Nell’anno 2005 vengono pubblicate tre Antologie di poesia: Parola plurale, Dopo la lirica e La poesia italiana dal 1960 a oggi.
Il problema metodologico sconfina e rifluisce in quello della datazione delle singole opere di poesia. Grosso modo tutte e tre le antologie scelgono l’anno 1960, l’anno della rivoluzione operata dai Novissimi e dalla neoavanguardia quale linea di demarcazione dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura delle proposte di poesia accompagnate dalla caduta del tasso tendenziale di problematicità delle proposte stesse che collimeranno con posizioni di poetica personalistiche da parte delle personalità più influenti. Affiora una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità. La storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione. Così Daniele Piccini dichiara nella introduzione alla sua antologia i suoi intendimenti metodologici:
«…nonostante tutto ciò e messolo in conto, l’antologia che il lettore ha fra le mani nasce e si articola come un tentativo di risposta al vuoto storiografico verificatosi per esplosione demografica, democratica e orizzontale delle presenze. Quello che si vuole evitare è di favorire in sede storica la proliferazione di autori minori in seno a una stessa trafila poetica, a una medesima (tra le tante possibili) tradizioni. Cercare di fornire per ogni orientamento e ricerca il o i migliori esponenti di essi e le poetiche più interessanti è la bussola che ha orientato la redazione della presente antologia». (Daniele Piccini 15)
Piccini dichiara di voler mettere un freno all’esplosione demografica delle antologie e lo fa con un’antologia ristretta a poche personalità che siano però considerabili «nevralgiche e capaci di render ragione del quadro» (Piccini 36). Coerentemente con questa premessa, soltanto tre dei ventuno poeti antologizzati da Berardinelli e Cordelli sono inclusi in La poesia italiana dal 1960 a oggi: Cucchi, De Angelis e Magrelli. Risulta però evidente che la selezione dei nuovi autori introdotti: Rondoni, Ceni, Mussapi sia piuttosto il prodotto di una mancanza di intraprendenza per non aver incluso nessun autore che non fosse già ampiamente confortato da una lunga frequentazione dei luoghi deputati della poesia.
Dopo la lirica
Il periodo considerato va dal 1960 al 2000, la selezione include ben 43 autori di poesia a cura di Enrico Testa. Nella Introduzione, dopo un excursus sulle linee di forza della poesia degli ultimi tre decenni, il curatore presenta i poeti in rigoroso ordine cronologico. Pur nella ampiezza e sobrietà del quadro storico contenuto nella introduzione, alla fin fine il criterio adottato dal curatore finisce per essere quello del catalogo e dell’appiattimento degli autori in un quadro storico unidimensionale. Un quadro storico dal quale sbiadiscono le differenze (se differenze ci sono) tra un autore e l’altro e neanche viene spiegato perché proprio quelli siano i prescelti e per quale ragione o giudizio di gusto o di eccellenza. Se la poesia odierna è in crisi di crescenza esponenziale, il curatore amplia a dismisura i poeti inclusi nella antologia, quando invece sarebbe stato ovvio attendersi una restrizione delle maglie in verità larghissime. A questo punto, l’analisi linguistica dei testi si rivela per quello che è: un valore informazionale e di alcuna utilità ai fini della storicizzazione che avrebbe dovuto giustificare perché proprio quei poeti e non altri siano stati selezionati. Testa sfiora la problematica centrale: le «grandi questioni del pensiero e, in particolare, il nichilismo», senza però essere in grado di storicizzare la presenza «di motivi e strutture antropologiche: le figure dei morti al centro di rituali evocativi o procedure sciamaniche, visioni arcaiche dell’essere, animismo della natura, funzione non strumentale e magica degli oggetti». (Testa XXXII)
Il criterio guida della antologia è la individuazione di una «rottura radicale della lirica italiana» verificatasi intorno agli anni Sessanta. Verissimo. «Rottura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni di essi sulla struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si è riflesso nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente gli autori della precedente generazione (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) con una piccola concessione alla poesia dialettale: Loi, Baldini. Possiamo però condividere lo sconforto del curatore il quale si trova a dover rendere conto dell’esplosione di un «genere indifferenziato» e inflazionato come la poesia «post-lirica» con conseguente difficoltà a tracciare un quadro giustificato della situazione; a nulla serve tentare di giustificare questa condizione mettendo le mani avanti con l’argomento secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», con il risultato ovvio che tracciare «una cartografia imperfetta è allora preferibile a uno scorcio o veduta parziale» (Testa XXVI).
Così risulta affatto chiaro quale sia per Testa la linea di sviluppo che la poesia italiana ha seguito dal 1985 al 2005. Infine, ritengo un rimedio non sufficiente l’intendimento del curatore di ridimensionare il peso di alcuni autori: Benedetti, Buffoni, Dal Bianco quando invece sarebbe occorso più coraggio e più intuizione nelle esclusioni e nella indicazione delle linee di forza del quadro poetico.
A quindici anni dalla apparizione della antologia Dopo la lirica risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi due lustri, Testa si limita ad indicare le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana», questioni peraltro abbastanza confuse su cui si potrebbe anche essere d’accordo ma manca l’essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti, l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida ma ancora vaga e ondivaga, non sufficientemente delimitata. Per aggiungere alla «mappa» dei 43 autori altri autori per completare il quadro sarebbe occorso una diversa campionatura e uno studio più articolato sugli autori della militanza poetica che nel lavoro di Testa non c’è probabilmente a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare del villaggio poetico italiano.
Parola plurale
Otto giovani critici (nati tra il 1966 e il 1973) si sono spartiti 64 autori, nati tra il 1945 e il 1975, firmando otto diverse introduzioni; l’antologia mette un punto sulla situazione poetica fotografata; alcuni autori già selezionati ne Il Pubblico della poesia di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli del 1975 e già presenti nella Parola innamorata. Il modello di riferimento resta quello de Poeti italiani del Novecento di Vincenzo Mengaldo.
Si procede per inflazione: gli autori confluiti nella Parola plurale sono 64, numero pari a quello dell’antologia di Berardinelli e Cordelli. Il primo capitolo non solo riprende gli autori antologizzati nel 1975, ma già nel titolo rimanda esplicitamente a quel precedente: Effetti di deriva, il saggio di Berardinelli è qui diventato Deriva di effetti. I curatori danno molto rilievo alla frattura posta al centro dell’operazione antologica di Berardinelli e Cordelli, dai quali riprendono le date di rottura: 1968, 1971 e 1975. Nel Sessantotto si esaurisce l’esperienza della Neoavanguardia «l’ultimo tentativo compiuto dal Moderno di rinnovare l’Idea di Forma senza allontanarsene del tutto» (Alfano. 20); il 1971 conclude l’evoluzione del genere lirico con le raccolte di Montale e Pasolini (Satura e Trasumanar e organizzar), e apre un nuovo periodo che privilegia il privato con Invettive e licenze di Dario Bellezza. L’idea di fondo di Parola plurale è mettere il punto finale al periodo inaugurato dalla antologia di Berardinelli e Cordelli del 1975 per ripartire dalla idea di una selezione degli autori in base ad un codice o modello «plurale», nonché di riposizionare il genere antologia mediante la introduzione del fattore «collegialità».
L’organizzazione «policentrica» mengaldiana, rinvigorita da una affabile struttura saggistica che inquadra i testi si scontra con il problema oggettivo della omogeneizzazione dei criteri e dei giudizi di gusto dei singoli curatori che affiancano Cortellessa; il Fattore «plurale» agisce nella selezione e nella organizzazione di una mappa dove ogni inclusione ed ogni esclusione viene appesa al giudizio di gusto dei singoli curatori; la pecca è che in mancanza di un comune orizzonte di ricerca, la «collegialità» del lavoro finisce inevitabilmente per coincidere con la «generosità» delle singole inclusioni.
