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di Marco Belpoliti. “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino (1994) vent’anni dopo. Storia postmoderna di gangster, sermoni, sodomie, gare di ballo, teste esplose, non-luoghi di Los Angeles

di Marco Belpoliti. “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino (1994) vent’anni dopo. Storia postmoderna di gangster, sermoni, sodomie, gare di ballo, teste esplose, non-luoghi di Los Angeles

Pulp Fiction di Quentin Tarantino, 1994

Pulp Fiction di Quentin Tarantino, 1994

Pulp Fiction vent’anni dopo da Doppiozero.it

Vent’anni fa usciva nelle sale cinematografiche italiane Pulp Fiction, il capolavoro di Quentin Tarantino. Era il 16 dicembre 1994, nove mesi dopo l’imprevista e straordinaria vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, sei giorni prima delle sue dimissioni consegnate nelle mani di Oscar Luigi Scalfaro il 22 dicembre. Nessuno stabilì allora un nesso tra questa storia postmoderna di gangster, sermoni, sodomie, gare di ballo, teste esplose, non-luoghi di Los Angeles, tra il gioco sadico e farsesco istituito dal giovane regista americano e quello che succedeva nel nostro paese, dove una crisi sociale e politica, durata oltre dieci anni, arrivava a compimento segnando un deciso e irreversibile giro di boa.

film pulp fiction di Quentin Tarantino, 1994

 Pulp Fiction diventò immediatamente un film di culto, premiato a Cannes con la Palma d’Oro e anche con un Oscar, nell’anno seguente, fissando con la sua apparizione nei cinema un punto di non ritorno, sia per il modo in cui era narrato sia per i temi che offriva agli sconcertati, oppure entusiasti, spettatori. Quello che Pulp Fiction rivelava in quel momento preciso era il dominio incontrastato stabilito dalle immagini nella nostra realtà quotidiana. Alberto Morsiani in un libro dedicato all’opera di Tarantino (Quentin Tarantino. Pulp Fiction, Lindau) ha sintetizzato tutto ciò in modo icastico: Tarantino aveva capito d’istinto che le immagini erano diventate il nostro vero oggetto sessuale, l’oggetto del nostro desiderio. Anche se l’autore de Le iene, film antefatto di Pulp fiction, non aveva letto Jean Baudrillard, il suo Sistema degli oggetti o Lo scambio simbolico e la morte, usciti tra gli anni Sessanta e Settanta, mostrava che erano proprio le immagini a ossessionarlo, e anche a ossessionarci.

L’ascesa del tycoon brianzolo sanciva in 1994 il cambiamento di paradigma, anche se la lettura allora prevalente – lo sarebbe rimasta per due decenni a seguire – era quella modellata sulla critica pasoliniana della società dei consumi. Non che non ci fosse anche questo, ma certamente Tarantino ci mostrava da Los Angeles un mondo in cui la Legge non esisteva, dove l’istanza del godimento era dominante (non a caso l’unico poliziotto, o presunto tale, uno che veste la divisa della Legge, è un sadico violentatore perverso). Certo, Pasolini aveva declinato quell’universo nel film-parabola Salò o le 120 giornate di Sodoma, ancor oggi un’opera inguardabile per la sua tetra e assoluta visione, tuttavia Tarantino con il suo passo ironico e ludico spiazzava la lettura del regista italiano, creando una storiaccia assurda e paradossale, in cui gli eroi sono dei personaggi stereotipati, pure marionette, dominati dalla fatalità dell’accadere, e insieme da un movimento narcisistico nato dall’interno di ciascuno di loro, fino a diventare regola generale dell’universo umano.

Morsiani lo dice con molta efficacia: i personaggi di Pulp Fiction sono stereotipi, che vogliono assomigliare a se stessi. Se un tempo l’ossessione era di assomigliare agli altri, di essere uno nella folla – l’età delle ideologie novecentesche, il “Tutti”, come è stato detto da un recente romanzo di formazione italiano –, dopo Tarantino l’ossessione è quella di “assomigliare solo a se stessi”. Se ci fosse stato allora lo smartphone – c’erano già i cellulari, anche nel film, dotati di antenne estraibili –, senza dubbio Vincent e Julius, i due killer al soldo di Marsellus, si sarebbero probabilmente fatti degli autoscatti, Selfie, tra i cadaveri delle vittime, o negli spazi urbani da loro frequentati. L’ascesa della televisione commerciale sanciva in Italia in quel decennio – gli anni Novanta che ancora attendono il loro interprete – la diffusione del narcisismo di massa. Christopher Lasch l’aveva annunciato vent’anni prima, con il suo La cultura del narcisismo (Lasch scompare peraltro in quel 1994), indicando proprio negli strumenti di riproduzione di suoni e immagini – registratori e macchine fotografiche – gli strumenti dell’ascesa del narcisismo; “la vasta camera dell’eco”, come aveva scritto). Ogni personaggio nel film “vive per se stesso, si riassume in un punto iperpotenziale: gli altri non esistono virtualmente più” (Morsiani); tanto che Jules, il gigantesco nero del film, rivolgendosi a se stesso pronuncia la frase: “Let’s get into character!”.

