade alle persone che si gingilleranno vicino agli alberghi
Barcelò Kempinski Ritz e Alcron
E avranno desiderio di ingoiare i propri concittadini

Saranno impagliati vivi
Anche se cacceranno tutte le urla animalesche
Che vogliono

Solo Deus absconditus può ingoiare le persone
Oppure “La giovane guardia” del romanzo omonimo
di Alexander Fadejev

Non si può caricare la penna stilografica con il latte versato!

Penso che il criterio pertinente per interpretare un testo kitchen o come questi post-surreali di Pavel Řezníček non possa che essere il tasso di figuralità; niente affatto la destinazione letteraria del testo.
I discorsi referenziali, e tra essi il discorso scientifico, descrivono il mondo in termini tendenzialmente neutri, oggettivi, trasparenti (parola versus significato), ciò che chiamiamo discorso letterario è quel discorso che si caratterizza per caratteristiche figurali, quel discorso che altera la relazione di trasparenza, la directdness tra significante e significato. Una poesia kitchen, eminentemente poesia figurale, non deve essere letta seguendo il significato letterale, perché il suo significato è traslato, si trova in un altro luogo, in un altro piano, significa sempre qualcosa d’altro e di diverso.
Occorre ridurre il discorso kitchen come anche il discorso post-surreale di Pavel Řezníček al grado zero, portarlo da un piano letterale proposizionale ad uno figurale e polisignificazionista. Per esempio, la metamorfosi in insetto di Gregor Samsa, i suoi pensieri mentre sta a letto, oppure le parole della renna nella poesia di Pavel Řezníček, tutto ciò che ne segue è una macro figurazione che sta per qualcosa d’altro; si tratta di vicende che ci toccano a livelli transletterali, simbolici, profondi che suscitano in noi reazioni di identificazione e di repulsione… La poesia Alla portineria dell’Hotel Kempinski e stata pubblicata nel 2011 ma e stata scritta due anni prima, come ci informa il traduttore Antonio Parente, anticipando la poetry kitchen di ben 12 anni. (g.l.*

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Archiviato in poesia ceca dl Novecento

Angeli inversi, Poesia ceca, La generazione nata negli anni Ottanta e Novanta, a cura di Jonáš Hájek, Poesie di Štěpán Nosek, Kamil Bouška, Marek Šindelka, Jan Těsnohlídek ml. , Martina Blažeková, Alžběta Michalová, traduzione di Antonio Parente

Jindřich_Štyrský_-_From_My_Diary

Jindřich Štyrský

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Dopo l’entrata sulla scena poetica ceca, all’inizio degli anni 1990, della vivace generazione di autori dallo stile riccamente diversificato, il più vecchio, Petr Halmay (1958) fece il suo debutto nel 1991; il più giovane Jaromír Typlt (1973) debuttò già nel 1990, passarono una una decina d’anni  prima della comparsa di un numero sufficiente di esordienti promettenti, e prima che iniziassero ad emergere frammenti di idee di questa nuova generazione. Inizialmente essa non si profilò rigettando la generazione precedente, né attraverso qualsiasi altra manifestazione autorevole; la differenza principale era data, piuttosto, dall’esperienza di molti di questi autori con la pubblicazione sui siti letterari online. All’incirca dal 2005, il numero di esordienti cominciò a crescere – comparvero i versi narrativamente semplici di Marek Šindelka, che, fino a quel momento, non aveva pubblicato né su internet, né su riviste letterarie, e anche le metafore immaginative di Ladislav Zedník, complicate da un punto di vista formale, piuttosto tradizionali per quel che invece riguarda i motivi – e in circa due anni si consumò un intenso connubio tra nuovi e vecchi media: gli autori, che fino a quel momento erano presenti solo su internet, iniziarono a pubblicare anche su riviste, mentre gli autori già affermati e pubblicati antologicamente partecipavano come ospiti ad incontri di lettura organizzati dal sito letterario Totem. A parte l’imprescindibile esperienza con internet, inizialmente questi giovani autori non avevano altro in comune (o altro che li diversificasse); si rifacevano, più o meno liberamente, alle opere dei poeti cechi delle generazioni precedenti oppure cercavano l’ispirazione nelle antologie in traduzione. Dalla poesia degli anni 1990 viene prepotentemente alla ribalta “la poetica degli interni”, che i giovani autori seguirono e sfruttarono fino al suo completo esaurimento.

Il primo che, in campo poetico, contribuì a smuovere le acque fu il critico Petr Boháč (1977), il quale rifiutava sia la schematizzazione dell’affermata poetizzazione degli spazi interni, sia il carattere chiuso della comunità poetica; successivamente, fu la volta di un altro giovane boemista, Karel Piorecký (1978), la cui condanna dell’intera poetica suscitò simpatie e indignazione. Soprattutto, però, le critiche di Piorecký – il quale, agli occhi dei suoi detrattori, sviluppava le sue tesi anche a scapito di un più profondo apprezzamento dell’autore criticato – hanno svolto una sorta di ruolo di iniziazione: all’incirca negli ultimi due anni hanno aperto lo spazio per riflessioni sullo stato della poesia ceca contemporanea e sui suoi possibili punti di base. Impegno e partecipazione, selvatichezza, spontaneità, medialità, interesse esplicito per l’attività sociale, consapevolezza del proprio valore – queste caratteristiche da lui ricercate, Piorecký le scorse in due piattaforme, tra loro molto distanti: nel gruppo Fantasía (Fantasia), che proclama un nuovo pathos e intraprende la strada dell’immaginazione selvaggia, e nel gruppo orbitante intorno alla rivista Psí víno (Vite vergine), che cerca soprattutto di raggiungere un pubblico più ampio. Queste due piattaforme, a distanza di qualche anno, sembrano davvero essere portatrici di indirizzi nuovi o dimenticati e dopo una quindicina d’anni di scritture contemplativo-minimalistiche sembrano essere davvero essenziali, tanto da non poter essere trascurate, se pensiamo alla trasformazione della nuova poesia ceca e della sua percezione.

Gli autori che qui presentiamo si vanno idealmente ad aggiungere a quelli presenti nell’antologia Rapporti di errore (Mimesis-Hebenon), da poco pubblicata in Italia; questi nostri sei poeti non sono compresi nella suddetta antologia, curata dal poeta ceco Petr Král (1941-2020), lui stesso membro della generazione di poeti che affonda le radici nel surrealismo), probabilmente per motivi di gusto personale o magari più periferico, anche se l’antologia Rapporti di errore comprende autori essenziali. In questa nostra scelta complementare è possibile trovare sia quei poeti i cui testi hanno già avuto un’ampia risonanza, sia quelli che sono ancora in attesa di una risposta più diffusa del pubblico e della critica.

L’inserimento di Štěpán Nosek (1975) tra questi nomi più recenti potrebbe sembrare una forzatura. Nosek è attivo in capo letterario fin dagli anni 1990 e la sua prima raccolta Negativ (Negativo, 2003) sembra legarsi piuttosto alle opere della generazione precedente. Nelle poesie di Nosek troviamo passaggi malinconici e fotografici ma anche toni impulsivi e taglienti. Nei testi appare chiara la sua maestria di bozzettista lirico, ma anche la sua brillante ironia, che cela il suo silenzioso amore per le cose e le persone nel duro guscio di glosse occasionali. Tra le poesie pubblicate ultimamente sulla rivista online A tempo, troviamo anche il testo polemico Nové jaro (Una nuova primavera) – la presentiamo come prova dell’intensificazione percettiva della rivendicazione dello spazio pubblico, in questo caso presentato in forma parodica. Il titolo della poesia parafrasa una critica del già citato Piorecký; per i lettori italiani, aggiungiamo anche che Radim Kopáč è un funzionario ceco che si occupa di letteratura.

Kamil Bouška (1979) è uno dei tre membri fondatori del gruppo Fantasía. Nella sua opera emerge una linea a suo modo civile; le altre poesie, che echeggiano l’antica mitologia o ne creano una nuova, sono piuttosto contenute nell’ammissione delle specificità del mondo circostante. Il cavallo di Troia, tuttavia, può essere, al tempo stesso, il perfido dono degli antichi greci come anche un virus informatico. La prima poesia di questo autore che abbiamo scelto risale ai suoi inizi, la seconda è invece dalla sua raccolta inedita di prossima pubblicazione (presso la casa editrice Fra) che provvisoriamente s’intitola Oheň až po slavnosti (Fuoco fin dopo la celebrazione). È stata scelta anche per il primo almanacco delle migliori poesie ceche pubblicato dal 2009 dalla casa editrice Host. Il quarto testo, dal manoscritto Rozemnutá země (Terra sminuzzata), è quello con cui Bouška inaugurò l’esibizione del gruppo Fantasia nel giugno del 2010, nel club Underground di Praga.

Uno dei maggiori esponenti della generazione dei giovani scrittori cechi è Marek Šindelka (1984). La prima poesia è tratta della sua opera d’esordio Strychnin a jiné básně (Stricnina e altre poesie, 2005), che gli valse il premio Jiří Orten, assegnato al migliore autore under 30. Per citare le parole del poeta Petr Borkovec, che lesse la lode in occasione del conferimento del premio “un poeta ventiduenne ha scritto un libro sulla sua fanciullezza, in cui non troviamo una singola nota, immagine, combinazione di parole, suono che si possa liquidare come ‘eccessivamente privato’ oppure ‘troppo generale’”. Le principali qualità dello stile di Šindelka sono una genuina profondità e il senso per una lirica naturale; il suo campo di competenza, a partire dal romanzo Chyba (Errore, 2008), è diventata la prosa. Nelle sue poesie più recenti, un ruolo importante è giocato dalla metafore uditive e dall’esperienza, appunto, del suo secondo libro, a cui fa riferimento l’ultimo testo qui presentato, con il motivo particolare della crescita e del gemellaggio del corpo umano col corpo inumano della natura – in questo caso la morte.

Una popolarità senza precedenti, soprattutto tra i giovani, vanno raggiungendo i versi di Jan Těsnohlídek ml. (il giovane; 1987). È il più recente vincitore del premio Orten con la raccolta d’esordio Násilí bez předsudků (Violenza senza pregiudizi, 2009). I testi di Těsnohlídek, tra l’altro redattore della succitata rivista Psí víno, vengono descritti dalla giuria del premio come “una dichiarazione poetica e generazionale di rivolta in un momento in cui è difficile trovarne la ragione”, e sembrano scritti apposta per una recitazione ad alta voce. Le poesie che abbiamo scelto mostrano il modo in cui l’autore si sofferma sulle emozioni, e le ripetizioni riescono quasi a ricreare l’atmosfera della sua carismatica recitazione ritmica. La disillusione irrepressa insieme a una incolta veemenza dell’espressione colloquiale e la bassa frequenza di metafore sono al centro dell’originalità dei testi di Těsnohlídek. Le stesse caratteristiche evidentemente spiegano anche perché le sue poesie siano accettate soprattutto da un pubblico esterno alla letteratura piuttosto che dalla comunità silenziosa degli autori conservatori.

Vicino è l’esordio anche per le due poetesse qui presenti. Martina Blažeková (1982) è di origine slovacca e vive a Praga dal 2005. Ha studiato all’Accademia letteraria della capitale, dove ha di recente completato con successo gli studi con la raccolta Lom (Cava). Le poesie di questa autrice bilingue, quasi di monitoraggio, e che a tratti lasciano intravedere lampi vivaci, sono scritte quasi tutte in slovacco; in questa sezione ne presentiamo alcune scritte in ceco. Per Blažeková scrivere, nonostante tutta la cura, è un processo aperto – in questo si avvicina al già citato Petr Halmay. Anche i riferimenti ad autori anglofili sono sintomatici: il primo testo che qui presentiamo è una variazione di una poesia di Louise Glück dalla raccolta L’iris selvatico.

La più giovane tra questi autori di promettente talento è Alžběta Michalová (1991). Vincitrice nella sezione studenti del premio Josef Škvorecký, ha suscitato un vero scalpore nei circoli editoriali e degli autori. La natura empatica delle sue poesie e il suo concentrarsi sulle persone a lei più vicine sottolineano di sicuro un inizio molto promettente; possiamo soltanto sperare che la ricezione sarà capace di separare la particolare qualità letteraria della raccolta in preparazione, Zřetelně nevyprávíš (Chiaramente non racconti), dalle “qualità” della storia autentica, che traspare nei testi sulla ricerca del  padre o anche sugli altri eventi familiari. Importante sarà l’accostamento al lavoro della poetessa ceca Viola Fischerová (1935): entrambe sono accomunate dall’interesse dei destini umani e da poesie eccedenti, che si fondono una nell’altra e che condividono anche i temi oltre il margine bianco della pagina.

Sommando i sei autori che qui presentiamo ai sedici presenti nell’antologia Rapporti di errore, non possiamo di certo affermare che il numero di giovani poeti cechi significativi sia così completo. Difficilmente tutti questi autori rimarranno nella memoria come creatori di valori a lungo termine, non tutti percorreranno l’esigente cammino di una ricerca costante. Tuttavia, ciascuno dei poeti scelti presenta una caratteristica visione personale e contribuisce a questo misto di voci ambiziose e modeste, serie e meno serie con un’impronta peculiare e unica. Tutti insieme, poi, rappresentano – almeno in maniera accennata – i mutamenti e le contraddizioni più recenti della nuova poesia ceca.

(Jonáš Hájek, agosto 2010)

l’articolo è un estratto del servizio pubblicato su “Poesia” (2011, n. 259)

Jindřich Štyrský

Jindřich Štyrský

Štěpán Nosek

Una nuova primavera

Chi ha posto il sentiero lontano all’orizzonte,
sia candidato al premio prestigioso
e il suo nome sia travisato da tutti,
che si fissi nella mente persino dell’insegnante di mio figlio,
che non lo ignorino i telegiornali,
che l’intervista ben riuscita appaia sull’allegato Relax,
sul quotidiano conservatore,
che si incunei in scioltezza tra avon & london look ,
che Radim Kopáč del ministero
gli vada incontro coi fiori per festeggiarlo,
che presto sia analizzato da Karel Piorecký.

Chi ha posto il sentiero lontano all’orizzonte,
ha fatto il miracolo
che i miei connazionali qui si offrono a noi
soltanto come voci del codice a barre –
la passeggiata tra i boschi, il colonnato tra i campi
che porta sulle spalle luci di varia lunghezza, intensità,
un piccolo miracolo, una fortuna non richiesta
che guardano da qui
come una schiera viva di angeli
inversi, improbabili.

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Kamil Bouška

Hyperion

Mi generò l’aria e priva di cielo. Solo burroni, argilla e fosse
e amore che scurisce gusto e respiro.
La lunga morte scorse intorno ai miei occhi e lì i percorsi vorticarono come il mare.
Sollevai lo sguardo, come si solleva un masso,
e scagliai il grigiore contro il grigiore, il puntale contro il puntale, il sogno contro il sogno.
E l’orizzonte si fendé da qualche parte da tempo oltre gli occhi, si ruppe l’uovo nero del buio.
Sfregai tra le dita un breve suono, come se carezzassi la mareggiata,
come se dovessi trovare una qualche melodia sulla punta delle mie dita,
come se già udissi un canto, quando soltanto il silenzio rimbomba, come se vedessi l’iride,
quando la notte ancora dorme nelle orbite oculari, come se vedessi
bruciare un lungo nerume e zampillare le onde verdeggianti dalle fiamme
della gravità terrestre
e nel tumulto di nuvole sentissi respirare ciò che mai respirò,
come se ad un tratto potessi parlare ad alta voce col destino, vidi
un giardino sbocciato di fiori avvolti sotto le palpebre,
il ritmo liquido del sole profondo e l’aurora tambureggiante nel sangue.
Una volta aprii gli occhi e vidi.
E anche se ogni costellazione non parlasse con la mia voce,
la morte non mi convincerà.

pittura karel-teige-collage-1937-19401

karel-teige-collage-1937-1940 

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Marek Šindelka

il cielo di pecorelle
digrada verso occidente
frangiventi lungo il cammino
come mangiatoie
socchiudo gli occhi
e creano una linea nera
cose simili sono ovunque
nel bosco e nei campi
legno grigio
vecchi recinti strani
– perché sono qui?

la neve non rimane molto tempo
sulla micotica foglia incollata
cammino
per il bosco che marcisce
l’inverno si affievolisce
fa gelo solo di mattina
sul campo
è appeso il punto nero della fame del gheppio

è sera
il sole enorme basso tra gli alberi
osservo il latte raccogliersi sulla terra arata
– le zolle si rivestono di un esile velo
da qualche parte in quell’argilla
si accoccola una pelliccia calda
un topolino caldo
sente la morte alta su di sé
e io penso
a quanta bellezza l’essere umano sia in grado di sopportare

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Archiviato in poesia ceca dl Novecento

Petr Král (Praga, 1941-2020) La nuova poesia ceca. La nuova fenomenologia del poetico, Poesie, Traduzione dal francese di Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa, Critica di Sanda Voïca, Laurent Albarracin

Lucio Mayoor Tosi Poster

Lucio Mayoor Tosi poster 2020

Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941 da una famiglia di medici e muore il 17 giugno 2020. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collabora a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su “Le Monde e cinematografiche” su “L’Express”. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’”Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales” e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).

Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017 per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute. Antonio Parente ha tradotto di Král molte poesie in italiano pubblicate da Mimesis, Tutto sul crepusculo nel 2015.

Petr Král

poesie da Ce qui s’est passé, Edition le Réalgar, 2017

Et voilà soudain il ne reste pas grand-chose Nadia fut trouvée noyée
sous une écluse Prokop a fini de respirer malgré la bouteille d’oxygène
Karel Š. a disparu à jamais dans la forêt
Moi-même d’un seul coup d’œil retourné depuis les boîtes à lettres
vers l’escalier j’ai vu se dissiper d’emblée quarante ans de vie en France

Avec l’arrivée de Miloš vint une animation nouvelle une fois il s’est levé pour marcher d’un pas incertain parmi les verres sur la table
sans savoir lui-même jusqu’où
Prokop pendant les séances de vendredi s’appuyait au mur
et pratiquait le théâtre tel qu’il l’a toujours voulu faire
dans ses seules paroles et grimaces

L’essentiel était de rendre rayonnante la rouille du monde
ou du moins d’être là quand en fin d’été
avec le soleil elle rentrait de biais dans les salles d’un bois

*

Ed ecco che all’improvviso non rimane molto Nadia fu trovata annegata
sotto una chiusa Prokop ha smesso di respirare malgrado la bombola di ossigeno
Karel Š. è scomparso per sempre nella foresta
Io stesso, d’un sol colpo d’occhio, sono tornato dalle cassette postali
verso le scale ho visto dissiparsi d’un colpo quaranta anni di vita in Francia

Con l’arrivo di Miloš ci fu una nuova animazione una volta si alzò per camminare con un passo incerto tra i bicchieri sul tavolo
senza sapere lui stesso fino a che punto
Prokop durante le sessioni del venerdì si appoggiava al muro
e praticava il teatro come sempre faceva
con le sue uniche parole e smorfie

La cosa principale era rendere radiosa la ruggine del mondo
o almeno di essere lì quando a fine estate
con il sole lei rientrava di sbieco nelle stanze di un bosco

*

Il fallait disperser par le monde
même la mémoire sursaturée faire passer la mémorable goutte d’un sang partagé fraternellement
sur son doigt devant le poussiéreux JE sans maître dans un tunnel du métro parisien

De Paris aussi on partait par la suite il n’était pas nécessaire de savoir à la quête de quoi
pour que ce soit nécessaire
traîner la nuit vers Barcelone par des autoroutes désertes
dans un miroitement à perte de vue de flocons de neige
et d’étoiles çà et là longer en route des pêcheurs inconnus un boucher préludant dans un verger à un affrontement décisif
avec sa propre planète de viande suspendue
au voyage de retour voir les miroirs
dressés au seuil des maisons près des frontières

Parfois cependant on passait l’été dans la ville faisant sur le boulevard avec d’autres orphelins
la queue pour le tabac pour la fin du dimanche
et pour rien
Les ambulances passaient sans s’arrêter peut-être en route vers une autre métropole

au ciel apparaissaient le soir de distants messages
sans destinataire
On avait alors laissé également derrière soi
des villes entières d’accessoires usés d’accordéons dégonflés de genouillères
et de balles de tennis éraflées
du fond le plus secret nous en parvenait jusqu’à l’éclat
d’une enclume mère immaculée
avant que quelqu’un ne commence à compter fermement
pour lancer le morceau suivant

*

Il Mangiaparole n. 9 Petr Kral

Occorreva disperdere per il mondo
anche la memoria soprassatura far passare la memorabile goccia di un sangue condiviso fraternamente
sul suo dito dinanzi al polveroso IO senza padrone in un tunnel della metro parigina

Anche da Parigi dopo siamo partiti, non c’era bisogno di sapere in cerca di che cosa
perché fosse necessario
trascinare la notte verso Barcellona per autostrade deserte
in un luccichio a perdita d’occhio di fiocchi di neve
e di stelle qua e là camminare lungo la strada di pescatori sconosciuti un macellaio che prelude in un frutteto a uno scontro decisivo
con il suo proprio pianeta di carne sospeso
durante il viaggio di ritorno vedere gli specchi
in piedi sulla soglia delle case vicino alle frontiere

A volte tuttavia si passava l’estate in città facendo sul viale con altri orfani
la coda per il tabacco alla fine della domenica
e per niente
Le ambulanze passavano senza fermarsi forse dirette verso un’altra metropoli

nel cielo apparivano la sera lontani messaggi
senza destinatario
Avevamo anche lasciato alle spalle delle città intere
di accessori consumati da fisarmoniche sgonfiate di ginocchiere
e palline da tennis graffiate
dal più segreto fondo si giungeva allo scoppio
di un’incudine madre immacolata
prima che qualcuno cominciasse a contare con fermezza
per iniziare il pezzo seguente

Petr Kral (1)

*

Face à la flaque de sang au seuil de l’échoppe du tatoueur
baillait immense la mer

Plus au fond de la ville le courant d’air seul
enrobait de ses draps les dormeurs
dans les salles d’attente des chambres

Une autre fois l’hotel et le cinéma
en vis-à-vis formaient une mètropole entière

L’idée d’une pièce montée oubliée sur le siège arrière
d’un taxi nous poussait autant vers le monde
que l’exemple d’un portemanteau jailli vers les champs
et la vision d’un éventail s’écartant pour nous
entre deux cuisses en feu
L’important de toute façon était de tout se raconter
par la suite alors qu’on repeignait encore l’appartement
derrière les fenêtres d’en face

Les uns se contentaient d’avoir vu une épingle à cheveux
flotter dans le Mississippi
d’autres tournaient le dos même aux vagues montantes des villes

la victoire sous un nom d’emprunt
tournait timide dans la plaine environnante

Parler ou bien se taire
mais ne mettre jamais le point final

*

Di fronte alla pozza di sangue sulla soglia del negozio di tatuaggi
sbadigliava immenso il mare

Più in basso nella città, la corrente d’aria da sola
avvolgeva con le sue lenzuola i dormienti
nelle sale d’attesa delle camere

Un’altra volta l’hotel e il cinema
di fronte formava un’intera metropoli

L’idea di un pezzo montato dimenticato sul sedile posteriore
di un taxi ci spingeva così tanto verso il mondo
che l’esempio di un appendiabiti ingiallito spuntato verso i campi
e la visione di un ventaglio che si apre per noi
tra due cosce in fiamme
L’importante comunque era di raccontarsi tutto
nel mentre che si stava ancora dipingendo l’appartamento
dietro le finestre di fronte

Alcuni si accontentavano di aver visto una forcina
che galleggiava nel Mississippi
altri voltavano le spalle anche alle ondate crescenti delle città

la vittoria sotto un nome preso in prestito
tornava timida nella pianura circostante

Parlare o tacere
ma non mettere mai il punto finale

*

Le silence partagé avec une Italienne envoutante
à une table du hall de gare fut une rencontre d’amour importante
même si la brise après
comme auparavant ne tournait que des pages vides

On suçait reconnaissant vos extrémités douces
ou amères jusqu’à ce que le dimanche au-dehors
s’écartat de la fenêtre

La guinbarde de l’Eternité reculait à son tour fréquemment
devant le trafic frénétique de l’Histoire

Il apparaissait clairement que même toute musique
n’est qu’une transcription apaisante des sautes de vent
et de secousses du sol qui d’avance nettoient la maison nous chassant
de la planète

Restaient les chantiers dans l’un tu enterrais chaque fois
en le longeant le dernier téléphone noir
au-dessous d’une autre pendait seul de la grue
un point d’interrogation en métal

Certaines d’entre vous également avaient le chemisier dans une ville
et la jupe dans une autre
Le béret de Wanda emporté par le vent
s’éloignait vers le bas de l’avenue
Quelques tours d’hélice ont dispersé les billets du magot sur la plaine
comme les manuscripts du poète de Camaret

