Marie Laure Colasson, Pulsar rosso, acrilico 30×40 cm, 2022
.
«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una»
(Charles Baudelaire)
Nel suo Éloge du maquillage (1863), Baudelaire accenna alla necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare mero artificio, fiction di un homo artifex, ultima emanazione dell’ homo Super Sapiens.
La «de-figurazione» è la procedura poetica di preferenza adottata da Petr Hruška, infatti il poeta di Praga pensa lo «spazio poetico» come uno spazio dis-locato, dove gli oggetti umani e le parole che non gli corrispondono più sono, come dire, spostati, lateralizzati:
La prima neve ha accentuato ogni cosa.
La libertà dei cespugli.
I metri quadri dei monolocali.
La tenuità dei bambini
delle famiglie separate.
*
le posizioni sconosciute degli interruttori
alcuni giorni di speranza
di cose spostate
*
In cucina il ricordo del sugo al pomodoro
come
ultimo
immane
atto criminale.
Oggi applicare ai testi la de-figurazione, la dis-locazione e la trasfigurazione è un obbligo giuridico per un poeta in quanto gli spazi interamente de-politicizzati delle società moderne ad economia glocale interamente dipendenti dai pubblicitari e dai logotecnici implica necessariamente una caratterizzazione eccentrica della testualità e del disallineamento frastico.
È il linguaggio pubblicitario e mediatico che impone al linguaggio poetico le sue regole di condotta, non più il contrario, come avveniva negli anni sessanta; si tratta di una modificazione del linguaggio che è avvenuta nelle profondità. Oggi la politica estetica la fa la pubblicità. Così come la politica la fa la comunicazione. Il discorso poetico che voglia tornare a fare della politica estera non può fare a meno di ri-appropriarsi delle procedure già adottate in amplissima misura dal linguaggio pubblicitario e mediatico.
La de-figurazione è una procedura retorica che consente di prescrivere una «figura» linguistica mediante una de-localizzazione frastica sistematica, mediante la introduzione nel testo proposizioni liberamente dis-locate, spostate, lateralizzate, liberate dalla cogenza referendaria del referente. Ciò vuol dire che si registra uno scarto del pensiero dal pensiero alla parola e dalla parola al referente che corrisponde ad una parola che non corrisponde più al pensiero pensato e né al pensiero non ancora pensato; tra il pensiero e la sua traduzione in parole si stabilisce uno spazio vuoto di significazione, ed è in questo spazio vuoto che opera il linguaggio poetico: nello spazio della de-figurazione iconica e della delocalizzazione frastica entro i quali sono inscritte ed operano forze linguistiche e extra linguistiche disgiuntive, contrastive e divisive, come appare chiaro da queste poesie di Petr Hruška dove l’espressione che mira al referente viene ad essere esautorata e sostituita da mini enunciati referendari, cioè in libera uscita espressiva. Così il referendum libertario ha sostituito la solidità del referente.
La globalizzazione, come sappiamo, è un processo ancipite, e quindi anche glocale, in esa agiscono vettori contrastanti ma divergenti: non vi è solo sconfinamento e apertura dei linguaggi al globo (in questo processo macro storico operano anche dinamiche di collocazione e glocalizzazione) ma ci si muove nel quadro di lateralizzazioni e di smottamenti linguistici, uno spazio impensabile fino a qualche tempo fa, ma è in questo spazio che si muovono le forze linguistiche che operano all’interno dei linguaggi: le linee di convergenza e di divergenza tra le varie tradizioni letterarie diventano complessificazioni di una realtà già in sé complessa. In questa accezione una «poesia europea» che fa della complessificazione e del dis-allineamento dei linguaggi il proprio motore di ricerca è già in atto nei più sensibili e ricettivi poeti europei. Oggi una poesia europea che non abbia una qualche cognizione di questa problematica macro storica dei linguaggi è destinata a fare operazioni derivative ed epigoniche. Pensare ancora con le categorie della poesia epigonica: «poesia lirica» e «post-lirica», sperimentalismo e orfismo, linee regionali e linee circondariali sono, permettetemi di dirlo, blablaismi, vagologismi, virtuosismi. La globalizzazione e la glocalizzazione in quanto processi macro storici non possono non attecchire anche alla forma-poesia, modificandola in profondità al suo interno.
È quindi impellente pensare la ri-concettualizzazione del paradigma del politico e del poetico. È viva l’esigenza di fuoriuscire da quelle formule dicotomiche che hanno caratterizzato la poesia del novecento secondo lo schema classico: avanguardia-retroguardia, poesia lirica poesia post-lirica; siamo andati oltre, occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza linguistiche ed extra linguistiche che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, avanguardia-retroguardia; da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione del poetico. Dopo Franco Fortini, Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna, gli ultimi poeti pensanti del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta critico in grado di ri-orientare le categorie del pensiero poietico. Quello che oggi occorre fare con urgenza è riparametrare e ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico, anche perché dopo Fortini e Lunetta la resa dei conti stilistica del «poetico» è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione.