Il problema della «mappa», in mancanza di un progetto che rientri in un preciso orizzonte dei mutamenti della forma-poesia, finisce per periclitare in una generosa pluralità di gusti e di posizioni di individualità prive però di un pensiero critico omogeneizzatore che può nascere soltanto da una attiva militanza e nel vivo del territorio poetico. Così spiega un curatore la sua idea: «La risposta […] sta nel dismettere l’idea di mappa – ove questa di necessità comporti raggruppamenti e sigle […]. Non si progetti un’ennesima mappa dall’alto, non si operi più sulla base di astrazioni, di modelli cartografici desunti da quelli passati (‘generazioni’, ‘gruppi’, ‘linee’…); ma lo si percorra in lungo e in largo – questo territorio. (Alfano et al. 9)
Dei 64 poeti, circa una ventina obbediscono ad una linea neo o post-sperimentale, tutti gli altri sono posteggiati in una sorta di narratività allo stadio comunicazionale della scrittura poetica. Accade così che Parola plurale, sicuramente uno dei cataloghi più aggiornati sotto il criterio bibliografico, non riesce ad evitare la pecca di una sorta di «generosità» della scelta degli autori inseriti in costanza di latenza di una ricognizione critica della poesia italiana. Il risultato complessivo non va oltre il truismo della «generosità» senza riuscire a rinverdire o a riposizionare un canone o modello prevalente e né i modelli laterali e/o accessori. Anche puntare il dito sulla de-ideologizzazione della scrittura poetica, non solo non è un criterio di per sé sufficiente, ma, a mio avviso, il discorso critico lasciato così a metà strada perché non approfondito sulle poetiche e sugli stili dei diversi autori rischia di aggravare il problema della «generosità» che rischia di apparire una «gratuità». La latitanza di una militanza sul terreno del poetico rende enormemente difficoltoso se non impossibile tracciare dei confini della «mappa» per il semplice fatto che non si ha adeguata cognizione del territorio reale cui la «mappa» dovrebbe corrispondere.
La nuova fenomenologia della forma-poetica
Finita questa prospezione, chiediamoci: ha ancora senso produrre antologie generaliste?, ha ancora senso puntare sul ventaglio pluralistico delle proposte?, ha ancora senso puntare sull’archivio degli autori invece che sulla settorialità delle proposte?
Come è finita la guerra di Troia non ricordo
E siamo giunti a Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2017), a cura di chi scrive, che include soltanto 14 autori, con una netta inversione di tendenza rispetto alla esplosione demografica delle antologie precedenti. E siamo a ridosso della «Proposta per una nuova ontologia estetica» (2017) o Una nuova fenomenologia della forma-poetica, una piattaforma di poetica sicuramente militante che almeno ha il merito di mettere dei paletti divisori in modo visibile. La «nuova ontologia estetica» non vuole essere né una avanguardia né una retroguardia, ma un movimento di poeti che ha dato un Alt alla deriva epigonica della poesia italiana che dura da cinque decenni; la proposta è un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), verso il Decreto poesia, diciamo, parlamentarizzata che dura da alcuni decenni in una imperturbabile deriva epigonica: la cosiddetta poesia a vocazione maggioritaria che fa dell’ogettoalgia e della soggettoalgia i binari del cromatismo emotivo di una forma-poesia eternamente incentrata sul logos dell’io.
E qui vengo alla attualità. La proposta di una antologia della Poetry kitchen (dicembre 2022) di 16 autori complessivi, varata in questi ultimissimi giorni ha almeno il merito di essere giunta a quella «rottura radicale» tanto cercata dalle proposte antologiche che la precedevano e alla identificazione di un «nuovo paradigma» e, se non altro, a un dimagrimento del numero degli autori inclusi. Almeno questo traguardo è stato raggiunto.
E allora? Non resta che tornare alle Antologie militanti.
Diciamo una verità, amara ma necessaria: Le antologie uscite finora negli ultimi cinque decenni sono dei campionari di alimenti a scadenza breve, cataloghi tutt’al più che, a esser generosi, rispondono al criterio della visibilità.
A questo punto non rimane che una sola strada: tornare alle Antologie rigorosamente di ricerca.
Poetry kitchen
Non c’è più un orizzonte di attesa per la poesia. La poesia è rimasta senza orizzonte di attesa oltre che senza un pubblico. Ancora negli anni sessanta c’era ancora un pubblico della poesia anche se in via di assottigliamento; voglio dire un pubblico che si aspetta qualcosa dalla poesia, che cosa non lo sa neanche lui perché deve essere la poesia a dirglielo. Oggi non c’è più un orizzonte di attesa, l’autore di poesia osserva il linguaggio come uno spettatore osserva un paesaggio senza orizzonte; voglio dire che quel guardare non è più un guardare, è un vedere, è un vedere le cose piatte e unidimensionate. Così la poesia è rimasta oltre che priva di un orizzonte, priva anche di un linguaggio, non ha più un linguaggio. E siamo giunti alla nostalgia: almeno le post-avanguardie del novecento volevano rottamare ancora qualcosa, quel qualcosa che oggi non c’è più!
L’occultamento e il travestimento (Einkleidung) sono modalità che si presentano nella modernità delle società mediatizzate. Nella prassi del poetico, occultamento e travestimento sono elementi fondanti, nel senso che fondano delle maschere che fuoriescono dal nulla del fondale e che ritornano nel nulla del fondo, che si inabissano nello sfondo. Il disallineamento frastico, i salti temporo-spaziali, il mixage di registri linguistici disparati, lo spaesamento e l’estraneazione tramite le «maschere», i sosia e gli avatar sono i requisiti peculiari della modalità kitchen. Gli autori coinvolti sono: Alfonso Cataldi, Raffaele Ciccarone, Marie Laure Colasson, Guido Galdini, Giuseppe Gallo, Francesco Paolo Intini, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Vincenzo Petronelli, Mauro Pierno, Mimmo Pugliese, Gino Rago, Jacopo Ricciardi, Ewa Tagher, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi
«La poésie doit etre faite par tous. Non par un. Questa frase del poeta franco-uruguaiano Isidore Lucien Ducasse, più conosciuto con lo pseudonimo di conte di Lautréamont, sintetizza molto bene la scomparsa dell’azione letteraria nell’età della comunicazione in cui tutti scrivono, ma nessuno legge, tutti parlano, ma nessuno ascolta».1
Sopravvivere a un attacco di scafandri e radioonde
Chiedersi che cosa significhi un verso siffatto di Francesco Paolo Intini (uno degli autori inseriti nella antologia Poetry kitchen) significa comportarsi come quella bambina che nel museo di “Picasso” a Barcellona, di fronte a un quadro del busto di una signora con un occhio sopra e uno sotto il mento e il naso al posto delle orecchie etc. di Picasso, si chiedeva: «mamma ma l’autore del quadro è diventato pazzo?».
È esattamente così. Porsi davanti ad una poesia della poetry kitchen ricercandone un senso e un significato, equivale a porsi davanti ad un quadro di Picasso ricercando in esso la sintassi pittorica di Tiziano, di Rembrandt o di Vermeer. Nella poesia kitchen è cambiato il paradigma, è cambiato il «modo» oltre che il mondo, è cambiato il linguaggio.
Quanto alla questione della «ontologia» qualcuno ci ha rivolto la critica secondo cui noi continuiamo a pensare l’ontologia come discorso sulla «sostanza». Ebbene, mi sia consentito ribaltare questa critica: sono proprio i conservatori del linguaggio poetico a scrivere secondo il concetto di una ontologia della «sostanza», noi abbiamo sempre parlato di una «ontologia metastabile» per segnalare che l’ontologia di cui trattiamo non è una «sostanza» o un «sostrato» stabile quanto una liquidità dotata di «instabilità permanente», il modus sismico in un mondo tellurizzato. La poetry kitchen esprime una modalità, una possibilità permanentemente interrotta, rinviata e permanentemente da definire, e ciò in ossequio a quella ontologia del positivo, a quella ontologia metastabile in cui ci troviamo.
E allora? Non resta che tornare alle Antologie militanti.
(Giorgio Linguaglossa)
1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009 p. 59.
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Così riassume Riccardo Frolloni nella sua tesi di laurea* :
Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta la rivoluzione culturale del Sessantotto abbattei sistemi della modernità e apre la via alla postmodernità.
Lirici nuovi di Anceschi (1953), Letteratura dell’Italia unita 1861 -1968 di Contini (1968) e Poesia italiana del ’900 di Sanguineti (1969) gravitano attorno alla poetica dell’ermetismo; la prima metà del Novecento ne è dominata, a partire dallo studio
La poesia ermetica di Flora (1936); Ungaretti, Montale e Quasimodo sono legati fra loro indiscriminatamente nella koiné ermetica almeno fino alle antologie I poeti del Novecento di Fortini (1977) e Poeti italiani del Novecento di Mengaldo (1978). Ma con Il pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli (1975) si afferma l’impossibilità di definire una poetica vera e propria per gli autori che esordiscono negli anni Settanta: «un senso di plurivalenza, di plurivocità, di dispersione e di deriva diventa il solo aspetto unificante. La prospettiva critica della pluralità, che non riesce a essere contenuta in plausibili sistemi teorici, si mantiene per tutto l’ultimo quarto del Novecento»22. Berardinelli ne Il pubblico della poesia descriverà questo periodo con la figura dell’«astro esploso»; figura ripresa da Anceschi (1976) ed infine rivista da Gianluigi Simonetti in La letteratura circostante (2018), declinata in «odissea delle forme» in Parola plurale (2005) da Cortellessa. La figura richiama alla frammentazione, alla disgregazione di un corpo che prima si suppone unito e solido; Berardinelli si riferiva ad una frammentazione poetica riguardante gli autori che negli anni Sessanta si stavano distaccando da una tradizione, da un’unità formale fino ad allora riconoscibile, per una nuova forma di figure poetiche isolate e distanti, «soggettività parziali accanto ad altre soggettività parziali» (Simonetti) in una deriva plurale. Simonetti rincara la dose e ritrova la frantumazione anche nell’apporto critico il quale, negli ultimi decenni, si professa concorde nell’impossibilità di una efficace sistematizzazione e quindi procede per scorci o basandosi sull’idea del policentrismo: «ne derivano ricostruzioni in buona parte divergenti, che il confronto critico non riesce a coordinare. L’anarchia dei progetti stilistici e delle posizioni in campo risalta ancora di più se si pensa all’andamento relativamente ordinato che nel corso del Novecento aveva assunto la discussione sul rinnovamento del linguaggio poetico, e all’organicità con cui, almeno fino agli anni Sessanta, venivano formulate le ipotesi di scuola». La frantumazione «diventa anomia, assenza di valori», scrive Giovannetti in Modi della poesia italiana contemporanea. Forme e tecniche dal 1950 a oggi. […] Di fronte a ricostruzioni e proposte critiche tanto distanti,è giusto chiedersi ancora non solo quale sia la direzione futura della poesia ma anche: cosa la rende ancora un genere attuale?»24.
