Mosca, monumento dell’epoca sovietica al missile nucleare
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Petr Štengl nasce nel 1960 a Praga, dove tuttora vive. Ha studiato da tipografo ed è poeta ed editore. Dal 2006 è anche redattore capo della rivista di poesia contemporanea Psí víno (Vite vergine). I suoi testi sono apparsi su varie riviste ceche (anche online) e nelle sue due raccolte edite: Co říkal Zouplna (Cosa ha detto Zouplna), 2005 e 3+1, 2010. Da quest’ultima raccolta sono tratti i testi che qui presentiamo.
Intervista a Petr Štengl
Quando ha iniziato a scrivere poesie, e perché ha scelto questo genere letterario e non, ad esempio, i racconti, visto che i suoi testi mostrano una chiara struttura narrativa?
Sono sempre stato attratto dalla narratività. Ho iniziato a scrivere poesie, in maniera seria, convinta e con un certo interesse soltanto ben oltre i trent’anni. Non ho mai sentito di avere una robustezza letteraria tale da poter scrivere in prosa, che, tra l’altro, richiede tempo e concentrazione. Al momento, però, sto cercando, con un certo sforzo, di scrivere un testo prosastico, anche se non riesco a trovare tempo sufficiente per terminarlo.
Quando divenne redattore capo della rivista di poesia Psí víno (Vite vergine), alcuni componenti della redazione la abbandonarono, non condividendone il nuovo punto di vista: una poesia che non vuole essere “un distillato dell’esperienza e dell’identificazione metafisica personale”. Perché, secondo lei, una tale poesia è necessaria nella Repubblica ceca? Pensa che anche in altri paesi abbia lo stesso peso o significato?
La poesia ceca era addormentata, come la povera Rosaspina, e con lei l’intero regno poetico. Era venuto il momento di raggiungerla, facendosi strada tra il roveto, e risvegliarla. Provi ad andare in una qualsiasi libreria e, nel reparto (sempre più piccolo) dedicato alla poesia, provi a scegliere, ad esempio, cinque raccolte a caso e dia una scorsa alle diverse poesie. In questo modo ho trovato la risposta alla sua domanda.
Penso che la poesia nella quale credo funzioni in maniera universale e quindi anche altrove mantenga la stessa valenza. L’importante, come sempre, è cosa il lettore si aspetta dalla poesia e se sia davvero il compito della poesia quello di soddisfare delle aspettative. La poesia ha forse un significato diverso per il poeta e per il lettore? E c’è qualcosa che differenzi il lettore dal poeta? Io non riesco a vedere nessuna differenza.
Considera la scena poetica ceca fortemente frammentaria o piuttosto uniforme?
La scena poetica ceca è diffusamente sparpagliata. È segmentata in gruppetti affini o antagonisti, che comunicano tra di loro sporadicamente oppure si incontrano solo casualmente. Ogni rivista ha la sua cerchia di simpatizzanti e sostenitori, così come ogni sito internet, club o circolo letterario. Non c’è nulla che li unisca. Non cercano (tranne rare eccezioni) di comunicare o collaborare tra di loro. Da un certo punto di vista, ciò è un bene, in quanto, così facendo, l’arena poetica si sottrae, almeno limitatamente, ad una certa uniformità; d’altro canto, però, è una cosa abbastanza triste, in quanto i gruppi contrapposti non riescono ad instaurare una discussione comune. In parole povere, è un po’ la filosofia del “chi non la pensa come noi è contro di noi”. E il nemico, naturalmente, bisogna zittirlo e sotterrarlo.
Quali sono, secondo lei, le differenze principali tra la sua rivista e gli altri giornali e riviste di poesia cechi?
Inizierei col dire che nella Repubblica ceca le riviste e i giornali letterari si dividono in due categorie: quelli a basso costo con uscite trimestrali e quelli ad alto costo con uscite più frequenti (quindicinali). Questa circostanza permette ai quindicinali, ad esempio, di poter portare avanti le polemiche.
Dal punto di vista della concezione e dei contenuti, naturalmente, le riviste sono profilate abbastanza distintamente, ed è facile sapere cosa aspettarsi da ognuna di loro. Uno dei redattori precedenti di Psí víno la caratterizzò come un punk tra le riviste poetiche. Forse anche per questo motivo ha preferito, poi, lasciare la redazione.
Riesce a scorgere oppure si aspetta la nascita di una nuova corrente nella poesia ceca?