(Giorgio Linguaglossa)
Cenni biografici
Poeta e storico della letteratura, Petr Hruška appartiene a quella generazione di scrittori il cui debutto letterario si colloca nel fermento culturale ceco degli anni Novanta. Nato nel 1964 a Ostrava, ha dovuto scontrarsi con i limiti imposti da una società illiberale già nella scelta dell’indirizzo dei propri studi, cosa che lo ha portato inizialmente a laurearsi in ingegneria. Soltanto dopo la Rivoluzione di Velluto e la caduta del regime nel 1989 ha potuto dedicarsi agli studi letterari (lettere ceche e teoria della letteratura) e intraprendere la carriera accademica specializzandosi in poesia ceca contemporanea. Tuttora lavora al Dipartimento di Letteratura Ceca dell’Accademia delle Scienze. Debutta come poeta nel 1995 con la raccolta Obývací nepokoje (“Soggiorni inquieti ”, Sfinga 1995), accolta con grande favore dalla critica, alla quale seguono Měsíce (“Mesi ”, Host 1998) e Vždycky se ty dveře zavíraly (“La porta si chiudeva sempre ”, Host 2002); queste tre raccolte sono state pubblicate in unico volume con l’antologia Zelený svetr (“Il maglione verde” Host, 2004). Fin dall’inizio del suo percorso letterario l’autore si è distinto per la poetica vicina al quotidiano e per le ambientazioni prevalentemente domestiche, scelta che gli è valsa la definizione da parte della critica di “poeta della cucina”. La spiccata tendenza al realismo non era una novità nella poesia e in generale nell’arte ceca, ma anzi ha costituito un’istanza sempre viva e sentita fin dal periodo della seconda guerra mondiale, quando il collettivo artistico Skupina 42 (Gruppo 42) aveva affermato il bisogno in letteratura di riavvicinarsi al reale dopo gli slanci immaginifici delle avanguardie. Va sottolineato che tale poetica era fortemente malvista dal regime, poiché essendo concentrata sul quotidiano perdeva di vista i grandi ideali additati dal realismo socialista. Hruška si riallaccia dunque a questo filone letterario, pur sperimentando e intraprendendo sentieri stilistici e tematici tutti propri. La raccolta Auta vjíždějí do lodí (“Le macchine entrano nelle navi ”, Host 2007) si discosta lievemente dalla “poetica della cucina ” elaborata fino a quel momento per approdare a spazi urbani o connessi alla dimensione del viaggio, sempre però mantenendo le ormai tipiche atmosfere d’inquietudine che costituiscono l’impronta inconfondibile dell’autore. Nel 2012 esce la raccolta Darmata, che gli vale l’assegnazione del Premio Statale per la Letteratura. Con Darmata la scrittura di Hruška raggiunge una maturità espressiva notevole: la raccolta si configura come un’indagine sulle possibilità di ognuno di travalicare la propria solitudine per entrare in un’autentica prossimità con l’altro e comprende anche testi più sperimentali che testimoniano una riflessione sulle potenzialità comunicative della lingua. Nel 2017 viene pubblicata Nevlastní (“Di nessuno ”, Argo), antologia che raccoglie i testi editi e inediti il cui protagonista è un peculiare personaggio di nome Adam. Nella raccolta Nikde není řečeno (“Da nessuna parte si dice ”, Host), pubblicata nel 2019, la poetica hruškiana, pur mantenendosi fedele a se stessa, evolve ulteriormente nello stile e nei temi, manifestando un pensiero più maturo sui valori individuali e collettivi. Come già accennato, l’autore affianca alla creazione poetica l’attività di storico della letteratura, nell’ambito della quale vanno ricordate due monografie dedicate rispettivamente all’opera di Karel Šiktanc (2010), poeta surrealista praghese, e a quella di Ivan Wernisch (2019), grande poeta sperimentale e leggendario antologista mistificatore. Oltre a ciò ha curato un’antologia di versi di Ivan M. Jirous, icona dell’underground ceco, e l’opera omnia di Jan Balabán, prosatore di grande talento scomparso prematuramente, nonché amico intimo del poeta. Scrive inoltre anche articoli per le maggiori riviste, intervenendo attivamente nei dibattiti culturali del paese. Nel 2018 si è dimesso dal suo incarico di presidente di giuria del Premio Statale per la Letteratura a causa del suo disaccordo con i recenti sviluppi politici nel paese. Nel 2020 è stato pubblicato il volume V závalu (“Nella frana”, Revolver Revue) che raccoglie articoli, prose brevi e frammenti. Cinciallegra
(Elisa Bin)

petr hruska
Poesie di Petr Hruška
La prima neve ha accentuato ogni cosa.
La libertà dei cespugli.
I metri quadri dei monolocali.
La tenuità dei bambini
delle famiglie separate.
Una cinciallegra è volata nel mio timore
che se ora morissi
la mia ultima parola sarebbe
sevo.
.
Sorriso a tutti denti
Le loro speranze ansiose
sorrisi gonfiabili di salvataggio
esperienze avventate
e altre mani madide
In questo stato di cose è il bimbo
cena inarrestabile
prima
di qualche altro giorno
.
Domenica
Il pomeriggio accalca alla finestra.
La calura
Tennessee Williams.
In cucina il ricordo del sugo al pomodoro
come
ultimo
immane
atto criminale.
.
Quel che resta dei coiti.
Il paesaggio con
un numero preciso
di uccelli.
.
A luce accesa
L’ultimo spiraglio di luce
nella casa
La mosca carnaia della stanchezza
ronza intorno alla mia testa
Come se scrivendo
sostentassi me stesso
o la mia famiglia
E io a stento
quella della donnola
che ha la tana
proprio sotto il puntello
del mio cuore
.
Luglio
Nell’esile sanguinamento dei mattoni
della casa che arredano
va sfumando
la malinconica violenza
appresa
con inerme ritardo
nelle ampie giornate candide
.
Luglio
Nella cassa dei pomodori
confezioni vuote di gamberi
il centro
lasciato al limite del giorno
in cortile i castani
irrobustiti
gravano
su una donna braccia scoperte
che sbatacchiano la cenere
.
Luglio
Trasferirsi per un po’
per la consueta ragione estiva
l’atteso refrigerio della via
dal nome indulgente
alcuni giorni di grazia
le posizioni sconosciute degli interruttori
alcuni giorni di speranza
di cose spostate
.
Prima del bagno
ti spogliasti
con le tue mani quarantenni
e ti voltasti
verso i tiretti
dove già da tanto tempo
custodiamo creme lamette e attrezzi
volsi via lo sguardo
da quella bellezza
e ricordo soltanto
il dorso bianco
della monografia su Giotto
.
Notte
Il buio vero e proprio è nella stanza dei bambini. Un nero fitto. Altrove soltanto una penombra rarefatta e acquosa, nella quale alla fine, con ignominia, si riesce a distinguere tutto.
Afferrare, definire e concettualizzare la forma poetica e come trattenere e incatenare l’anima del poeta.
Scoperta l’esistenza di particelle in grado di muoversi più velocemente della luce
Angelo Petrone 12:12 2 Gennaio 2023
La presunta esistenza di particelle superluminali cambia l’attuale modello fisico che descrive l’universo, ma non viola “il postulato di Einstein sulla velocità costante della luce nel vuoto”, ha dichiarato uno degli autori dello studio.
I ricercatori dell’Università di Varsavia e dell’Università Nazionale di Singapore hanno creato un nuovo sistema che combina tre dimensioni del tempo con una dello spazio, dimostrando così che gli oggetti possono muoversi più velocemente della luce senza violare completamente le leggi fisiche esistenti. In uno studio pubblicato questo venerdì su Classical and Quantum Gravity, gli scienziati hanno spiegato una “estensione della teoria spaziale della relatività” che va oltre il modello tradizionale dell’esistenza di tre dimensioni spaziali e una dimensione temporale. Gli scienziati hanno cercato di fornire nuove prove che le particelle possono muoversi più velocemente della luce, sostenendo che le leggi fondamentali della fisica non vengono violate. “Non c’è alcuna ragione fondamentale per cui gli osservatori che si muovono rispetto ai sistemi fisici descritti a velocità superiori alla velocità della luce non dovrebbero esserne soggetti“, ha affermato uno degli autori dello studio, Andrzej Dragan.