Nell’introduzione alla riedizione del 2015 de Il pubblico della poesia, Berardinelli scrive, parlando della sua stessa antologia a quarant’anni di distanza, che se «ha avuto una “funzione storica” credo che sia stata nell’indicare che la situazione del fare poesia era cambiata»25
[…]
Il canone si sviluppa nel tempo e lentamente, in diretta continuazione o polemica contrapposizione con la tradizione letteraria. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, persa la rete protettiva della storia letteraria, la sicurezza di una serie di norme e valori che garantivano la trasmissione del passato letterario nella pratica didattica del presente, i testi letterari sono stati oggetto di letture sociologiche, psicoanalitiche, semiologiche, e i critici egli storici della letteratura hanno cercato altrove che nella tradizione gli strumenti di analisi e i valori su cui fondare la scelta di opere da additare come “monumenti” canonici. La stagione di una critica con forti opzioni metodologiche e vocazioni teoriche è stata, quindi, il frutto della crisi di una tradizione interpretativa e l’apertura a paradigmi epistemologici in grado di rivitalizzare lo statuto della disciplina letteraria e di ampliare la campionatura degli autori e delle opere: «non è un caso che, oggi, in Italia una riflessione sul canone abbia come centro ilgiudizio sulla contemporaneità».*
Scrive Paolo Febbraro**:
»La critica militante esiste se esiste un’idea del nuovo, […] perché l’orizzonte della critica militante non è tanto l’oggi, come potrebbe apparire, o l’immediato ieri: è sempre una dimensione potenziale, ancora da percorrere, in grado di sorreggere proiezioni (più che “previsioni”) vastissime, spesso onnicomprensive, rivoluzionarie, che infine sirealizzano grazie e malgrado l’opera di ognuno. Chi è stato un letterato militante lo è stato perché sapeva che i libri cambiano il mondo, cambiano chi legge e anche chi li scrive; oppure perché sperava che così fosse. […] Così la critica militante è pienamenteattiva anche quando è reazionaria, poiché si fonda su un terreno che deve essere ancora costituito in possesso, o che magari si deve recuperare avendolo perduto: dunque la sua essenza è il movimento, la trazione a sé, il lancio o il rilancio, l’impacificata soddisfazione di ciò che già esiste. Il nuovo non vuol dire allora in assoluto il progressivo».
«Il panorama era fluido – scrive Andrea Inglese – , democratico, caotico, competitivo e si stava tutti entrando nell’epoca spossante dell’autopromozione permanente [soprattutto online]. Anche una sciagurata e universale abitudine come l’autopromozione – che ovviamente non riguarda solo il piccolo mondo della poesia – ha prodotto qualcosa di positivo. Essa ha incitato all’autonomia. In Italia, quindi, una nuova area della poesia – chiamiamola approssimativamente – di ricerca si è precisata attraverso un faticoso fare da sé».26
L’autopromozione, strettamente connessa al web e oggi ai social, si rivela un arma a doppio taglio, a causa della complessa e torbida orizzontalità di questi media. In questo intricato panorama, nel quale «non esistono un canone, una poetica dominanti», la poesia si trova al difuori delle logiche di mercato, ma è ormai priva anche dei propri tradizionali organi di garanzia; da qui deriva il suo status di lateralità. Il panorama poetico è più confuso e indecifrabile, rispetto al passato, e la critica di poesia è ormai simile a una «batracomiomachia». Alberto Bertoni spiega di riscontrare «una sincera propensione aldialogo» nelle opere degli ultimi autori, accompagnata da un forte calo della «passione combattiva» e dal conseguente prolificare di libri di livello medio, in un modo che è definito «orizzontale». Queste opere sono sintomatiche di una fase nuova e fertile per la poesia, per quanto non ancora del tutto visualizzabile: «la ricchezza del quadro sta proprio nella sua provvisorietà costitutiva, ora nel marché aux puces ora nella fantasmagoria di stili, lingue, aggregazioni generazionali o simpatetiche, avventure esistenziali, transfert psichici, visioni del mondo, ideologie, accenti, credenze… E dunque, per quanto dichiaratamente parziale e dicomodo, a pensarci bene nella segnalazione di un unico libro a persona […] vige un principio democratico non troppo – poi – trascurabile».
… vige un principio democratico non troppo – poi – trascurabile». Il curatore, quindi, rivendica la propria fiducia nell’eticità dell’operazione critica come strumento di salvaguardia della poesia; «se le grandi strade sono interrotte, restano infatti da tracciare i sentieri»: così si conclude l’ Introduzione
aTrent’anni di Novecento; se definire un canone e identificare tendenze nella poesia degli ultimi trent’anni è impossibile, non ha più senso neanche sottolineare la presenza di una tradizione, poiché «la tradizione può venire a questo punto considerata un catalogo testuale da sfogliare o da ricombinare senza che sia in grado di offrire alcuna resistenza problematica, strenua, ai tentativi di citazione strumentale o di manipolazione ‘debole’»27
15 Enrico Testa, Dopo la lirica, Torino, Einaudi 2005.
16 Daniele Piccini, La poesia italiana dal 1960 a oggi, Milano, Rizzoli 2005.
17 Il pubblico della poesia, a cura di A. Berardinelli e F. Cordelli, Cosenza, Lerici 1975.
18 Giancarlo Alfano (a cura di), Parola plurale: sessantaquattro poeti italiani fra due secoli , Roma, SossellaEditore 2005.
19 Gianluigi Simonetti, La letteratura circostante – Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, IlMulino 2018.
20 Maria Borio, Poetiche e individui – La poesia italiana dal 1970 al 2000, Venezia, Marsilio 2018.
21 Andrea Afribo, Poesia contemporanea dal 1980 a oggi. Storia linguistica italiana, Roma, Carocci 2007.
22 M. Borio, Poetiche e individui – La poesia italiana dal 1970 al 2000, Venezia, Marsilio 2018, p.11-12.
25 Pref. a Riedizione del 2015 de Il Pubblico della poesia di A. berardinelli e F. Cordelli
26 Andrea Inglese, Brevissimo trattatello sull’opportunità o meno di certe categorie teoriche e critiche per comprendere, discutere, fare della poesia (???) contemporanea, in «Nazione Indiana», 22 ottobre 2015.
27 Alberto Bertoni, Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni. 1971-2000, Ro Ferrarese, BookEditore 2005, p. 6.
* Paolo Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila: un percorso di lettura, Roma, Carocci 2017.
** Paolo Febbraro (a cura di), La critica militante, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato 2001.
https://www.academia.edu/48995990/Per_una_storia_della_poesia_recente_nonostante_la_crisi_2005_2019_tesi_magistrale
Ripropongo la domanda formulata da Berardinelli:
Cito dal libro di Alfonso Berardinelli Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione (Quodlibet, 2007); a pag 37, c’è scritto:
Berardinelli accenna al vero problema: Ma se la poesia italiana è stata fra le migliori d’Europa, come è accaduto che quest’arte ha perso pubblico e credito?
C’è qualcosa che non va in questo ragionamento?.
La poesia italiana del novecento è stata veramente «tra le migliori d’Europa?», o si tratta di un luogo comune ripetuto per mera vanagloria?
Berardinelli ha perfettamente ragione a riproporre la vera questione della minoritarietà in ambito europeo della poesia italiana del tardo Novecento e dei giorni nostri.
