Caro Giorgio,
Mi auguro tutto bene per te. Per me non c’è male.
Come sempre ringrazio te e tutta la redazione e i poeti che si aggirano all’Ombra per gli spunti di riflessione che vengono proposti. Ultimamente non sono più riuscito molto a seguire e ancor meno a partecipare alle discussioni sull’Ombra delle parole. Un po’ perché la produzione è talmente ampia da lasciare storditi; un po’ perché avevo bisogno di ‘disintossicarmi’; un po’ perché ho smesso di fare il pendolare e, quindi, avevo meno tempo di leggere altre carte che non fossero quelle di lavoro.
Mi sono però interessato. A fondo, all’antologia Poetry kitchen. E di questo vorrei parlare. Impulso che mi è venuto soprattutto dopo aver assistito alla presentazione del libro alla Fiera del libro di Roma dell’11 dicembre 2022. Come sai, mi occupo del giuridico, in particolare tributario, e, pertanto, in questi ultimi tre anni da fare ce n’è stato moltissimo a causa del fatto che quasi tutti gli aiuti statali erogati per fronteggiare le varie urgenze, prima sanitaria e poi bellica, sono passate per il fisco. Materia, quella tributaria, peraltro, ancora alla fase embrionale (rispetto per esempio al diritto civile).
Prendo spunto da queste brevi note iniziali, concernenti in particolare la mia utile attività, per mettere subito in chiaro, come già feci presente anni fa (era il 2017, ormai, quando ti inviai una lettera sulla NOE, poi pubblicata il 5 giugno 2017 su L’Ombra delle parole, sui temi del frattale, dello spossessamento dell’io e del giudizio), che non mi trovo affatto in accordo con espressioni tipo “la fine della metafisica”. La metafisica, infatti, che si concretizza in tutto ciò che esiste (ma magari non c’è, ma talvolta anche sì), si manifesta quotidianamente, a mio parere, in primo luogo nell’istituzione, la quale non è finita per niente; anzi: pare più viva che mai! Forse anche troppo! Ciò che è venuto a mancare è l’ontologia, il discorso sull’essere (e il dover essere e il non essere e il poter essere), il quale è talmente complesso che racchiuderlo in solo discorso pare davvero impresa impossibile.
In ogni caso, forse, si sta dicendo la stessa cosa, solo utilizzando e sostituendo i due diversi vocaboli. E così arrivo a bomba a uno dei capisaldi del tuo Saggio introduttivo La poetry kitchen presente in apertura dell’antologia di poesia contemporanea Poetry Kitchen: la fine della metafisica.
Comunque sia, premetto, prima di addentrarmi nell’analisi del Saggio, oggetto primario di questo intervento scritto, che, come già affermato in precedenza, mi sono deciso a scriverti in proposito perché, come sai (o almeno credo che tu sappia), sono stato presente alla presentazione della suddetta antologia alla Fiera del libro di Roma del 2022 di pochi giorni fa, riuscendo a comprendere meglio il ‘gesto’ insito nel modo di fare poesia in Cucina. Ciò che ho appreso in presenza è l’oggetto secondario di questo intervento scritto. Naturalmente il mio scopo attuale è quello di spingere sempre più in là il pensiero.
Orbene, che si ricava dal Saggio introduttivo?
