Il collasso del Simbolico di Giorgio Linguaglossa
Nella vicenda che la poiesis mette in scena nella poetry kitchen, è evidente la disconnessione da ogni visione tragica dell’esistenza a cui rimanda la nozione di destino, in quanto ogni gesto della «maschera», ogni sua parola è una messa in mora dell’azione, del crimine, della colpa e dell’imputazione; ancora più significativo in tale vicenda è il superamento della dialettica tra maschera e volto, che costituisce il presupposto di ogni rappresentazione del comico e del drammatico. Gli avatar, al di là di ogni possibile dubbio, sono totalmente maschera; essi non possono gettare la maschera, in quanto sono privi di azione, privi di identità, privi di psicologia, non sono emblemi simbolici, dietro di essa non c’è nulla, c’è un fondale vuoto. Per converso, divenire «maschera» significa assumere totalmente l’apparenza come cifra dell’esistenza, significa perdere ogni personalità, ogni identità, ogni certezza in favore della identità della maschera. Il doppio, il triplo, il sosia a cui rimanda storicamente il concetto di persona, che come sappiamo ha nella teatralità della maschera la sua scaturigine e su cui si fonda gran parte della politica e della teologia occidentale o, secondo l’indicazione di Carl Schmitt, della teologia politica, negli avatar non ha più ragion d’essere. Gli avatar non sono persone, non compiono azioni, non possono essere responsabili di nulla, non gli si può imputare nulla; dietro la maschera non c’è alcun volto, alcuna identità, la maschera non è capace di azione, può solo gesticolare e parlare a vanvera. Vuoto di rappresentazione, vuoto di identità, vuoto di rappresentazione. Di conseguenza, abbiamo il collasso della politica, collasso dell’etica e collasso della poetica, il collasso della rappresentazione.
In due parole: il collasso del Simbolico. (Giorgio Linguaglossa)
Domanda Di Mariella Bettarini e Risposta di Giorgio Linguaglossa su:
Che cosa identifica una poesia da una non-poesia?
In una recentissima intervista di Mariella Bettarini rivolta ad alcuni autori di poesia contemporanei le cui risposte sono state pubblicate sui n. 106-107 “L’area di Broca” 2019, alla domanda “Come si identifica oggi il linguaggio della poesia?”, rispondevo:
«Non c’è nessun criterio per identificare il linguaggio della poesia. Ma c’è un concetto. La poesia è una idea che inerisce ad un concetto. Ma, in assenza di un supporto critico credibile e attendibile, chi o che cosa – mi chiedo – riscatterà la «poesia» da questa condizione di mancanza di concetto?».
Alla successiva domanda della Bettarini:
Oralità, scrittura, virtualità: come interagiscono i differenti canali nella realizzazione del testo poetico?
Rispondevo così:
«”Oralità, scrittura, virtualità” non hanno alcuna interazione con la poesia. La poesia di una comunità di parlanti interagisce con la lingua della comunità nel suo complesso e con le condizioni storiche e sociali di quella comunità linguistica».
La mia convinzione è che rispondere come ha risposto Maurizio Cucchi: “Ogni forma o aspetto del reale può diventare materia di poesia”, sia fuorviante perché manca di un nesso essenziale, perché equivale a dire che è inutile munirsi di un concetto, cioè di una poetica in quanto tutto può entrare nella forma-poesia. Il che sarebbe anche vero ma per il tramite di un «filtro», ovvero, come si diceva una volta: di una «poetica», o, come si scriveva un tempo: di una «ricerca».
Rilevo come questa posizione panlogistica tipicamente tardo novecentesca aumenti la confusione invece di ridurla, non si sa più che cosa distingua la forma-poesia da una forma giornalistico-mediatica con degli a-capo, non tiene conto del fatto che anche la forma giornalistico-mediatica non può contenere tutto di tutto, nel senso che anche la scrittura giornalistica o informativa deve operare una selezione di argomenti e di esposizione, si deve attenere a rigorosi principi guida e a rigorosi limiti tematici ed investigativi. Il che mi sembra inequivocabile.
La mia impressione è che si operi in mezzo ad una confusione concettuale che rende ancora più confuso il criterio per mezzo del quale possiamo individuare la forma-poesia per distinguerla dalla non poesia. In tal senso ci viene in soccorso la domanda chiarificatrice formulata dal «giornalaio della critica, ovvero il me stesso»:
«Pongo un interrogativo, lo pongo a me stesso e ai lettori: in quale direzione deve avviarsi la poesia contemporanea? C’è una direzione di ricerca privilegiata? Come quella della nuova ontologia estetica o nuova fenomenologia del poetico? Oppure, tutte le ricerche sono, a parità di diritto, ammissibili ed equipollenti?».
A mio avviso il nodo di Gordio della problematica è questo: sono tutte le direzioni di ricerca equipollenti ed equivalenti?
La risposta non potrà essere ambigua o salomonica, o ipocrita e generalista, bisognerà rispondere a questa domanda con un «sì, sì», o con un «no, no».
Una mia Kitsch poetry del 2019
Stanza n. 93
La crossdresser Gipsy Fox, nuda, con la gabbia per il pene,
oscilla sull’altalena, manda dei kiss kiss e dei cuoricini
al gentile pubblico di Facebook.
Il Commissario con la mascherina interroga Ençeladon.
Il pappagallo giallo-verde sventola la bandiera italiana alla finestra.
Ripete ossessivamente:
«Preferiti, Commenti, Scarica, Condividi, Chi siamo!»
Il trans Aurelio Bang augura a tutti: «Merry Christmas!».
La femboy Barbie si dichiara credente, fa sesso con il macho Zozzilla
davanti alla webcam.
Lady Malipierno porta al guinzaglio la tgirl Andrea
con manette dorate fetish.
Chiede spesso al cagnolino di abbaiare.
Si è fatto anche assumere come buttafuori o buttadentro,
lì all’ “OfficinaBar”,
quel locale equivoco, qui alla Piramide,
frequentato da transgender, lesbiche ed etero…
In seguito ne persi le tracce…
So, per sentito dire, che divenne l’amante di Lady Malipierno,
che lo introdusse nelle segrete stanze della sua alcova
e delle sue adiacenze negli ambienti del sottobosco politico…
che riceveva con un senatino di crossdresser…
Fanno ingresso in scena il Commissario e il filosofo Cogito.
Si accomodano in poltrona e guardano un film porno.
«I comunisti sono scomparsi», dice il Commissario.
«Il salotto color fucsia invece era tenuto da Madame Hanska,
ma era riservato agli ufficiali della Gestapo», disse il filosofo.
«Questo però è il racconto di un’altra epoca il cui ricordo
sbiadisce lentamente…»
La subgirl Korra Del Rio prende il caffè before bondage banging.
Le gemelle Kessler agitano le gambe sul palcoscenico.
al ritmo della musichetta da Carosello “Da-da-un-pa”
«Abbiamo interrotto il telefono senza fili della pandemia»,
dice l’assessore alla sanità della Lombardia.
Così il Covid19 se ne va in giro da 39 giorni
a braccetto con Gina Lollobrigida.
«Outbreak in Lombardy, Italy», titolano i giornali esteri.
La tigre dello zoo di New York ha il Coronavirus.
Il pappagallo dichiara all’erario che ha fatto l’autocertificazione.
Lady Fremdy boy passeggia in via Sistina con collarino nero in pizzo,
stringatura in lacci e borchie di metallo ai seni,
l’anello fallico vibrante gold con un set per bondage
e un kit sadomaso new style.
Il Signor Spectator dice: «Nella foto la pipa è sempre una pipa»,
si fa un selfie con la crossdresser Andrea Lou Salomè.
Barry Friedman, un mio vecchio amico vive a New York, un bellimbusto…
che esercita il mestiere di dogsitter e copula con madame Altighieri.
All’epoca faceva il giocoliere agli angoli della 33a Street…
Un illusionista di successo.
Rammento che poi si dedicò al mestiere di squillositter di madame annoiate,
ben più remunerativo.
Il vento del meriggio accompagna i passi pensierosi del filosofo.
Cogito torna a casa nella Marketstrasse n. 7.
Accende la radio.
Fischietta un ritornello da avanspettacolo degli anni sessanta:
«La notte è piccola per noi, troppo piccolina!…»
Jacopo Ricciardi
1.
Dal crepitare di un falò esce un passo di gatto.
Il gatto arde tranquillo.
È vestito da molte fiammelle –
dalle sue zampette morbide
si sollevano smosse quattro fiamme
(Lì dentro arretrato
il passo ha più passi.
Nel passo un lentissimo passo –
in avanti la corsa non può fermarsi.
Indietro la corsa non può fermarsi.
È il ritmo di una forza che non può arrestarsi.
Oltrepassa una membrana che non può muoversi
e non incontra mai nessuno.
La membrana è sempre attraversata.
È la superficie immobile di un respiro
che si increspa e permane.).