Il problema c’è, è vistoso, ma bisogna andare alla radice dei problemi, non far finta di non vederli, mettere la testa nella sabbia come gli struzzi. Noi non siamo struzzi, il vero impellente problema è la ricostruzione del linguaggio poetico italiano secondo un Grande Progetto o, se vuoi, una «nuova piattaforma concettuale», quella che noi abbiamo chiamato La Nuova Ontologia Estetica. Chi vuole informarsi in proposito non ha che da cliccare su questa rivista gli articoli che abbiamo postato. Qui posso dire soltanto che nella «Nuova poesia», non c’è una direzione stabilita a priori, compiuta, totale e totalizzante, non c’è una direzione unidirezionale. La direzione la si costruisce nel mentre si decostruisce la poesia italiana del secondo e tardo novecento. Oggi non si dà una via unica, la poesia non è una scuola con apprendisti stregoni e allievi, non c’è un sentiero prestabilito, non è di un nuovo «canone» che noi vogliamo parlare, quelle sono parole d’ordine vecchia maniera, qui si tratta di un nuovo modo di concepire la scrittura poetica: una molteplicità di compossibilità, non si dà nessuna gerarchia tra i singoli indirizzi. Scopo della Nuova Ontologia Estetica è quello di mettere in evidenza nel linguaggio poetico che l’esistenza vive di scarti, di vuoti, di fratture, di discontinuità, che le aporie sono di casa, e anche le contraddizioni, che le contraddizioni stilistiche, anche all’interno di un componimento, sono una ricchezza non un difetto, che bisogna respingere le strutture ideologiche che perorano un canone, qualsiasi canone, piuttosto occorre essere consapevoli che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto «totalitario» di poesia conduce ad un concetto di poesia minoritario, acritico.
La nuova poesia e il nuovo romanzo si trovano in una situazione di disseminazione stilistica. La decostruzione è una conseguenza del pensiero filosofico di Martin Heidegger. Infatti, il disegno della seconda sezione di Sein und Zeit (1927) – rimasta alla fase di mera progettazione, per la caratteristica inadeguatezza del linguaggio della metafisica – suonava come una «distruzione della storia dell’ontologia» in nome di una ontologia fenomenologica capace di assumere di «lasciar/far vedere il fenomeno per come esso si mostra» (Derrida) – a far luogo da un linguaggio rinnovato alla radice (ripensato), filosoficamente (nell’accezione ordinaria del termine) «scandaloso».
Riprendo un mio Commento in margine al post dedicato alla “Cartografia della poesia italiana del Novecento” del 2018, perché è importante scalzare la visione dicotomica (Linea innica e Linea elegiaca) del Contini.
Non dobbiamo farci abbagliare dalla sua formula dicotomica, anche perché da questa formula dicotomica sono esclusi poeti di livello europeo come Aldo Palazzeschi, Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Mario Lunetta, Anna Ventura, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Anonimo romano e Alfredo de Palchi, cioè quei poeti che hanno percorso e percorrono attualmente un tipo di poesia che non coincide con nessuno dei due tipi indicati da Contini, cioè né con la linea innica né con la linea elegiaca. È importantissimo tenere questo distinguo. Anzi, è vero il contrario: sia la linea innica che quella elegiaca sono laterali rispetto alla linea di quei poeti che hanno percorso la linea del Discorso Poetico di stampo modernistico. Ed è proprio qui, è a questa linea modernistica della poesia italiana che io vorrei riallacciare la «Nuova Ontologia Estetica» di cui sono rappresentanti i poeti della redazione oltre ad altri poeti e che vede impegnati in questa ricerca alcuni poeti contemporanei.
Giustissimo! Occorre poter scegliere! Onestà e chiarezza di intenti evitano al lettore cocenti delusioni. Chi non ama la Poetry kitchen non comprerà mai quella antologia appena uscita..ma quale altra? Occorre ancora tanto lavoro per convogliare altri pochi autori verso classificazioni valide e inequivocabili e far desistere tutti i molti altri dalla voglia di scrivere… Buon lavoro!
Quattro Poesie inedite di Nunzia Binetti
Le poesie di Nunzia Binetti sono la riprova di come la contaminazione tra un linguaggio poetico ereditato (quello narrativizzato) e quello nuovo della poetry kitchen stia dando ottimi risultati. La Binetti parte dal linguaggio poetico dell’io che si confessa allo specchio di questi ultimi decenni per allontanarsene in direzione di un linguaggio ibrido, meticciato, con inserti kitchen, cioè lateralizzati, spostati dal significato consueto e condiviso e dalla soggettività registrata. Il risultato è probante, l’autrice dimostra che la transizione tra un linguaggio noto e conosciuto, addomesticato e uno nuovo, ignoto e non addomesticato può dare ottimi risultati. E noi non possiamo che incoraggiarla.
Alla base della poesia di accademia incentrata sulla perorazione di una soggettività in preda di una particolare esantema soggettoalgico c’è la convinzione che la forma-poesia debba essere una veicolazione narcisistica di un’istantanea reazione emotiva, alla base della poesia della nuova fenomenologia del poetico c’è la convinzione che la forma-poesia debba essere una forma di «incomunicazione» (per riprendere una dizione di Alfredo de Palchi degli anni sessanta). Come si vede, i conti tornano, anche a distanza di sei, sette decenni.
Quello che nella poesia della tradizione è il momento epifanico, ovvero una istantanea reazione emotiva, nella poetry kitchen diventa lo spazio vuoto, lo iato di un significante vuoto che prende corpo in parola, la parola incomunicativa, incomprensibile del momento kitchen, come si vede bene nella poesia di Nunzia Binetti, è una parola parlata dall’Estraneo o, come recita la Binetti, da un «avatar». L’io ne resta diviso, spiazzato («Pensai a un intralcio, a una devianza di percorso»), e veniamo proiettati in un’altra dimensione («La musica si interruppe»), e l’avatar prende posizione, prende direttamente la parola («l’avatar assunse un tono perentorio,/ sfilò per tutto il corridoio…»).
«Il La è Bemolle». Così si presentò l’avatar.
Pensai a un intralcio, a una devianza di percorso
La musica si interruppe, l’avatar assunse un tono perentorio,
sfilò per tutto il corridoio…
«Errore, delitto preterintenzionale!» replicai.
«No. Il croco, il tuorlo, ci mostrano il giallo che è il retro dell’identità» Ella rispose.
Lady Tristezza emerse da un mare di suoni,
sirena per finta. Frammenti di sughero poi vennero a galla.
**
Elisa amò Beethoven. Non lo confessa.
Oggi non sa più amare.
Tra Schengen e Lampedusa affondò il mare.
Ruth Benedict volse lo sguardo a un crisantemo e ad una spada.
Il crisantemo è divenuto nero.
Ogni Bellezza uccide.
La gara è tra i gerani, sui balconi a farsi cogliere.
Il mito d’Elena ritorna per (s)fiorire.
Nessuna Giustizia è scienza esatta.
La luce della luna echeggia tra le foglie morte.
Notte, sii sempre buona!
**
Il meccanismo del sistema accelerato ha piglio tribale e
ritmo di danza.
I figli uccideranno sempre i padri.
Mendel in tutta fretta mobilitò caratteri alieni dominanti.
I vincitori persero tutto, anche l’onore.
«Siatemi almeno voi fedeli nei miei infiniti modi d’essere».
Così l’ameba parlò alle sorelle ortiche.
Tossine apolidi affiorarono dal mare.
Un seme scivolò nel solco sbagliato
Così nacque un australopiteco super sapiens.
**
«Ho perso l’anello che portavo al dito perché mi sono sposato con la poesia».
Scrisse Dunn, pensando a Puskin, ma la lettera tornò indietro,
non fu recapitata.
Ma qui vivono uomini mezzo-gatti, ad essi tutto è indifferente.
Hanno comportamenti gattici.
Bifore di cattedrali ospitano gabbiani.
La profilassi è solo antibatterica.
E l’Angelus trasalisce per certe maldicenze dei credenti contro i preti.
Inutile agire sui tufi spolpati dagli eventi.
Ed ora discorriamo dell’autunno.
«Cosa sai, tu, dei melograni?», mi chiese.
«Intonano canti funebri sulle terrazze di novembre»,
risposi non molto convinta.
Giorgio, sono felice di leggere nell’Ombra questi miei versi e ti sono grata per averli pubblicati e commentati. L’esigenza di superare i limiti di una poesia “canonica” mi lacera da tempo ( e poi esiste un canone in poesia ? Perché ci si arroga il diritto di istituzionalizzarlo?) Per tutto questo e poiché amo le sfide , sto tentando di portarmi fuori dalla consorteria che incatena la forma-poesia ad un lirismo, che pure mi è appartenuto ma che ho nauseato. Procedo , ora , a modo mio e dopo aver letto in questo blog cose che mi hanno totalmente convinta, perché assai diverse da quelle alle quali hanno voluto abituarci. So che quando avrò pubblicato la prossima raccolta, nella quale includerò testi con questa nuova tendenza, non sarò capita ma non sarà per me un problema. Il problema è e sarà di quelli che non riusciranno a confrontarsi con l’idea di una poesia nuova , che si oppone all’immobilismo di pratiche letterarie di un passato petrarchismo , egocentrico, ormai sepolto. Grazie di cuore a te e a quanti vorranno,eventualmente, aggiungere un commento dopo il tuo. Un abbraccio.
cara Nunzia,
sei sulla buona strada e sei in buona compagnia.