 

Quello che ancora colpisce in questo film, rivisto oggi, oltre al ritmo, la distribuzione narrativa degli eventi, le inquadrature, le storie efferate, la violenza, la casualità, la follia dei comportamenti, l’imprevedibilità, tutti aspetti che ancora funzionano, è “la democrazia universale della rappresentazione” offerta agli spettatori in quel dicembre di vent’anni fa. La rappresentazione, ci dice Tarantino, ha assorbito dentro di sé ogni altra cosa. Dopo quarant’anni di dominio incontrastato di televisione, cartoni animati, pubblicità, packaging, segni, lettere e cifre distribuite ovunque, dopo l’esplosione dello star system, come aveva scritto Edgar Morin in un libro preveggente (Le star, 1957), eravamo entrati – anno 1994 – nel regno della pura rappresentazione. Il film di Tarantino offriva la prova provata di tutto questo, assorbendo dentro di sé ogni altro riferimento visivo, dagli spot pubblicitari ai vecchi film, dalle marche di prodotti alimentari a quello delle automobili, investendo praticamente tutto quello che appariva sulla superficie visiva del mondo, colonizzando così ogni angolo possibile dell’immaginario personale e collettivo. L’elenco completo delle citazioni filmiche più o meno palesi occupa almeno un paio di fitte pagine, come mostrano i molti libri che sono stati scritti su Pulp Fiction, dove gli autori si divertono a scoprire le criptocitazioni del regista.

Pulp Fiction

Pulp Fiction

La bravura di Tarantino era consistita nel trasformare la normalità dell’esistenza in un’allucinazione protratta, ma anche il suo contrario: l’allucinazione della normalità. Tutto è imprevisto e imprevedibile nel regno senza Norma, ma anche senza Trasgressione (questo è il punto, come sarebbe stato detto dagli psicoanalisti anni dopo), in cui si muovono i suoi personaggi dediti a un’impressionante immoralità. Quello che non fu subito chiaro era proprio questo: l’annullamento delle regole e insieme delle eccezioni, della normalità e contemporaneamente della trasgressione. Non si sapeva più bene cosa fosse una trasgressione là dove l’arbitrio era eretto a norma. Pasolini questo non lo diceva vent’anni prima nella sua caliginosa pellicola.

Tarantino stordiva con la sua alterazione narrativa, spostando inizio e fine, mescolando le carte della successione temporale, facendo morire, poi resuscitare i suoi personaggi in una sequenza di fatti alterata. Ma non era solo o tanto questo il suo punto di forza. In effetti, rivisto vent’anni dopo, con il finale che si richiude ad anello sull’inizio – la rapina nel diner, l’Hawthorne Grill, dove si trovano Jules e Vincent –, sappiamo che la struttura del film è un cerchio, e ci offre una lettura parareligiosa, o presunta tale, del rapporto tra caso e grazia, tra vita e morte. Una meditazione non ultimativa, e neppure assoluta sul destino singolare, tentativo di sottrarre, almeno per un istante i suoi personaggi al dominio incontrastato delle immagini, perché Tarantino profeta del post-postmoderno contiene dentro di sé ancora un’istanza moderna, quella che poi rende la società americana, nonostante il culto warholiano delle immagini ripetibili, assolutamente imprevedibile.

Jules, il killer nero, con la sua speranza di grazia, palesata negli ultimi minuti del film, rientra nel millenarismo evangelico delle sette religiose americane descritto da Harold Bloom in La religione americana (Garzanti), saggio dedicato all’avvento della società post-religiosa. Nonostante il suo nichilismo Pulp Fiction contiene anche quest’aspetto, che è, almeno in termini cronologici, la causa stessa del sorgere della democrazia dell’immagini.

film pulp fiction in automobile

Visto a questa distanza temporale, vent’anni non sono pochi, e dopo la fine del berlusconismo, pratica politica postmoderna all’italiana, il film di Tarantino appare come premonizione di quello che sarebbe accaduto, ma anche una sua critica implicita, perché nonostante la sua insistenza sugli aspetti del simulacro – ancora Baudrillard – Pulp fiction presenta almeno un personaggio che pare smentire tutto l’universo del delirio comunicativo che la pellicola ci offriva a piene mani.

 Butch, il pugile, è infatti il personaggio positivo, positività naturalmente non priva di ambiguità, come in ogni film di Tarantino. Butch contravviene al contratto truffaldino con Marsellus, lo spietato boss, di andare al tappeto alla quinta ripresa del match che sta per combattere. Frega il gangster e abbatte l’avversario – in realtà lo uccide, anche senza volerlo davvero –, quindi scappa con i soldi che ha ricevuto per la truffa, e con quelli ricavati dalle puntate sulla propria vittoria. Nel seguito della storia Butch salva Marsellus, il nemico, che ha tentato di uccidere con l’automobile, dalle mani dei suoi aguzzini che lo stanno violentando, recuperando in questo modo il passato eroico della propria famiglia. Un vero cow boy, opposto e simmetrico all’idiota comandante del bombardiere che sgancia l’atomica sull’Unione Sovietica nel Dottor Strananore.