Sulla base di un solido pensiero filosofico (Žižek e Agamben in primis, ma anche Platone; Foucault, Lyotard, Wittgenstein, Adorno, Baudrillard, Welsch, Desideri, Ferraris, Leopardi, Marx, Heidegger), che prende in considerazione la sociologia, la psicoanalisi, la politica, l’esistenzialismo, mi sembra che si affermi:
– che la realtà, la vita, è troppo per essere presentabile e trattabile;
– che l’ideologia è di supporto alla realtà;
– che la realtà è divenuta liquida;
– che la realtà è relativa (compreso il soggetto e l’oggetto);
– che la realtà è divenuta tecnologica;
– che si è nell’epoca della fine della metafisica;
– che l’umanità è suicidaria;
– che il linguaggio non ha più contatti con la realtà;
– che il soggetto è assoggettato al linguaggio;
– che il soggetto ‘artistico’ cerca di dominare il linguaggio;
– che l’arte è imitazione di imitazione di idee (imitazione della realtà?);
– che l’arte è tale perché lo decide un’autorità;
– che qualsiasi oggetto può divenire arte (e che quindi c’è un progresso fenomenologico sociale nel quale l’arte da aulica è divenuta bassa);
– che nell’arte c’è un di più che corrisponde a ciò che non c’è;
– che il concetto di mimesis non è più valido;
– che la nuova poesia è evento linguistico (e che pertanto rappresenta se stesso?);
– che la nuova poesia è affollata di mondo;
– che la nuova poesia corrisponde al sublime tecnologico;
– che la nuova poesia non ha più messaggi da inviare;
– che la nuova poesia ha origine in un luogo (mistico) precedente al linguaggio (alla lingua?) (Es, Inconscio, Preconscio) (fondamento negativo);
– che la nuova poesia è fuori dal significato, dal significante e, forse, anche dal significativo;
– che la nuova poesia è gratuita;
– che la nuova poesia è rivoluzionaria (poiché tende a nuovo ordine delle cose);
– che la nuova poesia è performativa (è quello che è);
– che il nuovo poeta non vuole dominare il linguaggio;
– che la nuova poesia è realistica al massimo grado, in quanto irrealistica;
– che la nuova poesia non ha più niente da dire;
– che la nuova poesia non propone nessuna etica (morale?);
– che la nuova poesia questiona la verità;
– che la nuova poesia è un prodotto dell’attività immaginativa e della tecnica;
– che la nuova poesia ha come tecnica di riferimento quella del cinema (montaggio) (e che quindi sintassi e semantica sono ‘antiquate’);
– che la nuova poesia, come qualsiasi prodotto della creazione, ha come scopo il non detto;
– che la questione fondamentale è l’adattamento al Nuovo in gioco di perenne dialettica (degli opposti, dei contrari, della contraddizione).
Corretta la ricostruzione del messaggio del Saggio? Mi pare di sì. Eh sì: la dialettica, la dialettica degli opposti. Quando un discorso può effettivamente dirsi vero (e non falso)? Forse solo quando è contraddittorio, poiché rappresenta fedelmente la realtà, o meglio la percezione logica della realtà, la quale, come dimostra la fenomenologia, quando è sottoposta ad analisi (la realtà), essa non può che apparire contraddittoria: è la struttura della lingua fonetica (esemplare in questo senso è Linee di fenomenologia del diritto di Kojève: alla fine della storia – che si potrebbe anche identificare con il presente non analizzato – il diritto è tutto e niente allo stesso tempo).
Il Saggio introduttivo mi pare che sia perfettamente dialettico nella sua logica consequenzialità. Per esempio: la poesia non ha più niente da dire, ma dice la questione della verità; la poesia è nella verità che rappresenta se stessa, ma essa rappresenta la realtà liquida; il soggetto artistico tenta di dominare il linguaggio, ma il poeta non vuole dominare il linguaggio; etc. Un discorso dialettico così strutturato è un discorso forte, difficile da attaccare. Per farlo, rispettando la stessa dialettica, è necessario quindi porre di fronte al testo un contesto diverso e, in più, identificare alcuni valori, alcune fondamenta, che non sono messi in discussione nel testo ma ne appaiono come i capisaldi.
Un primo fondamento è il seguente: la poesia è un’arte. Ma siamo certi di questo?
Un secondo fondamento è che il nulla possa produrre l’essere. Ma siamo certi di questo?
Relativamente a tale ultima questione (che poi ci può condurre alla prima), la quale deriva da un’impostazione esistenzialmente atea, si può opporre, per esempio, il pensiero religioso, nel quale si afferma: come è possibile affermare, come fanno in molti, che dal nulla scaturisca qualcosa? Solo da una cosa può scaturire una cosa: il non essere è una cosa come anche l’essere è una cosa (tra i vari: Kardec, Il libro degli spiriti). Certamente è poi possibile discettare su che tipo di cosa sia: ci sono cose che esistono, ma non ci sono (per esempio la responsabilità), e ci sono cose che esistono e ci sono (per esempio un bicchiere).
E tale questione interpretativa si pone al massimo grado nella lingua e nelle creazioni effettuate mediante la stessa, ossia, in particolare nella poesia. Nell’ambito delle altre arti (pittura, scultura, fotografia, musica, cinema, etc.), vale a dire di altri linguaggi, la questione del non essere si pone più che altro in via speculativa, ossia di discorso (naturalmente logico) sull’opera d’arte, e non afferisce direttamente all’opera in sé, la quale è lì, presente, nella complessità dei suoi significati nell’istante stesso della fruizione.