A présent boire seulement à une bouteille une goutte d’Italie
et à l’autre un peu d’Espagne
sans pour autant quitter des yeux la pente d’en face

*

Il silenzio condiviso con una italiana ammaliante
a un tavolo nella sala della stazione fu un incontro d’amore importante
anche se la brezza dopo
come prima non girava che delle pagine vuote

Si succhiava riconoscente le vostre morbide estremità
o amare fino a quando la domenica fuori
si allontanava dalla finestra

La catapecchia dell’eternità a sua volta si ritirava di frequente
di fronte al frenetico traffico della storia

Era chiaro che anche tutta la musica
non è che una trascrizione rilassante delle oscillazioni del vento
e delle scosse del terreno che in anticipo pulivano la casa scacciandoci
dal pianeta

Restavano i cantieri in uno tu seppellivi ogni volta
camminando l’ultimo telefono nero
sotto un altro pendeva da solo dalla gru
un punto interrogativo in metallo

Alcuni di voi avevano anche la camicetta in una città
e la gonna in un altra
Il berretto di Wanda portato via dal vento
si allontanava lungo la fine del viale
Qualche giro di elica ha disperso le banconote sulla pianura
come i manoscritti del poeta di Camaret

Adesso bere solo da una bottiglia una goccia dell’Italia
e dall’altra un po’ di Spagna
senza, per tutto ciò, distogliere lo sguardo dalla discesa di fronte

*

petr kral 1

petr kral

Standa me disait tu te protèges le visage
comme si la menace venait du dehors

On se penchait ensemble sur le jeu des petits papiers
tout come sur les cravates le clair-obscur s’écartait
ma celle en fibres de fougère restait enfouie à jamais
dans les année vingt

Après le toast de minuit le vieux Perahim tout à coup
regarda alentour d’un oeil interrogateur : Qu’allons-nous faire
avec le monde ?
Même de la Russie où jadis il avait fuit Hitler
il a dû  plus tard presque s’échapper

Mayo bien qu’entouré à present
d’un monde de succédanés se nourrissait jusqu’à la fin
du beurre et des oeufs tels que dans un matin d’été
il les vit en Grèce étalés sur des chaises
au seuil des maisons près du port

Nous on regardait aussi parfois
en face nos maître et mentors
peu à peu jour aux premiers éclairs d’un orage
on part d’un rire soulagé au-dessus de l’assiette
vers laquelle on s’incline bien loin d’eux

*

Standa mi diceva tu proteggi il tuo viso
come se la minaccia venisse dall’esterno

Ci chinavamo insieme sul gioco dei piccoli giornali
come sulle cravatte il chiaroscuro si scostava
ma quella in fibra di felce restava seppellita per sempre
negli anni venti

Dopo il brindisi di mezzanotte il vecchio Perahim all’improvviso
si guardò attorno con un occhio interrogativo: Che cosa ne faremo
del mondo?
Perfino dalla Russia dove una volta era fuggito Hitler
ha dovuto più tardi quasi scappare
Mayo benché circondato adesso
da un mondo di succedanei si nutriva fino alla fine
di burro ed uova tal ché in una mattina d’estate
le vide in Grecia appoggiate su delle sedie
sulla soglia delle case accanto al porto

Anche noi a volte guardavamo
di fronte nostri maestri e mentori
a poco a poco ai primi lampi d’un temporale
iniziamo con una risata sollevata sopra il piatto
verso il quale ci si inchina ben lontano da loro

*

Les autres quelquefois venaient également nous accueillir
à la gare oui c’était toujours nous quand aprés la traversée de l’océan
je descend de l’avion en tenue de tennis
Prokop et Vlasta me tendent une balle pour ce jeu
qui ètait tombée dans leur cave par un hublot ouvert

A Sázava le visage en sang
je frappais à la porte derrière laquelle je vous croyais faire la fête
sans moi
au fond d’un vieux tacot par la suite
je frissonnais tout seul baigné de clair de lune
dont la pâleur dèvolait notre nudité
et l’enrobait mieux que le soleil ce tuteur rigolard
qu’on laissait volontiers aux sportifs et aux ingénieurs en lunette moires

Dans la journée de même que vous beautés
on habillait un peu notre viande
pour l’empêcher de trop s’égarer Il arrivait même qu’on la rende si pimpante
qu’elle nous surveillait à son tour elle revenait pourtant toute loqueteuse
de même que nous

Vous suite à nos visite de votre chair
vous retirez parfois derrière le seul horizon
des lignes dans vos lettres
Toute une ville neuve accompagnait au retour
Chacune de ses maisons bien sur ètait un garde-robe à part
auquel il nous fallait s’atteler Sans se faire reconnaitre
laisser la ville bien s’incruster dans la masse de nos èpaules

*

Gli altri a volte venivano egualmente ad accoglierci
alla stazione dei treni, sì, eravamo sempre noi quando, dopo la traversata dell’oceano,
scendo dall’aereo con l’attrezzatura da tennis
Prokop e Vlasta mi tendono una palla per questo gioco
che era caduta nella loro cantina da un oblò aperto

A Sazava la faccia insanguinata
bussavo alla porta dietro la quale vi credevo festeggiando
senza di me
in fondo a un vecchio catorcio in seguito
io rabbrividivo tutto solo, impregnato di chiaro di luna
il cui pallore svelava la nostra nudità
e la vestiva meglio del sole, questo guardiano ridacchiante
che lasciavamo volentieri agli sportivi e agli ingegneri con gli occhiali da sole

In quel giorno così come voi bellezze
vestivamo un po’ la nostra carne
per impedirgli di smarrirsi troppo Accadeva perfino che la si rendeva così allegra
che lei a sua volta ci osservava lei tornava tuttavia tutta sbrindellata
proprio come noi

In quanto a voi in seguito alle nostre visite alla vostra carne
vi ritirate a volte dietro il solo orizzonte
delle linee nelle vostre lettere
Un’intera città nuova accompagnava al ritorno
Ciascuna delle sue case era ovviamente un guardaroba a parte
che dovevamo affrontare Senza farsi riconoscere
lasciare che la città si radichi bene nella massa delle nostre spalle

*

Petr Kral 2016 caffè Slavia, PragaLe voyage dèsormais se poursuivait par à-coups
sans poutant s’arréter Même si centains d’entre nous se mariaient fondaient des familles
voire s’installaient dans leur propre pavillon
avec jardinet lui pouvait émerger en rivière souterraine
aux endroits le plus imprévus
et dans les contrées le plus lointaines On se dépassait à bord de voiture étrangères
sur des plaines toujours plus proches du Sud
jusqu’à s’installer ensemble sur les Ramblas
devant un verre de vieux porto et des cartes postales d’une fraicheur estivale
pour nos psychanalystes
Une autre fois on ne se cachait et se retrouvait mutuellement
que dans les bistros d’un même quartier

Il fallait che je vienne à Lyon
pour surprendre dans l’ombre d’une entrée de fraiches éclaboussures de lumière
et pour voire dans un parc une ultime giclée de soleil
couler sur un arbre comme un signe distant de l’inaccessibile nudité

*

Il viaggio oramai procedeva a singhiozzo
senza potersi fermare Anche se alcuni di noi si sposavano
fondevano famiglie
si sistemavano perfino nel loro proprio padiglione
con il giardinetto lui poteva emergere come fiume sotterraneo
nei posti più imprevisti
e nelle contrade più lontane Ci si superava a bordo di macchine straniere
sopra pianure sempre più vicine al Sud
fino a stabilirsi insieme sulle Ramblas
davanti a un bicchiere di vecchio porto e cartoline d’une freschezza estiva
per i nostri psicanalisti
Un’altra volta ci si nascondeva e ci si ritrovava soltanto
nei bistrot d’uno stesso quartiere

Dovevo venire a Londra
per sorprendere nell’ombra d’un ingresso freschi spruzzi di luce
e per vedere in un parco un ultimo schizzo di sole
sgocciolare su un albero come un segno distante d’inaccessibile nudità

*

Una poesia  della nostalgia?  della  rammemorazione  di una vita passata senza passare? Testimonianze? Per chi? O piuttosto  fissazioni delle vertigini d’un tempo antico e odierno – vertigini personali, che hanno coinciso o forse no con le tempeste, le vertigini e a volte perfino con i maelström della Storia – quando si tentava di “fare splendere la ruggine del mondo“.

Quando si è voluto cambiare la propria vita e il mondo – “bisognava disperdere nel mondo / perfino la memoria sovra-satura e far passare la memorabile goccia di un sangue condiviso fraternamente / sul proprio dito davanti al polveroso IO senza maestro…”, privi della sicurezza d’esserci riusciti; si può sempre ritornare  sul lavoro, con uno sguardo e delle parole a posteriori, fare un bilancio… Per sé stesso e per quelli che vorranno sapere.

La gioventù rimava con viaggi, spensieratezza, fiducia, lotta di classe, addirittura rivoluzione da fare…

L’amicizia, ugualmente: “Mentre con Alain tentiamo di leggere il nostro destino / nel viso l’uno dell’altro (…)”

Sfilata di ricordi, sogni, viaggi (città, paesi, cammini), amori, amicizie, un bagliore, un bosco, un paesaggio, la luna, il litorale, utopie vissute o soltanto sognate , libri e autori, delusioni, povertà, politica.

Rimane tutto molto vago ed insieme  molto preciso: scrivere una vita, perfino delle vite e delle epoche in trenta poemi (poesie),  non lunghi, senza titoli: scommessa riuscita, quando si conosce la vita tumultuosa dell’autore poeta. Il fermento di un tempo non è assolutamente spento, ma quello che emerge principalmente è il sentimento di galleggiamento permanente, l’impressione di un andare e venire tra le diverse tappe della vita e sopratutto tra gli atti di un tempo e la scrittura attuale, il che dà, al di là di un puzzle nel mentre si costruisce, l’impressione di un’impossibilità a decifrare, analizzare o regalare parole definitive a qualunque cosa. La Storia ha camminato, la gente, tra cui il poeta Petr Král , anche – e questo cammino del passato non si è fermato, continua a muoversi e ad imporre delle parole per dirlo. “Gli intrighi delle nostre storie andavano facendosi impenetrabili.” La Storia è già stata scritta, alcuni la scrivono o la riscrivono ancora – ma esistono le storie personali, che proviamo ad integrare all’altra – o semplicemente a metterle accanto, oggetto o animale, che non ci hanno ancora lasciato: la vita, semplicemente. La cosa più importante rimane sempre il raggiungimento del «qui senza dimensioni / l’attenzione rinnovata per i suoi angoli e arrotondati // Altrimenti non rimangono che facce / e ancora facce dappertutto spiaccicate Cominciando certo con quella che ogni mattina emergeva di fronte allo specchio.» E mai dimenticare: «… quel augurio primo / e ultimo: mettere il dito nella piaga del mondo /quella appena socchiusa…” Con la speranza che un giorno “si aggirerà da qualche parte una Sfinge lontana / per incontrare noi stessi.» E sopratutto: «L’importante comunque era di raccontarsi tutto / in seguito(…)».  E questo quando «La carretta dell’Eternità indietreggiava spesso anche lei  / davanti al traffico frenetico della Storia.»

E verso la fine molto pessimista di questa raccolta: «Appariva chiaramente che perfino ogni musica non è che la trascrizione lenitiva dei salti del vento  / e degli scossoni del suolo che puliscono in anticipo la casa cacciandoci fuori/ dal pianeta.»

(Sanda Voïca – trad. di Edith Dzieduszycka)

*

Un titolo come Quel che è successo, ci si poteva aspettare un libro di ricordi, un bilancio, una messa in chiaro. Era senza contare con “il diritto al grigio” (1) rivendicato dal suo autore, e che ha per altro meno a che vedere con un’estetica del flou che con una presa in conto del banale e del prosaico, come il fondo perpetuo sul quale si stabilisce il poema. Rimane il fatto che se il libro è in realtà basato sui ricordi, ci dovremo rassegnare per quanto riguarda la loro messa in ordine e al chiaro. Sorgono infatti nel più grande disordine, senza classificazione cronologica né geografica, né tematica.

Petr Král, nato nel 1941 a Praga, è vissuto a Parigi dal 1968 al 2006, prima di ritornare nella sua città natale. Ha viaggiato (America, Spagna), ha frequentato i gruppi post-surrealisti cechi e francesi, ha conosciuto pittori e scrittori. Ha girovagato nelle città, visto dei film, ascoltato musica… Ma quel che risale dei giorni passati non è in alcun modo ordinato, gerarchizzato. Ogni evento genera memoria, dal più grigio al più clamoroso, senza distinzione per quanto rileva dall’ordinario o dallo straordinario, lo scintillio d’un frammento del passato alle prese colla ganga opaca del quotidiano più contingente. Da qui la strana ibridazione del verso e della prosa nel poema di Král: il verso è lungo, senza punteggiatura (salvo la maiuscola che marca l’inizio di una frase), non cerca la densità né l’equilibrio né la fluidità sintattica. Il suo verso somiglia piuttosto a una prosa che zoppica, a una lingua corrente (addirittura famigliare) sbilenca e sincopata. Il poema si presenta come una specie di racconto narrato il più vicino possibile alla grisaille dei giorni, nel fuso incatenato della loro successione. Per cui le immagini sono meno folgoranti che fuggitive, più elegiache che surrealiste. Però, a volte, succede che sia proprio l’oro del tempo a strappare la nebbia e l’ossidazione dei giorni.

L’essenziale era di far splendere la ruggine del mondo
o almeno di esserci quando alla fine dell’estate
con il sole rientrava di sbieco nelle stanze d’un bosco.

La nostalgia di Král non consiste in generale nel prelevare i momenti più felici, ma a darli nella loro continuità grigia, nel loro sfilare un po’ triste e vano. Non si tratta di idealizzare il passato né di abbellirlo, ma al contrario di mostrarlo già all’origine complicato dal rimpianto che accompagnerà il suo ricordo. Le cose e gli eventi sono spesso banali, aneddotici, desueti, poveri, come  logorati dalla loro semplice presenza nella trama del tempo. Al limite, il solo carattere che li distingue gli uni dagli altri e le mette in esergo, è la loro incongruità, la loro stranezza, il loro aspetto leggermente inappropriato, come quei copricapo da indiani in saldo / sulle bancarelle del mercato delle pulce”. La sua nostalgia ha qualche cosa di onirico, ma non nel senso che eliminerebbe la realtà privilegiando il sogno, ben piuttosto perché, come in sogno, la memoria raccoglie tutta la realtà indiscriminatamente, o in modo selettivo ma azzardoso, in ogni modo fuori da ogni criterio razionale. I ricordi risalgono dal passato secondo la logica disordinata e imparabile del sogno e si sistemano gli uni accanto agli altri senza che la stranezza del loro avvicinamento li disturbi in alcun modo.

Così come in un sogno (un incubo?), l’inavvicinabile può costeggiare  l’assolutamente vicino.

Il marciapiede di fronte a volte si trovava più lontano
dell’altro bordo della città quello dove tutta la gente si precipitava
pompieri fresche ragazze per le feste in vecchia Ford
re in esilio al volante d’un taxi
noi stessi vi ci recavamo senza però andare via da qui.

L’esilio non ha bisogno di paesi né di lunghe distanze visto che può cominciare subito dal marciapiede di fronte.. Il passato è un miscuglio d’età dell’oro e di tempo grigio, arrugginito, bloccato. E’ come l’inconscio del tempo alle prese con il presente.

(Laurent Albarracin – trad. di Edith Dzieduszycka)

[1] Le Droit au gris, éditions Le Cri Jacques Darras, 1994.

*

Praga, Moldava

Praga sul fiume

Adesso che il grande poeta ceco ci ha lasciato ci scopriamo più poveri, Petr Král è un modello per tutta la poesia europea più sofisticata, ci rammarichiamo che un poeta del suo livello non sia stato pubblicato in Italia dagli editori a maggior diffusione nazionale, come si dice di solito con un eufemismo. Antonio Parente ha tradotto in modo mirabile le sue poesie, che anche in italiano ci consegnano un poeta di straordinaria complessità, novità e semplicità. Quando lo incontrai due estati or sono al caffè Slavia di Praga, mi chiese come mai la nuova ontologia estetica partisse dalla raccolta di Tomas Tranströmer del 1954, 17 poesie. Io gli risposi che la poesia italiana degli ultimi cinque sei decenni continuava a restare ancorata alla formula dicotomica di lirica-antilirica, formula asfittica e di corto respiro, e che occorreva ripensare le novità introdotte dalla poesia di Tranströmer per poter elaborare, in Italia, una poesia più moderna. Petr sorrise e mi disse che anche a suo avviso la poesia italiana degli ultimi cinquanta anni non era portatrice di nessuna novità significativa e che forse era necessario che la poesia italiana si prendesse una epoché, una sorta di beato esilio di massa dalla scrittura routinaria ed «elegiaca» (sottolineò con enfasi la parola «elegiaca») in cui si era persa. Rimasi sbigottito e sorpreso dall’acume di quella sua osservazione. Poi passammo ad altro. Il suo volto recava le tracce di una vita difficile e dispendiosa, una ragnatela di minute e minutissime rughe incorniciava il suo volto severo, ma le sue parole erano sempre gentili…

«Anche da Parigi si partiva in seguito non era necessario sapere alla ricerca di che cosa perché fosse necessario» (P. K.)

Una vastissima parte, anzi, la quasi totalità delle nostre esperienze sono esperite senza che la «coscienza» intervenga in prima persona, ma semmai essa interviene in modo autonomo e automatico. Rarissimi sono i casi della nostre esperienze nei quali interviene una mente cosciente cui abitualmente diamo il nome di «io». Questo fatto è evidentissimo quando guidiamo una automobile. Durante l’attività di guida possiamo conversare amabilmente con il nostro vicino, possiamo pensare alla lezione che abbiamo appreso il giorno prima, senza per questo che la guida ne venga disturbata, è come se ci fossero due «coscienze», una in stato di sonno che organizza la guida, e una in stato di veglia, che ripensa al libro che abbiamo studiato il giorno prima. Di fatto, è evidente che noi guidiamo con una «coscienza automatica». Ecco, la poesia di Petr Král riflette questa processualità della coscienza dell’uomo moderno, è intrisa di più «coscienze» che si giustappongono e si sovrappongono, l’una ad insaputa dell’altra. Questa caratteristica della poesia kraliana non è soltanto una caratteristica stilistica, quella di Král non è una semplice distassia, ma un dato di fatto ontologico dell’esistenza dell’uomo moderno che la sua poesia recepisce con una straordinaria capacità reticolare di trattenere e sgomitolare tutti i fili della aggrovigliata matassa dell’esistenza. Di fatto, la «coscienza» è del tutto inutile per lo svolgimento delle attività e dei calcoli di tutti i giorni, anzi, a volte l’impiego della coscienza potrebbe rallentare il calcolo delle azioni che stiamo facendo, come accade al un pianista che muove tutte e dieci le dita in modo meravigliosamente armonico senza che intervenga la coscienza a governare i movimenti delle dieci dita e dei pedali del pianoforte. In tutte queste attività la coscienza è perfettamente inutile, anzi, è superflua.

L’io non è la sede della coscienza, come comunemente si crede, l’io è una metafora che indica uno spazio mentale dove noi, per semplicità didattica e comunicativa, siamo soliti porre l’accadere di alcune cose che avvengono nel nostro spazio mentale con il coinvolgimento della coscienza. Ma ciò è inesatto, la «coscienza» non ha sede nell’io, anzi, verosimilmente essa non ha una propria residenza, non ha un «luogo» e un indirizzo dove abita. Possiamo pensare alla coscienza come una nuvola che sta in tutte le cose o come una ragnatela filamentosa, ma non è necessario affatto pensare che le cose abitino in questa nuvola, perché essa nuvola c’è e non c’è… interviene solo in alcuni rarissimi casi.

«Una parola così poco metaforica come il verbo inglese “to be” (essere), fu generata da una metafora. Essa deriva infatti dal sanscrito bhu, (crescere o far crescere), mentre le forme inglesi am, (io sono), e is, (è), si sono evolute dalla stessa radice del sanscrito asmi (respirare). Fa piacere scoprire che la coniugazione irregolare del verbo inglese più banale conserva un ricordo del tempo in cui l’uomo non possedeva una parola a sé per «esistenza» e poteva dire solo che qualcosa «cresce» o «respira». Ovviamente, noi non siamo coscienti che il concetto di essere è generato in tal modo da una metafora riguardante la crescita e la respirazione. Le parole astratte sono antiche monete le cui immagini concrete sono state logorate dall’uso nel continuo scambio del discorso». 1

Nelle poesie di Petr Král abbiamo un mirabile esempio di scrittura poetica «semiautomatica», pensata sul filo di una coscienza non cosciente, o meglio, di una coscienza semiautomatica che è in atto in noi in ogni momento della nostra giornata, ed anche dei nostri sogni. La scrittura poetica di Petr Král è molto vicina a quella idea di cosa che noi pensiamo debba essere la poesia di oggi: una scrittura che nasce dalla memoria semiautomatica della coscienza irriflessa, fitta di polinomi frastici instabili, nei quali sarebbe tempo perso andare a cercare il senso delle singole proposizioni o dell’insieme con un occhiale neoverista e neorealista, con un concetto neoliberale della proposizione poetica come è in uso nella tradizione della poesia italiana degli ultimi decenni. La promiscuità, il disallineamento frastico, la distassia, la dismetria, lo spaesamento dell’io sono caratteristiche fondanti di questo tipo di fenomenologia del poetico, e Král è indubbiamente un maestro in questo genere di poesia modernissima.

(Giorgio Linguaglossa)

1 Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, 1976 p. 74

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Vladimir Holan (1905-1980) Poesie – Un brano da Lemuria a cura di Antonio Parente – Traduzioni di Angelo Maria Ripellino, con uno stralcio della Prefazione di Giovanni Raboni a Il poeta murato

Foto con quadrato nero

No, non ci sono mai stato

Vladimir Holan (Praga 1905-1980). Dopo la prima raccolta di versi, Il ventaglio delirante (1926), maturata, sia pure con originalità di dettato e di temi, nel clima del poetismo, si tenne sempre in disparte dalle correnti letterarie contemporanee. La sua vocazione alla solitudine si manifestò anche in una impressionante scelta esistenziale: a partire dall’ultima guerra e fino alla morte, osservò nella sua casa nell’isola di Kampa (Praga) una rigorosa autoreclusione. La sua poesia densamente intellettualistica, ricca di metafore insieme oscure e cristalline e tesa a distillare i nuclei metafisici del rapporto fra uomo e realtà (Trionfo della morte, 1930, nt; L’arco, 1934, nt), si volse, a contatto con i tragici avvenimenti della guerra e dell’occupazione nazista, verso una maggiore affabilità, raggiungendo a tratti una semplice e grandiosa eloquenza epica (Primo testamento, 1940, nt; Terezka Planetova, 1944, nt; Viaggio d’una nuvola, 1945, nt; Ringraziamento all’Unione Sovietica, 1945, nt; Requiem, 1945, nt; Soldati rossi, 1956, nt). Dopo questa parentesi, H. abbandonò definitivamente i temi politici e tornò, approfondendole, alle sue ardue visioni interiori. Nel poema Una notte con Amleto (1964), gli incubi della fantasia del poeta parlano per bocca di una stralunata reincarnazione dell’eroe shakespeariano, in un frenetico sovrapporsi di tempi storici e di motivi mitici ed etnologici. Nella produzione degli ultimi anni si ricordano: Ma c’è la musica (1968, nt), Un gallo a Esculapio (1970, nt), I documenti (1976, nt), Tutto è silenzio (1977, nt). Pur nel suo itinerario isolato e singolare, la poesia di H. – una delle più compiute espressioni della lirica del Novecento – dimostra una spontanea contiguità con alcune costanti della poesia ceca: la tensione barocca con i suoi possibili sbocchi surrealisti; l’ispirazione notturna, che ha il massimo esempio nell’opera di Mácha e che in Holan è, soprattutto, presenza occulta della morte come matrice della vita.

Sapeva di dover continuare per questa via angusta, ma questa via, del tutto spopolata e priva di pietre miliari, d’un tratto gli apparve inghirlandata di alberi in fiore, dei quali non gli era stata fatta alcuna menzione. Di colpo si verificò un cortocircuito meditativo, e quei dettagli interni, che si rinnovavano con implacabile ripetitività, presero a scurirsi, come a dimostrare che anche la nostra anima avevano portato la luce elettrica nei suoi anfratti. Un’obiezione inconsueta ma concomitante, proclamata ma inaudita, un punto saldo, un sommario certo che conclude (non impune) la prospettiva della propria sicumera, tutto ciò presente nelle supposizioni del suo smarrimento amplificava l’ammissione nella certezza, tutto ciò che era soltanto falsità e a cui si poteva sempre sommare la menzogna, la condizione aguzza del diamante, rassicurata dal languido ermellino, il superamento dei rimorsi, che consente di soccombere, lo sviluppo spirale dei presagi, i particolari della sconfitta, tutto ciò con cui indaffarò la confidente apprensione, vale a dire migliaia di congetture e la pallida prominenza delle supposizioni, che subornano la vigilanza al consenso – tutto questo era ora roccia, impilata in forma grezza oltre il velo di queste pause fruttuose, tratti e luci franti, e non intensi (tale era la conoscenza teorica della loro scelta).