Quindi, secondo la ricerca, supponendo che esistano particelle superluminali, ciò non significa che l’universo sia “indeterminato” dal fatto che le particelle inizino a muoversi simultaneamente lungo molte traiettorie, secondo il principio della sovrapposizione quantistica. Allo stesso tempo, l’esistenza di tali particelle richiede la creazione di una nuova definizione di velocità e cinematica, che preservi “il postulato di Einstein della costanza della velocità della luce nel vuoto anche per gli osservatori superluminali“, ha sottolineato Dragan. Il professore e coautore dello studio Krzysztof Turzyński ha sottolineato che è molto difficile trovare una tale particella, aggiungendo che “la mera scoperta sperimentale di una nuova particella fondamentale [con questa caratteristica] è un’impresa degna del Premio Nobel, realizzabile con un grande team di ricerca che utilizza le più recenti tecniche sperimentali”.
da Scienze notizie
Abbiamo a disposizione la velocità del pensiero, con questa arriveremo all’agognata, anche se metaforica, particella di Dio: ciò che permane, indifferente alle leggi della fisica per come le conosciamo.
“Non c’è alcuna ragione fondamentale per cui gli osservatori che si muovono rispetto ai sistemi fisici descritti a velocità superiori alla velocità della luce non dovrebbero esserne soggetti.“ Tali osservatori sono detti, in oriente, illuminati.
Le leggi scientifiche si fondano sulla base di un metodo che funziona da secoli e muove la vita nei laboratori così come la mente di chi ci lavora. Ogni notizia che tracima da questi confini deve essere presa con le pinze e messa alla prova da altri scienziati. Avogadro, Boltzmann, Planck, Einstein e molti altri, hanno atteso anni, prima di vedere riconosciute le loro scoperte. Non c’è altra strada. Anche in questo caso credo che bisognerà attendere qualche tempo prima di verificarne l’esattezza o la falsità. In questo modo, passo dopo passo, verifica dopo verifica la scienza progredisce.
Per viverci dentro bisogna accontentarsi di poche certezze e conforti. Considerare la dolcezza della massa è dare un valore di concretezza a ciò che ruota attorno, si fa esperimento. Mettere sulla bilancia il prodotto di una reazione equivale ad accontentare i demoni che spingono verso il centro della terra ma anche gli angeli che hanno dato i loro consigli celestiali. Ecco cos’è la misura: un giusto equilibrio tra un desiderio e l’altro. E se non ce la fa il peso ecco intervenire l’energia. La circolarità equivale a considerare la possibilità che qualcosa non torni indietro. C’è contraddizione tra perdita e guadagno? Qualcosa resta ma altro se ne va inesorabilmente.
La memoria è implacabile nell’elencare i caduti. I soldati del tempo fucilano il presente. Giorno dopo giorno i cadaveri si accumulano nelle fosse comuni.
All’energia e alla massa bisognerebbe appendere la cetra ma questa recalcitra, se ne sta zitta per molto tempo, sente che qualche corda si mette in proprio, sussulta, impreca in prima persona contro i vetri, le provette, il becco Bunsen spingendo le sue vibranti attese fin nelle visceri degli elementi per entrare in gioco. Al più buono innalza il sentimento e gli pare poetico starlo a guardare mentre si moltiplica, diventa insetto, mammifero, si fa uomo ed infine si disperde in milioni di frammenti.
Bisogna narrare come questo accade, per quale formula della simmetria tutto ciò allontani il nulla ma poi lo rimetta in tabella, come se fosse questa la legge periodica da considerare dopo averne osservato la metà nello specchio elevarsi ad altezze inimmaginabili e nel contempo degradarsi nel vuoto e nel freddo assoluti.
F.P.Intini
e.c. (…)Al più buono innalza il sentimento e le pare poetico starlo a guardare mentre si moltiplica, diventa insetto, mammifero (…)
C’è chi legge Heidegger e si meraviglia per l’indagine logica che collima con quanto sostenuto, e chi come me, tipico entronauta, aspetta e verifica su di sé, sul proprio esistere… e tutto deve tornare. Altrimenti restiamo sul piano teoretico, e non se ne esce.
Aspetto con ansia ulteriori sviluppi di ricerca sull’energia sottile, anche per dare a me stesso la spiegazione di questo esistere nell’elemento aria, che a me sembra pari all’esistenza dei pesci nel loro elemento, l’acqua.
In occidente abbiamo un’idea del tutto astratta del misticismo orientale, mentre, chi ne ha fatto esperienza, sa che un buon mistico lo riconosci dalla concretezza. Ad esempio, Buddha non parlò mai di Dio: è probabile che non ne sentisse la necessità. Le religioni sono altra cosa.
Ecco quanto ho scritto ad una autrice di poesia che ha pubblicato un libro. In qualche modo ha attinenza con i discorsi che stiamo facendo:
Angela Passarello interroga delle “tracce” linguistiche come se si trovasse dal punto di vista di un regista di documentario che deve render noti gli avvenimenti; di conseguenza, l’autrice ordina gli enunciati in guisa atonica, come insiemi di sistemi polifrastici, come se fossero essi stessi i dominatori del linguaggio, quando invece è vero il contrario: è il linguaggio che domina e ordina gli enunciati. Ma questa è una questione che sta al centro della poiesis contemporanea e che andrebbe risolta dalla poesia nel suo complesso. Si tratta di una questione che anche Benveniste si era trovato ad affrontare, nel momento in cui, proponendo il superamento della linguistica saussuriana, distingueva, da un lato, la semantica del discorso e, dall’altro, una «metasemantica» costruita sulla semantica dell’enunciazione. Così, la poesia odierna diventa sempre più performativa, dichiarativa, assertoria, metasemantica in conformità con gli orientamenti dichiarativi dei linguaggi della civiltà mediatica di oggi che puntano sulla comunicazione. Ma questo in sé non sarebbe un male, in fin dei conti sembra che la poesia odierna assume la funzione di una archeologia dell’enunciazione, una archeologia che non cerca di afferrare l’«aver luogo» del linguaggio attraverso un Io o una coscienza trascendentale, ma che pone la domanda se qualcosa come un soggetto o un io o una coscienza possa ancora corrispondere agli enunciati, al puro «aver luogo» del linguaggio, o se tale problematica non vada invece derubricata a mera funzione linguistica. Occorre un mutamento di prospettiva, un mutamento di paradigma che, per altro, comporta delle implicazioni etiche oltre che estetiche e politiche relative al destinazione del soggetto, al suo ruolo non solo nell’ordine proposizionale e alla sua collocazione nell’ambito di un discorso poetico post-veritativo come quello che si delinea nelle società dell’Occidente a democrazia parlamentare. Ma se il soggetto ha collocazione soltanto nell’ambito proposizionale, come fare per liberarsi dall’enunciazione di enunciati meta empirici? È questo il dilemma che andrebbe sciolto: se fare a meno del soggetto, oppure, fare a meno dell’ordine proposizionale; la poesia italiana e occidentale di oggi sembra ancora irretita in questo guado, in un concetto di linguaggio da zona franca, un linguaggio indifferenziato, da superficie cutanea.