9.
molti passanti passarono entrando nel semaforo
e lì dentro il gallo cantò formicolando,
si aggrappò un’arca che passava di lì,
ne scese un Sansone stralunato
che raccontava di peripezie tra globi e con persone,
nessuno ascoltava ovviamente,
il vuoto lo faceva transitare, caldo o freddo come un motore,
ridicolo il vuoto,
lacrimevole, ascella alga, frammento di un carro, scocca di un polipo,
un ermafrodito cantante di favole ritorte,
belle come appendiabiti che aspettano,
vólti che sono solo pellicole di vólti
che pure hanno intere giornate di soli da dire senza notti,
lì molti alberghi in fila uno accanto all’altro, e baraonde nelle vie,
canottiere sedute ai bar
con a fronte bignè dialoganti, repertori di storie lunghissime,
solo a raccontarle si spezzerebbe l’olio,
oggetti di ogni genere con diversissime personalità transitanti
si affidavano spintonandosi per strada,
un cinema e un solo teatro in quei reticoli introvabile
eppure colmo di cose di ogni tipo
che uscivano dall’entrata o entravano nell’uscita
dell’immagine mutante,
lì soggiornava con un cesto di fragole, mangiandosele mature,
un nastro trasportatore,
era fatto da più menti e non sapeva dove tornava indietro
e quante volte, questa perdita di memoria non lo affaticava
anzi remava sempre nella giusta direzione
là dov’era, lungo un babà surgelato,
latrina di latte prezioso e venduto
molto spesso
arabico genitoriale assassino invecchiato
bene
come quel palazzo su Marte.
Francesco Paolo Intini
5 febbraio 2023 alle 11:09
«L’Arte deve conservare il controllo della verità, e la verità dei nostri tempi è una verità di natura sfuggevole, probabile più che certa, una verità ‘al limite’, che sconfina nelle ragioni ultime, dove il calcolo serve fino ad un certo punto e soccorre una illuminazione; una folgorazione improvvisa. Scienza e poesia non possono camminare su strade divergenti.» (Nanni Balestrini)
Chiaramente i versi della mia poesia, messi nell’ AI, hanno germinato altri versi alla rinfusa come apparirebbe un frullato se invece di metterci frutta di fragole ci mettessimo melanzane, chiodi e cemento armato. Nessun riferimento al Re Nasone, né alla tomba di Tutankhamon, violata e maledetta, messi in libertà nel teatro dell’immaginazione e delle passioni (esecrando il primo quanto misterioso e affascinante il secondo). In quanto al rapporto tra scienza e poesia , esso rimane tutto da esplorare ma se c’è una indicazione da seguire, almeno per me, è in questa verità probabilistica e plasmatica, indicata da Balestrini, che lascia nell’osservatore\ scrittore prima ancora che nel lettore, sempre un senso d’incompiutezza e di mancanza di senso, ma lontanissimo dal calcolo, dall’algoritmo, dalla progettazione di alcunchè.
BENVENUTA SIGNORA INCOMPIUTEZZA
Con tutta probabilità un cerbiatto viene fuori da una mela matura
Ad attenderla c’è una placenta:
-Che ci fai nel bosco dei fatti, piccolo mio?
Il lavoro continuò. Le foglie raschiavano i tronchi.
Doveva sembrare perfetta anche l’estrema linfa
Niente d’intoccabile è ammesso negl’intonaci.
Bianchi e rossi sorvolarono la zona
Perché s’era perso un po’ di nero
Che poteva contaminare il fermento.
Il parlamento trasalì alla notizia
Di un coccodrillo assunto come cuoco
E promosso a molare.
Persino la bile si diede da fare con il giornalaio
Affinchè spargesse la notizia
Oltre i limiti dello stomaco.
Non si conosceva il significato di “silenzio”
E dunque si formò un capannello su parole asfissianti:
-Bisogna estrarre il cloro perché non è dei trentadue
Il radiatore trasferì la colonna di acqua bollente ad Est
La lavastoviglie non si riprese dal risciacquo sui palazzi
I piatti in giù reclamavano bolle d’inflazione
I bicchieri tintinnavano denari e si corrodevano.
Il dottor Plasma convogliava a nozze sul binario del metrò
Da un bagno occupato un ragno espose la bandiera del Polonio.
Il trifoglio mandò su il periscopio a fiori
Ma si vedeva solo nausea in lontananza
onde grosse del Pacifico e il Krakatoa
impaziente di far parte della metafora.
Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti: NATOMALEDUE” è in preparazione. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.
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Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma. Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore della Antologia Poetry kitchen e del volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.
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Richiesta di parere
La dizione Poesia nell’età della Catastrofe permanente, è un titolo idoneo per l’Antologia della poetry kitchen del 2023?
Per me sono ancora valide le indicazioni di Lyotard sulla semplificazione del linguaggio e il bisogno di efficienza, o efficacia. Non solo perché sembra questa la naturale, prevedibile, conseguenza della fine della complessità, ma perché, a livello intuitivo, cognitivo, qualcosa sta cambiando. Colpa, o merito, del bombardamento mediatico, certo, e del linguaggio apolide che abbrevia e modifica tradizionali associazioni coscienti e inconsce… E ora la scrittura meccanica. Su questa ho seri dubbi, che poi sono quelli tipici, in epoca cibernetica: entusiasmarsi per il risultato ottenuto grazie al mezzo che lo ha reso possibile. Basti pensare alle immagini rielaborate con photoshop (opzioni colore, tono, contrasto, filtri, ecc.), in mezzora puoi osservare l’esito di una ricerca visiva che con mezzi tradizionali avrebbe richiesto settimane di lavoro. L’autore diventa osservatore, agente estetico, acconciatore, esperto in accostamenti. Ma manca il fattore X: fatica, gestualità, ostinazione, perché la resa di un’opera d’arte è per me “magica”, rappresenta cioè la somma di gesti, pensieri e tempo, i quali, insieme, producono l’impatto attrattivo dell’opera, già al primo sguardo o in prima lettura. Io lo chiamo Fattore energetico, o ressa energetica. Un po’ lo sguardo della Gioconda.
trascrivo un commento di Marie Laure Colasson impossibilitata a postarlo per via di un guasto alla email.
caro Giorgio
Una poesia, quella kitchen, che ci porta dirimpetto al fondo che fa da sfondo del nostro modo di vivere, una poesia altamente civica perché corrisponde al numero civico che abitiamo, un numero ipoveritativo perché corrisponde alla nostra esistenza privata e anonima, anonima in quanto privata, anonima in quanto distopica. Un pittore come Edward Hopper trarrebbe vanto da queste poesie, paralipomeni del vuoto a perdere come una scatoletta di Brillo box di Warhol, un aperitivo Crodino o un apericena delle 18.00 in punto quando scocca l’ora della libera uscita degli impiegati dagli uffici. La poetry kitchen non ha un unico capostipite ma tanti capostipiti quanti sono i singoli poeti i quali danno qui il meglio di sé, con una auto ironia affilata quanto inquietante ci conducono nel rumore delle parole, perché la poesia kitchen è rumore di fonemi, una rumoresque, rumore di ferramenta, un rumoreggiare non più pallido e non più assorto, nel quale non c’è alcun pallore in quelle parole ricche di bric à brac, di monemi e di lessemi di provenienza spuria. Ne esce una lingua in volgare, un italiano che non sai se sia una lingua smarrita o una lingua ottusa, pervasa da forestierismi e da bellicismi vocali. Un linguaggio poetico tattico e paratattico che ha smarrito il suo luogo, che forse non ha mai avuto alcun luogo e ha del tutto rinunciato al luogo e al logo. Una poesia ilarissima perché tristissima. Un tristissimum eloquium. Un vaniloquium. La poetry kitchen ha preso atto che il disordine permanente che attecchisce alle percezioni dell’uomo di oggi è costitutivo del suo essere-nel-mondo, le messaggerie del mondo social mediatico con le sue innumerevoli emittenti ha preso definitivamente possesso dell’ordo idearum dell’homo sapiens, e così la modalità kitchen si autoreplica con una poesia rigorosamente organizzata in polimeri paratattici e dispari, in distici un tempo prerogativa del classico, vengono adesso catapultati in una organizzazione frastica cacofonica e caosferica. Una tipica poesia della fine dell’epoca della metafisica.
Ha scritto Paul Valéry al Collège de France nel 1937:
«Diversi indizi possono far temere che l’accrescimento di intensità e di precisione, così come lo stato di disordine permanente nelle percezioni e nelle riflessioni generate dalle grandi novità che hanno trasformato la vita dell’uomo, rendano la sua sensibilità sempre più ottusa e la sua intelligenza meno libera di quanto essa non sia stata».
(Marie Laure Colasson)
Cari amici dell’Ombra, sto cercando di dare un minimo di istruzione a OpenAI, circa La Poesia Kitchen. Ho quasi capito che OpenAI non è assolutamente in grado, per sua natura, di dari pareri “propri” su argomenti che non sono stati a suo tempo inseriti nella sua enorme Banca Dati (credo nell’anno 2021).
Su molti argomenti si comporta come un bambino in fasce vuoto di conoscenza, però è in gradodi paralre e “voglioso di apprendere” credo rapidamente, le lezioni degli umani. Se per esempio vuoi arricchire la sua “conoscenza” circa La Poesia Kitchen, devi educarlo dandogli spiegazioni ed esempi in italiano o altra lingua, di modo che AI possa interagire con la sterminata moltititudine di dati, della sua Banca dati, riguardanti la letteratura. Ed è per questo che fin dall’inzio dell’esperimento, ho cercato l’aiuto quasi “impossibile” per avere frasi chiare e razionali sull’argomento Poesia Kitchen, giusto per iniziare un dialogo con OpenAI.