Il passato di alcuni rami, irradiato dal germoglio presente, allo stesso tempo con l’intera corona del mandorlo, corroborata da un candeliere deforme…, persistevano qui, accesi da ogni sfumatura di calore, nella fragranza, per così dire, delle droghe, che agita l’aldilà dell’allucinazione.

Ma i ciliegi, i meli e i peri di questa primavera inaspettata culminarono in un’esitazione in fiore: qui nello smalto conico del sorriso, lì nella fettuccia che sventola dal velario malaccortamente chiuso, altrove nei toni, risvegliati non tanto dai tocchi quanto piuttosto dal levarsi in aria delle api, che sciamano in nuvolette e si affrettano tra dei e provvigioni.

*

Non sapremo mai quale stato serrò o sprigionò colui che si appressa alla lettura; quale cristallo di beata concentrazione, quale cupo masso di meditazione pone sulla pagina, in modo che rimanga più a lungo spalancata; quale soffio di povertà, di qualificante e raffinata attenzione, lassitudine o eccitazione disperda, al contrario, le pagine.

Un soffio simile, il soffio del pomeriggio d’un tratto eccitato – il vento – alita tra gli alberi in fiore del preludio, come se volesse impoverire la ricchezza della loro bellezza e saggiare così la sua forza o debolezza.

Il pellegrino smarrito sente in che modo laggiù, dove il fiore del silenzio incontra una deviazione di polline, ogni fogliolina, ogni petalo si accomiati taciturno e, pur tessendo la caduta, è lui che nel ruolo ignudo dell’aria insegna al vento l’indumento.

Per il pellegrino è un incantesimo: corrente, onda, originate da cosa? Dal rovesciamento del calice o dal suo eccessivo riempirsi? Era necessaria la violenza, la negligenza o magari la generosità? Qui nella notte, comunque, a me interessa soprattutto lui… Quando – osservando gli alberi – dissi tra me e me: quale brutalità fu plausibilmente impiegata in queste delicate costruzioni, avevo in mente già lui. Mi sorprese. Infiamma la voglia con la curiosità in qualche illuminazione superiore, sotto la quale di certo vive (o microscopio dissettivo dello spirito) ma allo stesso tempo qui mi sento cupo come il fondo dell’abisso tra le somiglianze di noi due e in attesa di cadervi. Ne so talmente poco che l’intendo come vivente, visto che tutto vive e santifica o sacrifica con il proprio opposto; come un abbaiato che possiede e allo stesso tempo di cui difetta; come un’isoletta nell’immaginazione, che da essa diventa mare; come una marionetta che mette piede tra il no e la transitorietà e che previene la sintesi; come una domanda: fin dove spunta dalla corporalità colui che, nell’estasi dello spirito e catturandone la freccia, afferrò l’arco del corpo… Ma il raggiungimento è talmente acuto che ci separa dal raggiunto con uno spazio fluente, implementato da una chimera, un fantasma.

Siamo sull’Acheron… Qui qualcuno infrange il timone di Caronte… Ci perderemo, avendo rifiutato il divagare… E ci perderemo nel divagare, dal momento che c’è sempre qualche chimera che ci chiama a sé, attirandoci nel punto che abbiamo appena abbandonato…

*

Continuo. Così come si aiutava a portare qualcosa di troppo enigmatico, pesante poggiando semplicemente la mano sulla colonna e la molteplicità del pensiero con la mano a sostegno della fronte –, il pellegrino (tuttora davanti agli alberi, come desumo) prende una decisione, fa calare il suo braccio nella bisaccia deposta e si avvia in direzione di Věžná.

È una costruzione diruta, celata – per così dire – tra il fogliame stormente dell’albero genealogico dei signori di Wistful, una costruzione che, come preferisce credere il mio gioco all’inganno con la colpa del riso, era stato offerto come dimora all’altro. Sul lato nord se ne può già scorgere l’angolo e la torretta. Lì, di notte, la lampada da studio, che semina sulle pagine una rugginosa violenza, rimarrà un po’ smorzata e lascerà ad altri gli accentuanti lavori circolari, in modo che la cinghia del fiume metta in moto le rotelle delle loro settimane.

Gli astuti delle fughe cercano un complice e quello la via per dimostrare le loro verità e una ricompensa immaginaria. E non è per lui già sufficiente ricompensa il circondarsi di solitudine e del muro di cinta? Ricorda, in modo che in alcuni punti sia massiccio solo in apparenza. Si metterà in marcia da qui oppure sarà assalito… L’altro mi appare come un insieme sfocato, senza che ne riconosca i singoli… Mi chiedo ancora se non sia stato capace di raggiungerlo solo perché sono affetto da presbitismo. E, pensando a quest’essere, al quale è già stato forse dato il benvenuto e sta salendo le scale, potrei fornirmi questa risposta: certo sono qui, ma è talmente lontano che mi invierò da lì alcune lettere.

Enigmi in cui l’ordito dei concetti non si fa concettosità, con una torsione barocca continuamente sconfessata e deviata dall’uso ostinato dei puntini di sospensione; e in cui la chiusa sentenziosa non è un oracolo astratto e allineato a un’idea di verità ma una constatazione accanitamente terrestre e umana, inchiodata al paradosso, che «conosce non conoscendo». Già negli anni quaranta, nel diario pubblicato con il titolo Lemuria, Holan scrisse: «Che sia la musica, là dove comincio a non capire! Sogno il diario perduto di Orfeo sulla navigazione con gli Argonauti, sogno le partiture smarrite di Pindaro e il ritratto scomparso di Cecilia Gallerani». L’ultimo tempo della sua poesia è, nelle parole dei curatori, «l’estrema propaggine di quel “folle tentativo”» che fu per lui l’armonia atonale: richiamandosi alle tecniche della musica seriale, allineava e incrociava cellule di suoni minimi, groppi di fonemi, annodando crampi di senso sottratto in uno spazio reinventato fra pensiero e distrazione, scatenando cortocircuiti in una logica dell’inconseguenza apparente che chiama il lettore a ripensarsi dentro le sue nuove dimensioni. «Sempre cerchiamo il centro … Ma lui, come un punto, / è cieco … Cercando il suo cuore, / cerchiamo la cecità … E da tempo già ciechi, / siamo soltanto un tastare».
La sua è una poesia non euclidea che porta in sé anche un tratto taoista, la cui via indica innanzitutto la non ricerca di una via; una voce volta a volta evanescente o convulsa, febbrile, attonita e spietatamente saggia, che commercia con i piani più sfuggenti e definitivi dell’essere, dove il mondo e la presenza umana ormai non sono altro se non un fondale per le evoluzioni inafferrabili della coscienza che si scrive.
La sua vocazione più forte, in cui precipitano anche la maledizione del sesso e dell’infanzia irraggiungibile, è diretta alla scoperta della «morte prima della vita» come dimora primigenia ed eternamente perduta, sotto la sferza dell’irrevocabile: «Quello che bramate, e cercate, / quello che servite, e amate, / e invocate, perché vivete – / lo esaudirà per voi forse il destino, / ma voi non ci sarete …». Estremo erede di Baudelaire e di Rilke, Vladimír Holan si interroga sull’atemporalità come alternativa a un esistere materiato di muri (grande metafora ossessiva di Holan, così come la cecità e il buio). Ma la commedia tragica della conoscenza si risolve, negli ultimi vertiginosi testi, in un giro a vuoto, in un gioco a somma zero: «La vita è un ben leggibile mistero. / Meno male che non sappiamo leggere!».

vladimir holan in biblioteca

Giovanni Raboni
dalla prefazione a Il poeta murato di Vladimìr Holan
edizioni “Fondo Pier Paolo Pasolini”, Roma, 1991

 (…) Nessuno di noi vuole per altro nascondersi, o nascondere al lettore, che non solo la copertina di questo libro, ma il libro stesso – la sua esistenza, la sua comparsa in questa collana – è o può sembrare una sorta di ossimoro. Quando, nel 1975, compì settant’anni Holan, una rivista italiana (…) pubblicò, assieme a una sua breve poesia inedita (…), anche dei versi, pure inediti, di Pasolini, intitolati «Guardo le finestre chiuse della casa di Holan» [Questo verso compare ora nel Frammento I in Bestia da stilendr]. E questi versi erano, anzi sono (anzi possono sembrare) un attacco a Holan, che Pasolini descrive come un eremita «divenuto venerabile» la cui privatezza è «vezzeggiata e protetta» dalle «migliori signore borghesi», un vecchio malato le cui mani «non gli servono più se non a tremare» e che sorbisce «brodi e tè/ come un piccolo sublime porco ferito/ ingrugnato e affabile», un «poeta da teatro» che fa «il gesto di scrivere poesia anziché scrivere poesia». … Nella decisione di pubblicare questo libro nei “Quaderni di Pier Paolo Pasolini” qualcuno potrebbe vedere una volontà di paradosso, una bizzarra e un po’ sconsiderata provocazione. Come interpretare, come giudicare altrimenti la presenza di un poeta che Pasolini non amava, al quale Pasolini si rivolgeva con dura estraneità e quasi con ripugnanza, nella collana che porta il suo nome?

Si rassicuri il lettore: le cose non stanno così. Che Pasolini, lungi dal non amare la poesia di Holan, la apprezzasse grandemente e desiderasse conoscerla più di quanto la conosceva, lo prova in modo inequivocabile un articolo uscito il 14 aprile 1974 sul «Corriere della Sera» (…) : «Un’ombra che prese corpo , un “nome” che è diventato un fatto. Holan è entrato nel novero dei poeti letti». E allora? Come si conciliano queste parole di naturale “consenso”, di lieta soddisfazione per un incontro ormai realizzato, con il ritratto impietosamente negativo consegnato ai suoi versi? La spiegazione dell’enigma è abbastanza semplice (…). La poesia [contro Holan] non è una poesia a sé stante (…) ma è parte di un lungo travagliato lavoro di Pasolini durato un intero decennio attorno alla sua ultima opera teatrale, Bestia da stile. (…). Intento a scrivere e riscrivere accanitamente, con Bestia da stile, una sorta di autobiografia tragica in cui il protagonista (cioè lui stesso) è “mascherato” da Jan Palach e ambienti e vicende subiscono di conseguenza, pur mantenendo ben visibile in filigrana la loro vera identità, cronologia e storia, un puntiglioso e volutamente incredibile “viraggio” praghese, Pasolini fu colpito, leggendo l’”Almanacco dello specchio”, non solo dai testi di Holan, ma anche dalla condizione di Holan, la quale veniva descritta nell’introduzione, premessa ai testi delle traduttrice – premessa in cui si poteva leggere, e Pasolini certamente lesse, del «leggendario, volontario isolamento» del poeta, ossia di come egli, »rinchiuso nella sua casa praghese sull’isola di Kampa» rifiutasse «con drammatica, ormai irreversibile ostinazione, ogni sortita, materiale o metaforica, nel tempo e nello spazio presenti». Non occorre essere un detective per capire come l’immaginazione di Pasolini si sia potuta fulmineamente impadronire di questa notizia e, sull’onda della sua suggestione, trasformare Holan in un personaggio aggiunto di Bestia da stile, in una sorta di antagonista a posteriori di Pasolini-Palach. Al «poeta da teatro» che, recluso volontariamente nella sua torre d’avorio, fa «il gesto di scrivere poesia» e coltiva la propria «santità» sotto la protezione della migliore borghesia, Pasolini-Palach (non dimentichiamo che è Jan, nel Frammento a pronunciare la requisitoria) contrappone la diversissima condizione da lui scelta: «io che mi spendo», «la possibilità che ho depennato», «il fatto/ di sé esempio, come tu hai fatto, non era affar mio» (…). Non credo occorra aggiungere altro (…). Se non temessi di apparire troppo malizioso (…), insisterei (mentre mi limito ad accennarvi) sulla mia impressione che il poeta vezzeggiato, decrepito e tremante, ritrovato nei versi di Pasolini assomigli infinitamente di più al vecchio Montale che a Holan, di cui chi andò a trovarlo in quegli anni (cosa che Pasolini, a quanto mi risulta, non fece, né allora né mai) ricorda la sanguigna robustezza contadina e l’apparentemente incrollabile salute, a dispetto delle micidiali sigarette che fumava di continuo e del fiasco di vino rosso che teneva accanto a sé sul tavolo del suo studio-fortezza.

di Fabio Pedone

https://ilmanifesto.it – 5 luglio 2015

Poco prima di morire, Jaroslav Seifert disse a un amico: «Io probabilmente rimango nella poesia ceca. Ma con me finisce un’epoca … Una nuova epoca ebbe inizio con Holan, il più grande tra noi, poiché aprì alla poesia ceca nuovi orizzonti, non ancora mappati, che neanch’io comprendo ancora». Non solo nella poesia ceca, ma in quella europea e mondiale, Vladimír Holan ha aperto un territorio ignoto, i cui punti cardinali sono abissalmente diversi da quelli conosciuti.

Si deve alla genialità di Angelo Maria Ripellino, suo ammiratore e amico, se il nome di questo solitario praghese ha fatto emigrare la sua fama dall’Italia in tutto il mondo. Quando nel 1966 uscì Una notte con Amleto nella «bianca» Einaudi, tradotto da Ripellino, il mondo letterario italiano si accorse di trovarsi di fronte a un poeta al quale avrebbe poi sempre guardato con enorme rispetto se non con venerazione. Recensendo l’Almanacco dello «Specchio» 1974, che ospitava traduzioni di Serena Vitale dalla raccolta In progresso, dedicata da Holan a Ripellino, Pasolini parlò del compiersi di un miracolo: «Holan è entrato nel novero dei poeti letti».

In anni più vicini ai nostri, venne inaugurato un provvidenziale progetto di traduzione dall’ultimo tempo della poesia di Holan, quello che fa riferimento grosso modo alle quattro raccolte finali. Si deve a Marco Ceriani, con la guida attenta di Giovanni Raboni, l’insistenza su questo percorso scandito da diverse pubblicazioni in rivista e in volumi importanti, tra cui Il poeta murato (uscito nel 1991 per le edizioni del Fondo Pier Paolo Pasolini) e A tutto silenzio, apparso nel 2005 negli Oscar Mondadori.
L’approdo più recente, che negli auspici migliori dovrebbe reimmettere un gigante della statura di Holan nel circolo dei poeti letti in Italia, è un’antologia autenticamente corposa, che comprende più di trecento poesie di Holan con traduzione dal ceco di Vlasta Fesslová riportata in versi italiani da Marco Ceriani, pubblicata dalle edizioni Arcipelago con il titolo Addio?  (prefazione di Giovanni Raboni).

Vladimir Holan Sono stufo ormai della vostra sfrontatezza

Sono stufo ormai della vostra sfronatezza…

Poesie di Vladimir Holan

Morte

Da tempo ci troviamo faccia a faccia,
tu come tu e io come paura.
Di te non so nulla. E tu, sai cos’è la vita?
E cosa i tuoi occhi? Può darsi
che tu veda tutto mentre io non vedo che te.
Ma quello che giù nella femmina è
aperto mi sgomenta come la tua bocca da baciare,
che si rifiuta cocciuta da muta,
e attende ed è attesa … Continua a leggere

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Karel Šebek (1941-1995), 3 X Nulla, Cura e introduzione di Petr Král, Traduzione di Antonio Parente, Mimesis-Hebenon, Milano 2015, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa: Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio

 

Foto Karel Teige

Karel Teige, collage

Commento di Petr Král

Karel Šebek, agente doppio di se stesso, castoro-conquistatore, protettore e protégé di sua nonna, usurpatore e liberatore segreto di Jilemnice, mascotte e fantasma degli Istituti di Dobřany, Sadská e Kosmonosy, guardiano notturno e scrivano che con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre.

Nato il 3 aprile 1941 a Jilemnice, misteriosamente scomparso nella primavera del 1995 (come lui stesso aveva predetto in un testo degli anni Sessanta Il mondo si punisce e piange: «I cani da caccia non fiutano ancora il luogo dove una volta mi smarrii del tutto»); dal momento che il suo corpo non è stato mai trovato, si può supporre si sia trattato di omicidio più che di suicidio, che in precedenza aveva invano tentato più volte. Cugino del poeta e psicoanalista Zbyňek Havlíček, fu grazie a lui che si avvicinò alla poesia e prese a conoscere i surrealisti di Praga, soprattutto i rappresentanti della «terza generazione surrealista», con i quali socializzò intensamente prima della partenza di alcuni di loro per l’esilio. Sempre con l’aiuto di Havlíček, divenne infermiere dell’ospedale psichiatrico di Dobřany, dal quale tentò di fuggire in Germania in compagnia di due ricoverati, e dove fece ritorno come paziente successivamente all’arresto del trio di fuggitivi da parte della polizia; soggiornò di nuovo a Dobřany anche prima della sua scomparsa, avendovi trovato l’anima gemella e protettrice (e anche co-autrice) nella dottoressa Eva Válková.

petr kral 1

petr kral

L’opera di Šebek fu influenzata da una serie di artisti surrealisti, da quelli – cechi o stranieri – che aveva conosciuto grazie alla sua opera di instancabile copista dei loro testi, a quelli che prese a frequentare di persona. Dai poeti che lo colpivano in modo particolare non esitava a prendere in prestito temporaneamente sia il tono sia l’intero stile figurativo, sviluppandolo, però, in  modo proprio e portandolo a nuove conclusioni e a scoperte di paesaggi sconosciuti. Nella sua poesia possiamo distinguere varie fasi; dopo i primi testi di inizio anni Sessanta, dove prevale soprattutto l’influenza di Zbyňek Havlíček e Vratislav Effenberger –  e dove il lirismo del primo si fonde con “l’immaginazione critica” dell’altro  –  nel 1963 rimane ammaliato dall’opera di Stanislav Dvorský (grazie alla lettura di Binari e poi anche dei testi che faranno parte di Gioco al recinto), sviluppandone gli impulsi in sistemi erratici personali, in monologhi “assurdi” e in statici microdrammi tra le quattro mura (Conversazione, 3 volte Jilemnice); verso la fine degli anni Sessanta riecheggiano nei testi di Šebek anche le poesie dell’estensore di questa nota, con il quale è in sistematica corrispondenza epistolare. Agli inizi degli anni Settanta, successivamente alla morte di Zbyňek Havlíček, nei testi di Šebek ricompare parzialmente il lirismo iniziale di Havlíček (soprattutto nel ciclo istigato dalla sua relazione con Hana K., conosciuta durante il suo soggiorno a Kosmonosy) e, contemporaneamente, aumenta anche il numero di immagini autodistruttive; per fortuna, però, l’umorismo rimane un tratto permanente di questi testi. Dopo diversi cicli di poesie scritti individualmente per vari amici, ai quali li invia come ripetute grida d’aiuto, scrive anche delle interpretazioni poetiche dei disegni di alcuni di essi, in particolare di Martin Stejskal (che Šebek stesso portò da Jilemnice introducendolo tra i surrealisti di Praga) e di Pavel Turnovský. Purtroppo crescono anche i suoi tentativi di suicidio e i soggiorni negli istituti, durante uno dei quali porta a termine, nel 1990 – prima di tale anno, a quanto pare, vi fu una lunga pausa nel suo lavoro, un silenzio durato vari anni – un testo esteso e, come lui stesso affermò, riscritto più volte, 3 x nulla, dove a suo modo fa i conti con Dio o con la propria “figura paterna”.

Il punto di vista delle poesie di Šebek muta nel corso degli anni, la fantastica obiettività delle immagini dei primi testi acquista successivamente un senso maggiormente psicologico, e alla fine i suoi scritti scadono in una confessione personale; František Dryje è l’unico critico ad evidenziare, a tal proposito, i limiti di un tale sviluppo, altri – come Jan Nejedlý – sottolineano invece in maniera abbastanza banale questa psicologizzazione. Ad ogni modo, le beffarde diagnosi del mondo nei testi di Šebek lasciano il campo ai resoconti sulle difficoltà che all’autore procura il vivere nel mondo; i testi vanno concentrandosi sempre più su poche permutazioni di motivi ossessivi,  mentre assistiamo ad una nuova ripresa lirica in quei testi scritti per la dottoressa Válková (o insieme a lei) che il poeta compone negli anni di poco precedenti la sua scomparsa. L’esperienza poetica delle prime composizioni e «corse», il cui sarcasmo e apertura al mondo per fortuna non scompaiono completamente nemmeno nelle confessioni successive, continuando così ad aprire anche alle scoperte poetiche impersonali e agli sguardi innovativi sulla realtà.

fotofilm realizzato da Cristina Boldrin e Disan Danilov Дисан Данилов per il Ponte del Sale

Contrariamente alle affermazioni di alcuni commentatori, anche gli scritti creativi iniziali di Šebek possono essere considerati poesia, ma quei testi improvvisamente crescono in ampiezza ed entrano in una particolare tensione con la prosa, alla quale a tratti si avvicinano; nei testi più lunghi di Šebek, inoltre, i brani di prosa sono intervallati da versi, mentre alcuni sono scritti completamente in prosa. Nel percorso dal delirio surrealista all’ossessione  “involta su se stessa” alla maniera di Dvorský, Karel crea anche un particolare stile ostinatamente descrittivo, con il quale gioca con i più piccoli dettagli di scenari e scene della vita quotidiana (Il giorno di scuola murato, Discussione) e al cui impatto coinvolgentemente mostruoso partecipa anche la costruzione della frase, anormalmente estesa (catene illimitate di complementi aggettivali e avverbiali) sommariamente dichiarata dai critici come mera goffaggine. Nei testi più tardi, all’oscillazione tra versi e prosa va aggiungendosi anche lo snodamento dei diversi significati oggettivi e simbolici delle espressioni usate, dove anche i più urgenti degli ultimi continuano a serbare la possibilità di un ritorno e la capacità di ritrasformarsi dalle immagini dell’ansietà di Šebek in un coltello o in una vespa veri e propri. Il verso del poeta, è vero, perde, con la sua tendenza alla confessione, l’estensione prosastica e si accorcia sensibilmente, ma anche in questo senso non chiude la via del ritorno: nelle interpretazioni delle opere di pittori suoi amici, nel testo dove alle visioni in libertà si alterna il loro commento autoriale “auto-critico” (Poche parole aggiuntive) o nella meditazione notturna 3 x nulla, il verso riacquista ampiezza e anche una struttura dettagliata, il monitoraggio dello sviluppo del pensiero poetico supera la sua sintesi figurativa.

I periodi più ispirati della sua opera sembrano essere gli anni 1962-1963, 1973-1974 e quelli a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. La seguente selezione dei suoi scritti è tratta dagli archivi personali di Stanislav Dvorský, Jan Gabriel e mio personale. Le uniche correzioni che ho apportato riguardano evidenti refusi ed errori grammaticali.

Giorgio Linguaglossa specchio (2)

Giorgio Linguaglossa in ascensore, Praga, hotel Bila Labut, 21 agosto 2018

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio – Una poesia composta interamente di «stracci»

«Come un pescatore che cattura se stesso con l’amo»

Nella poesia di Karel Šebek ci troviamo il «chiacchiericcio», una grandissima quantità di chiacchiericcio, discorsi strampalati, scombiccherati, casuali, variegati. Poesia magistrale nel suo sottrarsi a qualsiasi intentio comunicativa o comunicazionale, a qualsiasi intenzione suasoria, assertoria, assolutoria, consolatoria, ma anche rigorosamente severa nel suo ritrarsi dinanzi a qualsiasi reintroduzione del «senso» (parente del suasorio e del sensorio e quindi morfologicamente concetto conformistico). Karel Šebek è forse tra i poeti cechi che ho letto nelle traduzioni di Antonio Parente, l’autore più nichilistico il più drastico nel suo progetto di disimpegno nel disegno di una poesia priva di funzione poetica, di utilizzabilità. Una poesia infungibile e inutilizzabile che avrebbe mandato in visibilio Pasolini e avrebbe fatto infuriare Montale. Leggiamo qui:

«…in cortile crescono i surrealisti e fanno smorfie agli esistenzialisti mentre m metto in piedi davanti alla mia porta come se facessi la fila per la carne.

In realtà ho cominciato a trasformarmi in cane giù all’inizio del testo quando mi sono addormentato alla macchina da scrivere col metro in mano. Ma il mio abbaiare si sentirà solo tra un istante. Finora luccica al buio soltanto il collare, tempestato di mirtilli. le orme portano dalla porta al tavolo e poi continuano nelle singole pagine. Ce ne sono esattamente tante quante i residenti di questa casa. Per il momento non ci diamo fastidio l’un l’altro quando scriviamo anche se abbiamo tutti la stessa pelliccia.