Tengo a sottolineare (e mi riferisco soltanto a chi da me è speranzoso di un mio giudizio sul poeta di Ostrava),…. e me ne scuso.
—
Mi dispiace, pur essendo uno slavista (essere boemista è parte integrante) Petr Hruška non ha affatto le mie simpatie: d’altra parte cosa che gli riferii di persona durante un incontro di vari anni fa.
di Silvia Pragliola
Il capitalismo contemporaneo non solo cerca di soggettivare, ma al contempo, ha bisogno di anche desoggettivare. Le azioni umane come parlare, vedere, ascoltare, sentire ai nostri giorni sono sempre accompagnata dall’ausilio di macchine. Tutti ormai funzioniamo come input ed output in un sistema di reti tecno-semiotiche. Il computer è una macchina che riconfigurando le modalità percettive e sensitive struttura e organizza i flussi di produzione, di comunicazione, di consumo.
La deterritorializzazione capitalistica non riguarda soltanto le tecnologie, ma anche i segni del linguaggio. Infatti questi ultimi non sono più inseriti in un dualismo significante/significato ma sono dei segni-particella, dei segni potenza, dei segni a-significanti che agiscono direttamente sui flussi materiali. La moneta, lo spread sono delle semiotiche a-significanti che permettono al capitalismo di funzionare sia per la valorizzazione che per la produzione di soggettività senza però passare tramite lacoscienza. “La trama stessa del mondo capitalista è fatta di questi flussi di segni deterritorializzati, di segni monetari, economici, di prestigio, ecc. I significati, i valor sociali (quelli che possono essere interpretati) si manifestano sul piano delle formazioni di potere, ma il capitalismo si sostiene su macchine a-significanti. I movimenti in borsa, adesempio, non hanno alcun senso […] il potere capitalistico attribuisce a ognuno di noi un ruolo: medico, bambino, maestro, uomo, donna, omosessuale. Ognuno dovrà poi adattarsi al sistema di significanti che gli è stato preparato. Ma sul piano dei poteri effettivi, questo tipo di ruolo non conta mai: il potere non è necessariamente localizzato a livello di direttore o ministro, bensì agisce nei rapporti finanziari, nei rapporti di forza, tra gruppi di pressione. Le macchine a-significanti non conoscono né i soggetti, né le persone, né i ruoli, e nemmeno gli oggetti delimitati.”1
“Le funzioni della moneta non si riducono solo all’azione a-significante e si esprimono attraverso l’interazione con altre semiotiche: a livello simbolico, la moneta funziona come assoggettamento immaginario dell’individuo. Il suo potere diacquisto lo teleguida “non solo nel campo del codice di livello di
vita […] ma anche in quello dei codici percettivi, sessuali. ”L’economia monetaria“ interagisce costantemente con le codifiche significanti del linguaggio, soprattutto attraverso il sistema delle leggi e delle regolamentazioni.”2
Nel capitalismo contemporaneo il linguaggio non ha più un ruolo centrale per la produzione ed il consumo. “L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato.
Con il capitalismo e ancora di più con il capitalismo contemporaneo siamo passati da un mondo logo-centrico ad uno macchino-centrico che configura diversamente le funzioni del linguaggio. In questo nuovo mondo l’enunciato rimanda a “dispositivi complessi diindividui, di organi, di macchine materiali e sociali, di macchine semiotiche, matematiche, scientifiche, veri e propri focolai dell’enunciazione.”
Le macchine di segni funzionano indipendentemente dal fatto che stiano producendo al contempo dei significati.
1 Guattari F., Rivoluzione molecolare.
2Lazzarato M., Il governo del uomo indebitato.
Lettera d’amore ai ragazzi che hanno “imbrattato” il Senato
Vedo in TV i risultati fisici della vostra azione: avete imbrattato il portone del Senato con della vernice lavabile, ora è colorato e sono tutti arrabbiati con voi.
Siete stati indisponenti, dispettosi, fastidiosi: a parere mio, quindi, perfetti.
Vi siete dati un nome: “Ultima Generazione”, perché se l’umanità non invertirà il suo modello di sviluppo, non ci saranno altre generazioni che potranno vivere in un mondo come lo conosciamo oggi in Occidente.
Voi ieri avete disturbato le complicità del palazzo con un’azione colorata e senza danni al patrimonio artistico; però siete giovani, irriverenti e zeppi di fantasia: quindi il bersaglio perfetto per gente che vive di idee che hanno portato al collasso climatico e ambientale il nostro Pianeta.
Potrebbero perdonarvi un furto, uno stupro, una bancarotta fraudolenta, uno sversamento in mare, ma non vi perdoneranno mai di avere degli ideali che loro hanno perso fra i banchi di scuola. Nessuno vi perdonerà per aver lottato per qualcosa di così grande che va oltre voi stessi, e in qualche modo favorisce anche chi oggi vi attacca in modo così osceno.
Ve lo dico con il cuore già oltre l’ostacolo: ragazze, ragazzi, continuate così. Fracassate la pazienza degli immobili, siate irritanti, molesti e seccanti verso ogni legislazione carente.
Disequilibrate i conniventi, fate lo sgambetto ai correi, sbilanciate a terra chi dice “non possiamo farci niente” e continuate a indisporre chi volutamente non si occupa del cambiamento climatico preferendo trasformarsi in un tappetino verso gli inquinanti.
Chi inquina poi vota, invece gli alberi non si recano ai seggi elettorali. Per questo il potere preferisce gli oli esausti ai sogni.
La Contessa ieri si scandalizzava per il sangue con cui gli operai “han sporcato i cortili e le porte, chissà quanto tempo ci vorrà per pulire”, e oggi si scandalizza per un barattolo di vernice lavabile gettato contro il palazzo che rappresenta il lordume dell’inazione contro il cambiamento climatico.