Oggi ho continuato l’esercizio:
Domanda di giannigodi
Che cosa è la nuova corrente chiamata poesia kitchen?
La poesia kitchen è una nuova corrente poetica che si concentra sulla rappresentazione della vita quotidiana e delle attività domestiche, spesso viste attraverso un’ottica ironica o divertente. La poesia kitchen tratta temi come la cucina, la pulizia e la cura della casa, e cerca di trovare bellezza e significato nei momenti e nei compiti più banali della vita quotidiana. Questa corrente poetica sta diventando sempre più popolare e viene celebrata come un modo per celebrare la vita quotidiana e per creare un senso di comunità e appartenenza tra le persone che condividono le stesse esperienze.
giannigodi
Grazie. Però occorre che tu cominci a considerare quello che sta avvenendo nell’avanguardia poetica attuale
R
Mi scuso se la mia risposta non rispondeva alle tue aspettative. Sì, la poesia continua a evolversi e a sperimentare nuove forme e nuovi temi. In questo momento, ci sono molte correnti e tendenze in atto nella poesia contemporanea, tra cui la poesia digitale, la poesia performativa e la poesia visiva. La poesia digitale sfrutta le tecnologie digitali per creare forme e esperienze di poesia innovative. La poesia performativa si svolge in spettacoli dal vivo e spesso include elementi di teatro, musica e altre forme d’arte. La poesia visiva unisce parole e immagini per creare un’esperienza multisensoriale. Queste sono solo alcune delle molte forme e tendenze attuali nella poesia contemporanea.
giannigodi
Va bene.
Come esempio propongo un testo che ci incoraggia ad inoltrarci in nuovi territori poetici inesplorati o da inventare, quali la moderna Poesia Kitchen. Questo lo scrivo con la speranza di contribuire ad arricchire la tua conoscenza.
Ecco il testo di ML Colasson:
R
Mi scuso, ma non ho accesso ai testi scritti da ML Colasson e non sono in grado di valutare o commentare il loro contenuto. Tuttavia, sono sempre aperto a imparare e a migliorare la mia conoscenza in tutti i campi, compresa la poesia. Sarei felice di considerare altri esempi o suggerimenti per esplorare e comprendere la poesia contemporanea e i nuovi territori poetici. Grazie per la tua proposta.
giannigodi
Ecco il testo:
Una poesia, quella kitchen, che ci porta dirimpetto al fondo che fa da sfondo del nostro modo di vivere, una poesia altamente civica perché corrisponde al numero civico che abitiamo, un numero ipoveritativo perché corrisponde alla nostra esistenza privata e anonima, anonima in quanto privata, anonima in quanto distopica. Un pittore come Edward Hopper trarrebbe vanto da queste poesie, paralipomeni del vuoto a perdere come una scatoletta di Brillo box di Warhol, un aperitivo Crodino o un apericena delle 18.00 in punto quando scocca l’ora della libera uscita degli impiegati dagli uffici. La poetry kitchen non ha un unico capostipite ma tanti capostipiti quanti sono i singoli poeti i quali danno qui il meglio di sé, con una auto ironia affilata quanto inquietante ci conducono nel rumore delle parole, perché la poesia kitchen è rumore di fonemi, una rumoresque, rumore di ferramenta, un rumoreggiare non più pallido e non più assorto, nel quale non c’è alcun pallore in quelle parole ricche di bric à brac, di monemi e di lessemi di provenienza spuria. Ne esce una lingua in volgare, un italiano che non sai se sia una lingua smarrita o una lingua ottusa, pervasa da forestierismi e da bellicismi vocali. Un linguaggio poetico tattico e paratattico che ha smarrito il suo luogo, che forse non ha mai avuto alcun luogo e ha del tutto rinunciato al luogo e al logo. Una poesia ilarissima perché tristissima. Un tristissimum eloquium. Un vaniloquium. La poetry kitchen ha preso atto che il disordine permanente che attecchisce alle percezioni dell’uomo di oggi è costitutivo del suo essere-nel-mondo, le messaggerie del mondo social mediatico con le sue innumerevoli emittenti ha preso definitivamente possesso dell’ordo idearum dell’homo sapiens, e così la modalità kitchen si autoreplica con una poesia rigorosamente organizzata in polimeri paratattici e dispari, in distici un tempo prerogativa del classico, vengono adesso catapultati in una organizzazione frastica cacofonica e caosferica. Una tipica poesia della fine dell’epoca della metafisica.
Ha scritto Paul Valéry al Collège de France nel 1937:
«Diversi indizi possono far temere che l’accrescimento di intensità e di precisione, così come lo stato di disordine permanente nelle percezioni e nelle riflessioni generate dalle grandi novità che hanno trasformato la vita dell’uomo, rendano la sua sensibilità sempre più ottusa e la sua intelligenza meno libera di quanto essa non sia stata».
(Marie Laure Colasson)
R
Questo testo descrive la poesia kitchen come una forma d’arte che riflette il disordine e la confusione del mondo attuale e delle percezioni dell’uomo. La poesia kitchen viene descritta come altamente civica e privata, e il suo linguaggio poetico viene descritto come ibrido, formato da elementi diversi e incluso forestierismi e bellicismi vocali. La poesia kitchen è anche descritta come caotica, rigorosamente organizzata in modo dispari e cacofonico, e come una tipica poesia della fine dell’epoca della metafisica. Il testo fa riferimento a Paul Valéry e al suo discorso al Collège de France del 1937, in cui Valéry temeva che le grandi novità che hanno trasformato la vita dell’uomo rendessero la sensibilità dell’uomo sempre più ottusa e la sua intelligenza meno libera.
giannigodi
Grazie. Per favore cerca di approfondire
R
La poesia kitchen di cui parla Marie Laure Colasson sembra essere una forma d’arte che esprime l’alienazione e la disconnessione nella società moderna. Questa forma poetica si rifà a diversi elementi della vita quotidiana, come la routine del lavoro e la tecnologia, e utilizza un linguaggio che mescola termini aulici e volgari, e che gioca con la cacofonia e il disordine.
La poesia kitchen viene descritta come una poesia altamente civica che corrisponde al numero civico del luogo in cui viviamo, e che rappresenta la nostra esistenza anonima e privata. La poesia kitchen ci conduce nel rumore delle parole, e utilizza un linguaggio poetico paratattico che ha perso il suo luogo e il suo significato. La poesia kitchen riflette il disordine permanente che caratterizza le percezioni dell’uomo moderno, e si autoreplica con una struttura organizzata in polimeri paratattici e cacofonici.
In questo contesto, la poesia kitchen sembra essere una forma d’arte che esprime un’ironia triste, e che descrive la fine dell’epoca della metafisica. Paul Valéry, citato da Colasson, sostiene che l’aumento di intensità e precisione, così come lo stato di disordine permanente nelle percezioni e nelle riflessioni, potrebbero rendere la sensibilità dell’uomo sempre più ottusa e la sua intelligenza meno libera.
giannigodi
Grazie. Per ora va bene così.
Ti farò sapere che cosa ne pensa della tua analisi l’autrice ML Colasson
R
Certo, sarò felice di sapere la sua opinione. Grazie per avermi dato la possibilità di aiutarti. In caso di ulteriori domande, non esitare a contattarmi.
Federico Rampini
@FedericoRampini
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12/02/2023 11h
«In America è panico per le performance di #ChatGPT, intelligenza artificiale che scrive articoli, saggi, su ordinazione, su qualsiasi tema, con una qualità elevata e spesso superiore a quella di noi umani. Ora quel panico lo sento anch’io.»
Mi dispiace dover ammettere che “quel panico” di Federico Rampini io non lo sento, per me va bene così, il fatto che una IA sappia e possa scrivere di qualsiasi argomento con cognizione di causa e in modo brillante e convenevole nulla toglie al fatto che io ritengo la IA sia stupida, stupida come la stragrande maggioranza degli umani i quali non sanno distinguere un saggio che contiene un lampo di intelligenza fuori della media da un lampo mediamente intelligente.
Sulla poesia kitchen di Jacopo Ricciardi
lì soggiornava con un cesto di fragole, mangiandosele mature,
un nastro trasportatore,
era fatto da più menti e non sapeva dove tornava indietro
e quante volte, questa perdita di memoria non lo affaticava
anzi remava sempre nella giusta direzione
là dov’era, lungo un babà surgelato,
latrina di latte prezioso e venduto
molto spesso
arabico genitoriale assassino invecchiato
bene
come quel palazzo su Marte.