(Le righe successive devono essere lette solo con gli occhi chiusi. Allo stesso modo sono anche state scritte. Chi non lo farà sia pronto a sopportare le conseguenze delle proprie azioni:)».

Noi sappiamo che nella poesia italiana che si fa oggi, ad esempio quella  che corre in certa editoria maggioritaria, si utilizza un «chiacchiericcio», un descrittivismo tipico dei chierici, un descrittivismo senza costrutto, senza teleologia, senza metafisica, a vanvera, una fraseologia-pretesto, senza contesto, che è la contraffazione della «chiacchiera» eliotiana, quella sì, di nobile ascendenza!. In Eliot c’è sì la chiacchiera, ma dietro di essa c’è una metafisica, è questa la differenza tra i poeti di rango e i versificatori di oggidì. Nella poesia neorealista che si fa oggi in Italia non c’è davvero niente da scoprire, non c’è nessun accadimento, non c’è evento. L’aspetto grottesco del neorealismo fraseologico nostrano è che i letterati domenicali vogliono apparire intelligenti, e invece la poesia tira loro un tiro mancino, li sgambetta, gettandoli sul lastrico della banalità.

In Šebek, dicevo, c’è un progetto poetico agguerrito, micidiale, perseguito con grande severità: quello di voler sottrarsi a qualsiasi utilizzazione del suasorio e/o dell’anti suasorio. La sua poesia è esteticamente inaccettabile, e tale vuole essere; vuole essere qualcosa di infungibile. Un progetto poetico serissimo che non concede nulla a nessuno, che chiude tutti i rubinetti all’ermeneutica su ciò che è del poetico e dell’anti poetico, o dell’anipoetico, su ciò che è sensato e su ciò che non lo è. Qui siamo veramente dinanzi ad una scrittura ridotta allo zero della significazione in sibemolle, neutralizzata in quanto consapevole del proprio effimero non-progetto.

Ora, dicevo, questo non-progetto, questo grottesco-non-grottesco, che è un progetto perseguito con grande determinazione, portato alle sue estreme conseguenze, ha qualcosa di grandioso e di serissimo. Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio. Una poesia composta interamente di «stracci», come noi della nuova ontologia estetica stiamo  propugnando da tempo. Come scrive Petr Král, Šebek «con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre».

Karel Sebek

Karel Šebek (1941?)

Poesie di Karel Šebek

Questa città è una purea pepata di tanto in tanto dai poliziotti
in libreria
la carta si rivolta
insieme allo stomaco
la carta è la coccinella dai sette punti lo stomaco perfettamente
vomitevole
da qualche parte sopra la ringhiera dell’alba
perché non voglio sottrarmi alla malattia mortale della notte
la sola a produrre i batteri fantastici della poesia
contagiosa come l’idea di se stessi in un film
visto attraverso lo spioncino nella camera da letto del lupo
è stato tanto tempo fa
sento ancora il colpo di martello
nel bel mezzo della mia nascita
quando al mio posto è giunta la peste e lo scorbuto
la peste è giunta come si è allontanata
sono la peste nelle arterie della salamandra
bombardata da tempo immemorabile da un sacco di bombi
sopra di me il boccale come la bandiera sul defunto
la cicoria della morte fiorisce lentamente
come si va sformando il tendone da circo sul mondo
e come forse una volta scomparirà per sempre il terribile spettro
dell’essere umano
il rumore infernale della macchina che mi fa la terza guerra
mondiale nella testa
alla quale romperei volentieri il muso che le manca così
dannatamente
come a me i trampoli alti centinaia di metri
in modo che conosca la delizia oltrenube della solitudine
in modo che possa finalmente liberarmi dalla catena maledetta
delle parole
e il mio amore non marcisca sul foglio
le frasi si intrecciano si annodano perciò invidio anche il gomitolo
di serpenti
sono veri compagni con i testicoli come se mandati dal cielo
ed è una frase la cui arguzia riempie la pancia fino a quando
non scoppia
nel pollaio del mio sistema nervoso
e una ragazza facile che mi rende difficile il cervello
mi canta sulla strada per l’incesto
fino al punto in cui arriva l’agognato lusso della guerra

(1978)

hebenon-18-sebek_copia
* * *

Lì dove sbocciano i fiori dei naufraghi
su una nave che è porto per se stessa
infido come una scure con la quale ho colpito il bagno
a mezzanotte
poiché conosco le lune e suoi pazienti
che contemplano la luna ad ogni luna
come fosse lo stipendio mensile
dopo questi roditori davvero non rimarrà più nulla
nemmeno il piatto in mano al cameriere
questo giocoliere con la sete e la fame
diverse da quello che ho in mente
è la somma delle bolle al naso
così come il latte è proprietà delle mucche
genero il testo come un idiota
nella cassa bucata della vita
come in un cappello in cui tuona
il fulmine tradisce la sorte
e io
omaggiato di ortica al posto del rasoio
osservo il feretro della città marciare in un unico luogo
lo sgambettio da zero all’infinito
i sorrisi impastati di fango
osservo l’essenza della realtà come di un cinghiale
e il manicomio è la mia seconda casa
non sono versi da recitare sul podio
ma chiodi per la vostra bara
nella bara c’è buio
e il buio è quello che mi è rimasto dall’infanzia
è malinconico e spezzerebbe anche il cuore di un orso
che un bel giorno ha demolito la classe scolastica e mi ha mangiato
la merenda
come mille diavoli appena rilasciati dal carcere
come un libro con migliaia di orecchie d’asino reale
che mi porta ad esplorare l’interno del mio occhio
finalmente vedo davvero dentro di me
vedo l’amo che lancia un messaggio di avviso alle carpe
l’infinita solitudine del pescatore la solitudine che possiede
quest’amo
e la nostra terra lebbrosa di idiozia
l’idiozia di cui sono formato
la scacchiera sparpagliata della verginità del comunismo
poiché è notte e la notte è solitudine bellezza e sangue
poiché è notte e io noto la notte
la notte sparviero

(1978)

* * *
I denti delle unghie nel cervello
di bambino con la tenerezza di leone
davanti alla gabbia come in gabbia
il bambino con la criniera di leone
quando la pioggia recita una poesia
sul vento che lo porta
dalla scuola costruita da scheletri di insegnanti
davvero dei crani nudi
la lama prende vita nelle mie mani
nell’isola di voce o in cima alla torre
appuntita e tagliente come la solitudine di una matita inutilizzata
e le sue labbra al di là di tutti i poeti e delle loro opere
mi trasformo in un cannibale baciando le labbra
e il compasso un tempo da qualche parte traccia la copia di
un’antica foresta
vado per funghi
e i funghi raccolti come la raccolta di opere del comunismo
richiedono tatto noto solo al carnefice
ultimo nel fiacchere della speranza
il carnefice muore nell’ultimo giustiziato
e lo stupendo volto del piatto
inghiotte la fame si rimpinza di fame
la torre della fame del pranzo
quando le rose cadono dal cielo
e il giardino si solleva nell’aria
e così ci incontriamo
anche se fosse col muso rotto
e la mia insonnia
adesca gli uccelli notturni
come i maccheroni di lombrichi
al centro della città c’è la città
nella casa la casa
il mio letto con tante porte e finestre
che non ho la risolutezza di andarmene
perché esiste una sola
isola nel mio occhio
dietro le sbarre delle palpebre
quando la mostruosità di cui sono composto dorme
e dall’abbandono sguscia la poesia come un uovo che cova
la gallina

(1978) Continua a leggere

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Ricorre oggi il compleanno di Petr Král. Lettura della poesia di Král dal punto di vista della Nuova ontologia estetica – Ermeneutiche a cura di Donatella Costantina Giancaspero e Giorgio Linguaglossa. Contributi di Carlo Livia e Gino Rago. Traduzioni dei testi critici di Edith Dzieduszycka e di Antonio Parente per le poesie

Praga, Moldava 1

Praga, fiume Moldava, foto di Donatella Costantina Giancaspero

Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collaborando a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su Le Monde e cinematografiche su L’Express. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006.

Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).

Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017, per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute.

Onto Petr Kral

Petr Král, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Con Petr Král ci troviamo senza dubbio di fronte a uno dei maggiori poeti europei: più lo leggo e più me ne convinco. Certo, la sua poesia è lontanissima dalle corde foniche della poesia italiana di questi ultimi decenni. Questo dimostra proprio il valore della poesia di Král, non altro… Del resto, ricordo che il poeta praghese, in una sua noticina, avvertiva già il lettore italiano che si sarebbe trovato davanti una poesia dissimile, molto dissimile, da quella a cui è stato da sempre abituato…

La ricchezza fenomenica della poesia di Král è il risultato di un equilibrio instabilissimo tra la verosimiglianza e l’inverosimile; certi accorgimenti retorici come la sineciosi e la peritropè (il capovolgimento), il deragliamento (controllato) delle sue perifrasi, le deviazioni, l’entanglement sono gli elementi base sui quali si fonda la sua poesia, che ha il privilegio di godere dei vantaggi del surrealismo al quale Král aderì, sia a Praga che a Parigi: un surrealismo innervato nella sua storia e nella sua lingua. Egli proviene dall’esperienza del secondo surrealismo ceco filtrato attraverso la disillusione politica sopravvenuta dopo l’invasione della Cecoslovacchia ad opera dei carri armati sovietici, una esperienza traumatizzante e traumatica, che ha segnato in modo profondo molti altri poeti e scrittori praghesi. Nella prospettiva surrealista, il linguaggio cessa di essere funzionale al referente, si rende improprio alla parola, viene visto come uno strumento non utilizzabile secondo uno schema mentale di adeguazione della parola al referente.

Scrive Lacan:

«Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.

È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]

Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.

Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]

Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.

Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.

Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]

1 J. Lacan Ecrits, 1966, Scritti I, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293

Oggi, probabilmente, non si può scrivere, in Europa, una poesia veramente moderna, senza fare riferimento, in qualche modo, al retaggio del surrealismo: il surrealismo inteso come allontanamento consapevole del referente e dal referente. In Italia, nella tradizione poetica di questi ultimi decenni (con l’ottima eccezione della poesia di Angelo Maria Ripellino e di Maria Rosaria Madonna e a parte, ovviamente, gli autori della «Nuova ontologia estetica»), non c’è davvero molto del surrealismo: siamo ancora invischiati e raffreddati dentro un concetto di verosimiglianza con il «reale» che ha finito per impoverire la gamma espressiva della poesia italiana.
Dunque, siamo grati ad Antonio Parente per aver reso in mirabile italiano la poesia di questo “ostico” poeta ceco; altrettanto lo siamo all’editore Mimesis Hebenon che, con le sue pubblicazioni, ha fornito una sponda importantissima a quanto andiamo scrivendo intorno alla nuova poesia europea.

Il segreto di questa poesia è in quel concetto di «continuamente presente» di cui parla Petr Král, è in una modalità espressiva che non contempla la «memoria» e, al pari della «musica», risulta incoglibile, se non come assolutamente presente, unicamente presente. «Presente» come manifestazione paradossale dell’Assoluto, assoluto contro – senso, assoluto paradosso, assoluta incoglibilità del paradosso. Quel «presente» che rimane sempre incoglibile. Alla luce di questa impostazione krláiana, tutti i presenti si equivalgono, tutti sono compossibili e tutti assurdi, assoluti e, quindi, inconsistenti, incoglibili se non attraverso esso «presente». È questo il fulcro della concezione della vita e dell’arte di Petr Král. Ed è questa, senza ombra di dubbio, la linea di ricerca della «Nuova ontologia estetica».

Ciò che riesce di problematica identificazione, e perfino incomprensibile, nella poesia di Petr Král dal punto di vista della poesia italiana degli ultimi decenni, diventa pienamente intellegibile dal punto di vista della «Nuova ontologia estetica». Com’è possibile? Come può accadere questo? La risposta all’interrogativo traspare dai contributi che seguono, di Carlo Livia, di Gino Rago, è negli appunti critici di Donatella Costantina Giancaspero, così come credo sia in queste mie riflessioni. Quanto noi stiamo dicendo e facendo da tempo, è riconoscere e affermare che una nuova poesia sorge sempre e soltanto quando si profila un  nuovo modo di concepire il linguaggio poetico.

Ad esempio, negli autori della «Nuova ontologia estetica» si verifica un uso di alcune categorie retoriche piuttosto che di altre: innanzitutto la categoria retorica fondamentale (che poi, in realtà, non è una categoria retorica, ma un procedimento che concerne il modo stesso con il quale si concepisce l’essenza e la funzione del linguaggio poetico), ovvero il concetto di verosimiglianza tra il «linguaggio» e il «reale». Nei loro testi, non si dà alcuna corrispondenza equivalente e/o mimetica tra la «parola» e l’«oggetto» del reale, non si dà «corrispondenza» affatto, non si dà alcuna «riconoscibilità» a priori, in quanto la «riconoscibilità» deve essere scoperta volta per volta nell’ambito del dispiegamento del discorso poetico, deve essere «ricostruita» ogni volta ex novo. Così come  accade nella poesia di Petr Král, il raffreddamento della composizione linguistica dà luogo ad uno zampillio di deviazioni, il linguaggio viene utilizzato per una «ricostruzione» non più «mimetica» del reale, ma ultronea, sovra reale.

Un augurio speciale a Petr Král nel giorno del suo compleanno.

petr kral 1

Petr Král

Herméneutique de Giorgio Linguaglossa

(Traduction par Edith Dzieduszycka)

Avec Peter Kràl nous nous trouvons sans aucun doute en face de l’un des principaux poètes européens: plus je le lis plus je m’en persuade. Certes, sa poésie est bien loin des cordes phoniques de la poésie italienne de ces dernières décennies.  Ce qui démontre précisément la valeur de sa poésie, rien d’autre… Du reste, je me souviens que le poète praguois, dans une de ses petites notes, avertissait déjà le lecteur italien qu’il se serait trouvé devant une poésie différente, très différente de celle à laquelle il avait été habitué…

La richesse phénoménale de la poésie de Kràl est le résultat d’un équilibre très instable entre la vraisemblance et l’invraisemblable; certains moyens rhétoriques  come la sineciosi

e la peritropè (le renversement), le déraillement (contrôlé) de ses périphrases, les déviations, l’entanglement. sont les éléments base sur lesquels se fonde sa poésie, qui possède le privilège de jouir des avantages du surréalisme  auquel Kràl a adhéré, à Prague comme à Paris: un surréalisme innervé dans son histoire et dans sa langue. Il provient de l’expérience du second surréalisme tchèque, filtré à travers la délusion politique survenue après l’invasion de la Tchécoslovaquie par le chars soviétiques, une expérience traumatisante et traumatique, qui a marqué profondément beaucoup d’autres poètes et  écrivains praguois. Dans la perspective surréaliste, le langage cesse d’etre fonctionnel au référent, il devient impropre à la parole, considéré comme un instrument non utilisable selon un schéma mental d’adaptation de la parole au référent.

Lacan écrit:

“Dan la mesure où le langage devient fonctionnel il se rend impropre à la parole, et quand cela devient trop caractéristique, il perd sa fonction de langage.”

Nous savons l’usage fait dans les traditions primitives, des noms secrets à travers lesquels le sujet identifie sa propre personne ou ses dieux, au point que les relever correspond à se perdre ou à les trahir (…)

Enfin, c’est dans l’intersubjectivité des “nous” qu’il assume, que se mesure dans un langage la valeur de sa parole.

Par une antinomie inverse, on observe que plus l’usage du langage se neutralise en se rapprochant de l’information, plus on lui attribue des redondances.

Effectivement la fonction du langage n’est pas d’informer mais d’évoquer.

Ce que je cherche dans la parole est la réponse de l’autre. Ce qui me constitue  en tant que sujet est ma question. Pour me faire reconnaitre de l’autre, je profère ce qui a été  seulement en vue de ce qui sera. Pour le trouver, je l’appelle avec un nom qu’il doit assumer ou refuser pour me répondre.

Je m’identifie dans le langage, mais seulement en m’y perdant comme un objet. Ce qui se réalise dans mon histoire n’est pas le passé lointain de ce qui fut parce qu’il n’est plus, et non plus le parfait de ce qui a été dans ce que je suis, mais le futur antérieur de ce que j’aurai été pour ce que je suis en train de devenir.” 1)

J:Lacan Ecrits, 1966, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293

Aujourd’hui il est probablement impossible, en Europe,  d’écrire une poésie réellement moderne, sans se référer de quelque façon, à l’héritage du surréalisme: le surréalisme entendu  come éloignement conscient du référent et au référent. En Italie, dans la tradition poétique de ces dernières décennies (avec l’excellente exception  de la poésie de Angelo Maria Ripellino et de Maria Rosaria Madonna, et à part, évidemment, les auteurs de la “Nouvelle ontologie esthétique”), il y a bien peu de surréalisme: nous sommes encore englués et refroidis dans un concept de vraisemblance avec le “réel” qui a fini par appauvrir la gamme expressive de la poésie italienne.

Nous sommes donc reconnaissants à Antonio Parente pour avoir admirablement traduit la poésie de ce difficile poète tchèque; comme nous le sommes envers l’éditeur Mimesis Hebenon qui, avec ses publications, a fourni un terrain d’envol important pour ce que nous sommes en train d’écrire concernant la nouvelle poésie européenne.

Le secret de cette poésie réside dans ce concept de “continuellement présent” dont parle Petr Kràl; il s’agit d’un mode expressif qui ne contemple pas la “mémoire” et,  de même que pour la musique, impossible à cueillir, se non en tant qu’absolument présent, uniquement présent. “Présent” comme manifestation paradoxale  de l’Absolu, absolu contre-sens, paradoxe absolu , impossibilité absolue à cueillir le paradoxe. Ce présent” qui reste toujours impossible à cueillir. A la lumière de cette structure “kralienne”, tous les présents s’équivalent, ils sont tous possibles ensembles  et tous absurdes, absolus et par conséquent inconsistants, “incueillables” si ce n’est à travers lui-même, “présent”. Là se trouve l’épicentre de la vie et de l’art de Petr Kràl. Et c’est là que se trouve, sans ombre de doute, la ligne de recherche de la “Nouvelle ontologie esthétique”.

Ce qui semble difficile à identifier, et même incompréhensible, dans la poésie de Petr Kràl du point de vue de la poésie italienne des dernières décennies, devient pleinement intelligible vu de la part de la “Nouvelle ontologie esthétique”.  Comment est-ce possible? Comment cela peut-il se produire? La réponse à cette demande apparait à travers les contributions suivantes, de Carlo Livia, Gino Rago, e dans les notes critiques de Donatella Costantina Giancaspero, ainsi que dans mes réflexions. Ce que nous disons et faisons depuis longtemps est reconnaitre et affirmer qu’une nouvelle poésie nait toujours et seulement avec l’apparition d’un nouveau mode de concevoir le langage poétique.

Par exemple, dans les auteurs de la “Nouvelle Ontologie esthétique”, on peut observer l’usage de certaines catégories rhétoriques  plutôt que d’autres: principalement la catégorie rhétorique fondamentale (qui en réalité n’est pas une catégorie rhétorique, mais un procédé qui concerne le moyen même avec lequel on peut concevoir l’essence et la fonction du langage poétique), autrement dit le concept de vraisemblance entre le “langage” et le “réel”. Dans leurs textes, il n’existe aucune correspondance équivalente et/ou mimétique entre la “parole” et “l’objet” du réel; il n’existe aucune “correspondance”, aucune “reconnaissance” a priori, étant donné  que la “reconnaissance” doit être découverte pas à pas au cours du déploiement du discours poétique, doit être “reconstruit” neuf chaque fois. Ainsi que nous le constatons dans la poésie de Petr Kràl, le refroidissement de la composition linguistique donne lieu à un jaillissement de déviations, le langage sert à une “reconstruction” non plus “mimétique” du réel, mais en dehors et au-dessus du réel.

Nos vœux très spéciaux à Petr Kràl pour le jour de son anniversaire.

Praga, Moldava.JPG

Praga, fiume Moldava, foto di Donatella Costantina Giancaspero

Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero

In merito alle differenze, sappiamo che Petr Král è del tutto consapevole della distanza che divide la propria poesia da quella italiana. Lo dichiara esplicitamente nella nota introduttiva all’antologia Tutto sul crepuscolo:

«Di sicuro la mia poesia è necessariamente un po’ lontana dalla tradizione poetica italiana; nonostante il mio amore per l’Italia (e le poesie di questa raccolta che vi si sono ispirate direttamente) provengo da altri luoghi, da altri orizzonti, e non tutto quello che offro può risultare allettante ed eloquente per il lettore italiano. Perciò è anche possibile che vi sia uno scontro tra le mie e le sue abitudini e preferenze; laddove nella poesia italiana prevale la fluidità del canto, i miei sguardi alla realtà, spesso piuttosto perfidamente obliqui, possono anche suscitare un minimo di disturbo. Tuttavia, voglio credere che nemmeno in questo caso il mio confronto con il lettore italiano sia vano, e che ne risulti almeno qualcosa di benefico per entrambe le parti».

Petr Král ci avverte anche che, per questa antologia tradotta in italiano da Antonio Parente, ha selezionato in primo luogo le poesie ispirate all’Italia. Evidentemente, volendo così omaggiare il nostro Paese. Ma, come puntualizza nella sua nota:

«Ogni selezione di testi dal corpo poetico di un autore è necessariamente una semplificazione, mette in risalto alcuni aspetti dell’opera, e ne esclude altri che ne costituiscono un supplemento di precisazione e arricchimento – o persino un contrappeso necessario. Ciò è vero anche quando – come nel caso di questo volume – la scelta è opera dell’autore. Nemmeno lui – fortunatamente – sa tutto della sua opera, può anch’egli trascurare aspetti importanti così come sottolinearne in maniera un po’ eccessiva (ossessiva) altri. Io stesso mi sono accorto soltanto dopo aver selezionato i testi che queste poesie in maggior parte “hanno luogo” fuori, all’aria aperta, e soltanto a tratti mettono in relazione questa loro estensione con lo spazio interno. Può darsi che questa scelta sia derivata – senza esserne stato precedentemente consapevole – proprio dalla mia idea dell’Italia come di uno spazio ideale per la libertà umana; ad ogni modo, non ho cambiato nulla della mia scelta, nella speranza che sarà il tempo stesso a rivelarne il suo significato nascosto».

Ogni «selezione di testi» – dice Král – è una «semplificazione». Perciò, credo che non si possa conoscere in pieno un autore se non leggendone almeno due o tre opere intere.

La poesia di Král ci libera dall’obbligo di mirare alla cosa, e libera la stessa poesia di dover sempre mirare allo scopo della significazione; la cosa, se c’è viene colta attraverso un processo di aggiramento e di concentrazione intensiva, infrange i limiti costituiti dalla abitudine che noi abbiamo di pensare la cosa nell’assetto linguistico consolidato dalle norme linguistiche e sintattiche, perché i pensieri, quelli profondi è inevitabile che si rinnovino incessantemente altrimenti l’esperienza della cosa ne sarebbe impedita o offuscata. È la consequenzialità imprevedibile degli sviluppi delle fraseologie kraliane quella che ci offre una visione inedita dell’oggetto; ogni «deviazione» è un impensato che apre le porte del pensato, ogni «deviazione» è un indeterminato che infrange il determinato, e il contenuto di verità, se c’è, si dà nella dimensione della costellazione in divenire che non è mai un percorso sintatticamente automatico o unidirezionale ma è un percorso snodato, che contiene degli shifter, degli scambi, snodabile e orientabile all’interno di una vastissima gamma di possibilità espressive. La pratica della poesia è intesa da Král come una pratica domestica del pensiero, del pensiero che riparte ad ogni momento da zero, che vuole appropriarsi di ogni singola esperienza ma che, per assumersi questo compito, deve ogni volta ripartire da un punto dietro il quale non c’è più nulla. Quello che appare come un esercizio stilistico è in realtà un esercizio spirituale, una pratica ascetica, una via laica verso l’ascesi della composizione poetica.

E allora, l’augurio che rivolgo a Petr Král nel giorno del suo compleanno, è proprio quello di poter vedere presto tradotti in italiano molti dei suoi libri.

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Petr Král, Poesia ceca, traduzioni di Antonio Parente, con una Presentazione di Donatella Giancaspero

Laboratorio gezim e altri

Laboratorio 5 zagaroli

Quando dietro la silhouette maturata del passante avanzi un po’ fino alle Zattere

 Presentazione di Donatella  Giancaspero

Se in Internet cerchiamo Petr Král, ovvero uno dei maggiori esponenti della letteratura ceca contemporanea, verifichiamo un dato che ci rattrista e ci rallegra al tempo stesso: solo la nostra rivista telematica, L’Ombra delle Parole, gli ha dedicato ampio spazio. Pochi altri blog si sono limitati a pubblicarne due o tre poesie, al massimo, insieme a qualche breve cenno biografico, senza altro commento.