Commenti sull’articolo postato su Academia.edu
https://www.academia.edu/s/10c24f848c#comment_1297461
Giorgio Linguaglossa
Ha ancora senso pubblicare Antologie generaliste? Penso di no.
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Sofia Maria Bernadette Mari
15 hrs ago
Sono d’accordo: non ha sebso pubblicare antologie generaliste.
Magari ha più senso pubblicare raccolte come ricerche su un determinato argomento.
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Giorgio Linguaglossa
14 hrs ago
Ormai sono i fatti che smentiscono le antologie di poesia generaliste. L’unica cosa da fare è allestire Antologie di percorsi paralleli e/o contigui o, come si diceva una volta, di ricerca (che non so perché molti autori aborriscono)
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Elisabetta Potthoff
14 hrs ago
Resta valida l’antologia come soluzione ‘panoramica’ e qui penso alla ‘Poesia italiana degli anni Settanta’ (Feltrinelli), ma questo tipo di scelta non non potrà mai avere il fascino e l’intensità della collana ‘Lo specchio’ ( Mondadori), dove persino la veste editoriale conferiva a ogni singolo poeta fascino e intensà tali da potersi ‘specchiare’!
Sinceramente. Elisabetta Potthoff
Giorgio Linguaglossa
< 1 min ago
cara Elisabetta,
io non sono affatto contrario alle antologie «panoramiche», in specie a quelle che però restringono il campo, che so, ad un decennio, come quella che hai ricordato tu ('Poesia italiana degli anni Settanta' edita da Feltrinelli). Ma, alla fine è indispensabile passare dalla antologie «panoramiche» ad antologie «ristrette» come quella della "Poetry kitchen" che registra una direzione ben precisa del linguaggio poetico, una direzione che esclude tutte le altre direzioni. A prescindere da giudizi di gusto e dalle opinioni sulla «qualità» dei testi, che rispondono sempre a giudizi di gusto individuali, l'aspetto positivo delle antologie «ristrette» sta proprio nella indicazione di un percorso (individuale e collettivo) in una determinata direzione. Non è la ricerca in sé che è importante e determinante ma la direzione della ricerca. Voglio dire che non esiste una ricerca senza direzione, non esiste una ricerca non direzionata.
Stefano De Angelis
2 days ago
Grazie per l’invito e per questo spazio di riflessione.
Mi immergo nella lettura!
Unlike1
Cristina Banella
14 hrs ago
Grazie per avermi invitata. Mi occupo di tradurre poesia giapponese e farla conoscere; parto quindi da un altro angolo di visuale. In questo ambito, pur con tutti i (grandi) limiti che ha, un’antologia generalista ha ancora un qualche senso. Specie in Italia dove di poesia giapponese si sa veramente poco…
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Carlo Minnaja
13 hrs ago
Grazie per avermi invitato. Sono un traduttore in esperanto di poesia, di prosa e di teatro. Antologie genraliste o no? dipende dallo scopo e dal target. Pur essendo stato ovviamente appassionato delle edizioni dello “Specchio”, ritengo che per far conoscere il complesso della poesia italiana del ‘900 al mondo esperantofono ci sia bisogno di costruire una antologia generalista, tipo quella del Mengaldo, a cui mi sono ispirato nella mia antologia in esperanto “Enlumas min senlimo” (M’illumino d’i… Read More
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Giorgio Linguaglossa
< 1 min ago
caro Carlo Minnaja,
le antologie generaliste però hanno il demerito di non riportare gli autori che non hatto fanno parte dell'area poetica a vocazione maggioritaria che ha il sostegno dell'inerzia delle istituzioni accademiche, autori che cito nel mio articolo.
Giorgio, da quanto qui riporti noto che esiste una molteplicità di intenditori, pur se limitata come credo , che approva una direzione di ricerca autonoma in poesia. Ciò mi fa piacere. Sappiamo che sovvertire quanto è consolidato è un rischio: si viene attaccati e ,ancor peggio, emarginati. Nonostante tutto, ritengo che essere fuori dai limiti o provare a scavalcare ” la siepe che da tanta parte dell”ultimo orizzonte il sguardo esclude” sia un atto eroico , quindi apprezzabile. A Lucio Mayoor Tosi, che ha gentilmente commentato i miei quattro testi, posso dire che, come lui , non ho mai creduto ai premi letterari e che quando mi sono trovata a far parte di qualche giuria ho falcidiato quanto non mi appariva originale e pre-logico, cosa che i giurati mai fanno. Bisogna, insomma , insistere con la ricerca per fare uscire la poesia dall’impasse in cui versa. Ci sto provando da un po’ e ne sono felice. SÌ, perché ricercare nuove forme frastiche ed espressive mi eccita. Non vale la pena scrivere poesia , se nel farlo, l’autore non avverte alcun senso di euforica eccitazione. Sentirsi un po’ eretici in un mondo in cui domina il pensiero unico, indotto dal potere di sistemi non solo politici ma anche culturali, che non approvi ,provoca ebbrezza e rende davvero felici. Penso questo. Lunga vita all’Ombra, che ringrazio.
Conosco Nunzia Binetti da più di una decina di anni e la considero una delle poche voci davvero degne di considerazione nella nostra comune terra d’origine cioè la Puglia. Ho sempre pensato alla sua produzione poetica come ad un punto di riferimento costante nella ricerca di un linguaggio poetico innovativo e originale per raccontare di questo nostro mondo imprigionato tra le maglie della quantità e del calcolo in cui però la sostanza, se c’è, fugge da tutti i pori, attraversa tutte le maglie esattamente come se si volesse fermare un granello di luce e metterlo su una bilancia.
Da questo punto di vista si comprende come la stragrande maggioranza della poesia gettata sul piatto della contemporaneità, generi soltanto sentimenti di estraneità, avversità e nausea in chi non cerchi successo, fama e legittimazione a costi bassissimi.
I versi che invece vengono qui proposti rappresentano davvero lo sforzo intellettuale di una poetessa in cammino verso la Poetry Kitchen. Ne sono davvero felice ed entusiasta.
Ciao Franco
Sì Franco, ci conosciamo da tempo ed hai potuto seguire la evoluzione della mia scrittura poetica che inizialmente era votata al lirismo, ma che pian piano, per stanchezza ha voluto intraprendere- pur con costante attenzione al linguaggio -una diversa direzione. Ho sempre sostenuto anch’io che la tua penna sia tra le migliori di Puglia, anzi la migliore in assoluto. Talvolta ti trovo poeta geniale e non sto esagerando nell’affermare questo. A maggior ragione non posso che ringraziarti per il tuo benevolo commento ai miei testi e per l’incoraggiamento che con Giorgio, Mayoor Tosi e Marie Laure Colasson mi stai offrendo. Un caro saluto, amico mio.
Caro Linguaglossa,
non mi fiderei di Berardinelli appartiene al trapassato remoto, come si dice in questi casi: è nelle vetrine del Museo della Critica della ragion poetica.
Carissimo Giorgio questa storia n
Molto convincente la prova di Nunzia Binetti. Leggendo mi sono divertito al pensiero di quanto Lei si sia divertita a scrivere in questa modalità. È una strada senza ritorno, ma il prezzo, è vero, sarà quello di ricevere qualche premio letterario in meno. Solo per adesso, ovviamente. E complimenti a Giorgio per l’instancabile promozione, ora anche su Academia.edu.
Il gioco con le rime è parente stretto del gioco con le divise militari, con i tank
Quando Adorno nel capitolo finale di Dialettica negativa (1966), dedicato alla «Metafisica», scrive che «Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro agire e pensare in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile»,
dice qualcosa che per le generazioni venute dopo il 1970 non ha più alcuna risonanza. Scrive Adorno: «Il processo, attraverso il quale la metafisica si è ritirata incessantemente a ciò, contro cui essa un tempo fu concepita, ha raggiunto il suo punto di fuga. La filosofia del giovane Hegel non ha potuto reprimere quanto essa fosse scivolata dentro i problemi dell’esistenza materiale…».