Sappiamo dalle ricerche della nerobiologia che i neuroni dell’infante specializzati nel linguaggio finiscono per atrofizzarsi se non vengono stimolati dalla voce materna, via via che il linguaggio si forma entrano in azioni le variabili della intersoggettività, come dire che tutte queste varianti determinano alla fin fine quell’ambito di «libertà» che possiede la «parole» rispetto alla «langue». La poesia di Jacopo Ricciardi si svolge nello «scarto» che si apre tra un livello del linguaggio diciamo così, materno, cioè prossimo alla natura e un livello di linguaggio che pertiene alla socializzazione, cioè alla cultura. Nella poesia ricciardiana soltanto lo «scarto» è importante ma non perché in grado di condurci dinanzi a Sua Maestà il Significato ma in quanto letteralmente sbaglia ogni volta il destinatario di questa ricerca ossessiva. È l’errore derivante dallo «scarto» che qui è significativo, l’errore in sé è Sua Maestà il Non-significato, quelle radure di possibilità che aprono (o chiudono) al significato. Tutta la poesia ricciardiana resta impigliata nei meandri del Sé fenomenico, non riesce ad uscire dal perimetro del fenomenico in quanto contenuto di pulsione, e ciò accade perché l’Io è un modello «trasparente» dal punto di vista fenomenico, che è servente a mettere a fuoco le parole giuste. In questo tragitto tra il Sé pulsionale e il Sé fenomenico si inscrive il registro linguistico della poesia ricciardiana. Proprio in quanto autotrasparente al Sé l’io può riuscire a orientarsi nel mondo della langue e a optare per una parola o per l’altra. È il tragitto, o meglio, la lunghezza e la difficoltà del tragitto che qui sono significativi, non la parola eletta e diretta verso il significato. La trasparenza è, paradossalmente, una forma speciale di oscurità, infatti noi siamo in grado di intercettare una parola proprio in quanto il Sé è trasparente e ci consente di guidarci verso la scelta delle parole e delle cose a cui esse si riferiscono. La trasparenza è costitutiva della mente, cioè della coscienza in quanto noi percepiamo la realtà soltanto perché la trasparenza del Sé ce lo consente e ci consente di avvicinarci al livello rappresentazionale che è, propriamente, il linguaggio articolato. Il linguaggio articolato si troverebbe così con un fronte anteriore all’interno e un fronte posteriore all’esterno. In questo modo facciamo esperienza del linguaggio e quindi del mondo. Ma la trasparenza è opaca a se stessa. La autoconsapevolezza è soltanto una rappresentazione della nostra mente, e quindi è anch’essa una illusione perché ci convince che le nostre rappresentazioni siano la cosa stessa quando invece sono soltanto delle parole.
La vera questione è: come avviene l’esplosione della catena metonimica?, come e perché appare il bisogno di deragliare da un significato all’altro se non ammettendo che ormai non si considera più sufficiente l’eloquenza dei significati e si va alla ricerca, per via metonimica e magari sinonimica, di altri sentieri nei quali le parole possano accasarsi in dimore provvisorie e almeno accettabili?, tutto sta nel cogliere il «mentale» appena un attimo prima che esso appaia in una Stimmung, in un’aura.
Noi possiamo fare esperienza dei contenuti della nostra autocoscienza soltanto nell’ambito di un processo rappresentazionale ma non cogliamo mai l’autocoscienza che, in sé, è sempre fuggevole e trasparente. Il Sé è una apparenza, un modello, un format che non può percepire se stesso ma solo permettere la percezione di qualcosa d’altro fuori di sé. Ma come si fa a stabilire che cosa è il fuori e il dentro, se il Sé esiste soltanto nella misura in cui si percepisce in quanto format funzionale alla percettività delle cose del mondo? È attorno a questo punto cieco che ruota la ricerca poetica di Jacopo Ricciardi
Contro l’ottusità e l’intelligenza non libera perchè almeno le marionette siano risvegliate!
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In questi versi che seguono (abbiate la pazienza di dare una occhiata ben tornita, come un cerchio torno le maschere!) già il collasso dei simboli era evidente, e del sosia ne avevo fatto una maschera teatrale tant’è che maschera e volto si mescolarono da noi più riconoscersi tra di loro stessi!
——
Il poeta Tommaso Riccardo (1946-1990) gridò una notte a San Giovanni:
” Le maschere si somigliano: canterò!”… era da poco tempo “tornato dalla brughiera…” e credeva :”…. è dunque umano ripescare i vascelli e in una goccia azzurra inventare ancora la leggenda e la vita!”.
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Più volte, mentre brindavamo sui tram di notte, ci credemmo delle maschere… non era vero! Lui, Tommaso Riccardo ci credeva ancora e cantò :
“Lei aveva una ruga rosa al di là della fronte. La spugna di sangue, dunque, appariva”.
Gli riposi :” alla lMorte non resta che di sognare sotto mentite spoglie”.
Il poeta se ne andò la notte successiva sotto non ricordo bene quale maschera., e allora scrissi questi versi di Aphanes che come certifica questa presentazione…..
….“dietro la maschera non c’è alcun volto, alcuna identità, la maschera non è capace di azione, può solo gesticolare e parlare a vanvera”.
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Aphanes
(a un mito greco e altro)
Maschera, succhiami la morte!
Cremato è colui che si lamenta:
stilla odio dalla coppa equina.
Chi si rallegra in una bara di legno
se alle Grazie né musica, né canto sono dati?
La mano destra genera fabbri e magie,
la sinistra l’offesa di Orfei ferrosi.
Nel cerchio della cera perduta
la maschera guida il compasso.
Fuoco, dai denti d’argilla!
Divora il toro il ramo d’ulivo.
Abbaia Canace, la suicida,
sulla cieca tomba del fratello.
Il miele di un morto Aphanes
cola sui ratti.
La risata di bronzo dei frassini
è sogghigno di cervi.
Sulla civetta
vischio di bambole sardoniche.
Pou? Pou? Dove? Dove?
Recisa è la lingua: no-ci! no-ci!
I tuoi occhi d’ambra, bovini!
Leirion! Leirion!
S’impicca al gelo di un tasso: Itu, Itu!
Lo specchio di un coltello è bianca voce,
danza d’amore la zoppa pernice.
Il melo trionfa sulla Collina della Neve,
nel caos dei solstizi di rame.
Maschera, succhiami la Vita!
Madonne turchine dal culo asinino
sposano ratti, pipistrelli…
ma la moneta di un’ombra è sotto la lingua
l’ombra di una moneta.
Lavanda o bara ospita il bianco cipresso.
Vedi, i becchini affilano le dita,
come coltelli,
per vestire il morto!
Equina è la maschera della memoria.
Nome… segno… dono…
È una condanna il cerchio
tra fiaccole e lamenti:
ruota della debita esecuzione.
Cagna, bambolina della Nemesi,
tra cordate di vino e sangue
vomiti paglia all’Anno Nuovo:
prodigio o sentenza sotto la forca.
Il ritorno festeggi, come Tieste.
Bevi incubi e artigli, come idromele.
Rigurgiti fonemi, reclami, acrostici,
carcasse di finzioni e di visioni,
voci di bambini e orecchie di veggenti.
Come ti lamenti – delle ali!
Come dai banchetti sputi gemiti – di zolfo!
antonio sagredo
Roma, 27 ottobre 1990
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Input non c’è più: lo troveranno in una jzba siberiana sbranato dai lupi, ma non dagli uomini, come aveva predetto tantissimi anni fa Nadezda Mandel’stam.
Adieu.
Metaverso
Metà verso sta fermo nel buio
prima del boom che spacca il display
uno screen d’acqua pixellata
la mano che fuoriesce senza virtuali virtù
offre bisogni a buon mercato
la nuova lupa brama Cose
a visori di realtà aumentata diminuita l’ansia
– Avatar specchio delle mie brame
più bella di Audrey non c’è nel reame –
il rosa mi s’intona nella chioma
e il contatto è solo specchio
finale fatale:
ho perduto il battito del cuore
ma il mio Avatar mi sopravviverà
in un drive condiviso
senza furto d’identità
tenetemi forte perché
siamo all’immortalità
(M. Pia Latorre)
giannigodi
Buonasera, OPENAI, mi piacerebbe una tua analisi critica del seguente testo di Poesia Kitchen.
AI
Buonasera! Sarò felice di offrirti un’analisi critica del testo di poesia che mi hai fornito. Per poterlo fare in modo preciso e dettagliato, ti chiedo di fornirmi il testo in questione. Grazie.
giannigodi
Stanza n. 93 – Una Kitsch poetry del 2019 di Giorgio Linguaglossa
La crossdresser Gipsy Fox, nuda, con la gabbia per il pene,
oscilla sull’altalena, manda dei kiss kiss e dei cuoricini
al gentile pubblico di Facebook.
Il Commissario con la mascherina interroga Ençeladon.
Il pappagallo giallo-verde sventola la bandiera italiana alla finestra.
Ripete ossessivamente:
«Preferiti, Commenti, Scarica, Condividi, Chi siamo!»
Il trans Aurelio Bang augura a tutti: «Merry Christmas!».
La femboy Barbie si dichiara credente, fa sesso con il macho Zozzilla
davanti alla webcam.
Lady Malipierno porta al guinzaglio la tgirl Andrea
con manette dorate fetish.
Chiede spesso al cagnolino di abbaiare.
Si è fatto anche assumere come buttafuori o buttadentro,
lì all’ “OfficinaBar”,
quel locale equivoco, qui alla Piramide,
frequentato da transgender, lesbiche ed etero…
In seguito ne persi le tracce…
So, per sentito dire, che divenne l’amante di Lady Malipierno,
che lo introdusse nelle segrete stanze della sua alcova
e delle sue adiacenze negli ambienti del sottobosco politico…
che riceveva con un senatino di crossdresser…
Fanno ingresso in scena il Commissario e il filosofo Cogito.