Però, l’altro giorno, cercando appunto in Internet Petr Král, mi sono imbattuta in una bella notizia: a Torino, nell’ambito della III edizione dello “Slavika Festival” (dal 18 al 25 marzo), è stata presentata l’edizione italiana di Nozioni di base (Miraggi Edizioni), un centinaio di brevi prose dello scrittore ceco, tradotte da Laura Angeloni. Precedente a questa pubblicazione, è l’eccellente antologia Tutto sul crepuscolo, che raccoglie la produzione poetica più rappresentativa di Král, realizzata con grande cura da Antonio Parente, per Mimesis (2014): lo stesso editore che, già nel 2005, aveva riunito, nel volume Sembra che qui la chiamassero neve, una pregevole selezione della poesia ceca contemporanea. Tra gli autori, il nostro Petr Král.

Nonostante questo, è sempre troppo poco per conoscere un poeta, prosatore, traduttore, saggista, autore di opere sulla storia del cinema; un grande intellettuale, insomma, che guarda la realtà con occhi “spesso piuttosto perfidamente obliqui”, come Král dichiara ironicamente nella nota introduttiva alla sua antologia Tutto sul crepuscolo.

Onto Petr Kral

Petr Král, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Ma chi è Petr Král?

Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico, anche come insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, critico, collaborando a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su Le Monde e cinematografiche su L’Express. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales e dal ’90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006.

Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).

Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Autore anche di prosa e curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte. Ha collaborato con la famosa rivista Positif e pubblicato due volumi sulle comiche mute.

La creazione poetica di Petr Král è segnata, come abbiamo detto, dall’incontro con il surrealismo. Il tema centrale è il rapporto tra realtà e immaginario. Un rapporto che, durante gli anni Settanta, diventa via via più articolato e conduce il poeta ceco verso esiti espressivi e formali di particolare interesse: la sua poesia si configura quasi come una sorta di commento della realtà, che mescola le esperienze quotidiane più banali, gli oggetti di uso comune, con l’istantanea psicologica dei personaggi, avvolti da un alone di vuoto. I luoghi descrivono gli interni domestici, dove va in scena la vita quotidiana, oppure appartengono al paesaggio urbano: strade, piazze, autobus, lampioni, treni, stazioni avanzano sulla pagina, e, spesso, un interlocutore muto condivide il colpo d‟occhio e le riflessioni che ne scaturiscono, gli interrogativi sul significato dei gesti, sul senso di un’affannosa, quanto frustrante, esistenza. Il tutto reso in modo tale da evitare il pur minimo ristagno nel cliché del patetico. In questo contesto, l’angolo visuale dal quale si osservano le cose risulta, per così dire, “spostato” rispetto alla prospettiva consueta, quella frontale, da cui ci affaccia da decenni la nostra poesia tradizionale. Viceversa, la prospettiva di Petr Král è resa di scorcio. Per questo motivo, il discorso che ne deriva non è diretto, esplicativo, ma rimane nel non-detto, è sottinteso, mascherato, indirizzato su percorsi periferici, inconsueti. Un certo ispessimento, o indurimento di espressione, e, ancora di più, il suo contrario, ovvero quel senso di ironia e auto-ironia, peculiare di talune poesie, possono essere interpretati come una reazione difensiva contro la transitorietà del mondo, contro il nulla. E l’effetto di mascheramento che l’ironia produce, quell’apparente alleggerimento della parola, rende, al contrario, più manifesta la sofferenza esistenziale e la malinconia che l’accompagna, il dramma che la suggella.

Petr Král

Appiè di fanfara

                                                                                  a Claude Courtot

Di tutti i mezzi espressivi, la musica è quello che, probabilmente, ci delude meno. Soltanto l’ascolto di alcuni dischi fonografici, quali le prime registrazioni “giunglesche” dell’orchestra di Ellington, è capace di placare almeno un po’ quella fame interiore ed indefinibile che regolarmente si impossessa di me nel periodo pre-natalizio, nelle giornate insoddisfacentemente brevi di inizio inverno e scorcio anno. Soltanto con quei suoni preziosi e soprattutto, naturalmente, con i toni leggendari della cornetta di Armstrong di fine anni Venti, riesco a venire a patti con la malinconia che mi assale nelle serate estive e di fine primavera, quando la vita rivela in maniera così opprimente tutta la sua vana bellezza. Continua a leggere

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l’Espressionismo, la Poesia Ceca espressionista, poesie di  František Halas, Jiří Orten, Vladimir Holan a cura di Antonio Sagredo con Quattro poesie inedite di Antonio Sagredo in stile ontologico e neo-espressionista

Gif espressionismo nosferatu

gif dal film Nosferatu

Sull’Espressionismo

I termini temporali entro cui si svolse l’espressionismo sono alquanto complessi e discutibili. Il grande germanista Ladislao Mittner fa parecchia fatica nei volumi della sua straordinaria “Storia della letteratura tedesca” a mettere dei paletti non solo  cronologici, ma pure nel labirinto di tematiche e problematiche che si svolsero (meglio: sconvolsero) tra gli anni 1907-1926. Questo intervallo di tempo è un tempo allargato definito dallo studioso F. Martini, rispetto all’intervallo 1910-24 (il così detto “dodicennio nero”, in definitiva il “falso splendore di un decennio d’oro”) o al 1919-33 (”i 14 anni di obbrobrio” come avrebbe detto lo stesso Hitler). Il germanista Paolo Chiarini pone la data di nascita dell’espressionismo negli anni 1905-06.

    Nel 1907 vi furono due eventi: l’esposizione di van Gogh a Monaco e la retrospettiva di Cezanne nel Salon d’Automne.  È R-M. Rilke, su suggerimento della scultrice preespressionista Paola Beker-Modersohn, a cui dovette l’ammirazione per Cezanne, a dare una delle definizioni più azzeccate dell’arte nuova figurativa definendo le “mele” del pittore come “inafferrabili o anche “incomprensibili”, e cioè non più mele di una arte culinaria, ma di una “arte dell’assoluta discrepanza fra l’io e la realtà, per effetto della quale la realtà si presenta all’io come angosciante nella sua incomprensibilità. Questo si riflette nella “nuova musica” specie nel secondo quartetto (1907) di Schönberg  già “consapevole di un addio al passato e primo tentativo di una nuova musica cosmica”.1]

    E allora in Germania si parlò “degli anni ’20 come degli anni (amari) , anni dello stordimento di una generazione che si gettò nel piacere con la disperazione di un suicida… anni in cui vissero  sconosciuti o appena conosciuti o isolati Musil, Brecht, Berg, Wittgenstein, Bloch, Kästner e Tucholsky””, tutti speranzosi di voler creare un tedesco umano  e nuovo, e invece… 2].

     Arte figurativa, arte letteraria, arte musicale e arte teatrale sono i quattro principali snodi del movimento espressionista, la cui definizione resta sospesa: “non è facile dire che cosa propriamente significhi”; essa secondo il Mittner è una sorta di “comoda approssimazione”, un minimo comune multiplo che ci permette di collegare fra loro determinati fatti artistici appartenenti ad una determinata età.” Insomma uno degli aspetti più originali e validi  dell’espressionismo è la tentata e talora realizzata sintesi artistica nella tendenza cosmico-lirica e di quella politica-morale”.3] Una linea adottata da tutti gli autori, ognuno secondo il suo stile e la sua disciplina; p.e. visibilissima nella poesia di G. Benn. E per finire sulla sostanza espressionista lo studioso A. La Penna vede  “nell’espressionismo «l’esasperazione violenta dell’espressione», mentre il barocco suscita il sospetto che l’esasperazione sia un giuoco futile, esagerazione vana più che esasperazione vera” (rivista , 1963, p.181).

Kandinskij, che fu anche poeta, da par suo nei suoi saggi cerca di dare varie definizioni dell’espressionismo già dal 1912, ma “non riesce, né tenta infine di definirlo in alcun modo” e pure dice “cose notevolissime sui rapporti fra le forme ed i colori, ma trascura di esaminare partitamente quelli fra i colori ed i suoni” . Quest’ultimo rapporto (mi) sorprende, poiché il suo maestro il pittore lituano Čurljonis compose la musica in/coi colori, specie le note di Beethoven.

    Insomma, e per finire, l’intervallo tradizionalmente accettato dell’espressionismo sono gli anni 1910-24, ma suscettibili di essere ampliati certamente, diciamo 1905-1933, secondo quanto scritto più su. Quasi parallelamente all’espressionismo si muove il futurismo, ma con una vita un po’ più breve, ma con la stessa intenzione di abbattere  il vecchio mondo, cioè il mondo di ieri decadente-naturalistico.

Sempre il Mittner mette a fuoco nel paragrafo §393 (La musica atonale e dodecafonica) l’arte della musica con le altre due arti: la pittura e la letteraria, facendo spiccare le personalità più evidenti: Schönberg (che fu anche pittore), Berg e Webern.

Alban Berg è con il Wozzeck, del 1921, più che con l’opera Lulu del 1928 che al confronto appare più debole almeno in apparenza, che raggiunge risultati positivi, e cioè rivela “insospettate possibilità insite nel procedimento atonale” e p.e. “il bel concerto di Berg per violino dice chiaramente che se la dissonanza è infelicità, la consonanza è felice riconciliazione”; il punto fondamentale è ancora chiarito dal Mittner (§393, p. 1202) quando scrive che Berg “accetta il principio dello Sprechgesang che rompe la cristallizzazione della vocalità melodrammatica che wagneriana, eppure recupera le forme del bel canto e del recitativo drammatico, aprendole a nuove e più sensibili possibilità espressive”

   Questo aspetto a dir la verità è più evidente in Lulu, dove il recitativo é predominante; e non credo affatto che sia limitativo.

   Dunque l’espressionismo si rivela il solo movimento capace di coinvolgere tutte le arti possibili: nella musica il tono diviene atonale; la pittura (si) disgrega e (si) ricompone distruggendo con l’urlo dei colori; la cinematografia col montaggio cinetico rivela possibilità oltre la semplice trama; l’architettura distrugge i fronzoli floreali e altro e bada all’essenziale geometrico sviluppando con nuovi materiali costruttivi prospettive impensabili; il teatro, p.e. con Pirandello viene frazionato con la psiche fino all’esaurimento della stessa; il romanzo con Joyce non è più lo stesso.

   L’espressionismo coinvolge tutte le culture europee; in Boemia, p.e. Kubin “disegna situazioni terrificanti che sono assolutamente irrazionali eppure hanno tutta l’aria di poter essere narrate anche in chiari termini razionali”; in suo romanzo Die andere Seite (L’altro lato) anticipa, secondo il Mittner, i procedimenti sinestetici e geometrici di Kandinskij (Mittner, § 394, p.1205).

espressionismo Otto Dix, I mutilati di guerra, 1920

Otto Dix, I mutilati di guerra, 1920

Da Kubin al “Golem” di  Meyring, e da questi a Kafka

Si innesta a questo punto la poesia ceca del ‘900 che con František Halas ha il suo poeta forse più rappresentativo dell’espressionismo poetico, che nel barocco boemo del ‘600 trova il suo fondamento naturale. Secondo il maggior critico ceco F. X. Šalda, “Halas è il poeta della sconnessione del mondo, dei nodi, dei groppi, delle intermittenze, degli abissi, degli iati nella struttura del cosmo.” (A.M. Ripellino, F. Halas, Imagena, Einaudi 1971, p. 18)… continua lo slavista:” Per molti critici Halas era in concetto di uno dei più accaniti accòlti boemi dell’espressionismo. E in effetti i suoi temi di morte e marasma, il piglio brutale, la forza esplosiva, le contorsioni, gli sfinimenti lo apparentano agli espressionisti, anche se la < la volontà di cristallizzazione astratta>, per usare parole di Šalda, la tettonica a strati, a fratture, a sovrapposizioni derivano dal cubismo”.

   Amò, Halas, la poesia di Trakl tanto da essere accusato dal poeta “poetista” V. Nezval di “traklismo”. “Comunque fu la lettura di Trakl interpretato da B. Reynek (poeta e incisore cattolico) a immettere i germi dell’espressionismo nelle tessiture di Halas”, specie nei versi della raccolta “Il gallo spaventa la morte”; ma Trakl influì su tanti scrittori e poeti cechi di primo piano; perfino su Vladimir Holan.  Anche il giovanissimo e sfortunato Jiří Orten fu grande ammiratore del poeta austriaco. Insomma un filo diretto c’è tra la poesia ceca e i poeti espressionisti tedeschi-austriaci.

1] Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, §391 – L’Espressionismo – pp.1190-1191, Einaudi 1982

2] ]  L. Mittner, ibidem, § 261, p.858

3] L. Mittner, ibidem, §391, p.1189

FRANTIŠEK HALAS (1901 – 1949)

František Halas

(da Sepie, 1927, Seppia)

La poesia

Migliaia di raggiri e imposture
trappola tesa nel buio
arte dello spionaggio
a cui ti abbandoni da solo

seguendo le tue tracce e condannandoti
per i segreti svelati
punito soprattutto da te stesso
le tue liriche libro di lagnanze

Hai agonizzare la poesia per una parola andata a traverso
non morirà mai tuttavia
un giorno troverai le tue parole come il terno di una lotteria
e l’avrai vinta

Stretta è la rosa centifoglia dei poeti
ami soltanto quelli con la lingua serpentina
di cui metà è querimònia di angeli
e metà assalto

Ultima Tule dove ti allontani
con dolcezza infinita per le cose che hai conosciuto
con voce tutta falsa congedandoti
dalla soave malsanía che ti ha perduto

(trad. A. M. Ripellino, 1971)

*

Scarmigliato dal fascino audace in una corazza di nebbie
Beve sino al fondo l’alcool delle rose
Il volto pieno di giorni impiastricciati

Intriso di sangue rugginoso l’abito pende fra i rovi
Il relitto del giorno cola a picco col suo equipaggio di ombre
Lo strazio della terra si placa nel buio smanceroso

Corre nudo da una pratolina la moneta orfanile dell’aurora
stringendo nel palmo
dall’angoscia pigola un uccello nel raro fogliame al risveglio
nelle sorgenti si sciolgono le rusalche

Mestizia antica offusca i suoi occhi afflitti
Il sole imperatore negro incoronato
Sorge pian piano da guazzi melmosi

Cade la noce imputridita della bella testa
nella sua cavità qualcosa insieme sboccia e marcisce
con le orbite vuote una cerbiatta vaga nel bosco e geme

Un pipistrello il patto con l’inferno sulle membrane delle ali
dorme nel cantuccio di una grotta

(trad. A. M. Ripellino, 1971)

*

Paesaggio velenoso

Nelle àgate oleose di acque funeste
un fiore più làido di un morbo si allarga
e gelatina di rospo abominevoli
La strada maneggio di spettri striscia scabbiosa
solo un ronzío velenoso di mosche carnarie
l’erbaio gialleggia impuro come calunnia

Della propria laidezza si consola con l’arte
qui il sole incendiando dovunque la desolazione
e gioielli di coleotteri martella dalle carogne

Il contagio maligno si estende sino alle nuvole
gelosamente conservando la loro pioggia
e nel tramonto livido si uccidono gli scorpioni

(trad. A. M. Ripellino, 1971)

*

Jiří Orten

Jiří Orten

Jiří Orten

Fu un dicembre generoso. Sulla radura innevata
c’era qualcuno con la tavolozza in mano.
Nevicava, nevicava nel suo dipingere.
Era inconsapevole, dipingeva

questo nudo inverno, le sue compatte ossa,
la valle della nostra origine, profonda, più che non volesse,
e l’altezza dei seni nella ripida ebbrezza.
Sul modello nevicava.

Dio mio, qui ha svolazzato il corvo, cosa vuole,
da dove viene?
Fu un dicembre generoso. Sulla tavolozza nevicava
e la tavolozza era vuota.

Questa terribile impotenza a impossessarsi del dipingere,
che cade sulle tele,
come neve bianca, che non sa, non sa nemmeno
perché deve cadere!

Questa terribile impotenza a trattenere ciò che fugge!
Si è indebolita la tua mano,
hai la lingua impedita, e non sa dire
a quello, cosa si scioglie:

o eterna metamorfosi, si scioglie tutto ciò che è nascosto,
o eterna metamorfosi, dove sarà la mia anima,
finché mi sciolgo in neve, dove sarà, in quale donna
e in quali nevai?

Fu un dicembre generoso. Sulla radura innevata
c’era qualcuno con la tavolozza in mano.
Nevicava, nevicava nel suo dipingere.
Lui era inconsapevole, dipingeva.

.
1939
(trad. Antonio Sagredo – Katerina Zoufalová, 2006)
*

Eternamente

Si piega sulle ginocchia la notte,
si piega e non lo crede.

Nulla più mi trattiene alla vita,
di scatto taccio,

mentre le madri dei morti
sono pronte ad un’altra volta.

Pietà si deve avere
di tutti noi superstiti.

Sbagliare eternamente, fino ad essere puri.
Eternamente.

Si piega sulle ginocchia la notte.
Pregherai stasera, Desdemona?

.
1940
(trad. di G. Giudici e V. Mikeš, 1969)

*

Deviazione

Nubi di polvere si alzano dietro la carretta.
Commosso il boia si volta inorridito.
Tra poco la testa chiomata rintronerà a terra.
Voi fatevi più avanti, spettatori!

Era già condannato da sempre. A lungo nella cella maturò.
Aveva tempo. E spesso di tra le sbarre un bagliore
C’era, forse di sangue. Non pensa all’accusatore.
Vuol giustiziare se stesso.
Vuole? Non sa. In un languente sogno si perde,
fino all’ultimo vuole sognare la nuvola, un giovane seno,
compatire i carnefici, andare diritto al patibolo
e cantare, cantare fino all’estremo!

1941 (trad. di G. Giudici e V. Mikeš, 1969)

.

vladimir-holan

Vladimir Holan

Vladimir Holan

Non sai

Non sai più se hai mentito
a tal punto che oggi il rimpianto s’è contraddetto
dilatando la colpa che fuggendo con te
ti rivuole indietro
a colori ravvicinati.
Non sai più se per le percosse
ci scordammo l’offesa
che le accompagnava.

Non sai… ma la brughiera era sferzata da una bufera di neve!
Ma quella voce… “Non vi perdonerò mai”.

*

Quante volte
Quante volte, scrutando con gli occhi,
passeggiavi presso un orologio o sotto una vecchia acacia,
ma le loro sembianze si deformano facilmente.
Per la fatalità nei sensi e per l’anima negli echi
hai conosciuto la paura della morte,
questa è l’attesa… Soltanto dopo
gli spettri sono concreti… Ma la gelosia
nessuno la difenderebbe…

(trad. Antonio Sagredo, 1983)

http://riviste.unimi.it/index.php/itinera/index – Sabrina Orivelli, Kirchner e Murnau: ricorrenze iconiche, tematiche e semantiche dalle arti figurative al cinema

German Expressionism has had from the beginning a multidisciplinary character and the works of the painters, pertaining to that current, have strongly influenced the filmmakers of the subsequent decade. More specifically, it is possible to find in some sequences of Nosferatu by Friedrich Wilhelm Murnau several formal features that have characterized the production of expressionist Ernst Ludwig Kirchner, as well as the direct quotation of some works of him, including The Red Tower in Halle, Two Women in the Street and Five Women in the Street. The reproduction in the frames of specific works of art, the image distortion, even the make-up of actors resume then aesthetic elements first developed by Murnau and are intended to convey to the viewer a sense of anxiety compared to the reality, to the contemporary society, to the city life, even manifesting an inner struggle, that has united Kirchner and Murnau itself.

espressionismo 2

Quattro poesie inedite di Antonio Sagredo

Il libro… oggi

Il libro aprì le mie mani per segnarmi come un monatto irriverente,
nella mia mente avvilita i misteri della metonimia antica,
e quella malattia che traverso il nome si chiama, se volete, Poesia.
Sorrise il lucido dorsale per mostrarmi la sua identità cartacea.

E mi sfogliò le epoche come uno stregone distilla il suo veleno cortigiano.
Mi accecò come un bardo la parola per cantare la mia corteccia irrazionale.
Il furore dell’infanzia esondò come la bellezza di Rosalia!
Come la beatitudine di Smeralda inquisì lo spasimo della materia!

Per coprire d’oscurità i triviali segreti celebrò le distinzioni delle pagine
con le affilate misture di Salafia, e gli spettri delle sue formule
per vincere d’immortalità i suoi sembianti. Per il trionfo della maschera
il trucco di una pelle si ritirò sdegnoso dietro la propria inconsistenza.

Il libro… oggi, è un cavaliere insopportabile e vincente.
La macchina non ha piedi, né cammini tracciati dai sentieri,
e passi tardi e lenti per stampare i tempi e gli ignobili pensieri.
Come un geniale attore che alle scene assegna gli atti, i gesti, e i fallimenti.

Roma, 5/12 novembre 2011

*
Il cielo si scurì per neri ombrelli

Dai confessionali cinguettava una condanna ambigua senz’appello,
sinistro era il calvo battito di un giudice in gramaglie nere.
Non avevo più i conforti estremi di un’anima eretica, la carne arsa
e quella fede irregolare che un celeste trono nega a malincuore.

Mi tallonava l’inutile urlo della croce e la sua smorfia stercoraria
che dal capezzale mi pianse la perdita di astragali e aliossi.
Come uno stendardo si levò la beffa simile a una profezia teatrale!
E io vidi, non so, patiboli in stiffelius e quinte martoriate come golgotha

e coi reggicalze ben in vista alati putti e sacerdoti celebrare beati,
sotto i portici del granchio, sanguinanti spine, lombi e glutei!
Ah, Dante, non avevi più urina e saliva, ma la tua lingua era ancora toscana,
cordigliera e velenosa… perfino gli uccelli scansano questa croce! – gridò.

Il cielo si scurì per neri ombrelli… tuniche codarde e orbite di livide veroniche
oltraggiarono i tramonti – chiodato dai suoi miracoli l’Incarnato pulsava
per un coito dismesso a malincuore – per un altro sesso, come un velo mestruato,
depose il divino Verbo nel postribolo – fu l’inizio della nostra croce, e la sua gloria!

I giorni che trascorsi nello specchio gelano epoche e finte apocalissi.
Promise al suo sosia e gemello le meraviglie della Terra e degli Universi
tutti, ma quel bosco fu avvelenato dalle bacche del tasso: miserie del martirio!
finzioni! resurrezione dei vivi! fede dei misteri!… compassione, per loro… ecc… ecc….

Roma, 29 settembre 2011

*
Camera

Forse tu, domani, stupita vedrai il mio trionfo calpestare l’ardesia,
le consolari ammutolite e il riflesso ostinato di un Kaos nelle cisterne
vuote… il clamore del mio volto fu sorpreso da un cratere attico
e umiliato l’incarnato in una gabbia dalla mia storia scellerata.

Nei laboratori dei presagi ho scovato non so quale fattura inquisita,
la promessa di una risurrezione mi stordiva… mi svelava una fede
il negromante a squarciagola: ecco, questi sono gli altari,
dove ancora nei secoli si canterà la favola di un qualsiasi Cristo!

Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati
e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata
con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,
la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.

Lastricate d’attese e geometrie le nuove leggi simulavano la memoria.
Raffiche di gelo salmodiavano le nostre ossa, i numeri cedevano il segreto
al secolo più virtuoso, straziata la nemesi e sformata la pietra angolare.
Gli occhi e le dita computavano nuove orbite e principi matematici.

Maldestro è il tradimento! Come il trono è una maschera inabile,
capriccio e parvenza di se stesso! E mi vaneggia lo specchio di incubi,
eventi e sembianti… e come si trastulla nel giardino, e in questa
stanza mia, che è Tutto per me – per fortuna – ma non è la Storia!
.
Vermicino, 16-20 maggio 2008

*
Non ho mai incrociato una fede umana o divina con un pianto di legno nella Casa,
– sul pianerottolo una marionetta gioca con la testa di Maria Stuarda.
Ha di gelatina gli occhi e non lacrime vomita, ma trucioli e colla di coniglio!
Il lutto non s’addice ai Cesari e alle stelle… Gesti, gesti a me! Soccorrete le mie mani!

Ma io che faccio qui o altrove se il boia non ha un nobile rancore sulla lingua
e mescolare non sa con l’accetta dell’attesa e dell’accidia un colore di Turner.
Il Nulla azzera i giudizi sui patiboli, e il resto di un delirio è nello specchio.
E dov’era vissuto il mio corpo quando offriva sangue alla sua ombra?

Sono rose nere queste quotidianità, ma non sono le mie rose!
E come posso rifiutare un destino che ad ogni sua domanda mi risveglia?
Io sono esente per grazia umana, e nella mia parola non c’è risposta!
E non ho l’acrimonia del vivere, solo voglio esserci quando accadrà.