Insomma: dimmi per cosa ti scandalizzi e ti dirò chi sei.
Ragazze, ragazzi, continuate a pretendere un mondo vivibile – e non soltanto a chiederlo per favore – e un giorno vi ringrazieranno anche tutti quelli che oggi non capiscono e vi inzuppano d’odio.
Ragazze, ragazzi, non togliete mai il cappello di fronte a chi male vi giudica, e tenete sempre in punta di lancia sogni colorati come la vernice e l’arcobaleno.
Ragazze, ragazzi, non preoccupatevi di chi oggi non comprende e vi attacca.
Chi oggi si scandalizza sono le stesse persone che ritroviamo infastidite da uno sciopero, da una manifestazione qualsiasi, da un blocco stradale, dai sindacati, da un questuante, da una ONG che sbarca senza permesso bollato, da qualunque cosa o persona che per il solo fatto di esistere li obblighi a scegliere da che parte stare, a renderlo evidente, a esserci, a non sottrarsi.
Come siete belli, giovani e forti. Indisponenti, provocatori e molesti. Vi amerò per sempre.
Queste ragazze e ragazzi hanno smosso l’attenzione mediatica, sono riusciti a inventarsi una protesta che senza arrecare danno alle cose, ha obbligato al sussulto chi dormiva beato, al calduccio del torpore complice.
Ragazze, ragazzi, vi stimo perché vi siete inventati una protesta libera, colorata, rivolta contro chi dovrebbe prendere provvedimenti in favore del clima – e dunque dell’umanità – ma non lo fa perché del resto non si può essere la soluzione se si è parte del problema.
Ieri il potere politico, sentitosi pungolato, scalfito, chiamato in causa e alla responsabilità da un chilo di vernice, ha reagito compatto: “Che orrore, una protesta! Non si fa così!” provando poi lui stesso – il potere! – a dettare i modi e i tempi delle proteste: si possono fare a patto che non infastidiscano chi comanda, altrimenti non vanno bene.
Il destinatario della protesta che vorrebbe dettare le regole su come lo si può contestare, spiegando che il manovratore – tutto sommato – non deve essere infastidito.
Farebbe ridere, se non facesse orrore.
Secondo le varie maggioranze governanti si può dunque protestare – forse, e chiedendo il permesso – se le proteste non infastidiscono le prime alla Scala e neanche fuori dalla Scala, e chi viaggia in auto non venga fermato neanche per dieci minuti, il tempo dell’esibizione di uno striscione e della lettura di un volantino.
Le proteste non si devono sentire – secondo loro – dobbiamo farle nelle case ben chiuse o nelle piazze ben lontane, magari in un giorno di festa e senza cori e fischietti e bandane e striscioni, a meno che non siano di marca. Proteste al massimo di cinque minuti, i cori soltanto in rima approvata, sottovoce e controvento, insomma una cosa veloce e poi tutti a consumare, poi il giorno dopo si torna a produrre e il terzo giorno si crepa.
E invece, guarda un po’, oggi c’è chi ha scelto di non voler crepare per il surriscaldamento del clima causato dagli inquinanti introdotti dall’Uomo nell’ambiente.
“Un gesto oltraggioso”, così la presidente Giorgia Meloni ieri ha definito l’atto di apertura alla vita di un piccolo gruppo di coraggiose e coraggiosi, davanti al Senato.
Se lo metta in testa, la presidente che tutto compie per escludere: la difesa dell’ambiente in cui viviamo non è mai un oltraggio, e questi ragazzi stanno soltanto difendendo se stessi e il mondo intero dagli effetti ormai quasi irreversibili del cambiamento climatico.
Queste ragazze e questi ragazzi sono semplicemente il megafono della voce degli scienziati di tutto il mondo: “Cambiate il modello di sviluppo”.
Concetto semplice, per questo così fastidioso.
https://www.fanpage.it/politica/lettera-damore-ai-ragazzi-che-hanno-imbrattato-il-senato/
https://www.fanpage.it/
Se le parole dicono tanto, allora le parole dicono tutto. Non so dove collocare la poesia di Petr Hruška con tutte le sue chiusure a volte avverse, a volte sfavorevoli, altre volte come se egli si sentisse un perseguitato (da chi?) tanto da autocommiserarsi:
“la mia ultima parola sarebbe
sevo”; atto criminale (riferito al sugo); donnola… sotto il puntello
del mio cuore; sbatacchiano la cenere”… e via di questo passo.
“Nel capitalismo contemporaneo il linguaggio non ha più un ruolo
centrale per la produzione ed il consumo. “L’ansia del consumo
è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato”
(Pragliola).
—
Ed è vero!|
Ogni volta che vado ad un supermercato (perché poi “super”?) la gente che compra non parla… usa soltanto la vista, cioé é assoggettato anche visivamente, insomma il solo linguaggio in azione è la vista…il linguaggio della vista (non certo della visione!.. che non sa nemmeno cosa sia) è ansioso di trovare ciò che si vuol comprare – ma non è nemmeno un “volere”, ma un ordine predeterminato, e se è tale non c’è ansia, ma l’ansia nasce dal fatto che la mercanzia non è la lista – scritta o pensata intendo – e che si deve compare e comprare è comunque una obbedienza e dunque un ordine di genere “visivo” poichè non esiste un linguaggio orale…. de allora non è questione più di “ruolo centrale” che è detronizzato dal linguaggio visivo, il quale a sua volta determina anche il gusto e il desiderio.
ecc. ecc.
Petr Hruška molto convincente.
Tutto ciò che affermi nelle sue parole trova un limpido e spiazzante esempio.
Piccola estemporanea annotazione personale.
La poesia lirica e post lirica tendono a toccare le corde dell’emozione commozione.
La poesia della dislocazione, quando è efficace, crea effetti di scombussolamento straniamento. Una bellissima sensazione di “non so dove sono ma mi attira magneticamente”.
Passare da uno stato emotivo all’altro (da quello della commozione a quello dello straniamento) è oggi ancora possibile?
Personalmente mi sembra di sì.
Mi commuovo per Saffo e mi cattura la poetry kitchen.
Ma forse bisognerebbe lasciare agli uomini e alle loro idee il tempo di morire.
E in certi casi questo non avviene mai o perlomeno non è ancora avvenuto.
SOLO SALSA DI POMODORO
Che vale un racconto di pentola al divano?
Tra scopa e moccio ci s’intende
E se nasce contesa c’è una lavastoviglie pronta a ristabilire la legge.