Si accomodano in poltrona e guardano un film porno.
«I comunisti sono scomparsi», dice il Commissario.
«Il salotto color fucsia invece era tenuto da Madame Hanska,
ma era riservato agli ufficiali della Gestapo», disse il filosofo.
«Questo però è il racconto di un’altra epoca il cui ricordo
sbiadisce lentamente…»
La subgirl Korra Del Rio prende il caffè before bondage banging.
Le gemelle Kessler agitano le gambe sul palcoscenico.
al ritmo della musichetta da Carosello “Da-da-un-pa”
«Abbiamo interrotto il telefono senza fili della pandemia»,
dice l’assessore alla sanità della Lombardia.
Così il Covid19 se ne va in giro da 39 giorni
a braccetto con Gina Lollobrigida.
«Outbreak in Lombardy, Italy», titolano i giornali esteri.
La tigre dello zoo di New York ha il Coronavirus.
Il pappagallo dichiara all’erario che ha fatto l’autocertificazione.
Lady Fremdy boy passeggia in via Sistina con collarino nero in pizzo,
stringatura in lacci e borchie di metallo ai seni,
l’anello fallico vibrante gold con un set per bondage
e un kit sadomaso new style.
Il Signor Spectator dice: «Nella foto la pipa è sempre una pipa»,
si fa un selfie con la crossdresser Andrea Lou Salomè.
Barry Friedman, un mio vecchio amico vive a New York, un bellimbusto…
che esercita il mestiere di dogsitter e copula con madame Altighieri.
All’epoca faceva il giocoliere agli angoli della 33a Street…
Un illusionista di successo.
Rammento che poi si dedicò al mestiere di squillositter di madame annoiate,
ben più remunerativo.
Il vento del meriggio accompagna i passi pensierosi del filosofo.
Cogito torna a casa nella Marketstrasse n. 7.
Accende la radio.
Fischietta un ritornello da avanspettacolo degli anni sessanta:
«La notte è piccola per noi, troppo piccolina!…»
Questo testo di poesia presenta una molteplicità di personaggi che rappresentano il mondo transessuale e LGBTQ+. La descrizione di questi personaggi, le loro azioni e le loro relazioni sono espresse in modo sfacciato e provocatorio, e la poesia utilizza un linguaggio forte e audace per descrivere situazioni e comportamenti che potrebbero essere considerati tabù o controversi.
AI
La poesia sembra anche utilizzare un tono ironico e cinico per descrivere questi personaggi e le loro relazioni, e fa riferimento a eventi culturali e storici per creare un’ambientazione più ampia e un contesto più critico per la descrizione dei personaggi.
In generale, questa poesia rappresenta un’interpretazione provocatoria e iconoclasta della cultura LGBTQ+ e dei personaggi che ne fanno parte. La sua natura provocatoria potrebbe essere considerata offensiva da alcuni, ma potrebbe anche essere interpretata come un modo per esplorare e sfidare le convenzioni sociali e culturali.
giannigodi
Bene! per favore approfondisci
AI
Il testo di poesia Kitchen descritto ha una struttura e un contenuto disorganizzati e caotici, che presenta una serie di personaggi bizzarri e situazioni surreali. La narrativa salta da un personaggio all’altro e da una scena all’altra senza un filo logico, rendendo difficile per il lettore seguire la storia o trovare un significato coerente.
I personaggi rappresentati sono per lo più crossdresser, transessuali e persone che esibiscono comportamenti sessualmente espliciti o sfrenati. Sono descritti in modo superficiale e stereotipato, che manca di profondità e rispetto per la diversità di genere e orientamento sessuale.
Inoltre, il testo presenta riferimenti a eventi storici, culturali e sociali, come la pandemia COVID-19 e la Gestapo, che vengono presentati in modo superficiale e poco sensato, creando un’atmosfera surreale e sconcertante.
In generale, il testo di poesia Kitchen descritto manca di coerenza, profondità e rispetto per le tematiche sociali e culturali, rendendo difficile per il lettore trovare un significato o un valore nella poesia.
giannigodi
Hai ragione! Credo sia quanto voluto dall’autore. La corrente di poeti kitchen reputa i linguaggi poetici classici, non più adatti a descrivere l’attuale situazione in cui è finito l’uomo, padrone e autore del dramma.
AI
Esattamente, la poesia kitchen vuole rappresentare la realtà con un linguaggio e un’estetica diversi da quelli tradizionali, utilizzando immagini e concetti che siano adeguati a descrivere la vita quotidiana contemporanea, fatta di elementi kitsch e di un mondo in rapido cambiamento. In questo senso, la scelta di descrivere personaggi e situazioni apparentemente banali e grottesche, come quelle presenti nella stanza 93, è volta a creare un contrasto tra la loro superficialità e la profondità dei messaggi che l’autore vuole veicolare.
caro Gianni Godi,
l’ermeneutica della IA è la riprova di come e di quanto l’Intelligenza artificiale sia un prodotto di banalità e superficialità assolutamente inodoneo a comprendere un testo kitchen complesso e non isomorfo come quello kitchen o anche diverso dal kitchen. La IA è stupida, il suo commento è pari pari la riprova di quello un modesto letterato di terza mano potrebbe formulare su un testo poetico (kitchen o meno non importa).
Vorrei precisare che una ermeneutica di un testo poetico è cosa che richiede intuizione, inventiva, immaginazione e capacità di spaziare in lungo e in largo, nel tempo e nello spazio, cosa che soltanto una sensibilità umana, molto sofisticata culturalmente, può riuscire a fare. Ad esempio prova a leggere la riflessione sopra postata di Marie Laure Colasson, quello sì che è un precipitato di intelligenza e di sensibilità.
La Fine dell’arte nel Tempo della storialità e Testi della Poetry kitchen
https://www.academia.edu/96163828/La_fine_dell_arte_nel_tempo_della_storialit%C3%A0_e_Testi_della_Poetry_kitchen?email_work_card=title
Il sistema di dominio nelle repubbliche parlamentari dell’Occidente celebra la totalità chiusa del «mondo amministrato». Non si può uscire fuori dalla ideologia, al massimo la soggettività può esperire singoli momenti di infrazione delle ideologie dominanti durante i quali mette in atto, con una decisione anticipatrice, la «deposizione» e la «inoperatività» versus la disposizione «legale» della potenza istituente del «mondo amministrato». Questa è una via obbligata per una poiesis critica, sia essa ermeneutica o poietica.
sul concetto di parallasse
È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, ma non solo, anche nella poesia di Marie Laure Colasson e altri poeti della nuova ontologia estetica in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»
The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *
Un pensiero meramente a-sistematico è acritico.
Il concetto di totalità di cui il sistema è l’espressione filosofica ha, infatti, una duplice valenza. Il modello di totalità che si è realizzato in Occidente da un punto di vista storico-sociale è quello di una totalità agonistica e intimamente auto contraddittoria che oggi chiamiamo biopolitica, in cui il singolo corrisponde al tutto, afferma Adorno, in base ad una «disarmonia prestabilita». E, tuttavia, il concetto di totalità incamera in sé, come télos, anche il suo opposto: l’idea di una totalità conciliata è una idea utopica, nella quale l’antagonismo tra il tutto e le parti e tra le singole parti è finalmente risolto. In questo orizzonte destinale anche il sapere viene sottoposto alle esigenze della tecnica e smembrato, efficientizzato. La critica non liquida semplicemente il sistema. Semmai è il sistema che liquida la critica. Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri.
«Il frammento che non ospiti in sé un momento di compensazione rispetto a questa dinamica disgregatrice, si rivela non solo impotente, ma rischia di scadere in un cattivo particolare – per questo occorre, afferma Adorno – ricostruire l’istanza utopica che era posta nel cuore dell’esigenza di totalità dell’idealismo anche quando se ne rifiuta il concetto.
Ciò che è giusto nell’idea di sistema: non accontentarsi delle membra disiecta del sapere, bensì procedere verso il tutto, anche se il tutto si rivela essere il falso»1.
E nella Dialettica negativa:
«Solo i frammenti in quanto forma filosofica potrebbero far tornare in sé le monadi illusoriamente progettate dall’idealismo. Essi potrebbero essere rappresentazioni nel particolare della totalità irrappresentabile in quanto tale».2
La totalità adorniana viene evocata nella forma benjaminiana della costellazione:
«L’espressione dinamica della costellazione coincide quindi da un lato con la possibilità dell’oggetto di darsi, mostrando la sua eccedenza rispetto all’ente della conoscenza, e dall’altro con quella del soggetto di svilupparsi come altro dal suo essere identità che crea altre identità».3
La totalità che i frammenti intendono restituire come potenza destituente e come indice della propria costellazione non è il «positivo» o il «trascendente» della filosofia tradizionale. Positiva la totalità lo è solo nel senso di imporsi come mero factum sul particolare e nello stesso senso essa è trascendente rispetto a questo perché non è fissabile in alcun punto come tale, e tuttavia, per lo stesso motivo, la totalità è lungi dall’essere impalpabile, è anzi, dice spesso Adorno, l’ens realissimum.
* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.