Svegliatemi dopo la mia immortalità! La pantomima è piena
di vento nelle apocalissi, negli incendi e nelle distruzioni! – i tre profeti
farfugliano : Scusi – lei – sente – molto – la – nostra – differenza?
La confessione è un’arma terrificante… il Poeta: io me ne fotto!

Roma, 29 ottobre 2011

Il libro… oggi

Il libro aprì le mie mani per segnarmi come un monatto irriverente,
nella mia mente avvilita i misteri della metonimia antica,
e quella malattia che traverso il nome si chiama, se volete, Poesia.
Sorrise il lucido dorsale per mostrarmi la sua identità cartacea.

E mi sfogliò le epoche come uno stregone distilla il suo veleno cortigiano.
Mi accecò come un bardo la parola per cantare la mia corteccia irrazionale.
Il furore dell’infanzia esondò come la bellezza di Rosalia!
Come la beatitudine di Smeralda inquisì lo spasimo della materia!

Per coprire d’oscurità i triviali segreti celebrò le distinzioni delle pagine
con le affilate misture di Salafia, e gli spettri delle sue formule
per vincere d’immortalità i suoi sembianti. Per il trionfo della maschera
il trucco di una pelle si ritirò sdegnoso dietro la propria inconsistenza.

Il libro… oggi, è un cavaliere insopportabile e vincente.
La macchina non ha piedi, né cammini tracciati dai sentieri,
e passi tardi e lenti per stampare i tempi e gli ignobili pensieri.
Come un geniale attore che alle scene assegna gli atti, i gesti, e i fallimenti.

Roma, 5/12 novembre 2011

Onto Sagredo

Antonio Sagredo, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Antonio Sagredo (pseudonimo Alberto Di Paola), è nato a Brindisi nel novembre del 1945; vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Ha pubblicato dieci poesie nella antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016) e la sua prima silloge in italiano, CapricciArticoli e saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).

Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).

Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche. Nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. A. Di Paola e K. Zoufalová. È in uscita, per Chelsea Editions di New York, Poems Selected poems di Antonio Sagredo.

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Antologia bilingue della Poesia Ceca contemporanea a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero neve – Poeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis Hebenon, 2005 pp. 228 €  16,00) Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Brno Del Zou - Izoumi, 2012Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Segnalo un libro davvero importante e insostituibile come questo pubblicato dalle edizioni Mimesis Hebenon nella collana diretta da Roberto Bertoldo a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero nevePoeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis 2005 pp. 228 €  16,00). Devo riconoscere la capacità critica e la competenza del curatore Antonio Parente nell’aver saputo individuare con precisione i valori poetici degli autori presentati (Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol), ed elogiare la perizia del traduttore che ha saputo ricostruire in un ottimo verso libero italiano il testo ceco originale. Ma l’aspetto più rilevante che mi preme sottolineare è il «nuovo» e «diverso» concetto di poesia che emerge dai numerosi testi qui presentati; con «nuovo» intendo qui individuare il valore discriminante rispetto alla linea maggioritaria che oggi sembra occupare gli scaffali della poesia italiana contemporanea. Innanzitutto, la sapiente costruzione mediante le immagini «doppie», o a «elica» (le eliche doppie, e anche le volute della scala a chiocciola), a doppio binario; in secondo luogo, la capacità di questi poeti cechi di accoppiare elementi eterogenei e contraddittori allo scopo di determinare l’immagine con più nettezza di particolari e maggiore precisione metaforica. Ecco una vera e propria dichiarazione di poetica.

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare nella sabbia…

(Michal Ajvaz)

Ecco un esempio concreto di superamento del simbolismo per giungere ad un tipo di poesia post-simbolica. Così, se nella tradizione del Novecento il simbolo si risolve nella riunione di due immagini, nel ricongiungimento in un’unità pur se disgiunta e scissa, qui non indica più il ristabilimento di una unità in nome di una immagine pacificata e negoziata, non è più l’immagine di un tempo perduto (e da ritrovare) da cui deriva l’elegia, o del tempo scisso (da restituire al mittente) da cui deriva l’antielegia; nei poeti cechi qui presentati l’immagine prodotta non è più il risultato di una sintesi pacificata e pacificatrice ma mantiene lo strappo, la lacerazione originaria, anzi, accresce il senso di disappartenenza e di disarticolazione del testo poetico. La connessione implica e statuisce una disconnessione, la sutura implica e statuisce la lacerazione, l’immagine complessa che ne deriva non è più «negoziata», ma implica e statuisce il divorzio, la scissione, la disappartenenza, lo spaesamento, lo straniamento tra l’autore e il testo, tra l’autore e il lettore.

La «nuova poesia ceca» non ricerca affatto alcuna conciliazione fra ricerca sperimentale e cultura di massa, non persegue il raggiungimento di una coabitazione tra arte sperimentale e arte di massa, il felice o infelice accordo fra l’oggetto artistico e l’oggetto merce. Alla luce abbagliante della coabitazione spaesante nella società delle immagini virtuali, la poesia si trova paradossalmente a suo agio, i poeti qui convenuti sembrano prediligere un irrealismo magrittiano in direzione di un’arte a-concettuale, anti acustica. Prediligono a una «poesia verticale» una «poesia orizzontale». Una dizione piana, che non teme di apparire quasi noiosa, una oggettistica per lo più banale, e chi più ne ha più ne metta ma è la connessione spaesante tra gli oggetti che determina la «nuova visione», è la dis-connessione tra gli oggetti quella che determina la «nuova poesia ceca», del tutto fuorviante e a-concettuale per un lettore italiano abituato al minimalismo nostrano con tanto di perbenismo davvero piccolo borghese.

Come si può notare, i colori sono sordi, freddi, l’esposizione da realismo o iperrealismo, da abbecedario e da settimana enigmistica, volutamente «basso», «triviale»; alla lettura non ci coglie nessuna emozione vertiginosa e nessuna estasi, il lettore è trasportato, come su una scala mobile o un nastro semovente, attraverso palcoscenici e quinte che trascorrono dall’ordinario routinario allo strampalato post-surreale. Tra il surreale e il reale c’è di mezzo il mare, la poesia abita un corridoio di immagini e considerazioni oziose, respingenti, prosaiche, insensate che danno il senso complessivo di iperrealtà; di qui la procedura iperrealistica auto respingente che viene però sempre immediatamente decontestualizzata dallo scorrere dei fotogrammi delle immagini ordinarie, post-surreali e/o grottesche. All’improvviso, si rivela lo squarcio, la scissione; l’enigmatico deprivato di enigma appare ancor più enigmatico. La scrittura si rivela come montaggio di istantanee che fotografano l’impossibile e il grottesco. I frammenti sono accatastati l’uno all’altro senza apparente ordine, senza rigore formale. Una poesia terremotata e disartizzata le cui membra disiecta giacciono ad imperitura memoria. Nella poesia di questi cechi possiamo ancora riconoscere attraverso l’assurda tessitura dei testi l’assurda struttura del mondo, la profonda intercapedine che esiste tra il nome e tra i nomi, non più soltanto tra il nome e la cosa. Il significato se ne è andato a farsi benedire. Il problematico è stato disartizzato ed evirato. Ciò che rimane sono i poeti che non possono più abitare poeticamente il mondo.

Classificato a ragione come uno dei principali rappresentanti del surrealismo ceco, Pavel Řezníček ha sempre messo in dubbio veementemente sia la così spesso proclamata «morte del surrealismo», sia la possibile evoluzione di questo movimento in una sorta di ‘neosurrealismo’ o ‘postsurrealismo’. Lo stesso autore ci confida la ricetta dei suoi testi: «Vedere le cose senza illusione e criticamente, aggiungendo umorismo, possibilmente nero».

Vorrei limitarmi ad indicare ai lettori lo stratagemma impiegato da Pavel Řezníček: l’inserimento nel corpo del testo poetico di lacerti del «reale», del «quotidiano», però decontestualizzati e spostati lateralmente in modo da sconvolgere l’orizzonte di attesa del lettore, sorprenderlo, scuoterlo e coglierlo d’infilata. Procedimento questo adottato dalla poesia italiana per la prima volta da autori italiani appartenenti alla Poetry kitchen. Leggiamo alcune righe del poeta ceco:

appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany

foto Pavel Řezníček
Tre poesie di Pavel Řezníček

Sala macchine del carciofo

L’orichicco quel vecchio spilungone
e il fruscio di banconote tra le mani delle ortiche
qualcosa si allontana e qualcosa si adagia accanto a noi
ai nostri corpi alla nostra cenere
il silenzio della lampada e la meteora dell’asciugamano
scompartimento sotto frane di pepe e arpione
portavano la megera tutta di arance sbucciate
e di piume di sparvieri che imbrattavano tutte le finestre del mondo
è solo una vampata quella che balugina
nella sala macchine del carciofo
un fazzoletto gettato sul chimico
che ispeziona la pancia del defunto Lévy-Bruhl
Il Canale di Panama e l’incidente d’auto (o di flauto?)
verga di nocciolo martelli pneumatici e la pazzia del pompelmo
appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany
meteora dell’asciugamano gettato sul ring del destino
un passante in lontananza di notte si soffia il naso su un globo di diamanti

La seppia pascola il ragno

Portava sempre due sacchi
Il cammello alla stazione
Non dovresti credere a queste facce piatte come la pietra
Prendi metà saccarina e metà caramello
Il cucciolo di felino non lo si riconosce
Quando finalmente inizierà la guerra?
Tutto palpitante per il Modern Jazz Quartetto
Due lanterne verdi due sigari verdi
Fece amicizia con un uccello
Portava sempre tre sacchi
Ragni con cappelli in testa
I ragni pascolano le seppie
Le seppie pascolano le puttane
Un cane micaceo picchiettava il muso
Un fiammingo
Le calze azzurro chiaro
Portava sempre tre sacchi portava quattro sacchi
Ma non le servì a nulla:
Il martello di pietra centrava sempre in pieno
La carriola
Nella quale portavano
la testa di Charles Bukowski

Le febbrili visioni di un surrealista: Omicidi, supplizi, macinatura in polvere di vivi…

(Dedicato al compagno Štěpán Vlašín per la sua recensione del mio “Caldo”nel giornale comunista HALÓ)

Nei boschi e durante la guazza
flicorno cistifellea madreperla coltelli
nel ricordo di colui che sforbiciava i giornali e faceva bambini dal formaggio
inzaccherare l’occhio
la calce porta la bicicletta
nella calce farina nelle uova sangue
la puzzola interprete della Luna
non dovremmo leccare la stufa ogni musicante poi mescolerebbe con la carriola
quello che non si deve svelare
il lebbrosario di San Giacomo
le grancasse sono in valigia qualcosa come frittate
e gli schizzi di sangue dei tuoi seni rappresentano una marcita
zeppa
di segreti granchi e aragoste massacrati
che confessano di essere aragoste
e quello che è un fungo è cristallo e i funghi sono persone
con la lingua perforata dal ferro da maglia
Poi ridusse le persone vive in polvere
e quei pochi assassinii che gli caddero dalle tasche erano un affare da nulla
come i peli che crescono dal naso di Messerschmidt
che era non solo professore
ma anche un aereo fatto con la busta
di plastica del latte
Allora: quei pochi assassinii che erano un affare da nulla
si trasformarono in pariglia di cani eschimesi husky
e la città O. si trasformò nel condrosarcoma del dio Aion
sì quello della grotta di Mitra
dove si asciuga il bucato della trascendenza

Foto, giostra con sedili

Una poesia di Karel Siktanc

Con la chiave apro Le tre rose bianche Apro la casa
Al pavone Chi si è trasferito? E chi rimane ancora
qui nel rione? Silenzio dietro le porte soltanto
in quella oltre il cortile s’ode una nota chiave Giovane
apro a me stesso

E me stessa mando altrove

Con la chiave apro la casa Alla sirena Ai tre cervi schiudo
e qualcuno sosta nel corridoio oscuro E nome dopo nome in un grido
Forse sono condannati a morte Forse
immortali chissà Nel negozio di corone funebri
ci sono dei bimbi in piedi

E intorno alla bara cantano qua e là

Con la chiave apro Ai tre violini E Alla bianca cavallina
E le pareti vuote dagli Smetana E dalla corrente una canzoncina
Volevo imparare a suonare l’organo Sembrare un coro
Non essere solo come ora Ma è troppo tardi È rimasto soltanto un leggio

che non reggerebbe più la partitura

Con la chiave apro la casa Alla ruota d’oro Apro Ai tre orsi nolenti
Avevo una casa dove capitava E adesso sarà solo altrimenti Apro la casa Al giglio
Apro Ai due amenti Avevo soltanto una
casa

E adesso sarà solo altrimenti

Con la chiave apro Al paradiso Ah, la mia fanciullezza non sento di appartenere qui
vai tu al mio posto Sento che chiedi di mamma
Sento che ti aggiri per casa di nascosto Apro il cancello Ai due
soli Qualcuno corre a prendermi una candelona E passi come se
camminasse in scarpe da cannoniere

rimbombano per via Sperone

Con la chiave apro la casa Dell’angelo Apro
Agli astri e tutte le donne che mi mentirono sono qui
sui piani lungo i pilastri “Cosa cerchi?” “Niente!”
mento mentito e sorrido ai forestiere E
nella mano bianca degli argentieri

risplende il gioiello del mio dispiacere

Apro
Chiudo a chiave

e fa freddo dappertutto E buio

È la santa Angoscia già dal principio del mondo

foto milan-napravnik-il-nido-del-buio
Una poesia di Milan Napravnik

ALL’IMBRUNIRE

È l’ora dell’eterna notte
Alcuni sono morti altri sono usciti barcollando dal cinematografo
pallidi come lenzuoli
Una foglia d’acero ha traslocato lungo il marciapiede
Dal tavolato di un bar sbarrato al negozio di generi alimentari
Ha danzato tra piedi pazientemente in fila
per un pezzo di carne
È salita all’altezza del primo piano di un fatiscente casamento
Ha dato un’occhiata alla stantia camera da letto degli amanti
Ha volteggiato oltre i fili del tram fino al recinto-orinatoio
E da lì via verso la grande lavanderia esalante il tanfo di sapone
Finché non si attaccò alla cornice del negozio
dove si vendono teste di gesso

Croci ornamentali ad uncini e senza
Semplici convinzioni e istruzioni per strangolare i miscredenti
Al negozio
Dove ogni acquirente è accolto con un dirugginio di denti
in caso
Avesse intenzione di chiedere il prezzo reale
di questa merce vergognosa
Come un animale randagio
Un cane senza litorale
Scalciato da ogni tempo nell’inguine scheletrico
Che si nasconde in biblioteche e musei inariditi
Animale senza seta ma compagno perseverante degli incubi notturni
Striscia per le gallerie di quadri lungo ritratti di nuvole morte
Lungo nature morti olandesi con la frutta fresca e una mosca
Lungo paesaggi roccoco scintillanti di sole
e popolati di pastori di pecore
Lungo battaglie navali dove gli eroi assassinati
cadono pittoreschi dal ponte di navi da guerra
In onde marine dipinte con maestria
E lungo visioni incurvate dei santi dipinti
Dell’altare di pingui cardinali
e macilenti eremiti
Di fetide monache con le fiche ricucite
Tutto in un sol boccone di manipolazione estetica
Nulla solo l’Arte un’unica e sola stronzata una truffa
Tutto solo un unico e solo aborto della civiltà
Mi dispiace, signor Péret
I tuoi tentativi di riconciliare la poesia con la lotta sui monti catalani
non hanno avuto successo
Non ti sei mai tradito ma i tuoi occhi mi raccontavano la storia
Le gocce di sangue anarchico sulla foglia di fragola riverberavano di purezza
Come il sole nel calice di Rémy Martin
Che bevemmo in primavera in un bar
della rumorosa Place Blanche
Non potevi morire con un’espressione di soddisfazione
Solo scomparire con tristezza
Meraviglioso amico dell’inflessibile disperazione
Sei vissuto sul solatio di un intelletto come oggi
non ci tocca più
Del quale sappiamo solo grazie alle testimonianze dei nostri antenati
Testimoni aviti di una tradizione remota
Viviamo al gelo
Il cielo è eternamente coperto da un triplo strato di nubi
La città è soffocata da veli di grevi zeli
E dal timore del quotidiano stritolamento dell’inutile desiderio
Leggende dappertutto crude come la carne sui ganci delle sale
alle tre e mezzo di mattina
Non si può raccontare una storia che scaturisce dalla struttura
molecolare del vino
Le inesauribili sfere di piselli con un mormorio si mescolano
al vello stradale
Dove ci sono i caffè c’è anche il caffè da asporto e le cartine di catene
Punte di seni cresciuti sulle conchiglie del tempo
L’incantevole patina di rosa
Le graticce marine di svettati come un bicchiere di Bordeaux
Se dico graticce intendo graticce
Non la fine del mondo
E nemmeno memorie astanti di cerchi alla mano e cravatte orbe
Qualche cancello di interminabili campi di patate
Rime guaste di colla
Indescrivibili cortocircuiti di sterco
E le selvagge carceri della metro che sfumano nel buio dietro ciglia
aggettanti
I tunnel affondano nella terra
Pourquoi j’écris moi-même?
Dis-moi reflet de cobalt
Pourquoi le vol de corbeaux qui t’entoure
comme le charbon étreint le feu?
Non conosco la ragione del mio respiro
Né la mia passione per le fiamme che di solito spegne la birra della ragione
Tanto meno l’indirizzo dei miei destinatari
Ad ogni modo dicono che ce ne siano pochissimi
Sembra che alcuni siano irrintracciabili
Alcuni non ne hanno il coraggio
Altri hanno fretta
Altri forse non sanno leggere
Ma la maggior parte è in effetti defunta dalla nascita

foto Poeti cechi contemporanei
Una poesia di Jachym Topol:

Al mattino un pezzo di stella attraversò in volo l’aria
e si sotterrò nel marciapiede
vicino alla casa dove abitiamo. Sfondò il lastrico
e fece a pezzi le tubature. Dal cratere zampilla l’acqua.
presi nella palma un pezzo
di quella materia nera compatta
quando si raffreddò. Era come un teschio ma più pesante.
a mezzogiorno la luce si intensificò
e penetrò la tenda.
E la rivista ghignò. La statua ballonzolò. Il Signore del mondo
sollevò un libro da terra e lo gettò via. “La cultura europea
è nata dal racconto di una storia.” Ma qui non succede nulla.
Ti voleva uccidere una stella. La rivoluzione è finita
accenditi una sigaretta. Gli intellettuali vanno in gita
in Provenza. O mi vendo oppure no.
Se sì
potrò andare in tassì per almeno tre mesi.
Ho sempre ammirato quelli nati prima
avevano per più decenni
la possibilità
di riflettere su quello che succede cos’è l’amore la morte la solitudine ecc.
e sono sopravvissuti
e non hanno risolto niente. Oggi la violenza scoppiava in ogni secondo
nei movimenti nelle parole la tensione avvelenava l’aria densa pesante
irrespirabile come se arrivasse dal deserto. La sera arrivò in quel
vestito rosso e dice: “Oggi c’è l’eclisse. Spero
che te lo ricordi. Guarderemo dal tetto della casa
verso la strada.”
Mentre il cielo si spaccava in pezzetti
una voce diceva: “Sì, l’inferno,
lì ci sono merde cadaveri e coltelli e vermi
come qui…”
poi all’orizzonte la luce si spegneva
prima i suoi contorni opachi
poi iniziarono a sparire anche le nubi
ambrate e vermiglie
lucenti come la luce
e poi guardammo nel buio
e non si vedeva niente

(Martedì ci sarà la guerra, 1992)

Michal Ajvaz 1

Michal Ajvaz

:

Tre poesie di Michal Ajvaz

Petřín

Allo Slavia il caffè costa otto corone e quaranta,
sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
Prendono comunque buona cura del divertimento:
al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
sul seggiolino siede un nano
e suona una melodia sentimentale.
I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
che i nani abbiano varie malattie.
In sostanza i clienti e i nani si odiano,
di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
passa per il locale una mandria di renne.
Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
sono spesso posticce. Una ha un guasto,
è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
che si arrampicano senza sosta sui clienti,
anche se ufficialmente si continua a sostenere
che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
(Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
che continuano a minacciare la città?
Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
sentono in lontananza il loro canto strascicato.
Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
che da lontano si mescola alle conversazioni,
e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
Di cosa stiamo conversando, in effetti?
È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
Le norme della buona educazione però non lo permettono.

(In E i ligli tarri, 2002)

*
La foca

D’accordo, ho passato una mano di marmellata su una vecchia foca nella metro, ma non dimenticate anche che fui l’unico
ad indovinare il nome della medusa viola fosforescente
sotto l’oscura superficie d’acqua nella Piazza della Città vecchia,
lungo la quale abbiamo veleggiato in barchetta,
sotto facciate silenziose, ubriachi di birra.
Successe l’ultima notte dell’Età dell’oro.
Fate assegnamento su un argomento sofistico con un Cartesio
di peluche, ma avete dimenticato la malerba della scrittura indecifrabile, grazie alla quale inarrestabilmente, con silenzioso fruscio, crescono le nostre poesie più aggraziate,
e come è evidente, anche lo scalfito manichino automatico,
che di notte siede nello scompartimento buio del treno sganciato
su un binario morto della stazione di Smíchov
e parla con disprezzo delle vostre sterili estasi
nelle cupe piazzette dei villaggi. Penso sia già ora di rassegnarsi
al fatto che la sciovia abbia trascinato via il nostro direttore
all’interno di un tempio barbaro, verso un altare con una spina di metallo,
di iniziare ad abituarsi al fatto che i corpi di alcuni corpi siano coperti da un guscio bianco d’uovo,
lo battiamo leggermente assorti con un cucchiaino
e lo sbucciamo, un po’ alla volta appaiono sulla pelle rosata i versi tatuati dell’epos dei lupi, che corrono lungo i corridoi lucenti della facoltà di filosofia,
del grasso pesce voltante, che vola dentro la birreria Carlo IV
e come impazzito sbocconcella le teste dei clienti –
e tutto si ripete nuovamente, anche con conchiglie cacciatrici di cuccioli,
come un gruppo di statue d’oro al centro di una piazza spopolata in una città straniera,
rilucente nell’inesorabile meridiano del sole.

(In E i ligli tarri, 2002)

Turisti

Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

L’uccello

Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato,
che non era in neanche una delle premesse.
Non è più valido,
nella conclusione da qualche parte penetra sempre qualche animale sconosciuto.
L’uccello siede sulla mia scrivania
e mi punta col suo lungo becco ricurvo.
Ci guardiamo a vicenda silenziosi e immobili per dodici ore
e nel momento in cui squilla il telefono
mi becca proprio in mezzo alla fronte.
Mi sento venir meno
e sogno che piazza S. Venceslao sia ricoperta da una giungla impenetrabile
e di essere disteso di notte ai piedi del monumento a S. Venceslao,
tra la boscaglia di rami e liane traspare il neon azzurro della Casa della moda
e la sua luce si riflette sulle foglie umide delle palme.
Mi assopisco in un nido di foglie
e sogno di essere nella birreria di Doubravčice,
è piena di gente e l’aria è irrespirabile;
un vicino di tavolo, uno zingaro, mi sussurra all’orecchio:
“Due cose mi riempiono di ammirazione e rispetto:
il cielo stellato sopra di me e le stupende tigri che passeggiano
nell’estesa rete di corridoi sotterranei sotto Praga.
Lo dico affinché non disperiate tanto
per l’impossibilità di rispondere ad alcune domande.
Non che un domani si troveranno delle risposte, ma
quando le tigri saliranno in superficie,
le domande si porranno in altro modo”.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

petr kral 1

petr kral

Due poesie di Petr Kral

Edward Thomas (1878-1917)

I

Non solo gonne di fogliame
e sotto precocemente insinuante nelle grazie il buio arroventato da improvvisi fulgori come cascate di gioielli Se il passante getta lo sguardo al di là degli alberi
sarà omaggiato di bronzo da campana illividito del cielo di cenere conciliantemente pulsante
di un palombo e del suo immobile conficcamento
presso l’ardesia intenerita del comignolo La tipula dello stupore nella luce dispersa
ronza silenziosamente alle distanti
cupole E così da qualche parte
qualcosa è redenta senza grido

II

Oltre alla liquida notte nel fogliame anche diamanti
della fugace luce, sbriciolati qui dalla mano di nessuno,
il dorso del tetto lì oltre gli alberi è contornato
con un singolo tratto; stupore
immoto ammutolito.
Il cielo finora limpido adagio impietrisce oltre il vecchio
comignolo, un refolo vellutato lenisce la pietra del comignolo quasi in cenere,
un colombo si abbarbica dietro il comignolo come pietra alleggerita di luce.
E da qualche parte – forse solo in lontananza – qualcosa
è redenta così senza rumore.