Ecco che siamo arrivati al problema che qui ci riguarda: il nesso che lega il poeta «cortigiano» alla funzione oggettivamente servile di quel ruolo, il non potervisi sottrarre in alcun modo, nemmeno basta il denunciare la pacchianeria di ogni poesia struggevolmente eufonica; voglio dire che non basta una poesia smaccatamente cortigiana a denunciare il fatto della condizione servile del cortigiano. La poesia di Valentino Zeichen ad esempio resta cortigianesca al di là dell’apparenza e al di qua della propria oggettiva funzione decorativa. La stessa «tascabilizzazione della metafisica» propugnata dal poeta di Fiume ha il suo risvolto negativo nella prassi del poetico, si rivela nella farcitura frastica che rende la poesia affine al gioco con spunti ironici e mottetti di spirito, con filastrocche da cabaret come nella poesia del fiumano.
Accade così che ogni volta che si espunge la «metafisica» dalla vita degli uomini e dalla poiesis, la si rimuove anche dalla vita degli uomini del futuro. Infatti, espungere la metafisica, dimidiarla o giocarci, vuol dire che si va a finire nella poesia da intrattenimento e da decorazione. Il gioco della poesia cosiddetta «giocosa» ha questo di vero: che gioca con il gioco di società delle signore borghesi e del Potere che incita a studiare Dante quale modello della destra italiana. La cosa farebbe ridere se non fosse stata propinata come seria, anzi serissima.
Così si chiede al poeta «cortigiano» di giocare con rime euforbiche e transmentali, giocare con i bisticci di parole. La poesia kitchen non è affatto un gioco, e questo l’ha capito benissimo Nunzia Binetti. Insomma, voglio dire, per chi non l’avesse ancora capito, che il gioco delle rime è parente stretto del gioco con le non rime, quello duro, che si fa con le divise monetarie e con le divise militari, con i tank.
cara Nunzia Binetti,
sono molto contenta di questo tuo esordio nelle colonne dell’Ombra, non ti preoccupare se le persone normali non ti capiranno, prova a leggere le tue poesie a dei bambini e vedrai che capiranno benissimo.
I bambini sono dei veri intenditori di poesia. E Auguri, continua così.
Sì Franco, ci conosciamo da tempo ed hai potuto seguire la evoluzione della mia scrittura poetica che inizialmente era votata al lirismo, ma che pian piano, per stanchezza ha voluto intraprendere- pur con costante attenzione al linguaggio -una diversa direzione. Ho sempre sostenuto anch’io che la tua penna sia tra le migliori di Puglia, anzi la migliore in assoluto. Talvolta ti trovo poeta geniale e non sto esagerando nell’affermare questo. A maggior ragione non posso che ringraziarti per il tuo benevolo commento ai miei testi e per l’incoraggiamento che con Giorgio, Mayoor Tosi e Marie Laure Colasson mi stai offrendo. Un caro saluto, amico mio.
Carissima Marie Laure,
a te devo un grazie speciale per come argini la mia preoccupazione per l’incapacità del lettore ad accogliere versi “diversi” da quelli che circolano abitualmente. Hai ragione nel prediligere i bambini ,come possibili fruitori di certa poesia e di certi suoni. I bimbi sono quella tabula rasa , non contaminata ,sulla quale può facilmente incidere quanto di più bizzarro possa esistere. Essi sono il futuro al quale guardiamo noi stessi nel fare una poesia che contiene in sé qualcosa di nuovo. Un sentito abbraccio.
Per chi volesse approfondire le questioni sollevate dalla Antologia di Berardinelli e di Cordelli del 1975, legga qui.
Scrive Franco Cordelli in una nota acclusa alla Antologia Il pubblico della poesia del 1975, ripubblicata nel 2003 con l’editore Castelvecchi:
«Nel 1975 il dominio dell’ideologia avanguardista era allo stremo. Ma non lo si capiva affatto. Era anche nel momento di massimo dispiegamento della propria forza. Ho detto forza e non energia. Tutta l’energia s’era volatilizzata. Il senso di soffocamento, di occlusione, era totale. Che cosa avrebbe dovuto fare un giovane che avesse avuto voglia di scrivere? Occorreva che si creasse da sé lo spazio (interiore) per liberarsi da un modello tirannico. Ma crearselo non era facile affatto. Sembrava impossibile. C’era il rischio, supremo, dell’inattualità – o della ripetizione, dell’epigonismo. Deridevamo chi non aveva fatto suo quello che ritengo sia il patrimonio inalienabile dell’avanguardia, e che posso riassumere nel concetto di sorveglianza. Ma i seguaci dei Novissimi ci sembravano irrimediabilmente sterili. Era evidente che non vi sarebbero state altro che soluzioni individuali». Annota il critico che era intervenuta una mutazione genetica: erano scomparsi i «poeti-intellettuali» delle generazioni passate ed erano rimasti degli autori impegnati a farsi «pubblicità per se stessi» o, con la terminologia di un altro dei curatori della Antologia, Alfonso Berardinelli, erano rimasti i «poeti massa», i «poeti di fede», che si «autoproclamavano poeti» e che gestivano in proprio la propria campagna pubblicitaria e promozionale.»
Scrive nel 2003 Alfonso Berardinelli con riferimento all’Antologia Il pubblico della poesia del 1975:
«il libro in sé non riusciva a convincermi. Ma perché avrebbe dovuto? Come ho già detto, sembrava essersi fatto da sé e io non volevo diventare il portavoce e promotore della mia generazione. Quella che avevamo registrato nel corso della nostra inchiesta era indubbiamente una realtà letteraria che emergeva in quegli anni. Ma tutti quei poeti mi interessavano poco e il fatto che l’autocoscienza storica in molti di loro diminuisse, da un lato mi dava il senso di aver scoperto un fenomeno nuovo e dall’altro mi lasciava indifferente. Anni dopo capii che nella nostra antologia-inchiesta prendeva corpo una situazione della poesia che si sarebbe rivelata tutt’altro che transitoria. Tutti i tentativi successivi di chiudere in un progetto ideologico-editoriale, in una poetica, in un canone minimo di autori quella preoccupante pluralità centrifuga degli anni Settanta si sarebbero rivelati tentativi ingenui o astuti, ma soprattutto inefficaci e fuorvianti. Per tutti i venticinque anni successivi in realtà non si è riusciti a capire che cosa fosse diventata la nuova poesia italiana.
Noi intanto nel 1975 avevamo messo da parte l’equivoco che aveva permesso ai Novissimi di avere tanto successo: credersi ancora avanguardia e fingere di vivere mezzo secolo prima. Proporre se stessi come la soluzione più avanzata del problema dell’arte era un gioco che ancora piaceva molto, prometteva di fare un certo scalpore e ovviamente gratificava parecchio gli autori. Credersi più moderni e più attuali di ogni altro dà senza dubbio qualche soddisfazione e infatuazione. A rischio di non avere successo e di sconcertare i lettori, noi però scegliemmo di andare nella direzione opposta. I poeti della mia generazione erano non meno bravi dei molti che nel decennio precedente erano stati pubblicati con l’etichetta del Gruppo ’63. Ma non si nutrivano di idee.
C’era in loro una notevole naïveté, che se da un lato li preservava dai guai di credersi garantiti da teorie e ideologie, dall’altro li faceva spesso sembrare sprovveduti, poco consapevoli di se stessi e del mondo.
Dovendo descrivere questa situazione e questi fenomeni, mi convinsi che la sola cosa possibile era teorizzare non una tendenza, ma la pluralità e la compresenza di scelte e soluzioni. L’idea centrale era questa: non è vero che in ogni situazione storica esista una e una sola tendenza giusta in letteratura, come avevano creduto in fondo sia gli engagées sia gli avanguardisti. Era vero invece che nessuna situazione storica dell’arte è definibile a priori in termini di autocoscienza politico-teorica, ma che questa definizione si può ottenere (in termini comunque non univoci) solo a posteriori, leggendo gli autori che pur vivendo negli stessi anni scrivono ognuno a modo suo. L’ambivalenza che è stata subito notata nel mio saggio introduttivo. Effetti di deriva esprimeva appunto i miei dubbi, anche se nel gergo teoricistico di allora. I poeti della mia generazione erano manifestamente più liberi di andarsene ognuno per la sua strada: ma questa libertà derivava anche da una diminuita coscienza critica, da una pretesa di innocenza che minacciava di rendere troppo disinvoltamente produttivi troppi nuovi autori. La nuova poesia nasceva ormai fuori dall’autocoscienza storica (e da molti suoi eccessi soffocanti e sofistici).