Impiccheremo i responsabili dei crimini contro i piatti di creta
Non sono tollerati gli infangatori di forchette e cucchiai
È da considerarsi offesa alla storia
Appendere i fiaschi per il fondo
A protezione dei bicchieri di cristallo, ovvio
E delle leggi sullo splendore
Le macchie di olio si lavano con la fucilazione
la crocifissione terrorizza
i ragni negli angoli del soffitto.
Ci sono programmi che fanno tutto in quattro e quattr’otto
Ma ci sono macchie nere da cui origina il Lete
Cosa usare nel risciacquo?
Con tutta probabilità non abbiamo visto un treno saltare
Nemmeno una stazione prendere il volo delle 10, 30.
Chi ha detto che una banca di Milano è volata?
Il buco era una casseruola d’ acciaio
In cui un polpo mimava il tritolo
E allora niente di serio è accaduto
solo coordinate sbagliate:
x al posto di y
uno scherzo da prete che non vale ricordare
ma ora è tutto ok e dunque perchè meravigliarsi
se gli scarafaggi diventano polli e pollastre?
(F.P.Intini)
È il luogo del senso che è uscito fuori di senno. Non c’è alcun senno del senso perché è il sensorio ad essere messo in discussione una volta che un calabrone di Intini è entrato di soppiatto nella fornace del linguaggio. Così c’è un paragrafo delle infezioni per i tessuti disidratati a seguito del fatto che «gli scarafaggi diventano polli e pollastre» e «un polpo mima il tritolo», ammonisce Francesco Paolo Intini, infatti quando il linguaggio va in surriscaldazione c’è il rischio ebollizione da discutere con il farmacista: l’ibuprofene e il warfarin possono tornare utili per il linguaggio poetico cadaverizzato, biodegradabile e distopico. Il mondo, lo sappiamo, è quello che è, è diventato farraginoso e ferrigno e infausto (se incontri un Putin devi scendere dall’autobus).
A leggere la poesia kitchen di Intini si corre il rischio di una perforazione intestinale o, meglio che vada, si rischia un attacco gastroenterico o una laringite cronica. Resta il fatto che la gravità delle lesioni apportate al linguaggio in questi trenta terribili anni di Seconda Repubblica possa comportare una grave compromissione dei reni e della prostata oltre che dei significanti dorotei in libera uscita. Il trattamento di questi malori dovrà essere posturato a dei farmaci antinfiammatori e antidolorifici all’idrossido di carbonio. Come minimo. O come massimo. E questo è quanto. Non c’è papa emerito che tenga.
Il surriscaldamento delle forchette attivato dagli scimpanzé bonobo ebbe la meglio sui tegami in plastica irrogandone la morte termica per accertato plusvalore
Otto indizi non fanno una prova stocastica – disse il premio Nobel – Tuttavia, a pensarci bene, gli opossidi vivono bene sulla superficie della luna, perché lì non c’è ossigeno
Di quando in quando i numi escono dal termovalorizzatore alla ricerca dei guanti per poi farvi ritorno come apparecchi acustici
Il metotrexato è impiegato per la cura del raffreddore, direi con ottimi risultati
Un ragno dodecadopo entrò nel sandalo di Empedocle e vi depositò una defecazione altimetrica
«Tutto ciò che c’è nel sottosuolo lo ritrovi paro paro nell’inconscio collettivo», disse il Signor K.
Così, 5 colpi di hotwitzer ben calibrati fecero saltare le budella di 400 coscritti
Di qui all’Urbe medicammo il poeta di Milano con i medicinali CYP2C9, i noti inibitori della fosferatasi
«Mi auguro tutto bene per te – disse il poeta Simone Carunchio – Per me non c’è male. Come sempre ringrazio te e tutta la redazione e i poeti che si aggirano all’Ombra per gli spunti di riflessione che vengono proposti»
«Mi occupo del giuridico, in particolare tributario» aggiunse
Kitchen haiku.
Il primo bambino disse. Non fece in tempo.
Poeta vecchio, sbadiglia in ascensore.
Allora, in versi.
LMT
come esempio di procedura di de-figurazione nella poesia russa del novecento posto questa poesia di Pasternàk nella traduzione di A.M. Ripellino che mi ha inviato Antonio Sagredo :
L’inizio del corso su Boris Pasternàk di Angelo Maria Ripellino [A.M.R.] ebbe luogo all’Università “La Sapienza” di Roma il 12 dicembre 1972 – di mattina verso le ore 11.00, nel dipartimento della Filologia Slava; ma non in una aula, bensì nel lungo corridoio antistante, dato che il numero degli studenti era davvero notevole; ricordo che lo slavista era in condizione splendida: Pasternàk lo aveva già affrontato in un corso precedente , come anche quello su Majakovskij; ma l’anno precedente, 1971, a grande richiesta dei suoi nuovi studenti dovette ancora una volta ripeterlo. Ripellino aveva un rapporto straordinario coi suoi allievi, e in specie con quelli con cui aveva organizzato, nel maggio del 1971, l’allestimento del Balagančik (Il piccolo baraccone, 1906) di Aleksandr Blok e Il Dispacci a rotelle (Depeše na kolečkách, 1922) del poeta ceco Vitězslav Nezval al Teatro Abaco di Roma. Nel 1974 fu la volta della Sconosciuta (Neznakòmka, 1907) di A. Blok. al Politecnico Teatro, sempre, in Roma. ///////// A. M. Ripellino presenta nel 1957 questa sua fatica traduttiva, dei versi di Pasternàk, chiedendo “indulgenza per le inevitabili sviste, per le trovate inerti, per le interpretazioni discutibili”; e continua “ Molte volte, dopo torture interiori e ripensamenti e continue trasformazioni, l’ultima soluzione non era forse la migliore. Ma in qualche caso né lo stesso poeta né i suoi amici riuscirono a chiarirci le zone oscure”. Segue: “E a questo interesse erano d’incentivo a Praga e a Varsavia i colloqui con altri poeti che vedevano in lui come il simbolo della migliore cultura russa. Coi lirici cechi František Halas e Vladimir Holan, col polacco Mieczyslaw Jastrun il discorso tornava spesso e all’arte e al destino di Boris Pasternàk. Su tutta una serie di riferimenti, allusioni e minuzie dell’opera di Pasternàk ci ha illuminato un giovane critico polacco; Ziemowit Fedecki, che fu a lungo a Mosca accanto al poeta”. In: BORIS PASTERNAK –POESIE –Einaudi 1957, pp.11-12. (vedi nota 6 pag. 5 e nota 137 pag. 34). Quella “indulgenza” che lo slavista chiede, credo che valga per tutti quei poeti che tradusse. Ma in questo Corso, oltre alle sviste ecc. di cui dice Ripellino a se stesso, si aggiungono errori ecc. ben più gravi dovuti alle sue “eroiche” allieve (vedi pag. 2); e allora c’è bisogno di una doppia indulgenza da parte del lettore. (nota n. 2, p.3 di A. Sagredo). E indulgenza chiede anche Antonio Sagredo che ha affrontato questo lavoro di restauro necessario realizzato per fede, amore, devozione ecc. che nessun russista italiano ha osato intraprendere, con la speranza di donare alle future generazioni di slavisti
(russisti) un quadro più ampio possibile intorno alla figura del poeta… cosciente che è e sarà sempre e ancora un work in progress.