Ecco che quindi la riconducibilità della poesia alle altre arti (e pertanto alla loro condizione di prodotto di mercato) mi pare non così scontata (senza contare il diverso impegno degli arti, del corpo, nelle arti e nella poesia, la differente fruizione da parte dell’utente, etc.). Ne consegue, quindi, che anche l’analogia tra l’artista e il poeta possa e debba essere messa in discussione (e quindi dovrebbe essere messa in discussione la comunanza che tra le varie categorie della creazione è stata effettuata dalle avanguardie del secolo scorso).
In questo senso il ruolo del poeta e dell’artista nel mondo contemporaneo dovrebbero forse essere distinti: il poeta mi pare che possa sopportare una ricostruzione della realtà, nella sua verità, molto più complessa di quello che può avvenire nelle altre arti, soprattutto per la semplicità tecnica del suo mezzo, la quale non ha necessità di importanti supporti esterni (quali apparecchi e strumenti vari).
In più il poeta ha a disposizione la stessa ‘materia’ delle istituzioni: le parole. Ecco che quindi il fascino per il cinema non può eliminare le tecniche proprie della parola: retorica e sintassi in primo luogo. Inoltre non è possibile scappare al senso: esso può essere latente o patente, ma è comunque presente (anche perché, comunque sia, la letteratura è sempre autobiografica, che essa espliciti l’io o meno). O almeno il lettore è automaticamente indotto a cercarlo.
Per esempio, io lettore ho dato un senso ai versi della Tagher e di Intini citati nel Saggio: Ewa si rende conto che non può sfuggire al senso (e il senso attualmente è quello del galoppatoio, quale metafora della condizione umana nella nostra società), o, meglio, che per lasciare gli stacci ha necessità di cominciare a galoppare; e Intini sopravvive alla socialità (scafandri e onde radio quale metafora della stessa società organizzata come un galoppatoio) per cercare qualcosa di intimo. In questo senso ho quindi trovato piacere in altre poesie, le quali mi hanno permesso di interpretare la realtà diversamente da come mi capita di fare in automatico.
Parlo di:
– Gli esperimenti di Galdini;
– Il silenzio dell’ossidiana di Gallo;
– Placche di colesterolo di Intini
– Le terzine dantesche di Leone
– Agli stagni Patriarsci di Linguaglossa;
– Abbiamo di Pierno
– La gallina Nanin Charles Simic e la giacca di Magritte di Rago
– Un passo cade di Ricciardi
– Addio routine di Tagher
– Germanico di Talìa
– È da un po’ che non scrivo di Tosi.
In altre occasioni mi è sembrato che mi venisse descritta la realtà senza ricomporla. Ma poi, assistendo alla presentazione dell’antologia alla fiera del libro di Roma del 2022 ho capito qualcosa in più del ‘gesto’ della nuova poesia. Un qualcosa, che, a mio avviso, non compare nel Saggio.
Si tratta della presenza dell’umorismo.
Umorismo vero, quello che ti scappa da ridere.
Ne sono stato preso, in particolare, quando Giuseppe Talìa ha performato la sua poesia dal titolo Germanico. E ho realizzato che questo è forse il punto focale del nuovo ‘gesto’ poetico, che rispetto alla tradizione cambia completamente, scavalcando anche l’ironia: dal serio al faceto. Ed è questo il punto in cui si cela, forse, a mio parere, l’etica che la nuova poesia trasmette: la serietà leggera del gioco. Caratteristica che la mia poesia, per il momento non ha, se non in rare occasioni. Ad ogni buon conto ti invio in allegato alcune delle mie ultime prove.
Altri sarebbero i temi e gli argomenti che mi piacerebbe trattare e che prendono spunto dall’antologia Poetry Kitchen ma che, in difetto di tempo, non riesco ad approfondire: la presenza di vari termini di origine anglica e la passione per il cinema e, quindi, secondo me, la problematica dell’istinto di morte da contrapporre all’istinto di vita (forse più latino); il rapporto tra il linguaggio e la realtà delle cose, per me completamente metaforico (e da qui il disaccordo con la fine della metafisica); o, anche, la presenza in copertina di una gallina, uccello tradizionale della poetica italiana.