bang bang bang

bang bang bang

Il pugile di Tarantino si batte contro il Male, pur essendone stato parte. Butch possiede uno dei talismani magici di questa fiaba postmoderna: l’orologio. Il suo bisnonno ha combattuto nella Prima guerra mondiale portando con sé l’orologio d’oro da polso, che passa poi al nonno, il quale muore in guerra durante il Secondo conflitto mondiale. L’oggetto arriva sino al figlio, che è pilota nella guerra del Vietnam. Catturato dai nordvietnamiti, il genitore di Butch conserva nascosto nel sedere per cinque anni l’orologio, fino a che, morente, lo passa a un commilitone, il quale per altri due anni lo custodisce nell’ano (situazione che ha il gusto dello sfregio tipico dell’epos di Tarantino in questo film, e non solo lì). In una delle scene del film, chiaramente un sogno, Tarantino ci narra la storia dell’orologio e la sua consegna al piccolo Butch da parte del commilitone del padre, così da farne uno dei motivi narrativi della pellicola. Sarà proprio la dimenticanza di questo oggetto da parte di Fabienne, la donna di Butch, a spingere questi a tornare sui suoi passi fino alla propria casa, per ritrovarlo e portarlo con sé. L’ossessione dell’analità, come rimarca Morsiani, allude anche alle radici protestanti dell’intera cultura americana bianca (si veda il tema dell’analità in Norman O. Brown, La vita contro la morte, Adelphi, autore cult degli anni Sessanta, insieme al Marcuse di L’uomo a una dimensione): tempo e denaro. Inoltre, l’orologio manifesta l’ossessione per il controllo del tempo produttivo: tempo della storia narrata e tempo di produzione della storia narrata (Pulp fiction come film del mondo post-fordista?).

Pulp Fiction Bang Bang Bang

Pulp Fiction Bang Bang Bang

Butch incarna con Jules, il nero diventato improvvisamente “credente” per via del miracolo occorsogli nel corso di una sparatoria, l’aspirazione a una diversa verità nella società dei simulacri raccontata visivamente da Tarantino. L’America dalle molte facce.

Vent’anni dopo Pulp Fiction rivela altri elementi che ci permettono di leggere ciò che è accaduto dopo il Papi di Arcore. Il primo che colpisce è l’insistenza sull’estetica vintage nell’episodio in cui Vincent accompagna fuori a cena la moglie del suo boss, il terribile Marsellus, Mia. “Che cazzo di posto è questo?”, domanda Vincent. “È il Jack’s Rabbit Slim’s. Hai l’aria di un ragazzo anni ’50. A un amante di Elvis dovrebbe piacere”, risponde Mia. Il locale dove lei ha prenotato un tavolo reca la scritta: “La cosa più simile a una macchina del tempo”. All’interno c’è Surf music e luci al neon. Alle pareti poster di vecchi film di serie B, mentre il personale è composto di sosia di vecchi divi, da Elvis a Dean Martin, Marilyn Monroe, James Dean, ecc. I due si siedono dentro una vecchia automobile e ordinano.

Siamo in pieno vintage, con un rovesciamento interessante, come nota Morsiani: mentre il divo è stato nel suo passato un cameriere, qui nel locale i camerieri somigliano ai divi. Tutto il film lavora su questa dimensione del passato prossimo, perché nel postmoderno alla Tarantino ogni cosa è già stata vista. In effetti, non è solo sulla manipolazione temporale del racconto che il regista americano agisce, ma anche sulla dimensione tempo in generale, in particolare il tempo rispetto alla memoria.

 Rivisto oggi, dopo la Leopolda numero cinque, dopo il bric a brac renziano allestito nell’ex stazione di Firenze, si comprende come il vintage sia diventato uno degli elementi centrali della cultura post Pulp fiction. Sono i cortocircuiti temporali ad appassionare Tarantino, e non solo lui. L’attuale Presidente del Consiglio, nato nel 1975, appartiene di fatto alla generazione venuta dopo Tarantino. Lo stile del regista americano prefigura quello che è accaduto successivamente, ovvero: la contemporaneità come proliferazione incontrollata delle immagini. Con una precisazione: solo alcuni oggetti vengono risignificati nell’ambito delle carabattole offerte dal grande magazzino della civiltà americana (non era forse quello il grande magazzino dove, alla fine di Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta, anno 1981, veniva posta l’Arca dell’Alleanza?). La favola bella raccontata da Tarantino è diventata una realtà politico-sociale: tutto il passato deve confluire in un eterno presente (Morsiani).

Possibile? Probabile. La generazione-Tarantino non è solo quella dei cinici con la patente (sarcasmo adolescenziale, più spregiudicatezza), ma anche quella performativa esibita dai suoi personaggi, nel continuo scambio tra parola e atto, tra atti di parola e parole di atti. Il tutto condito da quella che è il termine chiave dell’intero film, al di là della sua violenza (più suggerita che veramente vista): cool; termine che indica la capacità che possiedono i personaggi di Pulp fiction di tenere sempre sotto controllo la situazione, “incorporando proprio per questo momenti di gioco, di godimento improvvisato e immediato che sembrerebbero l’esatto contrario del rigido professionismo”. Cool sta per freddezza e insieme gioco, indica l’aspetto fascinoso che i suoi “cattivi” manifestano. Siamo in quella zona in cui l’istantaneità totale delle cose, per dirla con Morsiani, rivela “una sovraesposizione alla trasparenza del mondo”. Pulp Fiction ha pronosticato Renzi? Forse è troppo ipotizzarlo, ma un troppo forse non tanto lontano dal vero.