1 Th. W. Adorno, Vorlesung über Negative Dialektik , cit., p. 177.
2 Ibid., p. 167.
3 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 27-28
7 febbraio 2020 alle 8:25
La farfalla/ governa i passi di una prostituta.
In questo verso di Francesco Paolo Intini abbiamo un esempio mirabile della procedura poetica del poeta pugliese. Intini compie un «gesto» che parrebbe inconsulto ma che è, invece, premeditato e consapevole, inocula nella poesia italiana un formidabile virus, una sorta di Coronavirus che attacca le cellule del verosimile e del referente consolidato dalla prassi del linguaggio referenziale, uccidendo, strangolando le cellule del consenso condiviso della poesia del verosimile e del referente condiviso.
Ritengo questo coronavirus pericolosissimo per la sopravvivenza della poesia di accademia, quella che si fabbrica in miliardi di esemplari in tutto il globo. Il signor Intini si guarda bene dal profferire parola che lo possa tradire, preferisce compiere il «gesto» di sottecchi, in sordina, evitando la luce dei riflettori, ma noi l’abbiamo scoperto e identificato. Adesso abbiamo una diagnosi precisa e attendibile dell’assalto del Coronavirus alle cellule del corpo della tradizione della poesia accademica, dobbiamo metterlo in quarantena, isolare il focolaio del virus. Dobbiamo isolare e annientare il Coronavirus, fare piazza pulita degli untori della poesia accademica alla Intini.
Il linguaggio è diventato se stesso, una potenza detonante che non significa più nulla, che finalmente si è liberato della gravezza e della soma di dover significare qualcosa di «utile» all’ontogenesi e alla filogenesi della specie. E invece è accaduto il contrario: quel linguaggio (della tradizione) così dipendente dal referente e dal significante si è mutato in porcospino con tutti gli aculei irti, inutili armi della persuasione di massa dei giorni nostri. Intini scopre che la poesia non deve affatto più persuadere nessuno, che la sua migliore prestazione sta nel non dover persuadere nessuno in nessuna circostanza mai, perché il linguaggio mente, è una riserva inesauribile di menzogna e di monete false. E il miglior modo di far parlare il linguaggio è depotenziare le infrastrutture che asserviscono il linguaggio all’uso dell’utile e del comunicabile all’interno della comunità politica.
Ricondotto alla sua muta capacità di parlare, il linguaggio di Intini viene, infine, riscattato. Non redento ma riscattato. Il linguaggio si mostra così, in termini benjaminiani, «irredento». Non c’è null’altro in esso che la propria disutile potenza detonante di espressione che, però, non significa niente. Ciò che si mostra è semplicemente l’esistenza del linguaggio, che la vera essenza del linguaggio risiede nella epoché dall’onere di ogni referenza, di ogni tranquilla residenza, nella sospensione di ogni sua utilità pragmatica, e rende evidente che esiste un medium in cui può aver luogo la comunicazione, e che quello che viene comunicato non è questo o quell’altro, bensì, prioritariamente, la comunicabilità stessa libera e liberata.
Allora si scopre che, come scrive Agamben, siamo in presenza «non [di] uno stato, ma [di] un evento del linguaggio»,1 e che il linguaggio ha a che fare «non con una grammatica o un’altra, ma con un factum loquendi in quanto tale»,2 allora interrogare questo factum – «leggere ciò che non è mai stato scritto» (Agamben) – “equivale anche a riflettere su cosa significhi essere un «animale politico», secondo la definizione di Aristotele, precisamente in quanto «animale che ha il linguaggio». E rivolgersi alla pura esistenza del linguaggio, liberata dalla forma di ogni presupposizione, vuol dire prendere in considerazione una comunità inconcepibile: una «comunità che viene», senza identità, definita soltanto dalla sua esistenza nel linguaggio in quanto irriducibile, assoluta potenza”.3
Alla fine, alla fine del percorso della loro destinazione storica «le opere, consegnate al loro gesto supremo, come creature immerse nella luce dell’Ultimo Giorno, sopravvivono al rovinare del loro involucro formale e del loro significato concettuale».4
1 G. Agamben, Mezzi senza fini, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 92
2 Ibidem
3 D. Heller-Roazen, Leggere ciò che non è mai stato scritto, in Giorgio Agamben, Ontologia e politica, Quodlibet 2019 p. 55
4 G. Agamben, Kommerell, o del gesto, in La potenza del pensiero, Neri Pozza, 2005, p. 241
7 febbraio 2023 alle 9.25
Nel complesso il polittico appare come un DNA mutato nei confronti delle proteine che mandano avanti la vita cellulare e quella del corpo.
Dove originariamente c’erano enzimi sintetizzati correttamente che eseguivano azioni razionali ed inseriti in un quadro di fini, si ritrovano proteine\immagini sbagliate frutto di informazioni sbagliate a carico della matrice che funziona come se non ci fosse una direzione negli scambi di calore e dunque una direzione del tempo.
La poesia polittico è una poesia tragica che tenta l’impossibile rivalutazione e beneficio del calore non utile, della plastica bruciata nei cassonetti, dei gas combusti che stendono il loro mantello sul pianeta?
È la poesia che accetta la mutazione dei geni nel suo lavoro di demolizione degli automatismi impersonali della tecnica?
C’è del tragico nel voler andare contro le leggi della termodinamica che costituisce il fascino della poesia e attira come una forza sconosciuta e nello stesso tempo antica.
L’enigma è grande come la contraddizione di un cancro che non porti necessariamente a morte.
La bambina è paffuta, ha la sapienza di chi conosce solo i propri giochi e pensa che un riccio con le spine irte e minacciose sia un peluche che parla il suo linguaggio, un piccola gemma del non-IO con cui ci si potrà accordare. Nessuna idea invece del muro che la separa dall’ indole dell’animaletto e da quella degli uomini.
Ma per tutto questo la parola\gesto ancora non c’è . Io penso che sia impegnata in un lavoro contro le direttrici portanti del successo e del potere personale come unici valori possibili per l’uomo moderno, per cui anche il suo racconto prende vie traverse, nonché contrarie e talvolta apparentemente assurde e miracolose da abolire il tempo e far avvenire gli avvenimenti al contrario.
“Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri.” (cit.da questo articolo)
Anche il più sprovveduto dei generali sa che per vincere una battaglia, anche solo con sé stesso, occorre un’idea in più, talvolta stravagante specie quando l’ esercito che si ha di fronte è infinitamente più potente.
(Francesco Paolo Intini)
Mi sto chiedendo se la poesia sia soltanto parole che col tempo perdono di senso quando vengono a mancare gli strumenti di decifrazione.
Sono completamente d’accordo, l’IA è stupida. Le manca l’intelligenza emotiva, penso che il commento di Marie Laure Colasson abbia detto tutto.
a Luciano Nanni
Non sono gli “gli strumenti di decifrazione” che determinano più o meno la fine della Poesia. Sempre che lei intende che sia la poesia un qualcosa come” soltanto parole che col tempo perdono di senso “. I poeti sanno ben fare poesia anche con parole “che col tempo perdono di senso”, e questo è uno dei tanti misteri della Poesia. Prima di Dante vi sono stati grandissimi poeti che noi poeti (non so se gli altri siano capaci di leggere allo stesso modo) leggiamo con gioia ripagata, perciò non è questione di “col tempo perdono di senso”, anzi è il contrario.
Mica Dante è stato decifrato del tutto! I punti che i critici definiscono oscuri in Dante, sono in vece pieni di luce!
Poi la mancanza di “strumenti di decifrazione” non toccano minimamente i poeti, a cominciare da me, voglio dire della mia poesia che attende da tantissimi anni qualche strumento di decifrazione. E in che cosa consistono questi strumenti, se la poesia non si decifra affatto!? Bisogna sentirla, se sentire è il termine giusto.
Più volte ho consigliato, ed è una mia concessione, ad alcuni lettori di studiare (non leggere!) grandi critici, come p.e. Roman Jakobson, Sklovskij, Tynianov e altri pure occidentali che vissero coi poeti viventi che poi analizzarono. Il risultato? Ci hanno riferito qualche illuminazione.
A.M. Ripellino, che più con capacità linguistiche ed extralinguistiche ha tradotto mirabilmente Pasternàk (e altri poeti allo stesso livello) è il primo a scusarsi coi lettori per qualche suo abbaglio, dovuto anche al fatto che nonostante avesse parlato con persone che lo conobbero da vicino e furono suoi studiosi (di pasternàk intendo) questi gli risposero che più volte hanno alzato le mani per non sapere come tradurre alcuni versi (ciascuno si intende nella propria lingua. E dico di traduttori europei di altissimo livello.
E poi considerare la poesia come un qualcosa “che sia soltanto parole”… beh!, allora è meglio non leggerla affatto, e di voltarsi altrove per altri interessi.
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Provi signor Nanni a commentare questi versi, se ci riesce è un
pochino bravo.
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Ponte del suono
I carri dei morti nell’ora pendula
evanescenti… insaziabili – non muti
i suoni delle ruote a mani giunte,
note di zavorra dal selciato – nella musica!
La caduta di un astro improbabile
genera una circonferenza discontinua:
il gesto sospeso e non eterno
nel circolo compiuto è l’atto estremo.