(Per l’angelo, 2000)

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ROMA, VENERDì 11 marzo H. 17.30 Aleph Trastevere, vicolo del Bologna, 72 presentazione del POETA CECO PETR HRUSKA, “Le macchine entrano nelle navi” (ed. Valigie rosse, 2014) Intervengono Katerina Zoufalova, Antonio Sagredo, Silvia Beatrice Bellucci, Giorgio Linguaglossa. Sarà presente l’autore, canterà Yvetta Ellerova. Seguirà coktail – Petr Hruška – “Le macchine entrano nelle navi” (Valigie Rosse, 2014). Prefazione di Jan Štolba, traduzione di Jiří Špicka con la collaborazione del poeta Paolo Maccari – Commenti di Jan Štolba, Antonio Sagredo e Giorgio Linguaglossa

foto Eve Arnold, Silvana Mangano at the Museum of Modern Art, New York, 1956

Eve Arnold, Silvana Mangano at the Museum of Modern Art, New York, 1956

Commento di Jan Štolba dalla Introduzione a “Valigie Rosse

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Petr Hruška, nato nel 1964, è emerso da una generazione che ha ancora pienamente vissuto gli anni della cosiddetta «normalizzazione», l’ultima fase del regime comunista. Erano gli anni di uno strano tempo senza tempo, di acque stagnanti, quando il regime aveva tutto il Paese sotto il suo controllo, la propaganda politico-culturale dominava i media e tramite essi ostentava un’immagine di onnipotente felicità e benessere. È vero che a quest’immagine non credeva nessuno, ma quasi tutti scuotevano la testa in segno dell’ubbidiente assenso e addirittura, a loro volta, lo realizzavano con le loro personali fughe nelle casette di campagna… Gli anni della normalizzazione erano anni della «noia tautologica» (Václav Havel) e della famigerata «calma per lavorare», così esaltata, in opposizione a un qualsiasi moto di disturbo attivato da un’opposizione o da una critica sociale, da Gustav Husák, l’allora presidente della repubblica, il «presidente dell’oblio», come l’ha definito Milan Kundera. gli anni della normalizzazione erano anni in cui apparentemente non accadeva niente. ciononostante il paese era occupato dall’invisibile armata sovietica e decine di dissidenti erano perseguitati senza scrupoli, carcerati ed espulsi in esilio […] le persone si trovarono a dover fronteggiare dilemmi non facili anche in situazioni in cui non rischiavano una diretta repressione. E soprattutto la sfera dell’arte e della letteratura erano strettamente sorvegliate dagli ideologi del regime. Hruška non pubblica durante la normalizzazione, difficilmente sarebbe stato possibile. Per i gusti del regime la sua poesia era troppo cruda e sincera, anche se Hruška non trattava argomenti politici, il regime di allora avrebbe riconosciuto immediatamente la sua voce che parlava libera e senza limitazioni ideologiche. Simili voci erano giudicate automaticamente inammissibili e pericolose: manifestavano infatti la verità interiore sullo stato della società… aprivano spazi umani dentro cui il regime non aveva accesso con le sue goffaggini, gli schemi ideologici e le menzogne.
Lo stretto legame con la realtà: è questa la prima radice della poesia di Hruška. Sorprende come le poesie della sua prima raccolta, Soggiorni irrequieti, siano grezze, come riescano a creare un contatto tangibile con le cose, ma come, allo stesso tempo, siano anche inequivocabilmente, stuzzichevolmente ellittiche. Tali poesie ci rapportano in modo fisico e sensoriale con una ineludibile realtà. Tuttavia, ci permettono di intravedere una certa assenza che si trova invischiata nella realtà: urtiamo fisicamente contro la realtà, ma pur sempre troviamo in essa molto di indescrivibile e di ineffabile. Così, cerchiamo subito di riempire come possiamo questo spazio vuoto… Hruška cerca sin dall’inizio di introdurci nello spazio di questa camera di soggiorno irrequieto, dell’intesa-non intesa con la realtà.
.Petr hruska invitoDEFINITIVO
L’impressione che ci dà la poesia di Petr Hruška è quella dell’immediatezza… Un umile “maglione verde” può diventare il segno di tutti quegli anni che abbiamo vissuto con la nostra compagna. Oppure, un incontro inatteso con la propria moglie nell’oscuro della dispensa di casa può diventare miracoloso: due individui che si conoscono intimamente si incontrano improvvisamente nel buio, come due estranei che si attraggono. Dentro le nostre vite viviamo ininterrottamente altre intime ed eccitanti vite… la poesia di Hruška appare diretta e sempre a portata di mano, ma questo non vuol dire che sia banale o semplicistica. Nelle immagini che strappa alla realtà egli riesce a cogliere il mistero dell’istante con mirabile sottigliezza a svelare lo stato d’aggregazione del tempo fatale che viviamo in ogni secondo della nostra vita […]
Nell’antologia Le macchine entrano nelle navi del poeta ceco Petr Hruška i componimenti si snodano con un potente piglio affabulatorio che sa raggrumarsi in suggestive sintesi liriche, come pure mimare il parlottio delle città contemporanee, con l’irrespirabile inquinamento dei luoghi comuni e di una gremita solitudine […] Hruška si discosta dalla tradizione melico-metaforica della poesia ceca avvicinandosi piuttosto a quella anglosassone, rappresentata da Whitman e Williams, edificata su immagini, sensazioni, visioni. Hruška ha suscitato l’attenzione della critica fin dalla sua prima, aspra e laconica raccolta poetica, Soggiorni irrequieti del 1995) finendo per diventare una delle voci poetiche più rilevanti dell’epoca libera dopo la Rivoluzione di velluto.
Nella sua poesia, la misura della concretezza da sempre si accompagna a una straordinaria capacità di cogliere in ogni evento un sostanziale momento metafisico, una sutura invisibile ma fondamentale dentro l’esistenza umana, dove il quotidiano si incontra con il trascendente […] L’originalità e l’unità della personalità poetica di Hruška si è rivelata in pieno nel volume Zelený svetr (Il maglione verde, 2004) e il premio di Stato conferitogli nel 2013 per la sua ultima raccolta poetica, Darmata (2012).
Con una sorta di delicata crudezza di accenti e di dettagli, Hruška non di rado ricorderà ai lettori l’impeto disarmato di certe immagini di Piero Ciampi, come «il testicolo della nuda lampadina al soffitto». Fenomenico e frizzante, questo libro, di stampo fortemente ciampiano, va a indagare quel reticolato vivo e incostante che è l’umanità.
«Hruška non pubblicava durante la normalizzazione, difficilmente sarebbe stato possibile. Per i gusti del regime la sua poesia era troppo cruda e sincera. Anche se Hruška non trattava argomenti politici, il regime di allora avrebbe riconosciuto immediatamente la sua voce che parlava libera e senza limitazioni ideologiche. Simili voci erano giudicate automaticamente inammissibili e pericolose: manifestavano infatti la verità interiore sullo stato della società, quell’autentica, unica e intima verità dell’uomo».
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foto safe_image in cammino
Commento di Giorgio Linguaglossa
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Vorrei dire che io non intendo affatto, quando sostengo una tesi pubblicistica della poesia, escludere i poeti che fanno una poesia dei propri ricordi personali, altrimenti sarei uno sciocco oltre che un mediocre analista della poesia (evito di definirmi critico). Però, c’è modo e modo di fare una poesia dell’«io», tutto sta a chiedersi dove sta l’«io», questo presunto e supposto «io», il quale è, com’è noto, una ipotesi psicologica e filosofica della modernità e che la modernità ha dissolto, smantellato e decostruito con le analisi della filosofia recente (Lacan, Derrida, Meyer, Lyotard, Eco, etc). Io vorrei presentare come esempio di una poesia a vocazione privatistica ma con esiti, nella sostanza pubblicistici, una poesia non di un poeta italiano, per non essere accusato di tirare acqua al proprio mulino, e di indicare gli amici, io prenderò ad esempio un poeta europeo, e neanche di massimo livello, perché sarebbe facile citare un grande poeta europeo per esplicitare le proprie tesi. Citerò invece una poesia del poeta ceco contemporaneo (che mi ha fatto conoscere Antonio Sagredo) Petr Hruška in un libro pubblicato da Valigie rosse (2014), traduzione di Jiří Špička con la collaborazione del poeta Paolo Maccari.
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Il maglione verde
dopo tutti gli anni insieme
il maglione verde
né pioviggina
né imbrunisce
mi alzo
da dietro abbraccio
il maglione verde.
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Mi sembra una poesia semplicissima, anzi, addirittura elementare. Una poesia che parla di un “maglione verde”, Un ricordo privato, privatissimo. Eppure, la poesia tocca una corda universale, diventa, alla lettura, il nostro maglione verde, magari brutto e fuori moda, ma il nostro di noi tutti, maglione verde. Per me questa è una ottima poesia pubblicistica.
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foto vuoto in alto.

Commento di Antonio Sagredo

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Il poeta Petr Hruška è nato a Ostrava (1964), terza città della Repubblica ceca con 300.000 abitanti, situata nella regione della Moravia-Slesia. Centro carbonifero per eccellenza: si estrae carbone dal 1763. Città metallurgica, siderurgica, produce ferro e acciaio. Al tempo del comunismo era detta “Cuore d’acciaio della Repubblica”.
Le miniere furono chiuse gradatamente nel 1989, 1994 e 1998. A testimonianza di quella che fu un tempo vi è un museo di Archeologia industriale. La presenza incombente delle antiche miniere è sentita dal poeta Hruška (che ne scrive in molti versi), poi che la città in gran parte poggia su questi giacimenti di carbone e sulle gallerie delle miniere. Di un altro poeta di Ostrava, Vilém Závada (1905-1982), Angelo Maria Ripellino (nella sua Storia della poesia ceca contemporanea, del 1950) scrive che era “una terra povera, triste, centro carbonifero inquinatissimo… il cielo pesante e fumoso copre tutto d’un grezzo colore di cenere”, che agisce in profondità sul verso di Závada che è “verso pesante e nodoso, spoglio d’ogni melodia, formato di parole dure e scabre”. Il grande critico letterario František Xavier Šalda dice che il verso di Závada è fatto di un “fangoso orrore che ti strangola per intere pagine… ovunque caligine… descrizione pesante [che crea] un verbalismo assillante”.
Petr Hruška è un ingegnere specializzato nella depurazione (1987) che coltiva la sua passione: poesia e letteratura; ma dopo la caduta del regime comunista, alla facoltà di Scienze Umanistiche di Ostrava, consegue un dottorato con una tesi sulla “Prosa e poesia nella subcultura ceca contemporanea” (1990-1994), e un ulteriore titolo accademico (2003) all’Università Masaryk di Brno (tesi su “Il surrealismo del dopoguerra e la reazione al modello d’avanguardia nella poesia ufficiale”). In entrambe le università è lettore di Letteratura ceca. Lavora anche all’Accademia delle Scienze Umanistiche di Praga.
Hruška ha studiato profondamente la letteratura ceca dal dopoguerra in poi, difatti è stato coautore del IV° volume di Storia della letteratura ceca 1945-1989; del secondo volume del Dizionario degli scrittori cechi dal 1945 e del Dizionario delle riviste letterarie ceche e delle Antologie dei periodici e degli almanacchi (1945-2000).
Per cui è storico importante della letteratura ceca. Coltiva le sceneggiature sia in teatro che in televisione, articolista, organizzatore di serate letterarie e festival ed esibizioni culturali a Ostrava e altrove; è anche attore e ha recitato nel cabaret di Jiří Suruvka. Scrive su importanti e storiche riviste ceche, quali Literární noviny, Tvar, Host, Slovenská literatura, ecc. ha vinto il prestigioso Premio Jan Skácel (1922-1989), che fu un grande poeta. Ha collaborato inoltre con poeti e scrittori della sua stessa generazione come Jan Balabán (1961-2010), , Pavel Šmíd, Sabina Karasová, Radek Fridrich, Patrik Linhart e Petr Motýl che è anche pittore , autore teatrale, critico d’arte, ecc. (taluni di questi poeti sono suoi amici personali)
Ha pubblicato varie monografie su poeti cechi, tra cui una importante sull’anziano poeta ceco Karel Šktanc (1928-). Pubblica su varie riviste straniere, e saggi di letteratura in Francia, Paesi Bassi, Russia, Ungheria, Belgio, USA, ecc.
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I suoi libri di poesia pubblicati in Repubblica ceca sono:
1995 – Soggiorni irrequieti – (Obývací nepokoje; Sfinga, Ostrava 1995, ill. Adam Plaček:
1998 – Mesi – (Měsíce; Host, Brno, ill. Zdeněk Janošec-Benda
2002 – La porta si chiudeva sempre – (Vždycky se ty dveře zavíraly; Host, Brno, ill. Daniel Balabán
2004 – Maglione verde – (Zelený svetr; Host, Brno, una raccolta dei tre libri precedenti, più una collezione di prosa Odstavce, ill. Hana Puchová
2007 – Le macchine entrano nelle navi – (Auta vjíždějí do lodí; Host, Brno, ill. by Jakub Špaňhel
2012 – Darmata – (Darmata; Host, Brno, ill. Katarína Szanyi [anagramma della parola Dramata (Drammi)]; con questa raccolta ha vinto il Premio di Stato per la letteratura.
2015 – Una frase – (Jedna věta; Revolver Revue).
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Petr Hruska copPetr Hruška e i poeti e artisti cechi
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Durante la Seconda guerra mondiale in Repubblica Cecoslovacca sorsero diversi “Gruppi” formati da poeti e artisti di varia estrazione culturale e sociale.
Gruppo ’42 (Skupina ’42), con Jaroslav Seifert (Praga 1901 – 1986); Ivan Blatný (1919-1990), Jiří Orten (1919-1941); JiřÍ Kolař (1914-2002); Kamil Bednář(1912-1972) e altri.
Gruppo Ra – 1946 – (legato al marxismo viene sciolto nel 1949) – propugna il Neosurrealismo…
Gruppo dei Poeti cattolici
Gruppo Mladá Fronta (Fronte della Gioventù)
Gruppo Rudé právo (omonimo del giornale di regime comunista)
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Quando Hruška comincia a scrivere sulla poesia e letteratura ceca dal dopoguerra in poi (periodo su cui ha scritto pagine essenziali) tiene presente tutte le istanze che questi gruppi vollero esprimere. Tra le varie istanze è da sottolineare quella che volle ristabilire un nuovo e diverso Surrealismo (del Gruppo Ra), avviando la fase di un secondo surrealismo che non ebbe affatto lunga vita, anche se un critico d’eccezione come Karel Teige scrisse, per la mostra di questo “neosurrealismo” a Praga – tenuta al salone Topič – nel novembre-dicembre 1947: “Questo non è il canto del cigno, ma l’empirico prologo della prossima azione; non è il tramonto, ma l’alba di un nuovo giorno”. (nel Manifesto del 1947 del Gruppo Ra). Frase che Ripellino bolla come “anacronistica ortodossia”. (in A.M.R., Storia della poesia ceca contemporanea, le edizione d’Argo, Roma 1950, pag. 97).
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foto le maschereLa tematica del vivere quotidiano e la sua umanità
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Tenendo presente la naturale inclinazione di Hruška per tutte le vicissitudini umane che si svolgono nella quotidianità, siano esse banali, mortali, consuetudinarie, drammatiche, prive di volontà di riscatto, ecc., (aspetto sostanziale sottolineato nella prefazione di Jan Štolba), ho notato comunque nella sua poesia una tradizione che viene rispettata (senza scomodare K.H. Mácha, il padre della poesia ceca), e che inizia con Božena Němcová, grande scrittrice dell’800, assurta a simbolo della sofferenza del suo popolo. E la poesia ceca va avanti per tutto l’800 su questo tema (influenzata fortemente da una cultura folcloristica che poco concede all’allegria) fino a che il dominio austro-ungarico è sconfitto, e nasce la repubblica cecoslovacca.
La poesia ceca abbandona questo suo triste e malinconico tema dominante anche per l’avvenuta autonomia e sovranità politica di un nuovo Stato: l’euforia è dunque dominante; e infine con la corrente del Poetismo dei primissimi anni ’20 celebra la gioia di vivere in tutte le manifestazioni possibili; ma dura poco poi che le prime avvisaglie (fra tante altre di altri poeti) di una malinconia quasi drammatica che ritorna, sotto altre forme, si hanno col poema di Vitězslav Nezval l’Edison del 1928.
Il Surrealismo e l’espressionismo accentuano questa fine della spensieratezza, e già s’intravede una poesia dalla fine degli anni ’20 in poi (tutte le arti seguono questo andazzo) con presentimenti pessimistici già in parte delineati (faccio soltanto alcuni nomi) con Holan, Josef Hora, Vilém Závada (già su ricordato), František Halas che, alcuni anni dopo, con la sua raccolta Staré ženy del 1935, (Vecchie donne) descriverà i tristi pomeriggi domenicali della gente comune, una esistenza piatta, orizzontale; con Jaroslav Seifert (futuro Premio Nobel, che simbolicamente premia tutti i suoi compagni di strada) che diviene il mesto cantore di Praga.
Il sentimento pessimistico si unisce a un fatalismo che non lascia speranza alcuna, e ancora di più sotto il regime comunista. Assistiamo alla falcidie dei poeti coi loro destini tragici (faccio giusto due nomi) p.e. come il poeta cattolico Jan Zahradníček che muore poco dopo essere uscito dalla prigione; o come quello dell’ amico-poeta Josef Kostohryz (1907-1987), che si fa 14 anni di carcere duro per poi essere assolto per non aver commesso alcunché, e che nel suo poema Mohyly (Tumuli) racconterà la sua esperienza. Insomma, la poesia ceca ritorna al suo secolare destino d’essere poesia tristissima sia per sua implicita natura che per eventi esteriori, e che si esprime alternativamente con versi aspri o melici, tragici o metafisici, baroccheggianti; insomma negli anni bui del dopoguerra in poi prevalgono versi funerei, nerastri, davvero pervasi da presagi oscuri che si cerca di stemperare con contorcimenti linguistici. E infine, dopo la caduta del comunismo, e, per giungere ai giorni nostri, si manifesta con una semplicità disarmante, ma mai banale, come in Petr Hruška, p.e., uno dei maggiori rappresentanti della poesia ceca odierna.
Dal mio punto di vista la poesia di Hruška si origina anche dalle assillanti quotidianità studiate analiticamente… quasi operazioni da bisturi: una vivisezione continua che diviene ossessione e che talvolta sfiora una troppa e calcolata ostentazione di ciò che si osserva, come del resto in tantissimi poeti cechi. E se la poesia di Halas è una poesia segnata da una “tenerezza ferita”, timida e stanca accettazione del provvisorio, una sensitiva mestizia (tklivost), l’angoscia per la fugacità del tempo e per lo sfiorire, la sua amarezza per il disagio dei poveri” (Ripellino), anche Petr Hruška , secondo Štolba nella prefazione a questo libretto, “offre anche tenerezza nella sua poesia”. Questo termine, “tenerezza”, è presente due volte.
È Halas (e non solo questi) che si schiera contro il mielismo (il prefatore Jan Štolba dichiara che anche Hruška è contro il mielismo ), contro le lambiccature linguistiche, contro i vocaboli arcaici, disprezza la melodia e il posticcio ottimismo. Certo, è ovvio che la sua poesia ha aspetti marcatamente distinti da quella di Halas, che è pieno di strabilianti metafore. Certo che il quotidiano umanistico di Hruška non è affatto “malsano” come quello di Halas. L’umanismo di Hruška è invece pervaso da sentimenti misericordiosi, compassionevoli, così come nella poesia Štěkot (L’abbaio) e Co ještě chci (Cosa voglio ancora). Halas non è mai melico (per ripicca verso alcuni suoi accusatori scrisse qualcosa di assolutamente melico:, e lo fece burlandosi dei suoi detrattori). Ma, infine, scrive Halas “la poesia è il sangue della libertà”.
Questa frase lascia in eredità ai poeti cechi e in generale a tutti i poeti slavi e non, che vissero interamente sotto il dominio sovietico (noi sappiamo che furono per primi i poeti russi a sanguinare). Hruška ha fatto una breve esperienza di cosa vuol dire non poter pubblicare sotto un potere che non ti lascia respirare liberamente: aveva 25 anni quando questo potere scompare nel 1989. Poi ha potuto cantare come ha sempre desiderato, ma non ha cantato il trionfo e tutte le su sfaccettature, ha cantato l’alta profondità che si cela nell’umano o nel disumano e che si maschera (ma non tanto) sotto la quotidianità, o sotto la sua “apparente” banalità.
Allo stesso modo, anche Hruška presenta una caratteristica della poesia di Halas che è assenza di verticalità, slanci verso l’alto per celebrare qualcosa… la loro poesia è puramente orizzontale, come il tempo quotidiano che è incapace di darti un sogno, ma solo di descrivere o di rappresentare con le parole lo svolgimento terribilmente eguale del ticchettio temporale, e in questo svolgimento figure concrete che si muovono, quasi automi votati alla rassegnazione di vedere nella propria vita domestica sempre le stesse cose, stessi movimenti, stessi pensieri, ecc. Ma è indubbio che lo stile dei due poeti è diverso: lo stesso tema è ovvio che sia cantato con aspetti poetici completamente distinti.
Come dice Ivan Wernisch della poesia di Hruška: “Lei riesce a scrivere poesia priva di cose inutili e senza fronzoli lirici”. Ma lo stesso poeta conferma: “La poesia non è la decorazione della vita”. Insomma la sua poesia nonostante tutto deve poter “togliere la sicurezza dal lettore e deve demolire qualsiasi estetica lirica”.
Forse per questo motivo che il prefatore Jan Štolba scrive nella introduzione a questo volumetto di poesie di Petr Hruška che il poeta “si discosta non poco dalla tradizione melico-metaforica della poesia ceca avvicinandosi piuttosto a quella anglosassone rappresentata da Whitman e Williams edificata su immagini, sensazioni, visioni”. [William-Carlos]. Lo stesso traduttore delle poesie di Hruška, Jiří Špička, in una e-mail che mi ha inviato dice con candore: ”io non trovo molto Whitman in questi versi; su Williams non mi posso esprimere, perché lo conosco troppo poco”. Personalmente ho dubbi seri circa questo avvicinamento di Hruška ai due poeti americani o alla poesia americana in generale, che è parecchio melica; se mai, senza andare tanto lontano, avvicino la poesia di Hruška a quella concreta e realisticamente quotidiana dell’inglese Philp Larkin; e per finire a certe opere del pittore americano Edward Hopper. E giusto per essere molto più vicino a Petr Hruška, nella sua stessa terra natale, accosto due poeti: Zbyněk Hejda (1930-2013) e Katerina Rudčenková (1976-); spero in futuro che qualche studioso possa confrontare questi tre poeti.

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petr hruska

Poesie di Petr Hruška – “Le macchine entrano nelle navi” – Valigie Rosse, 2014
*
(dalla raccolta Soggiorni irrequieti 1995)

è giorno
gennaio
una luce acuta
si può usare in svariati modi
entrare per sbaglio in un vicolo cieco
dove una sorpresa
dove una donna sorpresa e magra
alzerà
gli occhi

.
Tutto quel piccolo parco

Da qualche parte ci deve essere
tutto quel piccolo parco
ma per quale via
diomio
nel crepuscolo spicca
il chiodo arrugginito del novembre
nella memoria danno freddo
i cuscinetti delle altalene
e i pali
degli uccelli

*
(dalla raccolta “Mesi” – 1998)

Luglio

a Jan Balabán

Alla finestra della camera notturna
come al finestrino del treno
ma fuori sta immobile
il buio dell’albero
dietro la schiena gli animali guardano
sul pigiamino
*
Luglio

.
Il maglione verde
dopo tutti gli anni insieme
il maglione verde
né pioviggina
né imbrunisce
mi alzo,
da dietro abbraccio
il maglione verde.

*
(dalla raccolta La porta si chiudeva sempre – 2002)

.
La porta

.
La porta si chiudeva sempre, da sola,
per tutti gli anni, con uno scatto lento.
Ora non si muove di un dito.
Di fronte a lei una donna, raccoglie una larga
sottoveste, colpevole, che di notte è caduta dalla corda.
L’uomo guarda la donna con la sottoveste. Forse il vento.
In un istante della notte.
Tutti e due vorrebbero sapere precisamente quando
è accaduto, tutti e due vorrebbero vivere quell’istante.

Petr-Hruska Premio Valigie Rosse V edizione

petr hruska

La dispensa

Una volta ci imbattemmo uno nell’altro nel buio della dispensa,
catturati a vicenda – con il sangue d’oca e il petrolio,
con le camicie di casa rimboccate,
con gli sporgenti tumori delle patate.
Siamo venuti a predare.
Si sente il respiro colto sul fatto,
il magro filamento di luce, che filtra dal finestrino
giace sotto l’imbarazzo steso fra di noi.
*
Inizio di primavera

.
Già stavamo per sederci sul letto. Poi l’uomo si è ricordato
che l’ala posteriore era rimasta aperta. Ha strascicato lungo il corridoio,
attorno ai buchi neri delle officine e degli spazi.
Attorno ai buchi neri delle maniche su un appendiabiti comune.