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Marco Onofrio La dimensione poetica – Dalla lingua delle origini alla torre di Babele: l’iperdenominazione del mondo, Dioniso Apollo Eraclito, Il divenire (Parte III)

de chirico il ritorno di Orfeo

de chirico il ritorno di Orfeo

 

de chirico ettore e andromaca

de chirico ettore e andromaca

La poesia è da sempre tesa alla presunta “lingua pura” delle origini: cerca di afferrare l’“essere linguistico” delle cose, il nome segreto e cifrato di ogni essere, come traduzione del suo “quantum”, della sua quiddità energetica, della sua scintilla creatrice, della sua peculiare nota metafisica. Come la “lingua nuova” di cui ad esempio Hugo von Hofmannsthal (nella Lettera di Lord Chandos) articola l’istanza-ipotesi: una lingua «di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto». Una lingua che incorpora l’oggetto, che lo crea nominandolo, che lo manifesta in quanto luce: verbo e nome, parola e cosa. Questa lingua conoscente, di nome e di essere, coincide con lo stato paradisiaco delle origini perdute. La lingua di Adamo; e quindi, come tale, irrecuperabile. La parola umana nasce dalla rottura di questa unità originaria. Il peccato originale segna l’uscita della parola umana dalla terra della “lingua nominale” che ancora Platone può difendere nel Cratilo. Da allora c’è la torre di Babele: iperdenominazione del mondo; pluralità di linguaggi e ingorgo di gerghi strumentali; pletora di nomi vuoti: un immenso fragore di segnali: un boato di fondo che sfuma nel silenzio dell’insignificanza…

 LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

A questo può servire la poesia, nel suo valore ontologico, oggi più che mai. Ad aggiustare la frequenza del suono: a riagganciare la giusta armonia: ad ascoltare il silenzio delle origini. Ben diverso da quello fragoroso dei linguaggi: profondo, questo, e limpido, e creativo. È in questo silenzio originario che si è andato a nascondere l’indicibile della conoscenza perduta, che si esprimeva nella pienezza del nome. Il silenzio del mondo che tace la verità. È a questo stato pre-categoriale, di eterna attualità, che attinge nello scrivere il poeta. Deve portare le cose all’essere, lasciandole affiorare e rivelare. La parola, allora, diventa simbolo pieno: nome che contiene mille voci, tutte le voci. E che, talvolta, vuol dire la realtà in tutta la sua fulgida pienezza, sublimandola e magnificandola.

zbigniev herbert

zbigniev herbert

Ma una rappresentazione sublimata e solare delle cose è, forse, migliore premessa all’insorgere dell’ombra che, forte della stessa negazione, preme con urgenza da fuori, o da dentro – come il disturbatore della conferenza –,  per conquistare o riconquistare il centro della scena. Rivendicando i suoi diritti. Urlando le sue incognite ragioni. Ecco perché ad ogni epoca di armonia succede inevitabilmente una di crisi. Si passa così dal meriggio rinascimentale al crepuscolo inquieto del barocco. Dal chiarore dei lumi alle ombre gotiche del romanticismo. Dalle certezze positive dell’Ottocento all’angoscia decadente del Novecento, ecc. Ciascuna di queste trasformazioni  esclude dal suo corso i salti netti: procede dunque con una dinamica di passaggi intermedi e sfumature che solo a posteriori, e forzandone la straripante complessità, è possibile storicizzare e/o classificare.

W.H. Auden with Cecil Day-Lewis and Stephen Spender

W.H. Auden with Cecil Day-Lewis and Stephen Spender

Accade anche nell’antica Grecia, quando si passa dall’età mitica delle origini alla grande età del sapere tragico. Apollo è il dio che sovrintende alla poesia come accordo universale, come canto armonico, come sinfonia. Sin-fonia: suonare insieme: alle cose del mondo, alle stelle del firmamento, alle vibrazioni energetiche della materia. Obbedire ai sacri vincoli del ritmo. Essere parte del concerto cosmico. L’armonia del canto è la forza che purifica il dolore, che scioglie dai mali, che dice la verità. Apollo è un dio sublimante e, in quanto tale, riduzionistico. A-pollon: non molti. È l’Uno che nega il molteplice. Per questo può permettersi di essere il dio della pienezza e della luce. Ma, a un certo punto, viene a noia pure il paradiso. Certo, è bello cantare il migliore dei mondi possibili: ma come evitare, al tempo stesso, di avvertire che un poco ci si inganna? Ecco il brivido d’ombra nel fulgore più accecante. Un brivido che punge, da qualche parte: cattiva coscienza del rimosso che torna ad affacciarsi, prima o poi. È un’armonia piena ma falsa, in fondo, poiché intentata: non generata dalla lotta strenua col suo contrario. Allora le grandi narrazioni mitiche non bastano più. C’è bisogno di un senso ancora più profondo, legato al destino dell’uomo, alla sua verità autentica. E si esce dall’infanzia del mondo, dal tempo delle favole.