Spero che una tale corrente stia iniziando a nascere. La maggior parte dei redattori della nostra rivista sono anche autori e le loro opere iniziano a svincolarsi dalle varie classificazioni, nelle quali, di solito e con una certa predilezione, viene divisa la poesia. Le vari categorie di tale classificazione iniziano ad essere insufficienti. Ma ci sono anche numerosi altri autori – e anche loro sfuggono a qualsiasi classificazione – i quali stanno già preparando la strada per quelli che, mi auguro, aspettano impazienti sulla linea di partenza. Tra gli altri potrei citare Pavel Ctibor, Vojtech Vaner oppure Filip Specian.
I suoi testi sono come una confessione personale, scettica e spesso cupa, ma alla fine l'(auto)ironia mette il sigillo ad ogni sua narrazione, evitando che il finale appaia eccessivamente negativistico.
È difficile per me dare un giudizio sui miei testi; forse li definirei delle tragicommedie.
Spesso lei scrive e descrive, in maniera più o meno velata, la vita durante il regime totalitario comunista. Perché crede che sia tuttora attuale una riflessione su quel periodo?
Quando si cresce e si trascorrono i migliori anni dell’adolescenza in qualsiasi tipo di ambiente, nessuna circostanza, nessun regime, pur se totalitario, può rubare l’atmosfera di quel periodo.
Allo stesso tempo, nei ricordi affiorano necessariamente le varie sfumature di quell’epoca. La storia si ripete in circoli e, com’è noto, senza passato né futuro. I peggiori sono poi i fautori del colpo di spugna sul passato. Un approccio assolutamente da fronteggiare. Basti pensare a quanto accadeva negli anni 1970 nella confinante Germania, quando i Tedeschi decisero, coerentemente, di fare i conti con il proprio passato nazista. Forse, se non ci fosse stata la RAF, non avrebbero mai deciso di farlo.
Petr Štengl
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Poesie di Petr Štengl
Una volta, quando eravamo piccoli,
nostra madre ci portò a uno spettacolo sulla piana di Letná, dove c’era un enorme
tendone e dentro una gigantesca balena. Tutta morta. “Guardate che bocca enorme
che ha, e quant’è grossa!” guardammo stupiti.
Era tutt’altra cosa di quando nostra madre ci portò all’ospedale a trovare
il nonno che stava morendo e io a fatica lo riconobbi sul lettino. Talmente era tutto
pelle e ossa. Piccoletto. La balena era certamente meglio.
Viaggiavano insieme ogni mattina,
e quindi i conducenti e noi pendolari li conoscevamo già. Non ci sorprendeva
perciò il suo strillare e le grida. La camicia però l’aveva
sempre pulita e perfettamente stirata, come se sua madre, che
era sempre in piedi un po’ più in là, cercasse di stirarla meglio che poteva. Poi
iniziò a viaggiare da solo e sulla camicia si vedeva che la temperatura del ferro da stiro
segnalava ormai un freddo cane. Controllava se gli autobus erano in orario,
e se qualcuno ritardava, gli abbaiava dietro. Poi iniziò ad abbaiare al mondo
intero, ma sembrava piuttosto un ululato. Oramai viaggiava tutto trasandato
scapigliato e sporco.
E poi successe quella cosa con gli accalappiacani. Ora non c’è nessuno
che controlli i conducenti e quelli fanno i comodi loro.
* * *
Ci sbronzavamo come quei ganzi
dei libri. Alcuni di noi scopavano anche come ganzi. Avevamo le loro stesse
depressioni, i loro stessi complessi. Alle tre del mattino ci mettevamo i fiammiferi negli occhi e la sveglia alle cinque
per riuscire a prendere la prima metro e andare a sfacchinare. Cosa cazzo c’era che non andava?
* * *
Nell’angolo sotto al letto,
in fondo, vivevano dei folletti. Avevano gli occhi di spille
di vetro giallo e si facevano vedere soltanto quando ero solo. Non avevano paura della torcia.
Quando sfregavo un fiammifero scappavano via. Mamma s’arrabbiava
per i fiammiferi bruciati sotto il letto. Per sicurezza mi coprivo fino al mento
con la coperta. Loro si mettevano seduti sul suo bordo e osservavano come mi addormentavo. Sotto il cuscino nascondevo una scatola di fiammiferi. L’agitavo. Correvano
a nascondersi sotto il letto. Mamma aveva paura che diventassi un piromane.