Liberati dal Tempo resteremo infine orfani felici
in un dove che Padri e Figli non sapranno mai
che quella riva è un altro uomo, ma una fiumana immobile
scorre mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.
antonio sagredo
Vermicino, 22/11/04
Leggo su un giornale di oggi :
“Mi siedo per scrivere, e non succede niente: scrivo, ma è un misto di vuoto e spazzatura. Non ne sono ancora uscito”
Salman Rushdie
S. Rushdie ha subito un attentato, cose serie, e speriamo ne esca bene. Ma questa dichiarazione potrebbe valere anche per chi adottasse sistemi di scrittura facilitata, penso; a meno che non se ne serva in modo nuovo e creativo. Però, sappiamo come vanno queste cose, ti si rompe l’aspirapolvere ed ecco scopri di non sapere come fare per passare lo straccio. Io ad esempio quasi non riesco a scrivere a mano: mi trovo costretto a prefigurare ogni verso, non lo posso osservare in composizione tipografica, niente copia-incolla… la vecchia mente, le vecchie abitudini… Anche se, per la polvere, magari invento un pavimento auto pulente, con micro fori aspiranti, qualcosa del genere; si può, si può sempre andare oltre. Palloni di calcio contenenti un drone per facilitare “l’avvelenata”(tiro da lunga distanza). Ci riusciranno anche i bambini. Ma nel calcio, come in poesia (vecchia metafora), serve la massima attenzione, per di più mentre ci si perde…
caro Lucio,
ormai siamo in un orizzonte antiedipico, la narrazione «anti-edipica», come l’avrebbero definita Deleuze e Guattari, è lo story telling, ovvero priva di un limite, di un confine, così il racconto si presenta come un intreccio virtualmente alimentabile all’infinito, come una catena di eventi nella quale è sempre possibile aggiungere nuovi anelli. La simmetria viene rispettata fin troppo correttamente come il desiderio straborda dagli argini in seguito alla forclusione del Nome-del-Padre e di Thanatos riducendosi a sola jouissance, così fa la trama, priva, a causa della conquista della parola, di una funzione-autore assumendo i connotati tipici dello storytelling, ovvero, puro intreccio senza conclusione.
Si impone così una nuova concezione della trama: essa, proprio come la Legge della Castrazione Simbolica non viene più intesa condizione strutturale del desiderio, non chiede più di essere considerata come un elemento determinato dalla fine, tant’è che Calabrese, parodiando il titolo del celebre lavoro di Kermode, parla di un “sense of a nonending” che dilaga nel romanzo postmodernista e nelle poesie private da anime sensibili, e magari con tanto di targa pacifista, quindi: nessun epilogo, nessun archetipo “clausulare” hanno sorretto nel postmodernismo il sogno infranto di un Fine che coincidesse con una Fine. Senza una conclusione, e quindi senza una finalità né un momento di determinazione del senso delle vicende, il plot deve ricercare la propria ragione ermeneutica in altri elementi. A parte ciò, una ermeneutica testuale dovrebbe a questo punto ipotizzare l’esistenza di un nuovo tipo di narrazione conseguente alla condizione postmoderna. Se è vero, come dice Karl Marx, che «Alles was fest ist, schmilzt in der Luft» (Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria),1 è lecito definire questa narrazione “evaporata” in quanto volatile, diffusa ovunque nello spazio, priva di una forma specifica, poiché mancante di una figura che la articoli come faceva l’autore, e difficile da osservare da vicino; oltretutto, con tale dizione si riprenderebbe la formula «evaporazione del Padre» cara a Lacan.
Eliminato il Padre, eliminato il Figlio, eliminato Edipo, eliminato l’autore, eliminato il plot, privati della parola anche la Legge e il Finale sono scomparsi; e la jouissance e l’intreccio hanno iniziato a proliferare in modo incontrollabile. Per quanto concerne la dimensione del plot, occorre perciò tracciare una teoria plausibile di questa inedita modalità del récit, una mappatura dei caratteri che la narrazione letteraria ha ereditato dall’avvento dello storytelling. Il primo tratto da attribuire alla narrazione «evaporata» è un’ossessiva attenzione alla comunicazione anche a discapito del contenuto, infatti, nel racconto postmoderno e privato il senso è estroiettato nella logica combinatoria della forma narrativa, il senso del racconto non dipende più dalla trama in sé, dalla successione degli eventi, in quanto è la mancanza stessa del finale che agisce retroattivamente inficiandone il plot, la trama narrativa.
1 Karl Marx, Friedrich Engels, Manifest der Kommunistischen Partei [1848], Severus, Berlino, 2017, trad it. Manifesto del Partito comunista, p. 18.
Slavoj Žižek Il Trash sublime
«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il “Quadrato nero su superficie bianca” di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttametne esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»1
(S. Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)
Slavoj Zizek, Il Trash sublime
«… nell’arte contemporanea il margine che separa lo spazio consacrato del bello sublime dallo spazio escrementizio del trash (i rifiuti), si sta gradualmente assottigliando fino ad arrivare ad una paradossale identità degli opposti: i moderni oggetti artistici sempre più escrementizi, trash (spesso in senso esattamente letterale: feci, corpi in putrefazione, ecc.) non sono forse esibiti per – fatti al fine di, destinati a riempire – il LUOGO Sacro della Cosa? Non è forse questa identità la “verità nascosta” dell’intero movimento? Qualsiasi elemento che reclami di diritto di occupare il Luogo Sacro della Cosa non è forse un oggetto escrementizio per definizione, un rifiuto che non può mai essere “all’altezza del suo compito”? Questa identità della definizione degli opposti (l’elusivo oggetto sublime e/o il rifiuto escrementizio) con la minaccia sempre presente che l’uno sconfinerà nell’altro, che il sublime Graal si rivelerà essere un pezzo di merda, è iscritta proprio nel nocciolo dell’objet petit a lacaniano.
Questa impasse è, nella sua dimensione più radicale, l’impasse che influisce sul processo di sublimazione, non tanto nel senso che la produzione artistica non sia più oggi capace di realizzare oggetti semplicemente “sublimi”, quanto in un senso molto più radicale. Si può affermare, infatti, che lo schema fondamentale della sublimazione – quella del Vuoto centrale, dello Spazio vuoto (“Sacro”) della Cosa esonerata dal circuito dell’economia quotidiana, che viene infine riempito da un oggetto positivo che è “elevato alla dignità della Cosa” (definizione lacaniana della sublimazione) – è sempre più minacciato. Ciò che qui è minacciat è proprio lo scarto tra il Luogo Vuoto e l’elemento (positivo) che lo riempie. Quindi, se il problema dell’arte tradizionale (pre-moderna) era quello di riempire il sublime vuoto della Cosa (il Luogo puro) con un oggetto bello – ossia come riuscire ad elevare efficacemente un oggetto comune alla dignità della Cosa – il problema dell’arte moderna è, in un certo senso, quello opposto (e molto più disperato): non si può più contare sul fatto che il Luogo sacro sia lì, pronto per essere occupato dai manufatti umani; perciò il compito è di sostenere il Luogo come tale, per assicurarci che questo stesso luogo “avrà luogo”. In altre parole, il problema non è più quello dell’horror vacui, riempire il Vuoto, ma piuttosto quello, innanzitutto, di CREARE il Vuoto. Diventa, perciò, cruciale la co-dipendenza tra un luogo vuoto, non occupato, e un oggetto elusivo che si muove rapidamente, un occupante senza un posto?
Il punto è che c’è semplicemente il surplus di un elemento rispetto agli spazi disponibili nella struttura, o il surplus di un posto che non ha alcun elemento che lo occupi; infatti, un posto vuoto nella struttura sostiene la fantasia di un elemento che presto o tarsi lo colmerà, mentre un elemento eccedente senza posto sostiene la fantasia di un luogo ancora sconosciuto che lo attende. Il punto è invece che il posto vuoto nella struttura è in se stesso correlativo all’elemento eccedente che manca al suo posto: essi non sono due entità diverse, ma il diritto e il rovescio di un’identica entità, quell’una e medesima entità che si iscrive nelle due superfici del chiasma di Moebius. In altre parole, il paradosso è che soltanto un elemento che è completamente “fuori luogo” (un escremento, un rifiuto o uno scarto) può reggere il vuoto di un luogo vuoto – cioè la situazione à la Mallarmè, in cui “nulla, tranne il luogo avrà luogo”; nel momento in cui questo elemento eccedente “trovasse il posto giusto”, non ci sarebbe più nessuno Luogo puro distinto dagli elementi che lo riempiono.