di Boris Pasternàk
Primavera
Primavera, io vengo dalla via, dove il pioppo è pieno di stupore,
dove la lontananza si spaventa, dove la casa teme di crollare,
dove l’aria è azzurra, come il fagottino della biancheria
di colui che è dimesso dall’ospedale.
Dove la sera è vuota, come un racconto interrotto,
lasciato da una stella senza continuazione
per la perplessità di mille occhi rumorosi,
senza fondo e privi di espressione.
(1918)
(trad. di A. M. Ripellino)
Attacco straordinario il primo verso che insegna a sedicenti poeti come si devono affrontare, in poesia e in versi, le stagioni! Poesia che Ripellino non commenta, ma che più volte ha citato, parlando di altri componimenti. La natura dunque si stupisce quando vede arrivare il paziente guarito… e il pioppo, la lontananza, la casa sono come attoniti e reagiscono ognuno a modo proprio: troppo grande il prodigio, e si ha spavento, stupore, e infine crollo: è forse l’emozione di essere testimoni di un ritorno da un luogo di cura, in cui di solito ci si resta per sempre… è questa quindi la felicità o la fiducia nella speranza della rinascita in Pasternàk! Non è qui solo guarigione da una malattia qualsiasi, ma da una alta malattia tutta interiore che ha assorbito in sé tutto il morbo di una epoca terribile! Quando il giorno è trascorso e non c’è più la luce tutta bevuta (assorbita come una spugna: altro nodo centrale di origine rilkiana) dagli eventi… e la sera è vuotezza, come quando il flusso di un racconto incespica, si rompe e si spezza: questo stato di cose ha la testimonianza di una stella che non brilla più e suscita la perplessità di pettegoli occhi che la fissano senza possedere più la vivezza primigenia… ma poi tutto ricomincia , e si rinnovano i mattini e la primavere novelli e nuove guarigioni; e così si rinnova la vita! Giustamente la Cvetaeva dichiara che: “Pasternàk è un – prelevamento… è occhio che filtra – il mondo. Il suo occhio è – una spremitura”. E tutto il mondo è un acquazzone luminoso”.(nota n. 172, p. 53 di A. Sagredo, )
Informo tutti i poeti della poetry kitchen che sto inserendo su Academia.edu (una piattaforma digitale estesa a tutto il mondo letta e consultata da studiosi e ricercatori) articoli, poesie, libri che si occupano della poetry kitchen e del nostro orientamento di ricerca letteraria.
https://independent.academia.edu/GiorgioLinguaglossa
La Poetry kitchen, anche per me la costola più avanzata della NOE su cui a lungo ha lavorato L’Ombra delle Parole instancabilmente, trova un antefatto anche nelle “Filosofie del frammento” che forse è bene non dimenticare.
Ne ri-propongo una snella sintesi, racchiusa in pochi punti
(a cura di Gino Rago)
– L’arte contemporanea assume il ‘frammento’ come il sigillo del mondo contemporaneo e della moltiplicazione della prospettiva.
– I segni dello sfacelo sono la cifra di autenticità dell’arte moderna.
– Il ‘frammento’ è l’intervento della morte nell’opera d’arte.
– Dalla ‘morte di Dio’, e dalla crisi della visione platonico-cristiana, l’arte contemporanea registra la fine del “centro” e della verità dogmatica, con la conseguente deflagrazione del senso.
– Le “filosofie del frammento” (Benjamin, Warburg, Wittgenstaein, Adorno) non sono una tecnica, ma la visione del mondo dell’Artista.
– Il ‘frammento’ quindi è ,nella Nuova Estetica, la Weltanshauung dell’artista, da tradurre in opera d’arte.
– Il “Tutto” è ormai frantumato, disperso. Può essere ritrovato soltanto in forma di frammento.
– Il frammento, dunque, come parte del “Tutto”, ma come parte compiuta e finita.
– Pertanto, spostando nell’opera su una tela un frammento da una posizione a un’altra, l’economia estetica generale dell’opera rimane intatta, inalterata.
– L’Opera, nell’arte contemporanea fondata sulla ” filosofia del frammento”, annulla l’effetto d’ogni dislocazione sulla tela d’un frammento da un punto a un altro e conserva inalterata tutta la sua resa estetica poiché tale filosofia assume l’assioma che “ogni frammento contiene in sé il tutto disgregato”.
Da qui, il dolore, il dolore che irrompe nell’arte moderna frammentata.
– Non l’arte moderna è in crisi, ma è la crisi nell’arte contemporanea.
La poesia kitchen ‘ Solo salsa di pomodoro ‘ di Francesco Paolo Intini con la sua ironia, con il montaggio di immagini che si incastrano alla perfezione, è la migliore risposta a coloro che hanno ‘ imbrattato ‘ la facciata del Senato. Che nessuno chieda loro, per favore, di abbandonare Facebook che ha censurato e oscurato chi abbia osato esprimere pensieri difformi dal Pensiero Unico. Che nessuno chieda loro perché non abbiano espresso un’idea alternativa al Pensiero Unico di cui sopra negli ultimi tre anni .Che nessuno chieda loro di stigmatizzare i giornalisti traditori della loro professione in standing ovation ai piedi di Draghi. Insomma, si contesta sempre o a intermittenza? Francesco Paolo Intini ha scritto una poesia a mio parere compiuta eppure con così tante maniglie da aprire che si prova un grande senso di libertà. Nell’irriverenza.