Costantino Kavafis

Costantino Kavafis

C’è un grido terribile, nel Declino degli oracoli di Plutarco, che segna questo termine epocale: «Il grande Pan è morto». Come poi dirà Nietzsche all’alba del Novecento: «Dio è morto». È Eraclito il Nietzsche dell’antichità: lo spirito illuminante e perturbante che sottrae all’uomo il terreno sotto ai piedi, prescindendo dalle certezze acquisite. Eraclito non teme di rivelare che gli uomini sono «stranieri in mezzo a cose straniere», sonnambuli che «non sanno ciò che fanno da svegli, così come da svegli dimenticano ciò che fanno nel sonno». Il mito non serve più a spiegare il senso delle cose, giacché «la natura ama nascondersi». Occorre trovare una strada verso la reale costituzione dell’essere. C’è un logos abissale che sfugge allo sguardo, perché è invisibile, ma domina il mondo dall’interno di tutte le sue manifestazioni. Se guardi bene scopri che c’è un “oltre” in tutto (lo dice fra gli altri Pirandello, all’inizio del romanzo Quaderni di Serafino Gubbio): che al di là del visibile si apre il mondo dell’invisibile, dei rapporti nascosti, dei legami interstiziali. Come scrive Baudelaire nella lirica Corrispondenze: «La Natura è un tempio dove colonne vive / lasciano a volte uscire confuse parole; / l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli /che l’osservano con sguardi familiari. /Come echi lunghi che da lontano si fondono / in una tenebrosa e profonda unità / vasta quanto la notte e quanto la luce».

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

Occorre distinguere, nella fitta trama del tutto, le tracce di questa armonia, tesa e sottesa, che si rivela più forte di quella in superficie. È la relazione che lega l’uno al tutto: è la forza che tiene insieme il molteplice. C’è bisogno di un’armonia più autentica e complessa, un’“armonia discorde”. È l’armonia dei contrari: il logos eracliteo che sottende le tensioni contrastanti. Sintesi dinamica di attrazione e contrasto, di amore e guerra, di essere e divenire. Per arrivare a questa ragione sottile, e dunque all’essenza costitutiva delle cose, occorre passare attraverso l’esperienza del molteplice, fuori e dentro di noi. Perdersi nella selva oscura. Smarrire le coordinate. Aprirsi al rischio della-peiron, dell’aperto, dell’abisso privo di fondamenti. Il sapere tragico nasce dalla frattura del mondo: e dalla scissione che apre il soggetto alla visione consapevole di questa frattura. L’uomo si raggiunge in ciò che più gli appartiene, finendo per coincidere con la propria condizione. Apre gli occhi e si vede come “dal di fuori”, così come è: nodo di autocoscienza riflessa, individuo, soggetto distinto, posto dinanzi alle cose, non più parte di esse. Come accade, nella Genesi, ad Adamo ed Eva, dopo aver mangiato il frutto proibito della conoscenza: «Allora si aprirono gli occhi ad entrambi e si accorsero che erano nudi».

Mandel'stam a Firenze 1913

Mandel’stam a Firenze 1913

Ci vuole un principio energetico, attivo e propulsivo, per rimettere in moto, cioè in discussione, l’astratto e sublimato cosmo apollineo. Anche a costo di mandarlo in frantumi. Sola armonia credibile, dunque, sarà quella scaturita dalla crisi; sola luce vera, quella accesa dal cuore stesso della tenebra, trafitta e oltrepassata. È Dioniso: il dio dell’ebbrezza, della leggerezza, della libertà, della dispersione e della spersonalizzazione; il dio-capro tellurico, oscuro ed inquietante, ma anche affrancatore dai vincoli che ci tengono legati al carcere di un tempo e di uno spazio, volta a volta unici ed esclusivi, quindi escludenti. Quando Dioniso sfiora Apollo, Apollo cambia per sempre: cambia la sua musica, la sua armonia: comincia a parlare per “geroglifici”, segni ambigui e indecifrabili, attraverso la bocca delirante della Pizia delfica: cose cupe, straniere, informi, “altre” e refrattarie; difficilmente componibili in un symbolon, un’unità di senso in superficie. La musica solare di Apollo si sporca di pulsioni notturne e risonanze umane: diventa gioia del dolore, diventa tragica. D’ora in poi sarà più difficile sostenere un riduzionismo incapace di sorgere da un confronto serrato, corpo a corpo, con la complessità.

Adam Zagajevski

Adam Zagajevski

L’Apollo tragico nasce dall’assimilazione di Dioniso, dal superamento della musica, nel sogno «abitato da immagini plastiche» (Dino Campana). La visione tragica apollinea sorge dalla potenza della musica dionisiaca. Il cosmo nasce dal caos. Per crescere ed evolversi c’è bisogno prima di entrare in crisi, per poi superarla. E che cosa scopre Apollo, quando Dioniso lo mette in crisi? Altrimenti detto: di che cosa diventa capace la poesia quando l’accende il fuoco della musica, l’“oscuro turbine” di un canto che viene dal basso, dalle viscere, dal sangue, dal vino, dalla terra? Risposta: che l’uomo è il “soggetto dei contrari” che non si possono risolvere, e non devono essere risolti – se la parola vuol darne cenni di verità autentica: senza falsi inganni, oltre le favole, oltre le illusioni. Il mistero stesso che abbiamo in noi è espressione del logos abissale. Dice Eraclito l’oscuro: «Per quanto tu possa viaggiare, non riuscirai mai a scoprire i confini dell’anima». La verità che la parola tragica ci svela è che siamo complicati e ambivalenti, perché partecipiamo della natura dei contrari che riuniamo dentro noi stessi. Scrive Marco Aurelio, nei suoi Pensieri, che siamo fenditure di tempo fra due eternità: quella che ci precede e quella che ci seguirà. Labili, effimeri, passanti. Fiamme tremolanti di candela. Abbiamo i piedi che sfumano nel vuoto. Soglie di transito fra notte e giorno, luce e tenebre, vita e morte. Il nostro essere è il divenire.