* * *
Abitavamo al quinto piano
di un palazzone di dieci. Di fronte c’era una casa di cinque piani, quindi vedevo bene
sia i piccioni sul tetto, sia quella donna che nella finestra di fronte metteva la gamba
sul radiatore del riscaldamento. I colombi mi piacevano e anche quella gamba. Passavamo
ore intere alle finestre. Io fissavo quella gamba nuda con l’uccello in mano. Il coniglietto ad acquerello, appeso alla parete della camera del bambino, pelava la sua carota.
* * *
Lentamente brucio una foto dopo l’altra,
nella stufa c’entra tutta Varna e anche Spalato, l’intero Mar Nero, i cortei del primo maggio
e anche un vecchio tram, quello che si guidava con la manovella, la casa col giardino,
ereditata dai suoi parenti, tutto l’autobus con i gitanti e persino il tramonto sul Sahara. Questa sì che è una vera cremazione. Prima il muggito, che forza!, poi il tubo sbianca e il fuoco inghiotte con gusto le fotografie con le date e le lettere sul retro. Mentre moriva non c’era nessuno vicino a lei, al crematorio, invece, erano tutti allineati come ad una rassegna. È naturale, visto si sono ritrovati tra le mani una casa da due testoni. Riuscirono a farsi uscire anche una lacrima e a smoccolare il fazzoletto. Al mattino il paracenere è ricolmo. Vado a svuotare tutta quella sua vita anche con la casa. Sul pacciame.
* * *
Va a finire che ti vendo al circo,
mi diceva mia madre, ma, ad ogni modo, tenendole la mano, la seguivo ubbidiente a Letná verso il tendone illuminato. Il clown era quello che mi faceva più paura. Sicuramente nasconde da qualche parte una gabbia piena di bambini col moccolo! Per sicurezza comunque applaudivo anche a lui. Durante la pausa andammo a vedere gli animali. In una gabbia angusta era sdraiato un orso. Non si muoveva. Forse era morto. Dietro c’era una gabbia enorme coperta da un tendone. Per un attimo vi intravidi da una fessura dei ditini che si agitavano.
Poi vennero solo i cavalli. Giravano sempre in tondo accompagnati dallo schiocco della frusta.
Mi innamorai della cavallerizza con la tutina turchese e le orlature dorate.
Poi mia madre mi vendette al clown.
* * *
Il mio disegno
dei soldati sui carri armati coperti di lillà, risplendente di un bel dieci
scritto in rosso, era appuntato sul cartellone del mio primo anno della scuola d’obbligo. L’anno
dopo arrivarono gli stessi soldati con gli stessi carri armati. Sul cartellone era appuntato il mio disegno di un vaporetto, senza il dieci. Ma l’anno subito dopo sul cartellone era di nuovo appuntato il mio disegno dei soldati sui carri armati, coperti di lillà, e un bel dieci scritto in rosso.
I soldati mi riuscivano meglio del vaporetto.
* * *
Tornare dal lavoro
nell’appartamento vuoto
accendere l’abat-jour
un lungo DVD porno
il breve culmine gioioso
ripulire tutto
Andare a guardare nel frigo
è completamente svuotato
scendere in strada
al negozio di alimentari
Il riflettore del locale dei divertimenti
rastrella il cielo
solletica il basso ventre delle nuvole
il rombo dei motori si avvicina
finalmente il primo bombardiere
* * *
La mattina cerco almeno
di far spuntare sul mio volto
qualcosa che somigli a un sorriso
Di pomeriggio mando un’offerta
per aiutare le vittime del terremoto
dall’altra parte del mondo
Il resto della giornata lo trascorro a casa
finché non cessa lo spasmo dei muscoli mimici
* * *
Il fine settimana passato con la lametta e il polso
la settimana passata con una manciata di sonniferi
il fine settimana successivo poi lunghissimo
La vista dal tetto del palazzo di periferia
In dispensa le patate intuirono di poter cogliere
l’occasione e iniziarono a germogliare
* * *
Si sforzava di mangiare quanta più frutta e verdura possibile
e di limitare i grassi
A volte l’artrosi non gli consentiva di correre dietro al tram
Con serietà e responsabilità si scervellava
su chi votare
Acquistò una macchina per fare esercizi
ma era circondato da figure sempre più perfette
Inviava offerte per aiutare le vittime del terremoto
e dallo psichiatra andava soltanto una volta al mese
Per principio in città usava solo i mezzi pubblici
e faceva la raccolta differenziata correttamente
Quante altre cose dovrò elencarvi
prima che lui lo capisca
* * *
Nella valle un noce
quello piantato da mio padre
Entrò in convento e non generò più
Sotto la corona spoglia si scurisce l’anello
la terra inghiotte la sua amarezza
Qui cominciò il viaggio di Orfeo
Io verrei con te fino alla fine del mondo!