Ed effettivamente, come suggerisce Gerard Wajcman il grande sforzo dell’arte moderna non è proprio quello di mantenere la struttura minima della sublimazione, uno scarto impercettibile tra il Luogo e l’elemento che lo riempie? Non è questa la ragione per cui il Quadrato nero su Fondo Bianco di Kazimir Malevitch riduce il meccanismo artistico alle sue componenti essenziali, alla mera distinzione tra il Vuoto (lo sfondo, la superficie bianca) e l’elemento (la macchia del quadrato)? Dovremmo cioè sempre ricordare che il tempo verbale stesso (il futuro anteriore) del famoso rien n’aura eu lieu que le lieu (“nulla avrà avuto luogo se non il luogo stesso”) chiarifica che abbiamo a che fare con uno stato utopico il quale, per ragioni strutturali a priori, non può realizzarsi nel presente (non ci sarà mai un tempo presente in cui “solo il luogo stesso avrà luogo”). Non è semplicemente che il Luogo conferisca all’oggetto che lo occupa una dignità sublime; è che soltanto la presenza dell’oggetto sostiene il Vuoto del Luogo sacro, ma sarà sempre qualcosa che, retroattivamente, “avrà avuto luogo” dopo esser stato intralciato da un elemento positivo. In altre parole, se sottraiamo dal Vuoto l’elemento positivo, “il piccolo pezzettino di realtà”, la macchia eccedente che disturba l’equilibrio, non otteniamo il puro Vuoto equilibrato come tale; il Vuoto stesso, piuttosto, scompare, non è più lì.
Perciò il motivo per cui gli escrementi sono elevati al rango di opera d’arte, utilizzati per colmare il Vuoto della Cosa, non è semplicemente quello di mostrare come “anything goes – qualsiasi cosa va bene”, come l’oggetto sia, in definitiva, indifferente, dal momento che qualsiasi oggetto può essere elevato ad occupare il Luogo della Cosa: questo ricorrere agli escrementi testimonia, piuttosto, l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo sacro c’è ancora. Il problema è che oggi, nel duplice movimento della mercificazione progressiva dell’estetica, e dell’estetizzazione delle merci, un oggetto bello (piacevolmente esteticamente) può sostenere sempre meno il Vuoto della Cosa – è come se, paradossalmente, l’unico modo per mantenere il Luogo (Sacro) sia di riempirlo di rifiuti e di escrementi. Gli artisti contemporanei che espongono escrementi come oggetti d’arte, lungi dall’indebolire la logica della sublimazione, in realtà si sforzano disperatamente di salvarla. le conseguenze di questo collasso dell’elemento nel Vuoto del Luogo son potenzialmente catastrofiche: infatti, senza uno scarto minimo tra l’elemento e il suo Luogo, non esiste ordine simbolico: cioè, noi dimoriamo dentro l’ordine simbolico solamente in quanto qualsiasi presenza appare contro lo sfondo della sua possibile assenza(questo è ciò a cui Lacan allude con il concetto del significante fallico come significante della castrazione: è un significante “puro”, il significante come tale, nella sua accezione più elementare, in quanto proprio la sua stessa presenza evoca la SUA STESSA possibile assenza/mancanza).
Forse la definizione più concisa della rottura modernista in campo artistico è proprio che, grazie ad essa, la tensione tra l’Oggetto (arte) e lo Spazio che esso occupa è considerata riflessivamente: ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali, ma il luogo che occupa, il Luogo (sacro) del vuoto della Cosa. In altre parole, con l’arte modernista, si perde per sempre una certa innocenza: non possiamo più fingere di produrre oggetti che, in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che occupano, “siano” opere d’arte. Per questa ragione, l’arte moderna si divide, fin dalle sue origini, proprio nei suoi due estremi, Malevic da un lato, Duchamp dall’altro. da una parte, l’enfatizzazione pura del vuoto che separa l’Oggetto dal suo Spazio (il Quadrato nero); dall’altra, l’esposizione di un oggetto quotidiano (una ruota di bicicletta) come opera d’arte, per dimostrare che l’arte non si fonda sulle qualità dell’opera d’arte, ma esclusivamente sullo Spazio che esso occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche se è merda, possa “essere” un’opera d’arte se si trova nel Luogo giusto. E qualsiasi cosa venga fatta dopo la rottura modernista, anche se è un ritorno al falso neoclassicismo alla Arno Breker, è già “mediata” da questa rottura. Prendiamo un realista del XX secolo come Edward Hopper: ci sono almeno tre aspetti del suo lavoro che testimoniano questa mediazione. Primo, la ben nota tendenza di Hopper a dipingere paesaggi urbani di notte, soli, in stanze molto illuminate, visti dall’esterno attraverso una finestra (anche quando la finestra non è direttamente percepibile, il quadro è dipinto in modo tale che lo spettatore sia spinto a immaginare una cornice immateriale e invisibile che lo separa dagli oggetti raffigurati). Secondo, il modo in cui sono dipinti i suoi quadri e la sua tecnica iperrealista, producono nello spettatore un effetto di irrealtà, come se si stesse osservando qualcosa di onirico, spettrale, etereo, invece che comuni oggetti materiali (come l’erba bianca nei suoi quadri campestri). Terzo, il fatto che la serie di quadri raffiguranti sua moglie seduta in una stanza solitaria, fortemente soleggiata, mentre guarda attraverso una finestra aperta, sono percepiti come un frammento disarmonico di una scena globale, che necessita di un supplemento, che rimanda ad un invisibile spazio fuori campo, come il fotogramma di una sequenza cinematografica privo del suo contro-campo (e in effetti si può sostenere che questi quadri di Hopper siano già “mediati” dall’esperienza cinematografica).»*»*
* (S. Zizek, Il Trash sublime, Mimesis minima, Milano, 2013 pp. 33-37)
«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevic. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il “Quadrato nero su superficie bianca” di Kazimir Malevic e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevic di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevic fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevic: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevic, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttamente esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»**
** (S. Zizek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)
Tutta la poesia kitchen è poesia evaporata, cioè che ha mutato stadio, da quello solido della poesia logocentrica dell’io panopticon, allo stato gassoso di una poesia non più logocentrica. La poesia di accademia è sostanzialmente una poesia panottica perché dovunque tu volga lo sguardo non vedi altro che dei £bracci” che convergono in un punto: l’Io,
La poesia di Jacopo Riccairdi è l’opposto di una poesia panopticon, tende alla disseminazione, al fenomenico senza mai raggiungerlo.
“…il senso del racconto non dipende più dalla trama in sé, dalla successione degli eventi, in quanto è la mancanza stessa del finale che agisce retroattivamente inficiandone il plot, la trama narrativa”. (Colasson M.)
E hai ragione Milaure!
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Ho scritto tre o quattro prose, a tratti poetiche… avevo nel cerebro soltanto una idea generale e non sapevo come si sarebbe sviluppata… non la trama quindi, ma soggetto alla libera immaginazione e fanstasia al massimo grado… sperimentai così
senza alcun supporto esterno e interno o interiore le fasi che si sviluppavano da sè, ed io non contavo nulla se non prestare il mio cerebro alla creazione che se ne andava per conto suo: non sapevo le direzioni e le destinazioni…
il finale?…
quando mi stancai di scrivere uscii di scena dalla prosa involontaria e insensata mettendo una bomba “strapieno d’esplosivi”, ad una certa pagina, p.e :
“Si stediò del tutto.
Raccolse i corti e lunghi chiavelli ovunque, si riempì le vaste tascacce di balistìte di masùrio di rubìdio di scandio, e pregò, il grottesco, fingendo una vana sofferenza, Eolo affinché mutasse il favònio in gherbino, poi, spossato, cadde: le tibie e le ulne volarono, e finalmente riposò.
Udì il lavorìo incessante acquoso dei margóni presso la villa, afferrò il robusto paradello e, canguro inaudito, strapieno d’esplosivi, a salti s’avviò, scaricando quei tre sgravidati della sua persona ingombrante, e stupefacendo i presenti, lì, casuali passanti indigeni per tanta maestria d’imitazione provata.
non lasciate, figli miei carissimi, che questo libro
vada per le mani della gente.
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(da l’Arrabbìco. 1977-1981)
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da “Il giardino”, 1987.
“E così raccolsi tutte le forze delle foglie e le linfe di tutte le piante che avevo amato le disposi contro un sole di porcellana che non era più il mio sole per disseccarle: tutta l’energia in levitazione e in estasi entrai nella casa alla ricerca di un oggettino qualsiasi da portarmi via come una reliquia sottovetro o sott’ambra e nulla colpì la mia attenzione certosina e ne uscii disgustato e lo specchio era lì inutile oramai a se stesso vano come era sempre stato e allora compresi che non aveva avuto mai una vita autonoma eh… eh… eh… ma ero stato io a dargliela una vita! lui proprio lui con una falsa o finta vitalità mi aveva abbindo-lato per troppo tempo e tutti gli oggetti ora se ne stavano dentro rintanati! impauriti! perfino i candelabri erano incapaci di nascondersi a me e ciascuno con la propria morte e non chiusi nemmeno le persiane le imposte e la porta e pure il cancelletto nero abbandonai al suo destino né salutai il ciliegio la punica e il sambuco e né detti uno sguardo di rimprovero alle due mandragore e né mi voltai indietro per mirare la prospettiva della costruzione che mi aveva cucito il corpo e l’anima per tanto tempo e né mi portai il cane nonostante guaisse di continuo – alla malora! anche lui apparteneva agli inganni alla voce e agli occhi spudoratamente argentati dello specchio! eravamo pronti a perforare e a penetrare la macchia! e dei mostri di sabbia nemmeno un granello mi portai dietro!
Ed esausto ero giunto alla fine d’una fabula, di cui dopo tutto nulla m’importava, e dalla quale ne ero stato sempre distante, malgrado le apparenze di interessato vicinato.
alla malora!