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Marco Onofrio sul mito di Orfeo – V

600px-Kylix_Theseus_Aison_MNA_Inv11365_n1 L’avventura stessa della poesia moderna e contemporanea “rischia” di coincidere in gran parte con il cammino di Orfeo verso la Notte, alla ricerca di una luce autentica di liberazione, di un’alba impossibile. La crisi della coscienza razionale spinge fin dalla seconda metà del ‘700 ad un’esplorazione sempre più acuta e profonda dei panorami interiori. Rousseau, grande antesignano delle paranoie del nostro secolo, sostituisce al “cogito” di Cartesio un ben più ineffabile esprit de finesse: è la fantasia che si libera dai vincoli del verosimile, del buono, del razionale. Con e dopo di lui comincia «l’epoca della fuga dalla cultura. Poeti e visionari, da Chateaubriand a Lenau, fuggivano dalle città via via sempre più imponenti verso le intatte foreste della Virginia, le incantate savane africane, le montagne asiatiche che sfioravano il cielo, o verso le isole dei mari del Sud dimenticate dal mondo. Essi fuggivano le ripugnanti maschere, le gabbie e gli specchi della civiltà» (T. Lessing). I romantici oppongono una rivolta anarchica alla morale del loro tempo. L’esperienza delle sanguinose guerre del XVII secolo aveva prodotto un diffuso timore del caos, della barbarie, delle passioni: si apprezzavano l’ordine, l’intelletto, la pruderie, le buone maniere, la tranquillità. Reprimere i propri sentimenti era considerato segno di buona educazione e di nobili origini.

orfeoMa i romantici sono fin troppo sazi di quiete e cercano una vita più intensa e movimentata: ammirano le forti passioni, che forse portano alla rovina ma almeno riempiono l’animo di un’ebbrezza altrimenti non esperibile; preferiscono l’individuo alla società, gli istinti primordiali alle convenzioni civili; disprezzano l’industrialismo e sostituiscono schemi di pensiero estetici a schemi utilitaristici; considerano bello tutto ciò che è inutile, violento, poderoso, titanico, distruttivo, strano, abnorme, misterioso, terrificante; amano l’espressione diretta del sentimento, affatto libera dalle censure dell’intelletto. In arte l’immaginazione estende il suo impero oltre i confini del “normale”. La poesia eredita dalle dottrine di occultisti e “illuminati” come Böhme, Swedenborg e Saint-Martin la certezza di un mondo trascendente, doppio invisibile di quello fisico, sulle tracce del quale orienta le proprie creazioni, trasformandosi in rêverie, contemplazione del mistero, colloquio con la morte, ricerca dell’Assoluto. Questa “realtà seconda” Continua a leggere

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Marco Onofrio sul mito di Orfeo – IV

Orfeo%20e%20gli%20animali%20Mosaico%20Palermo  Allo “sguardo di Orfeo” si interessa anche Salvatore Lo Bue, che ne fa principio di differenza tra due tipi di poesia: il melos (assoluto incantamento musicale) e la pòiesis (forma di conoscenza). Custode e simbolo del primo tipo è l’originario Orfeo “agamos” (cioè solitario, senza Euridice) attraverso la cui voce gli dèi ascoltano e rivivono l’armonia del principio, la nascita del mondo, l’infanzia dell’umanità. Egli conduce ogni cosa alla luce poiché è poeta armonico, devoto a Helios, difensore del cosmo ermetico. Gli dèi non lo temono poiché egli non osa metterli in dubbio e ha accettato di contrarre con loro un mutuo foedus di non belligeranza, tramato di menzogna alle spalle dell’uomo. Infatti lo uccidono le Baccanti, istigate alla vendetta da Dioniso (dio dell’oscurità umana). Il secondo tipo di poesia pertiene all’Orfeo libero contro gli déi e umanizzato. L’umanizzazione di Orfeo segna la sua dolorosa e solitaria libertà di “poietes”, capace di una parola infinitamente meno suggestiva ma carica di pensiero, una parola che insegna agli uomini e rivela loro, oltraggiosamente, i segreti degli déi. Da “scriba” del cosmo ermetico Orfeo diviene figura della contraddizione, del principio tragico, del Logos. In entrambi i casi è figura di relazione tra Physis e Mytos: armonica prima,
oppositiva poi. La differenza sta proprio nello sguardo e si gioca nel diverso esito (positivo o negativo) della catabasi in Ade. Nel mito di Orfeo la catabasi è una variante successiva (non attestata prima del VI secolo a.C.), che segna l’apparizione di Euridice e contraddistingue la nascita dell’Orfeo poietes.

orfeo-eurAffrontando la catabasi l’Orfeo melico ottiene facilmente Euridice e tuttavia resta agamos, giacché la riporta alla luce senza conoscerla veramente e a prezzo della propria libertà, restando prono alle leggi degli dèi. L’Orfeo poietes, invece, perde Euridice guardandola, e la perde proprio perché la guarda e in tal modo la conosce, contravvenendo al divieto degli dèi che temono la parola libera e pretendono cieco il poeta. Questo secondo Orfeo rompe l’equilibrio fra Natura e Mito e svela il vuoto sinora celato nell’essenzialità del nome, cioè nella perfetta coincidenza fra essere e nome. È l’ipostasi del passaggio fra due epoche: il mondo del Mytos comincia a vacillare sotto i colpi spietati e spregiudicati del Logos. Il Mytos cerca di difendersi arroccandosi nell’ultimo eden, quello della catabasi con esito felice – non a caso la versione del mito di Orfeo in cui i Greci preferiranno continuare a credere.

orfeodechirico

La notte ermetica aveva originato il nome degli dèi, quindi gli dèi stessi. Principiati dal gioco poetico originario, gli dèi si erano a loro volta posti come increato e assoluto principio di tutte le cose. Lo scriba che stava all’ingannevole gioco, il reggitore dell’universale menzogna, il compare degli dèi, poetava a patto di negare se stesso in quanto creatore.