Vuoi farmi felice
ma io lo so
che dovresti fermarti davanti al noce
* * *
È statisticamente provato
che gli sceneggiatori di Hollywood
riescono a far piangere più persone
che i produttori di gas lacrimogeno
Sì nemmeno un ciglio resterà asciutto
nelle file per i lavatoi pubblici
Assiomi kitchen sulla poesia e altro:
La poesia è fare il giro del giorno in ottanta mondi
(Anonimo romano)
La poesia è una maschera riuscita per non far scorgere il volto dell’autore
(Maria Rosaria Madonna)
È difficile per me dare un giudizio sui miei testi; forse li definirei delle tragicommedie
(Petr Štengl)
il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
(Vincenzo Vitiello)
Scrivo per non essere incluso
Per fortuna il meglio è passato
Fra trent’anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi ma come l’avrà fatta la televisione
L’insuccesso gli ha dato alla testa
Leggere è niente, il difficile è dimenticare quello che si è letto
(Ennio Flaiano)
*
L’idea è che è possibile preparare piatti sorprendentemente gustosi con gli ingredienti più semplici
*
il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina
*
La poesia che voglio scrivere è impossibile. Un sasso che galleggia.
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Reading di poesia. I quattro poeti continuarono a urlare per tutta la sera: «Il mio dolore è più grande del tuo».
*
La speranza è che la poesia venga meglio del poeta.
*
La poesia che voglio scrivere è impossibile
*
La storia è un libro di ricette. I dittatori sono i cuochi.
I filosofi quelli che scrivono il menu.
I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori.
Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina
(Charles Simić)
Si sono incontrati e si sono slacciati i pantaloni
i coltelli erano nascosti nelle parti intime
qualcuno aveva optato per l’ascella.
A chi fuggiva con il panettone in mano
hanno offerto un diversivo: la prima fetta era ai mirtilli.
I mucchi di jeans sono stati portati al piemme di turno.
Chiedo ai redattori e ai lettori di dichiarare che ne pensano della immagine di questo inalatore viks per la cover della prossima antologia 2023 della Poetry kitchen (fermo restando il parere vincolante di Lucio Tosi).
caro Giorgio,
l’immagine è veramente brutta. Bocciato.
Quanto alle poesie di Stengl, alle sue “tragicommedie” (definizione azzeccatissima) penso che lo story telling possa essere utilizzato da noi in modo personale, seguendo le inclinazioni e la personalità di ciascuno. Stengl se la cava molto bene, le sue sembrano delle poesie kitchen o qualcosa di analogo.
Per la immagine, Ok. Bocciata l’idea.
Cito dal libro di Alfonso Berardinelli Casi critici. Dal postmoderno
alla mutazione (Quodlibet, 2007); a pag 37, c’è scritto:
Berardinelli accenna al vero problema: Ma se la poesia italiana è stata fra le migliori d’Europa, come è accaduto che quest’arte ha perso pubblico e credito?
C’è qualcosa che non va in questo ragionamento?.
La poesia italiana del novecento è stata veramente «tra le migliori d’Europa?», o si tratta di un luogo comune ripetuto per mera vanagloria?
Berardinelli ha perfettamente ragione a riproporre la vera questione della minoritarietà in ambito europeo della poesia italiana del tardo Novecento e dei giorni nostri.