Si poteva fare di tutto in poesia: inventare e ritrovare soluzioni formali moderne, premoderne, manieristiche, neoclassiche, colloquiali, di esibito esoterismo o di smaccato autobiografismo. Questo era indubbiamente (come si disse più tardi) “postmoderno” e faceva sentire più liberi di essere quello che si era senza la costrizione di adeguarsi ad un super-io ideologico o formalistico. Questa inedita libertà creativa, però, avrebbe richiesto una capacità di autocontrollo critico perfino superiore a quella che si era vista in passato. Invece avevo il sospetto che anche quando scrivevano poesie migliori di quelle di Sanguineti, Porta e Balestrini, i poeti de Il pubblico della poesia sapevano meno chiaramente quello che facevano: lo facevano a volte benissimo, ma più a caso. Come autori erano poco strutturati. Per questo proposi di intitolare l’ultima sezione dell’antologia Come credersi autori? L’intenzione era questa: indicare che i poeti più intelligenti conservavano un congruo scetticismo sulla figura pubblica dell’autore, sulla figura mitica del poeta, ma anche sulla figura professionalmente produttiva del poeta “in carriera”. Essere poeta era secondo me un rischio anche maggiore che in passato. I fatti lo hanno confermato. I critici e gli editori da allora in poi hanno lasciato i poeti a se stessi. A volte li hanno del tutto trascurati, altre volte li hanno consacrati un po’ a caso.
Il risultato è che oggi, quasi trent’anni dopo la pubblicazione di questa antologia, invece che pluralità e compresenza di tendenze, c’è piuttosto una vera e propria confusione critica. Con gli anni ottanta si è formato un “piccolo canone” comprendente una decina di autori, ma questo è avvenuto non perché un certo numero di critici fossero al lavoro e si discutesse della qualità dei testi. È avvenuto per decisione editoriale o perché alcuni autori mostravano di avere un talento auto promozionale più spiccato di altri. Così oggi se si vanno a vedere le collane di poesia dei maggiori editori italiani si può trovare di tutto: i nomi dei poeti effettivamente migliori si trovano accanto a quelli di autori che non si capisce neppure perché siano stati pubblicati e da quale mai genere di lettori possano essere letti.
Riproporre oggi Il pubblico della poesia può perciò avere un significato: ricominciare dall’inizio della vicenda, riaprire il discorso sui poeti venuti dopo Amelia Rosselli e Giovanni Raboni, invitare la critica a riflettere se i poeti favoriti dall’editoria a partire dagli anni Ottanta sono ancora da leggere e se, una volta letti, dicono davvero qualcosa. Se la nostra antologia ha avuto una “funzione storica” credo che sia stata nell’indicare che la situazione del fare poesia era cambiata, che il pubblico era ormai prevalentemente composto da poeti reali o potenziali, che il rischio consisteva appunto in una crescente autoreferenzialità di questo genere letterario».
L’excursus storico e cronologico ragionato sulle cinque antologie prese in considerazione rende perfettamente chiara l’importanza dell’operazione culturale della Poetry Kitchen, fermo restando che è un filone poetico difficilissimo da percorrere quanto affascinante negli esiti.
È complicato fare tabula rasa del proprio bagaglio linguistico-culturale, anzi no.
Perché il personale bagaglio comunque rappresenta un passaggio obbligato verso nuove forme espressive.
È difficile farci stare tutto dentro.
Chapeau agli autori che si muovono con disinvoltura nel nuovo, a quelli che afferrano il vento del futuro, a chi immagina reinvenzioni per suggestionare, quanto meno farci sentire vivi.
E vedo sento tanta vitalità nella Poetry Kitchen, ben lontana dal realismo terminale, anzi lo ha superato di certo.
L’ironia salverà il mondo!
Grazie!
m pia l
Negli ultimi mesi ho ricevuto l’invito a partecipare ad antologie di poesia.
Alla mia richiesta di delucidazioni circa l’idea di base della antologia mi è stato risposto che si voleva offrire un ventaglio democratico di proposte.
La mia risposta è stata: No grazie, partecipo soltanto ad antologie direzionate da una idea, le antologie generaliste non mi interessano.. Capisco che un operatore “culturale” debba ricercare il consenso degli altri operatori, che questa è la regola, ma a me e alla mia età non interessa il consenso generalista dei cosiddetti altri operatori.
Penso che bisogna essere seri. Rientra nei doveri deontologici, per così dire, di un autore serio astenersi dal partecipare ad operazioni di mero consenso o di mera visibilità.
LAUDATO SIA IL TORTELLINO IN SCATOLA AL MASTERCHEF
Ma quale sliding story, il suo piatto è una merda!
MENZIONE O MINZIONE D’ONORE?
Sarebbe bastato fare un’aggiunta a una battuta di caccia del re Nasone
più cruenta del solito.
Meno cani al seguito e fagiani e corde d’impiccati
Tutto perché non si è fatto in tempo a prenotare sulla Ferdinandea
Dove pisciare e affogare in grande.
SEGNALATO O SEGNATO?
Tra le pillole rosse ce n’è una blu. Scrollare il tamburo prima dell’uso.
La storia del giustiziere notturno tra avvertenze e indicazioni.
Evitare in gravidanza. Potrebbe far male a Maria Carolina
E dunque non partorire mitraglie e forche e nodi scorsoi.
GIURIA O GIUNTA?
Si alzi signora. Non ha mai sentito che ci sono rotule obbedienti alla 104?
Avanzano le sedie a rotelle nell’ Asl. Proclamano indipendenza dall’osso sacro.
Ah lazzaroni che fate al collo della Sanfelice?
Morire a giugno è cosa possibile
Ma vincerà la lotteria di capodanno, come piace al re.
MOTIVAZIONE O MORTIFICAZIONE?
Eburneo sarà lei. Il mio nome è colesterolo.
Il vademecum parla chiaro: luna a pois prima di morire e niente filo per le sottane.
Consulti il medico e non si faccia prendere dall’esaltazione.
Un colpo al cuore, un altro a Leonora
INSINDACABILE O ETERNO RITORNO?
Un dente maledice la mascella.
La mandibola difende la gengiva
La carie benedice il nervo.
-Alle pinze. Disse il dentista ma google scrisse panze
E riempì di bolo lo schermo del computer.
Carri, missili, aerei avanzarono sulla tastiera tranciando lettere e consonanti.
Cosa scriveranno adesso?
Lascia che i nervi si arrangino da soli. Tra correnti ci s’intende.
E mentre gli ampere risalgono gli scoli
avanza nel buio l’ascia del macellaio .
PRIMO PREMIO O VITTORIA?
Qui giace Tutankhamon sepolto con l’arco di Diana al mignolo
la passione per il fucile a tromba, il coccodrillo nell’ intestino.
Risalendo il Nilo pervenne il potenziale a una decisione.
Meglio sarebbe non rivelare la ricetta, ma tant’è!
(F.P.Intini)
Ecco la famosa poesia composta da Nanni Balestrini con un computer IBM nel 1962 giovandosi dell’uso di un algoritmo, forse l’operazione più rivoluzionaria e contestatrice della neoavanguardia che bene mette in mostra i due elementi fondanti della operazione avanguardistica : il Fattore caosmatico e il Fattore parodistico.
TAPE MARK I
La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno
finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.
I capelli tra le labbra, esse tornano tutte
alla loro radice, nell’accecante globo di fuoco
io contemplo il loro ritorno, finché non muove le dita
lentamente, e malgrado che le cose fioriscano
assume la ben nota forma di fungo, cercando
di afferrare mentre la moltitudine delle cose accade.
Nell’accecante globo di fuoco io contemplo
il loro ritorno quando raggiunge la stratosfera mentre la moltitudine
delle cose accade, la testa premuta
sulla spalla: trenta volte più luminose del sole
esse tornano tutte alla loro radice, i capelli
tra le labbra assumono la ben nota forma di fungo.
Giacquero immobili senza parlare,
trenta volte più luminosi del sole essi tornano tutti
alla loro radice, la testa premuta sulla spalla
assumono la ben nota forma di fungo cercando
di afferrare, e malgrado che le cose fioriscano
si espandono rapidamente, i capelli tra le labbra.
Mentre la moltitudine delle cose accade nell’accecante
globo di fuoco, esse tornano tutte
alla loro radice, si espandono rapidamente, finché non mosse
le dita lentamente quando raggiunse la stratosfera
e giacque immobile senza parlare, trenta volte più luminoso del sole, cercando di afferrare.
Io contemplo il loro ritorno, finché non mosse le dita
lentamente nell’accecante globo di fuoco:
esse tornano tutte alla loro radice, i capelli
tra le labbra e trenta volte più luminosi del sole
giacquero immobili senza parlare, si espandono
rapidamente cercando di afferrare la sommità.
La concisione delle brevi stofe rende un vantaggio a Francesco Intini in quanto gli consente una concentrazione massima delle parole. E in effetti, la differenza tra la scrittura del Computer di Nanni Balestrini del 1962 e quella di Intini del 2023 è un salto, ma un salto storico, l’una operazione garantisce il successo della operazione che la segue a distanza di sessanta anni.