ringrazio Giorgio Linguaglossa e Tiziana Antonilli per quanto espresso sopra sulla poesia: “Solo salsa di pomodoro “. Un caro saluto a tutti. ciao
Non solo ontologia (versi performanti che però hanno traccia e intenzione soggettiva), nella poesia NOE, nuova ontologia estetica, appunto, la ricerca estetica ha grande importanza… il distico che termina immancabilmente al punto, è lezione di stile. Si sa che il verso libero, ma interrotto, va in cerca di struttura; che può essere sì disposta ad elenco, ma siccome si tratta sempre di poesie – per me, lunghissime – ecco, mi chiedo se basti spalmare versi, anche geniali, o proprio per questo, in lunghe sequenze indifferenti…
giorgio linguaglossa
13 gennaio 2016 alle 8:12
Heidegger con la sua riflessione sull’«oblio dell’essere» ha avuto una influenza non positiva sulla poesia italiana del Novecento, ben pochi tra i poeti hanno letto le pagine di “Essere e tempo” *1927*. Il problema è un altro: la dismetria e la distassia dei linguaggi poetici del tardo Novecento che il Novecento ha lasciato in eredità alla poesia italiana: di qui la positivizzazione, la sproblematizzazione dei linguaggi poetici novecenteschi, che sono sortiti fuori come funghi, come ingessati, febbricitanti, privatizzati, ionizzati da un massiccio bambardamento di talqualismo, di showpoetry, di chatpoetry. Si è pensato è si e fatta una poesia unilineare, discorsiva, del parlato, degli oggetti, senza avere una idea di come inserire il discorso nella forma/poesia, senza avere una idea di come inserire il parlato dentro la forma/poesia, senza avere alcuna idea di come inserire gli oggetti dentro la forma/poesia. Si è andati a caso, a tentoni, alla cieca, armati di acchiappafarfalle e pentoloni. Ci sono stati, e ci sono tuttora, per fortuna, numerose eccezioni: il grande vecchio Alfredo De Palchi, e poi Anna Ventura, Annamaria de Pietro, Maria Rosaria Madonna.
C’è una «domanda fondamentale» che muove la poesia. È la domanda che interroga la Crisi. Che cos’è la Crisi? (Mi chiedo quanti poeti si sono posti questa domanda, che ritengo una delle domande fondamentali alla quale si deve in qualche modo rispondere); direi che la Crisi è la modalità con cui si manifesta dinanzi a noi la difficoltà di porre la «domanda fondamentale», quella domanda che consente di aprire il campo di indagine mediante la scoperta di altre domande nascoste, soggiacenti, che stanno sotto il tegumento dei discorsi a vanvera del positivismo di questi anni *il positivismo della poesia unilineare e unidimensionale*. La poesia contemporanea puo essere ragguagliata ad una superficie, «la pista di pattinaggio del post-contemporaneo», una superficie piatta, unidimensionale dove tutte le scritture poetiche si assomigliano, sono interscambiabili, non delimitano alcun «oggetto», sono orfane, prive di «tradizione», non hanno nulla dietro di sé e, davanti, si estende la pista di pattinaggio dell’«ignoto», sono delle zattere che vanno alla deriva delle correnti del mare dell’«ignoto», senza un progetto, una idea di poetica, una idea dell’oggetto da rappresentare. Da questo punto di vista è alquanto disutile discettare di poesia degli oggetti se non si ha una salda visione di come inserire gli oggetti nella forma/poesia, anche gli oggetti presunti si sono dissolti e dislocati, stanno altrove da dove pensavamo di trovarli, non se ne sono stati li fermi ad attendere la venuta del poeta degli oggetti. Hanno traslocato. Di qui la solitudine del poeta contemporaneo che non voglia inseguire le scritture epigoniche e che voglia mantenere una coscienza critica della funzione della poesia nel nostro tempo della stagnazione…
Nel mio ultimo libro di critica (Dopo il Novecento 2013 Società editrice fiorentina) ho chiamato questa situazione della poesia contemporanea italiana «La partenza degli argonauti» riferendomi alla mitica partenza degli argonauti alla ricerca del vello d’oro. Leggendo la poesia contemporanea ho sempre la sensazione di una partenza di massa verso il traguardo del successo e della visibilità. In questa analisi della poesia contemporanea ho sempre avuto la netta sensazione della scomparsa della «domanda fondamentale»: perché si scrive poesia, e per chi?; in assenza di questa domanda preliminare oggi si scrive poesia in base ad una pulsione corporale, ad un bisogno personale, ad un calcolo di visibilità, certo psicologicamente comprensibile, ma che non può dar luogo che a risultati irrilevanti. Spesso si ciarla di dimensione etica dell’estetica proprio da parte di chi insegue lo stesso obiettivo perseguito dalla razionalità del mercato e dell’etica monetaria: il successo e la visibilità. Si scrivono i libri di poesia come si scrivono i romanzi: si tende al successo, se non delle vendite almeno a quello della vetrina della visibilità.
Sì, la «domanda fondamentale» può anche scomparire per intere epoche, per decenni o per secoli se qualcuno non la ripesca dal mare dell’oblio: Mnemosine (la memoria) non è la madre delle Muse?, e la poesia non è un prodotto delle Muse?; la poesia ha, secondo me, il compito di porre delle «domande», altrimenti è ciarla, chiacchiera da bar dello sport.
“Ci sono stati, e ci sono tuttora, per fortuna, numerose eccezioni: il grande vecchio Alfredo De Palchi, e poi Roberto Bertoldo, Luigi Manzi, Anna Ventura, Annamaria De Pietro e tanti altri che non posso nominare in questo luogo”. (Linguaglossa)
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E dici bene Giorgio. Con la Anna Maria De Pietro ho avuto così grandi rapporti di lavoro poetico, perché la consideravo una mia pari e Lei aveva qualcosa in più di me: lo scavo entro i versi dei concetti non espressi e ancora la capacità di scrivere in dialetto napoletano in maniera superba : due cose di cui sono sprovvisto al massimo grado. Quando ci si incontrava nella mia campagna salentina era una festa continua come solo fra bambini gioiosi.
Ricordo l’ultimo saluto, la malattia di Marcello che già se lo stava portando via e Lei pure via che già me lo aspettavo… se ne andata via la poetessa che più ho stimato in vita mia. E la sua poesia ancora da studiare tutta!…. versi come brillanti gettati sulla pagina con gran spreco e felicità: da invidiare le sue immagini, le metafore… difficile da superarla in questo….
caro Antonio Sagredo,
ovviamente la de-figurazione e la de-localizzazione che ha fatto Pasternak più di cento anni fa non corrispondono più alla de-figurazione e alla de-localizzazione che stiamo facendo noi adesso. La poetry kitchen scommette un miliardo di dollari sulla de-figurazione, che in parole povere significa applicare al testo poetico e narrativo lo sguardo che applichiamo quando facciamo zapping col televisore… il televisore, il cinema, la pubblicità, twitter hanno cambiato tutto, anche la redazione di una semplice poesia.