L’Orfeo poietes, invece, comprende e svela che gli dèi sono un’invenzione umana; non solo, ma arrischia sé e la parola nel punto originario di ogni nominare, nel fondamento stesso della creazione poetica, rendendola e rendendosi più consapevole dei propri mezzi. Il che significa accettare la nudità originaria, il rischio di trovarsi soli dinanzi al baratro della privazione, centrati nella propria essenza, pericolosamente liberi di pensare, senza più illusioni o false certezze, estranei per questo al mondo degli dèi come a quello della maggior parte degli uomini che non tollera – al pari degli dèi – la libertà “difficile”. Una nuova poesia, non religiosa ma umana, che non dà gioia ma semina l’alito scuro della disillusione, che mostra le verità contraddittorie dell’esistenza senza comporle in alcun rasserenante ordine, che osa parole illecite per dire l’uomo “sogno di un’ombra”, fino ad esserne il compiuto e veritiero discorso.

orfeo_euridiceLo sguardo di Orfeo segna dunque lo stacco fra due modi diversi di intendere obiettivi e modalità del fare poetico, il passaggio dalla svenevole acquiescente dolcezza del melos alla parola ruvida, scabra, densa di pensiero. È l’invenzione della tragedia, del disincanto, della libertà, della responsabilità individuale. L’uomo da solo dinanzi a se stesso e al proprio destino. Il poeta chiamato ad una nuova “sapienza epistemica” della propria arte. Non più irresistibile ammaliatore, non più scriba del Mytos, non più divino aedo delle origini. Questa nuova tipologia di poeta rappresenta lo sgorgare del Logos dal cuore stesso del Mytos (a significarne la crisi d’identità) ed incarna l’essenza della “poiesis” platonica. Platone, che nel Simposio giudica con palpabile acredine il destino di Orfeo (è la prima voce autorevole a sostenere l’esito negativo della catabasi motivandolo con l’ignavia del cantore tracio, giudicato «fiacco nell’animo, vile nel canto, incapace d’azione»), preconizza l’avvento di una poiesis “pasa aitia”, complessa e autocosciente, principio e termine di sé, ma soprattutto in grado di svegliare gli uomini dall’imperturbabile sonno delle favole, di insegnare loro “grammata” e “sophien”, parole e sapienza, verità. Tutto questo comporta l’apparizione di Euridice e l’imprudente gesto del suo sposo. Basta l’accorpamento di una costante mitica tradizionale come la catabasi in Ade a modificare i connotati dell’originario Orfeo agamos, a mettere a dura prova l’integrità del suo significato, o per lo meno a turbarne l’univocità, offrirne una possibile alternativa, d’ora in poi ineludibile.

orfeoNel mito «in effetti sono concepibili numerose combinazioni, ognuna delle quali produce una variazione di senso per modificazione interna o esterna, relativa o collegata all’una o all’altra delle unità costitutive», sostiene Jean Rousset nel suo prezioso studio su Don Giovanni.

Con o senza sguardo, fiacco o dominatore, trionfatore o sconfitto, Orfeo ha continuato e continua a rappresentare, ad ogni modo, qualcosa di imprescindibile, di non riconducibile alla singola interpretazione: il nucleo forte, l’unità costitutiva, l’invariante del mito. Qualcosa che Orfeo non potrà mai fare a meno di significare; sicché, astratto in chiave metastorica, Orfeo può dirsi «simbolo di ogni differente pensare e sentire l’origine della poesia». Dovunque il poeta, forte di una purezza disinteressata ma non irresponsabile, rinunciando alle illusioni accomodanti e alle facili promesse, sappia recedere alla sorgente del proprio canto, laddove è necessario resistere alla terribilità dell'”iniziale” che baluginando sorge, nella divina saggezza dell’attesa, nella maturità del silenzio; dovunque egli sappia soggiornare nell’oscurità dell’indistinto che non conosce appigli, anelando alla luce del riscatto; dovunque egli sappia lavorare (come scrive Jean Cocteau) «molto in alto e senza rete di soccorso», tuffandosi nell’alterità più irreducibile alla misura di ciò che si conosce, attraversando universi di vuoto, desolazione, vertigine e silenzio; dovunque si appalesi il profondo valore umano e mondano (pur nell’aspirazione al trascendente) di una poesia incisa nella carne e nel dolore della vita; dovunque la nutriente forza del pensiero accenda ed avvalori il fuoco dell’incanto, il misterioso potere del suono e del ritmo; dovunque la poesia sappia porsi come fondamento, di conoscenza e civiltà, come cifra di quel che è proprio dell’uomo, come rivelazione di ciò che all’uomo non compete, di ciò che l’uomo non raggiunge: è là che potrebbe apparire, da un istante all’altro, dal corpo stesso dell’arte che egli rappresenta, l’universale figura di Orfeo; là che la poesia sembrerebbe quasi miracolosamente scaturire dalla sua settemplice lira incatenata alle costellazioni del cielo, fino ad identificarsi con la “melodia sacra”, la ragione segreta, l’essenza più profonda e irraggiungibile di tutte le cose.