Il problema c’è, è vistoso, ma bisogna andare alla radice dei problemi, non far finta di non vederli, mettere la testa nella sabbia come gli struzzi. Noi non siamo struzzi, il vero impellente problema è la ricostruzione del linguaggio poetico italiano secondo un Grande Progetto o, se vuoi, una «nuova piattaforma concettuale», quella che noi abbiamo chiamato La Nuova Ontologia Estetica. Chi vuole informarsi in proposito non ha che da cliccare su questa rivista gli articoli che abbiamo postato. Qui posso dire soltanto che nella «Nuova poesia», non c’è una direzione stabilita a priori, compiuta, totale e totalizzante, non c’è una direzione unidirezionale. La direzione la si costruisce nel mentre si decostruisce la poesia italiana del secondo e tardo novecento. Oggi non si dà una via unica, la poesia non è una scuola con apprendisti stregoni e allievi, non c’è un sentiero prestabilito, non è di un nuovo «canone» che noi vogliamo parlare, quelle sono parole d’ordine vecchia maniera, qui si tratta di un nuovo modo di concepire la scrittura poetica: una molteplicità di compossibilità, non si dà nessuna gerarchia tra i singoli indirizzi. Scopo della Nuova Ontologia Estetica è quello di mettere in evidenza nel linguaggio poetico che l’esistenza vive di scarti, di vuoti, di fratture, di discontinuità, che le aporie sono di casa, e anche le contraddizioni, che le contraddizioni stilistiche, anche all’interno di un componimento, sono una ricchezza non un difetto, che bisogna respingere le strutture ideologiche che perorano un canone, qualsiasi canone, piuttosto occorre essere consapevoli che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto «totalitario» di poesia conduce ad un concetto di poesia minoritario, acritico.
La nuova poesia e il nuovo romanzo si trovano in una situazione di disseminazione stilistica. La decostruzione è una conseguenza del pensiero filosofico di Martin Heidegger. Infatti, il disegno della seconda sezione di Sein und Zeit (1927) – rimasta alla fase di mera progettazione, per la caratteristica inadeguatezza del linguaggio della metafisica – suonava come una «distruzione della storia dell’ontologia» in nome di una ontologia fenomenologica capace di assumere di «lasciar/far vedere il fenomeno per come esso si mostra» (Derrida) – a far luogo da un linguaggio rinnovato alla radice (ripensato), filosoficamente (nell’accezione ordinaria del termine) «scandaloso».
Riprendo un mio Commento in margine al post dedicato alla “Cartografia della poesia italiana del Novecento” del 2018, perché è importante scalzare la visione dicotomica (Linea innica e Linea elegiaca) del Contini. Non dobbiamo farci abbagliare dalla sua formula dicotomica, anche perché da questa formula dicotomica sono esclusi poeti di livello europeo come Aldo Palazzeschi, Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Mario Lunetta, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Anonimo romano e Alfredo de Palchi, cioè quei poeti che hanno percorso e percorrono attualmente un tipo di poesia che non coincide con nessuno dei due tipi indicati da Contini, cioè né con la linea innica né con la linea elegiaca. È importantissimo tenere questo distinguo. Anzi, è vero il contrario: sia la linea innica che quella elegiaca sono laterali rispetto alla linea di quei poeti che hanno percorso la linea del Discorso Poetico di stampo modernistico. Ed è proprio qui, è a questa linea modernistica della poesia italiana che io vorrei riallacciare la «Nuova Ontologia Estetica» di cui sono rappresentanti i poeti della redazione oltre ad altri poeti e che vede impegnati in questa ricerca i migliori poeti contemporanei.
Il linguaggio della «nuova poesia» preferisce gli stracci
Quando si sale su un podio, qualsiasi podio, la Musa fugge a gambe levate. Questo principio lo vorrei scolpito nel marmo.
Chiedo aiuto a Gino Rago per avere un suo pensiero circa la sua «poetica degli stracci»… ormai per fare poesia ci dobbiamo rivolgere al rigattiere, al robivecchi e, possibilmente, alle discariche abusive che spuntano come funghi dal territorio disastrato di questo paese. Penso che dobbiamo falcidiare tutti i cippi, funerari o meno, tutti i podi, tutte le stele e le colonne di marmo, la poesia la dobbiamo fare con gli stracci sporchi, togliere tutte le superfetazioni, tutte le lucidature, tutti i detersivi… «ciò che rimane lo fondano i poeti» diceva Hölderlin, appunto, prendiamolo in parola: ciò che rimane dalle discariche delle parole è poesia…
La poesia la trovi nelle discariche delle parole, nelle parole abbandonate perché non più utili, che non servono più a niente… tutto il resto, quello che si legge oggidì, sono superfetazioni letterarie… la Musa la trovi tra il rancido delle discariche piuttosto che nei salotti del dolore manifesto…
La «patria metafisica delle parole» la trovi nelle discariche abusive, nella terra dei fuochi, negli incendi di parole appiccati dai piromani e dagli imbroglioni di parole, dagli imbonitori di parole…
Ad esempio, ecco una poesia fatta con gli «stracci» tratta da I platani sul Tevere sono diventati betulle (2020):
Gino Rago
Prima Lettera a Ewa Lipska
[Il liquido reagente]
Una vera civiltà letteraria sorge la si nota quando i suoi poeti si citano l’un l’altro e dialogano l’uno con l’altro, un dare e prendi che si situa sullo stesso piano. Anche le terribili frecciate di Pasolini contro Montale (teppista borghese frequentatore di Grand’Hotel) e la risposta di Montale che apostrofava Pasolini come «Malvolio» (personaggio shakesperiano di bassa e infida affidabilità). Così Pasternak dialoga in poesia con la Cvetaeva, Majakovskij con Esenin, Mandel’stam con Blok (criticandolo ma rispettandolo), Evtushenko dialoga in poesia con la Achmadulina. Oggi nessuno fa a nessuno delle critiche, feroci o blande che siano, tranne i casi in cui il “critico” vuole mettersi in evidenza nei confronti di un poeta «arrivato»; oggi nessuno è disposto a dialogare con nessuno né in poesia né in prosa. E questo dà la misura del bassissimo livello della società dei letterati, come bene annota anche Petr Stengl nell’intervista sopra riportata.