La casa era spalancata, infilata in se stessa.
La mano sul chiavistello, ha visto accanto ai noccioli
sotto il tetto l’ultimo pezzo di neve.
Giaceva bianco e grosso, come un animale con la testa drizzata,
come una spalla nuda.
Come soltanto, così tanto, poche cose nella vita.
Giaceva bianco e inappropriato, vicino alla porticina dell‘ala posteriore.

Ha strascicato indietro, lento e silenzioso,
tante volte la donna si fosse già addormentata.

*

Prima del bagno

.
ti sei spogliata
con le mani quarantenni
e ti sei girata
verso i cassetti
dove da un tempo terribilmente lungo
abbiamo creme e rasoi e utensili
ho sviato gli occhi
davanti a quella bellezza,
e ricordo soltanto
il dorso bianco
della monografia di Giotto

*
(dalla raccolta Le macchine entrano nelle navi, 2007)

.
Mentre siamo in cucina

.
Entreremmo nel buio
i rami gialli degli aceri selvatici
si allungherebbero avidi
sull’auto
In un luogo ai margini
ci sarebbe una cappella imbrattata
ma potrebbe anche non esserci
neanche quella lamiera abbandonata alla pioggia
potrebbe non esserci niente
Scenderemmo
staremmo insieme in piedi
irresoluti e fermi
dentro la luce dei fanali e nei maglioni
– uno stupendo fumo della bocca
Solo dopo
scenderei giù,
a chiedere la strada.

*

.
Le macchine entrano nelle navi

.
Le macchine entrano nelle navi,
nell’alto inguine bianco
che rimane immobile,
nel trionfo assordante del rumore
Funi tese ganci cardini noi due
dopo un lungo viaggio
un lucido strapazzo del metallo
mandriani delle macchine in camicie bagnate
Un tumulto immenso, eppure una calma
della realtà imperiosa
non possiamo strapparci
– appartiene a noi –
da quella sozzura del mare in porto
da fetore dei mezzi pesanti
che entrano lenti nelle navi immobili

*
Dopo l’incidente

.
Per ora mettete le cose qui.
Qualcuno ha fatto spazio sulla mensola,
nel cassetto o nell’armadio.
E qualcuno dopo l’incidente
mette qui i suoi oggetti personali,
miseri e orgogliosi.
Non importa che è successo.
Non importa in quale orfanotrofio siamo.
Tutto indietreggia davanti la terribile bellezza
di quel per ora,
in cui qualcuno sta mettendo ordine tra le cose rimaste.

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petr hruska

(dalla raccolta „Darmata“ – 2012)

Cincia

.
La prima neve accentua tutto.
La libertà degli arboscelli.
I metri quadrati dei monolocali.
La sottigliezza dei bambini
delle famiglie divise.
La cincia è volata dentro la mia paura
che se fossi morto ora
la mia ultima parola sarebbe
sego

*
L’eccedenza del padre

.
Quella carne,
quella pesante carne in eccedenza del padre,
che corre verso di voi.
Già state indietreggiando.
Già notate la manica
bruciata del giaccone,
il gomito sporco.
Ma ancora state in piedi,
guardando avanti,
vi dite padre,
un’eterna guardia di notte,
che in questo momento è entrata nella luce;
alabarde e vessilli
disordinati dall’inquietudine.
Ha gettato nuovamente pietre nel buio,
contava e ascoltava,
quando e quale si avrà risposta.
E ora corre qui,
nel vostro crescere,
l’eccedenza del padre.

.
L’abbaio

.
La madre guarda
il figlio che un’altra volta sta imitando il retriever.
Lui ha ventisette anni,
lei quarantacinque,
tutti e due al mondo fino al collo.
Hanno provato diverse cose,
per lo più tramite annunci e tramite dottori.
Tutti e due plausibilmente credenti.
Tutti e due regolarmente in quel bar ventiquattrore,
reali come un gancio
di bellezza.
Il figlio appoggiato contro il tavolo
la madre che ascolta immobile,
fin dove giunge, qui,
l’abbaio del retriever.

*
Un bel tonno

.
Un bel tonno
per essere scossi
da quell’insopprimibile argento del pesce
sbattuto sui fogli del giornale
giornale morto per i pesci.
Un bel tonno
che sarebbe bastato per un po‘ di tempo
che una altra volta
avessimo sentito freddo a i polsi,
riguardo al pesante argento del mondo,
portarlo a lungo
le schiene ripide
dei palazzi delle banche
e poi a casa aprire il giornale insieme
i brutti ceffi pre-elettorali macchiati di pesce
danno l’impressione di essere ancora più birbanti
un grande corpo sull’asciutto del giornale,
sull’asciutto del tavolo
Un bel tonno
per increspare
i logori volant del silenzio domestico,
per ricordarsi ad un tratto
tutto quello che cazzo
volevamo qui.

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POESIE SCELTE di František  Halas (1901-1949),  IL BAROCCO AUTUNNALE DELLA POESIA CECA, Traduzione di Angelo Maria Ripellino e Presentazione critica di Antonio Sagredo

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Presentazione critica di Antonio Sagredo

  Addensatore di tortili metafore, talvolta putrefatte e purulente, che brillano come armille… e se vuoi mettile dove vuoi… e il poeta  le preferisce intorno ai polsi, così che mani e dita siano preservate dalla consunzione, o intorno alle caviglie, così che i malleoli siano pronti a spiccare la danza! Taluni  sul capo, così che il cerebro risulti vivificante per chi lo mira; o sul cuore, così che il battito mai non cessi di brillare e di risonare come un fatuo fuoco!

Le parole che formano poesie di “lagnanze” e di doglianze stanno lì come i quattro angeli attaccaticci (che in Holan sono “quadricefali”) intorno al capezzale rabescato d’ombre e di specchi viola, e sottostanno a questo martirio metaforico e  settecentesco pazienti, poi che credono – nonostante una continua e sconfortante disillusione – alla loro risurrezione che è la colpa degli angeli adulti: “le tue ali nere quando perdi le bianche con l’infanzia” ….e le parole allora fanno da sfondo teatrale così che “la funebrità si apprende anche ai paesaggi” (A. M. Ripellino)*. Questa dilatazione spazial-teatrale oltre la quinta cartonesca, non segna, ma graffia una  geografia anche secentesca, come negli arazzi di nero-oro granito di certo gongorismo, che noi sappiamo tinto da metafisici presagi oscuri.

[* Segnati con asterisco sono i  commenti critici di A. M. Ripellino,  in František  Halas, Imagena, Einaudi 1971].

Non è tutto qui il mondo di cui si nutrono le parole halasiane, poi che se dovessimo pensare a rigogliosi giardini primaverili, non abbiamo scampo alcuno! (vedi i titoli di due poesie più in avanti)… noi saremo allora circuiti da fiori cimiteriali che anelano alla luce, e non sappiamo se invano, poi che ancora una volta ricadiamo nei meravigliosi labirinti acherontei. Il nero, il buio è ossessione halasiana.

È davvero uno strazio per il lettore non respirare aria diversa e salubre pure c’è “il benefico ossigeno del buio” (un palliativo o uno scherzo del poeta?!), ma questi, il lettore, è così attratto dalle immagini di strabiliante barocco, che non gli danno requie, ma gli donano regalie visionarie di rarissima bellezza (“cisterna di gemiti” ; “la tenebra tende le orecchie” o ossimori rivoltati come un guanto  quando si tratta di “ travolgere con una parola la valanga” ; o quando “il buio scartoccia granturco” ; e ancora riflessioni mnemoniche  come lo stupendo “Sono memoria dell’acqua / gelo” e la condanna con cui ogni poeta deve fare i conti: il fardello eterno è che  “Porti il tuo lutto manoscritto non finito” .

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  Soltanto quando dice di bambini il volto del poeta si irradia come quello di Hölderlin… “ Solo sulla testa dei bambini cade il rispetto delle luci/nella gorgiera della propria innocenza dormono quieti…””,  “Sono andato dai bimbi ad imparare/molte cose del cielo ancora sanno…”.

Non gli è secondo Holan quando scrive “ Ci sono i bambini… in verità solo loro…/Purezza di cuore, evidenza del miracolo/negato a noi adulti…

La gioia quindi non  è del tutto esclusa dal mondo annerito di Halas: ha lampi di luce che sono rari, ma brillano per questo ancora di più: tu li vedi da lontano, proprio tu che sei immerso in questa catacomba terrestre dove regna il tenebrore!, ma  l’orrore o il terrifico non regnano fine a se stessi, soltanto le parole-immagini rimandano ad essi, sono le fonti che poi si fanno reali consistenze; infatti a scorrere i titoli delle raccolte o quelli delle poesie già t’accorgi che genere di passaporto possiedi per entrare in quel mondo malubre che dell’Acheronte ha tutti gli splendori e i cantucci più sinistri.

P.e. nella raccolta Sepie (Seppia, 1927) i titoli delle poesie sono chiari: Non voglio la primavera, Quiete, Presso una tomba, Il silenzio, L’ombra, e così via; e nella raccolta: Kohout plaší smrt (Il gallo spaventa la morte, 1930) la musica non cambia: De profundis, Paesaggio velenoso, Autunno in primavera; nelle raccolte Tvař  (Il volto, 1931); Hořec (Genziana, 1933); Dokořán (Spalancato, 1936), lo studioso annota “una tenerezza ferita, una sensitiva mestizia l’angoscia per la fuggevolezza del tempo e per lo sfiorire”*;  Certo è che non di dileguano i termini che hanno a che fare con le atmosfere cimiteriali, che sono appannaggio di un neo-barocco egemone e recidivo che vede coinvolti i maggiori poeti cechi, come Vladimir Holan e Vitězslav Nezval (specie col suo poema surrealistico Il becchino assoluto, da me tradotto tantissimi anni fa e lo stesso cantore di Praga Jaroslav Seifert, e tant’altri).

Halas “è il più barocco tra i lirici boemi”* di quel periodo… è poeta autunnale… e comprendete allora perché alla fine della sua vita Ripellino intitolò la sua raccolta Autunnale barocco; questi conobbe e frequentò il poeta, e così ce lo descrive:”  Lo ricordo negli ultimi mesi, quando ormai andava da stregoni e da semplicisti in cerca di guarigione: ricordo i suoi trasognati occhi cerulei. L’alta fronte con un organetto di rughe. Dopo il colpo di stato del febbraio del 1948, mentre lo stalinismo già volpeggiava negli arcani casamenti di Kafka, Halas deluso e spaurito del baratro in cui il comunismo veniva precipitando, ripeteva agli amici < Ho ingannato la gente >. Si spense il 27 ottobre 1949 a Praga ”.*

Quell’ “alta fronte con un organetto di rughe” veniva sempre messa in risalto dal disegnatore caricaturista Adolf Hoffmeister, quando ritraeva il poeta. Il poeta era nato a Brno nel 1901, da una famiglia operaia molto indigente. Lavorò come commesso in una libreria di Brno. Questo lavorò gli permise di conoscere alcuni poeti importanti, come Jiří Mahen, caposcuola dei poeti di Brno.

Halas occupa nella poesia ceca del secolo scorso un posto di primaria importanza, e per “il culto della parola” tra i primissimi in Europa. Per questo lo accosto a Mallarmè, Hugo Hofmansthal, Paul Valéry.

Quasi sicuramente la prima notizia in Italia che abbiamo di Halas si deve a Wolf Giusti che sulla Rivista di letterature slave pubblicò in italiano due poesie del poeta; la prima dal titolo Seppia (che da il titolo alla raccolta Sepie, 1927); e la seconda dal titolo Le paludi masuriane. – Nel 1942 invece Luigi Salvini traduce una poesia dal titolo Il Riconoscimento nell’antologia Il “Corallo” di San Venceslao.  Poi nel 1949 A. M. Ripellino sulla rivista Europa Nuova pubblica in italiano due poesie tratte dalla raccolta Il gallo spaventa la morte (1930), (per queste tre informazioni, di cui avevo perso memoria, ringrazio l’amico boemista Giuseppe Dierna)…..

František Halas con Vladimir Holan

František Halas con Vladimir Holan

…e finalmente nel 1950 viene da A. M. R. pubblicata a Roma una Storia della poesia ceca contemporanea, Le edizioni D’Argo, in 400 esemplari; possiedo gli esemplari nn. 310 e 311; all’interno di questo testo si trova “Halas e il culto della parola” che è il titolo del paragrafo alle pp. 58-65. Dedica questa sua opera  A Ela [sua consorte]  e agli amici del Gruppo 42, poi ringrazia critici, pittori, poeti… in tutto quindici autori (fra cui lo stesso Halas) e studiosi tra i più notevoli del panorama internazionale di allora; cito soltanto alcuni di rinomanza mondiale: Roman Jakobson, Vladimír Holan, František Hrubin, Jiří Kolař, Ludvík Kundera, Jaroslav Seifert, Karel Teige.

 Halas non disdegnò di far parte di movimenti artistici e correnti poetiche che animarono i primi anni del ‘900, a cominciare col Devětisil (è il nome di un fiore: il farfaraccio; che Majakovskij riferisce come “nove forze”, ma poi gli fu spiegato) e il Poetismo frequentato dai poeti, scrittori e artisti più importanti; alcuni di essi assursero a fama europea perché operarono con saggi e  traduzioni in lingua ceca dei maggiori poeti e artisti europei come Apollinaire e Cocteau, Breton, Max Ernst, ecc.; Karel Teige, p.e., il teorico del surrealismo ceco, fu uno dei primi a parlare di Majakovskij in  Europa!

Il Poetismo che inneggiava alla gioia della creazione e del progresso, “in realtà era d’una cupezza che sprofonda nella più nera disperazione”.*. Ne è testimonianza il poema Edison di V. Nezval.

Per chi voglia approfondire i rapporti tra i poeti-artisti-scrittori cechi e quelli del resto d’Europa rimando agli studi più recenti, esaurienti e puntigliosi, del boemista Giuseppe Dierna, oltre alla già citata Storia della poesia ceca contemporanea.

Halas, poi, a differenza di tanti altri poeti e artisti cechi non obbedì ai dettami dei poeti, p.e. in specie dei surrealisti francesi e da questi si distanziò, perché nello spirito ceco è nello stesso presente altamente la proprietà della ricezione per eventi culturali stranieri, come quella di una spiccatissima autonomia. Perciò tenne presente più l’eredità di un “antesignano dei poeti surrealisti cechi”  il maggior  poeta ceco, il romantico Karel Hynek Macha. E anche per questo fu anche un surrealista a modo suo “con una tecnica opposta a quella di Nezval ” * , (che non sto qui a spiegare); e pure fu un espressionista che si dedicò ai trionfi di figurazioni mortali in disfacimento, come con più competenza clinica operò il dottor  Gottfried Benn; ma è da George Trakl che trae linfa per quel lasciarsi andare, quasi alla deriva, intristito e illanguidito nello sfiorire dell’autunno.

Ma senza andare troppo fuori dalla Boemia (da questo fuori noi ricaviamo che ebbe rapporti simpatici con autori di un passato boemo – oltre che dai suoi contemporanei – che cantarono gli sfinimenti e gli sfasci mortali della vita… che se ne va sconfortata nei regni dell’ombra… questa anch’essa toccata dallo squallore di un corpo in disfacimento)… nel territorio boemo noi troviamo dunque l’humus ideale (in comune con altre figure boeme) per i suoi sollazzi ombrosi, tenebrosi, spazio dove il regna il silenziario indisturbato, dove la parola stessa sua incrina il culto che ha per essa… e il poeta è davvero negato allora al verticale, al sollevamento, a quell’elevarsi in alto, e mostra a tutto spiano la sua tendenza ad essere una creatura “orizzontale” *, come proprio dei defunti, e la poesia dal titolo Il cimitero ne è una conferma senza rimedio alcuno! “Solo in Naše Paní Božena Némcová [Nostra Signora Božena Némcová – celeberrima scrittrice dell’800] e in Ladění [Accordo] le parole… hanno un alone di luce non sfrangiata dal lutto, un lievito di fede” *.

František Halas

František Halas

Ma non pensate che il poeta si crogioli in questo nichilismo, in visioni funeree, in varie malubrità… egli sa bene che per vivificare la sua poesia deve in essa cambiare qualcosa (forse eliminare – almeno temporaneamente dal suo stile solito quegli inceppamenti, sconnessioni, antiche parole che fratturano il verso scomponendolo – retaggio cubistico -, per promuovere l’approccio a diverse tematiche) e difatti con la raccolta Staré ženy (Vecchie donne, 1935) si apre al mondo, come dire al prossimo sofferente e quindi canterà quelle donne: spose e madri che vivono il pesantissimo quotidiano e usa la tecnica della letania, che tra l’altro si avvale dell’anafora, così cara a Otokar Březina, poi a Nezval e altri; e mentre scrivo questa raccolta è qui davanti a me: è una edizione del 1947, che comprai a Praga nel 1973; è illustrata e fu pubblicata in 15 mila esemplari. Halas dedicò questa raccolta a un poeta e artista, Antonin Procházka e consorte; ed è una grande emozione toccare queste pagine. Ma non si può dire tutto, qui. Ma dirò della sua alta denuncia civile, del 1938, per alto tradimento dell’Europa occidentale, in specie della Francia (con cui in un passato prossimo c’era stata una specialissima intesa culturale!), nei confronti della sua terra nei versi de il Canto dell’angoscia… denuncia fu la svendita della sua patria al potere nazistico.

Halas compose altre raccolte di cui cito soltanto i titoli: Torso naděje (Torso di speranza, 1938), la prosa Já se tam vrátím (Io vi tornerò, 1939), Naše Paní Božena Némcová (Nostra Signora Božena Némcová, 1940), Ladění (Accordo, 1942), Znameni potopy (Il segnale dell’inizio, 1945),V řadě (In fila, 1948), la raccolta postuma A co? (Ebbene?, 1957).

(Antonio Sagredo)

Termino con alcuni suoi versi tratti da Znamení potopy (Il segnale del diluvio, 1945) :

È vero Voi vorreste
un granaio di grandi parole
e innanzi ad esso mucchi di corone

Vi piacerebbe meglio non vedere
il ripieno di morti che trabocca dalla trincea
e i gravitelli degli annegati

È vero Tutto si riduce a un giuoco
Col grembo Con le banconote
Buffoni Buffoni

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Poesie di František Halas
(le traduzioni dei versi di F. Halas sono di Angelo Maria Ripellino – in František Halas, Imagena, Einaudi 1971)
(dalla raccolta Sepie – Seppia, 1927)

Non voglio la primavera

Primavera agghindata stagione smeralda
spocchiosa primavera lunatica
tutti si affannano invano a cercare viole màmmole
non inghiottirò questa lusinga

Non voglio nemmeno sentire il chiacchierìo delle foglie
e non voglio bere ciò di cui nutri le gemme
solo questo mio autunno solo esso può cogliere
come sia rattrappito il lucignolo dello struggimento

.
La poesia

Migliaia di raggiri e imposture
trappola tesa nel buio
arte dello spionaggio
a cui ti abbandono da solo

seguendo le tue tracce e condannandoti
per i segreti svelati
punito soprattutto da te stesso
le tue liriche libro di lagnanze

Hai visto agonizzare la poesia per una parola andata a traverso
non morirà mai tuttavia
un giorno troverai le tue parole come il terno di una lotteria
e l’avrai vinta

Stretta è la rosa centifoglia dei poeti
ami soltanto quelli con lingua serpentina
di cui metà è querimonia di angeli
e metà assalto

Ultima Tule dove ti allontani
con dolcezza infinita per le cose che hai conosciuto
con voce tutta falsa congedandoti
dalla soave malsanía che ti ha perduto
(dalla raccolta Kohout plaší smrt – Il gallo spaventa la morte, 1930)

Il paesaggio da noi

Berlina è il cielo di questo paese
nel sonno irrompe un lémure impaziente
sui calvari senza croci il corallo dei sorbi si posa

Solo sulla testa dei bambini cade il rispetto delle luci
nella gorgiera della propria innocenza dormono quieti
vaga un viandante stringendo al cuore un àspide

Superbo un nero cavallo cammina per il firmamento
dalla criniera gli pendono colori morti
nere rose fatte di fulíggine

Una piccina rannicchiata tra le viole
le ali spiumate delle brutte spallucce si vergogna
spaventata dall’ombra del fumo

Principesse mutate in raganelle mangiano qui miosòtidi
Ombra di tigri le agghermiglia tra le canne
I bambini al tenue collo appendono velenosa ergotina di frumento

.
Versi

Malgrado la fortuna della vista
così cieco
malgrado il dono dell’udito
così sordo

Nel vento foglia nell’amore solo
nelle ragne uccello nella pioggia canto
nella rosa verme nella speranza dolo
nelle parole sangue nell’ugola pianto

Malgrado la fortuna della vista
così cieco
malgrado il dono dell’udito
così sordo

(dalla raccolta Tvař – Il volto, 1931)

.
Autunno

Cielo d’autunno da mille ali di uccelli vezzeggiato
con guazza di speranza inumidisci le nostre gole tese
gli occhi rivolti all’alto allarga con l’afflato
per nuove ahimè quanto apprensive attese

Osserva le oche spezzano contro la siepe le ali
quando grigie volano a mezzogiorno
immagine dell’anima che ha scorto per un attimo
la nota solo ai morti bellezza del ritorno

Scoppiate membrane di nebbie per albe immature
per la beltà che si aggira in sempre nuovi stupori
per gli alberi selvatici che non conobbero cure
e ancora acerbi serrarono le tenerezza dei fiori

(dalla raccolta Staré ženy –Vecchie donne, 1935)

*

Vecchie signore piene di buio e di trapasso
mani cadute nel grembo due morte cose incrociate
nel grembo nell’annoso palazzo della vita
o casa natía della vita casa natía fatiscente
il soppalco delle ginocchia è crollato soltanto lo squallore vi si annida
mie vecchie donne sonnecchianti sotto il mondo
grembi di vecchie donne
cisterna di gemiti e di lacrime infantili
sordine di singhiozzi maschili
voi grembi di vecchie donne
culle vuote
giacigli raggelati
sepolcri di attimi d’amore
incantesimi disincantati
custodie di misere ossa
nascondigli di gesti dimenticati
padiglioni schiantati
luoghi di roghi spulati
ospizi del rosario
acconti abbandonati dei futuri

voi grembi di vecchie donne
nessuna testa li allevia
strati di afflizioni vi si ammucchiano
delizia mutata in niente dagli anni
solo il palmo degli sfaceli vi sémina
voi grembi di vecchie donne
non reggerebbero più il peso dell’amore
un morente non vi esalerebbe l’ultimo fiato
e un lattante scoppierebbe in pianto
perché l’ossuta li assídera
voi grembi di vecchie donne
gèmina felicità delle gambe a malapena saldata
e la gloriosa incubatrice della vita è raggelata
voi grembi di vecchie donne

(dalla raccolta Dokoran – Spalancato, 1936)

František Halas

František Halas

Nella pioggia

La tibia di un ramo dalla tomba della notte sporge
la pioggia risuona quest’arpa di Mácha
mia amara lunare misericorde
mia corda di sangue purpurea
Ora in pesanti pezzi cade il buio
l’albero trema deserto di foglie
caduta è la rocca dei sogni e si erge un nudo muro
schiccherato dalla compassione

(dalla raccolta Naše Paní Božena Némcová – Nostra Signora Božena Némcová 1940)

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Morte di nostra Signora

Sono spalancate le finestre e si sente la morte sbadigliare
L’anima è fuggita più leggera della luce su un foglietto
La guardia dei ceri raddrizza le lance vibratili

La favella nel cuore languisce. Silenti piangenti
Se ne vanno le lavatrici dei morti

Dorme defunta è gialla crivellata
E la stella Diana sul suo capo
Seminare vorrebbe un ovario di collera

(dalla raccolta postuma A co? – Ebbene, 1957)

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Quando la bomba esploderà

Striscerà più lontano
solcando la melma
Si aprirà
Una conchiglia
Pallido sesso delle acque
Tutto comincerà di nuovo
tra l’apatía dei primi pesci
e le stelle
plàncton dei poeti antichi
si scrolleranno dal tedio
nel tempio delle galassie

(dalla raccolta Znameni potopy – Il segnale del diluvio, 1945)

*

Umide macchie crescono sui muri
nei buchi della fame nei rifugi della fame
si approssima il Diluvio

Con muffa di broccato
con ghiacciato lezzo dei cadaveri
con purulenza vaiolosa

la mia ingordigia disegno sui muri
sul volto dei poveri pongo una granfia

Ormai si approssima il Diluvio

Antonio Sagredo

Antonio Sagredo

Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Antonio Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.

La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).

Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).

Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.

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