1775 Canova OrfeoIn epoca moderna la figura di Orfeo è più che mai atta a rappresentare le molte “zone d’ombra” di un uomo che la cultura ufficiale, quella del consenso allo status quo, vorrebbe cinto di apodittiche certezze oppure fondato nella certezza dell’incerto, nell’accertamento di una “crisi” fin troppo nota, estesa a mito, banalizzata a luogo comune, in un dissenso facilmente controllabile perché previsto ed anzi tollerato dal sistema, dalle stesse istituzioni del Potere: l’ombra di quelle forze istintuali, di quella libido che è necessario reprimere e controllare acciocché sia ancora possibile una civiltà. Ed è proprio nel nome di Orfeo che Marcuse stigmatizza l’eccedente sacrificio della libido imposto ad ogni individuo nella moderna società capitalistica occidentale.

La disfatta e il trionfo del mitico poeta divengono «simboli della perdita e del tentativo di recupero dello spirito del canto da parte dell’uomo in un mondo di alienazione, di violenza e di esistenza spersonalizzata e mitizzata» (Segal). Il legame inscindibile tra parola e musica – scrive Enrico Fubini – trova allora la sua «vita autentica nel canto come fenomeno naturale, come espressione dell’uomo in quanto essere naturale, non ancora alienato e diviso nelle sue facoltà dalla civiltà, dalle regole sociali, dalle necessità e dai bisogni. Recuperare il canto come unione, fusione di parola e musica, significa recuperare l’uomo nella sua integrità, nella sua mitica naturalità, nella sua pienezza espressiva».

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Marco Onofrio sul mito di Orfeo – III

orfeoOrfeo continua di lontano a seminare il proprio richiamo, ad allungare silenziosamente il proprio sguardo come un arcobaleno sopra distese di secoli, ad evocare a sé generazioni di sempre nuovi adepti. Come ad esempio, in Italia, molti dei cosiddetti “petrarchisti dell’Ermetismo”, o come i giovani poeti della scuola neo-orfica milanese degli anni ‘70. Ma anche a livello teorico, nel campo della scrittura saggistica, della critica letteraria. È il caso del francese Blanchot, che ne L’espace littéraire, teatro di una riflessione filosofica esercitata “in fieri” sul terreno della letteratura come esperienza, fonda sul mito di Orfeo e sul tema del suo sguardo le basi della propria estetica. Per Orfeo che scende verso Euridice (il poeta che avvicina la Poesia) l’arte è la potenza grazie a cui si libera l’”essenza della notte”. Euridice è il confine, il limite estremo. «Nascosta sotto un nome che la dissimula e sotto un velo che la copre» è il punto interiore ed essenziale verso cui tende il desiderio dell’artista. Il “proprio” di Orfeo (ciò che lui desidera) è avvicinarsi a questo punto scendendo nelle profondità abissali di se stesso, per riportarne con sé il dono e farlo emergere in superficie, verso il “grande giorno” (Campana direbbe «il più chiaro giorno») dell’opera, della forma, della consistenza. Ma egli «può tutto, fuorché guardare in faccia questo punto, fuorché guardare il centro della notte». La legge impone che l’opera possa nascere solo quando l’artista non persegua deliberatamente «l’esperienza smisurata della profondità», che può rivelarsi solo con la dissimulazione. Orfeo non accetta, non può accettare questa legge: vuole guardare ciò che deve essere dissimulato, e vuole vederlo proprio in quanto invisibile, estraneo ad ogni intimità e proibito alla conoscenza. Continua a leggere

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Marco Onofrio sul mito di Orfeo – II

domus%20del%20chirurgo%2011  Secondo Charles Segal (che ad Orfeo ha dedicato un ampio e suggestivo saggio) gli elementi fondamentali di questo mito configurano un triangolo costituito da “arte”, “amore” e “morte”. Il significato del mito cambia a seconda di quali diversi elementi si pongano alla base del triangolo: amore-morte, amore-arte, arte-morte. Per un verso Orfeo incarna la capacità dell’arte, della poesia, del linguaggio – “retorica e musica” – di trionfare sulla morte; il potere creativo Continua a leggere

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Marco Onofrio. Sul mito di Orfeo, parte I

1775 Canova Orfeo Come affrontare il mito di Orfeo? Suggerisce Kerényi: «L’unico modo giusto di comportarsi nei confronti della mitologia è lasciar parlare i mitologemi per se stessi e prestar loro semplicemente ascolto». E Nietzsche: «Il mito vuol esser sentito intuitivamente come un esempio unico di una universalità e di una verità che hanno lo sguardo fisso sull’infinito». Per intanto, dunque, è opportuno disporsi all’ascolto puro e semplice della fabula, nelle sue essenziali informazioni./p> «Figlio di Apollo e della Musa Calliope, nato alle pendici del monte Rhodope (in Tracia), Orfeo canta e suona così dolcemente che non solo gli uomini, ma anche le belve e persino Continua a leggere

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