Riporto un aneddoto: Nel 2000pubblico una raccolta di poesie, “Paradiso”, dopo due anni ricevo una lettera di Franco Loi entusiasta che definiva il mio libro un «capolavoro». Fatto sta che non è mai uscita da parte del poeta milanese né sul “Sole 24 ore” né altrove una nota o noticina di lettura del mio libro. È probabile che Loi abbia ascoltato delle indicazioni non proprio favorevoli nei miei confronti da parte di alcuni suoi amici. Questo può dare l’idea di quale livello di degrado giunge una comunità letteraria come quella italiana. Non dovremmo poi meravigliarci se anche il livello dei rapporti tra politici anche di uno stesso partito sia quantomeno simile o analogo a quello dei letterati.
Ho ritrovato queste poesie di Lucio Mayoor Tosi del 2019. Le trovo molto interessanti, ma poi l’autore ha cambiato strada e ha pensato di sterzare tutto in direzione della instant poetry.
Lucio Mayoor Tosi
dedico a Giorgio Linguaglossa
Mon ami.
Ragazzo pulito, intelligente. Ma poeta sbilenco:
Luce gialla nella casa a stelo
con le persiane marroni su pozzi di mare blu;
barche scure in pagine termoplex;
manubri della spesa al braccio di damine
turcheseggianti. E gigolò.
Signor Kogito. Quelli del cinema, i barbari.
*
Quanto amare da qui a qui, dove scompaiono
le giarrettiere e il nonsenso canta:
“Tanto pieno gli sembrò questo Vuoto”
“Di lucette e signor Silvous Plait”.
Giunge la voce fin dove arriva l’eco – la risonanza
del tempo –. Scrivi privatamente,
come appendi le capsule al termosifone.
Chiuso nel vaso del salegrosso.
Il calore, dai capelli alla lingua.
Sereno è.
*
Ne sapevo un’altra; di Mon ami con Federico Fellini,
sull’autoscontri a guardare le ragazze.
Però Maria Rosaria Madonna non vuole.
Tante persone stanno morendo in Siria.
Quindi Lei tace alla finestra.
Scrivere, dolore in senso belluino. Vivere separati
in un chiodo. Minor prezzo hanno le doglie.
Muoiono tutti, gli adulti.
Porta dolore il ferrovecchio. Il tempo, prima di morire.
Anche gli stessi occhi.
(May ott 2019)
Mio commento a una poesia di M.M. Gabriele pubblicata su FaceBook:
Non è il vuoto, come tanti credono, ma la caduta del discorso, di ogni discorso. Rimane intatta la volontà, l’intenzione che muove lo scritto, da qui l’approccio crudo e indifeso verso l’ontologia (ciò che appare autentico). In questa tua poesia colgo il segnale successivo alla frammentazione: la frantumazione. Io ci sto dentro da un po’, a tu per tu con l’afasia. E francamente non mi dispiace. Penso a Bashō, allo zen, a quel genere di povertà (hai fatto caso a quanto sia prosastico il linguaggio delle poesie haiku?). Hai scritto, da par tuo, una poesia autentica cioè ontologica. Possiamo togliere gli ormeggi?
Grazie per queste poesie di Petr Štengl. Memorie, sì ma con graffiante presenza e buon andamento nell’indagine introspettiva. Storie ordinarie, che mi hanno fatto pensare, in altro continente, a Raymond Carver (mistico per quanto è ordinario). In Europa le cose vanno diversamente, almeno per quanto concerne la poesia.