Da tempo apprezzo la poesia di Nunzia Binetti che ho osato definire di frattura ponendo barriere tra il detto e ciò che ancora c’è da svelare; per la capacità intrigante e altamente stimolante in cui nulla è scontato, spingendo ad accurati approfondimenti non solo del verso ma di ogni singolo lemma, dosato, usato con sagacia e perspicacia, senza per questo risultare artificioso in quanto si evince chiaramente la naturale inclinazione all’esplorazione e al superamento dell’ovvio o del sapere preconfezionato. In Nunzia l’abilità della sintesi è al servizio di una vastità interiore in continua eruzione intellettuale, mai soddisfatta, incline alla ricerca senza nessun atto di presunzione in quanto puro e genuino bisogno dell’autrice per cui il sé diviene il tramite per comprendere il noi e dipanare le ombre dei misteri del tutto.
Ringrazio Maria Teresa Infante, che da tempo conosce la mia scrittura poetica e che è la sola, fuori da questo gruppo, a spingermi e aincoraggiarmi nel proseguire il percorso di ricerca intrapreso. È nata così fra noi due una affinità intellettuale che si è tradotta, man mano, in un bellissimo rapporto di stima, di amicizia e di collaborazione.
Complimenti al prof. Linguaglossa non solo per l’analisi attenta e minuziosa, così aderente ai contenuti della poetica di Nunzia Binetti ma anche per il pregevole bagalio informativo, sicuramente interessante che ho molto apprezzato, anche nei commenti
Rispondo a Maria Teresa Infante
concordando sulla sua valutazione circa le possibilità e la capacità di Nunzia Binetti di operare una fortissima discontinuità rispetto alla sua precedente poesia, diciamo, elegiaca incentrata sulla confessione dell’io come va di moda oggi nella pratica poetica maggioritaria. Il tempo è dalla parte della Binetti e dalla nostra parte, prima o poi il nuovo linguaggio si farà strada, il nuovo linguaggio è una esigenza storica e ontologica dell’antico linguaggio lirico o post-lirico, è soltanto una questione di tempo ma la rivoluzione dei linguaggi poetici (e non solo) è solo all’inizio.
Molto presto sull’Ombra apparirà un post dedicato alla nuova poesia di Nunzia Binetti che ha già ricevuto il plauso unanime di tutti gli esponenti della redazione.
L’Ombra delle Parole è nato nel 2013.
All’inizio era un blog che cercava la propria strada di uscita dal novecento epigonico e agonico, la compagnia era la più varia… nel frattempo alcuni si dileguarono per motivi personalistici e posiziocentrici, ciascuno era più interessato al proprio narcisismo che alla costruzione di una poetica con uno zoccolo di pensiero… ma, come si sa, senza una poetica non si va da nessuna altra parte, io lo avevo scritto e ripetuto ma, si sa, il narcisismo è una droga più forte di qualsiasi ragione. Nel 2014 iniziai, insieme ad alcuni di voi, a parlare di «Grande Progetto», e lì qualcuno si allarmò e si dileguò. Negli anni seguenti la rivista si impegnò a creare le coordinate teoriche della NOe (la nuova ontologia estetica) in modo sempre più radicale e convinto (infatti altri partecipanti si allontanarono), nel frattempo altre persone si erano avvicinate vedendo invece nella nostra direzione di ricerca qualcosa di degno di essere approfondito: qualcosa di nuovo stava nascendo. Nel frattempo, negli anni che vanno dal 2018 ad oggi, la poetry kitchen si è configurata come l’espressione più innovativa della poesia italiana e una novità anche in Europa, che io sappia, ad eccezione della nuova poesia ceca che aveva iniziato con 20 anni di anticipo rispetto a noi.
Che dire? Dobbiamo dare continuità al nostro progetto, continuità negli anni con una antologia ogni anno. E magari anche con una Agenda per la quale rinnovo l’invito a lavorare per questo Progetto che è un progetto di lunga durata. So che ci sono dei dubbi e delle perplessità da parte di alcuni a proseguire sulla strada della poetry kitchen, è legittimo che ci siano, è normale, il nostro è il lavoro di un Laboratorio, e come tale è il lavoro di una collettività. Ben vengano quindi i dubbi, se sono ragionati.
Comunico che ho inviato una copia della antologia Poetry kitchen e del mio saggio anche ad Andrea Cortellessa, ad Alfonso Berardinelli e alla rivista sotto indicata:
Philosophy Kitchen
Università degli Studi di Torino
Via Sant’Ottavio, 20 – 10124 Torino
tel: +39 011/6708236 cell: +39 348/4081498
e-mail: redazione@philosophykitchen.com
Web: http://www.philosophykitchen.com
prof Giovanni Leghissa
Prosa troppo diligente e lessico ricercato, o anche solo doverosamente appropriato, possono creare difficoltà per chi voglia accomodarsi nella stretta della frammentazione.
Il frammento è cura dimagrante, i suoi affetti sul linguaggio sono immediati. Stop and go, interruzione (morte del pensiero e sue parole) sono costanti, e così le riprese (vero e proprio reset). Il fuori-senso, le repentine deviazioni, inseriscono e rendono visibile, anche in lettura, il fattore T-tempo, che è parte costitutiva del pensare originario: il qui e ora, ma del tutto inventato.
… è la fine, per esplosione, del passaparola, con cui Omero… ma anche la Bibbia. Versi file-compressi, zippati, sembrano restituiti da macchine… fantasiosa idea di Nanni Balestrini. Ma il post-umanesimo è dettato dallo stesso umanesimo, per cui la macchina potrà modificare fisicamente e mentalmente l’umano; non è così, di fatto stiamo cercando di umanizzare la macchina!
La panzanella ha i calzini corti
Il cannocchiale consuma la nebbia scesa a passeggio per vedere la luna nuova, il bar dell’angolo ormai è chiuso!
Il mare che s’inventa il reggiseno nell’acume di un’onda che s’infrange sullo scoglio ha le coordinate provvisorie
bla bla approssimativo di una clessidra che ignorante gira nell’occhiello e sbatte sulla mensola a muro
Un tardivo tergi-verso sgangherato di un mai che si deforma, caso mai giungesse un controsenso di quel gesso che si rapprende
By r.c.
caro Raffaele, io toglierei il verso iniziale…
Cesare Viviani parte dal principio che il reale si dà nella forma ipoveritativa e non è rappresentabile se non nella forma di frammento, ma in lui il frammento è a monte dell’opera che verrà, non è un risultato ma una petitio principii. Già prima di nascere la poesia del terzo periodo di Viviani viene alla luce nella forma di frammento pieno di fermento. Per questo motivo la causa agente della sua poiesis è il dubbio programmatico, lo scetticismo che tutto aggredisce come una ruggine il metallo, il dubbio che il tutto non sia in quel che appare e che anche la migliore poesia è un epifenomeno del nulla. La sua poiesis afferma perentoriamente: «ingannare il tempo». E di qui prosegue la sua corsa a dirotto tra le stazioni del nulla (parola che inutilmente cercherete nella sua opera), cioè l’indicibile e l’impensabile. Ecco perché la veste formale di questa poiesis è l’aforisma e il pensiero «imperfetto», per amore dell’onestà intellettuale verso quella cosa, la poesia, che, come recita il titolo di uno dei suoi libri di riflessione di poetica: «la poesia è finita», che, esattamente non è un enunciato negativo, perché nel pensiero di Viviani la poesia può anche finire, può assentarsi per anni o per decenni, per poi magari, all’improvviso, ripresentarsi senza alcuna ragione apparente con una nuova veste formale ed espressiva, senza che fosse stata richiesta o cercata.
La poesia per Viviani non è un «falso» né un «vero», né un «positivo» o un «negativo», è semplicemente l’evento di un assentarsi dai luoghi frequentati dalle parole scostumate del nostro tempo. Lo scetticismo ipoveritativo della poiesis di Viviani dà luogo a una poesia che fa della imperfezione e della provvisorietà il proprio punto di forza, capovolgendo in tal modo la propria debolezza in forza. Parrebbe che la logica della disgregazione del mondo amministrato sia giunta a tal punto di profondità da non lasciare alla poiesis alcuna chance di ripresa. Il frammentismo trascendentale di Viviani si nutre proprio di quella disgregazione (Logik des Zerfalls – Adorno) del mondo divenuto globale, ne è ad un tempo, riflesso e prodotto, «mosaico dorato» che è «fuori dalla natura». Quel dubbio e quello scetticismo radicale giunge, alla fin fine, a ristabilire un qualche valore alla poiesis, anche se in modo transitorio e periclitante. Un dispositivo destituente sembra in opera in questo tipo di scrittura, un abbassare il livello comunicazionale per adire un sublivello, una sub-comunicazione. La cultura che si è positivizzata dà luogo all’anti positivo dell’arte, sembrerebbe questa la conclusione cui è giunto Cesare Viviani. Quindi, il non-chiudere è per definizione l’ultima possibilità che resta alla poiesis. L’ultima chance.
Caro Giorgio, senz’altro! tanto è fuori misura , eccentrico e sghembo. Quei versi stanno bene anche da soli. Raffaele