Mi piacerebbe proseguire perché, come spesso accade, è solo con il confronto che possono chiarirsi delle idee. Confronto che non dovrebbe scadere nel contrasto, di modo, peraltro, che si possa elidere o eludere la legge della dialettica dell’amico/nemico, del servo/padrone, etc.
Mi arresto però qui, ringraziando ancora per l’opera condotta.
A presto, i miei migliori saluti.
(Simone Carunchio)
Due poesie di Simone Carunchio
BIVACCHI
Migrano
Migrano i maroni
A sud il cielo più vicino
E le nuvole più lontane
Natura paradisiaca del Paese estero
Longo sandalo
Pio Pio
Padre padre
A nord il cielo più lontano
E le nuvole più vicine
Dura notte moscata di noce
Dura come una noce
Nella foresta fantasmi
A riposare e vacche dalle lunghe ciglia
Minotauri del labirinto
Ninfe vestite di bianco
Fate bianche
Nelle ore lunatiche delle civette pensierose
Venti lupeschi
Da un albero il soffio di una gioia vibrante
Dalle nuvole un segno alla solitudine
Dai moscerini felici presagi
Posare il cristallo dello sguardo
Senza il gas dell’analisi
Abbeverarsi con un po’ di penombra
Dalle tubature dell’idraulica cibernetica
Per assaporare la disfatta del tempo e dello spazio
E poi smetterla
Poche informazioni nessuna amarezza nessuna collera
Poco movimento poca produzione meno nostalgia
C’è la gloria della memoria della storia
E c’è la gloria nella scomparsa nella geografia
Tra le ombre lunghe alla luce gloriosa
Della fiamma scoppiettante
Salsicce
Libertà e coltelli
A forma di f
Riposo meritato dal varco di altezze
Respirabili paesaggi sistemati mai
Divertenti forse ebri decori eccezionali
Di passaggi
In lontananza piantagioni e coltivazioni
A offrire prospettive di rendita
Ghirlande di mongolfiere
A regalare presagi di vastità
(Dell’essere umano aumentare la realtà)
In cresta su enormi bestie accucciate di pietra
Ingrassate dal peso lasciato loro
Da montanari sempre più magri sul sentiero
La verginità del passaggio era sigillata dalle ragnatele intatte
E dalle fughe di primitive lucertole verso erbe folli
(le bestie di pietra ingrassano poco)
Cespugli di more a richiedere soste golose
Graffi e frutti della passione
Il ricordo rimbalza al ricordo
Di amori e storie
Di capelli sciolti e di capelli legati
Piccole edicole di cattolicità
A ricordare tentativi di rimozione
Forse senza successi
Senza sostituzioni
Solo trasformazioni
Di simboli e usi e costumi
Mode
Tanta è la brace
Non te lo dico nemmeno
Buon appetito
Sei proprio là dove ti devi di essere
Tra foreste di faggi al profumo
Acre di timo ove si è ficcato il naso
La notte promette
Costellazioni di sogni
Prima del bagno caldo
Dei primi raggi di sole
Che aprono il cielo
Tirando una linea di chiarezza
SENZA PACE
a Teresa Ferri
Su di un cielo che muto si stringe
A imbuto disegni in filigrana dei rami nudi
Trucchi di rugiada il fiordaliso
Ucciso dall’alito di gelo che all’alba lo baciò
Sogni di astri lontani
T’imbuchi di un ricordo sempre più smilzo
Tocchi di immani lapislazzuli i resti di un sorriso
Varchi senza affanno
Labradoriti
Raccogli nell’aria
Se nel vuoto
La lanci a strofinar le stelle
Anni rotolati nuotano tra le dune
Affamato d’un morso cogli il cielo
E rimani lì a sognar sfamato
In cerca di mani e sguardi di piacere
Simone Carunchio – consulente giuridico, pubblicista, dottorato in filosofia giuridica, velista, imprenditore (www.perlassiso.com) –, in capo poetico ha curato e cura l’opera dell’amico poeta Enomis, ha all’attivo sei raccolte di poesia tra il 2010 e il 2022: www.blogspot.scenomis.com), il cui nome compare, nel 2010, nel saggio Dalla lirica al discorso poetico di Linguaglossa. Simone Carunchio ha pubblicato oltre 200 articoli e saggi sulle tematiche più diverse: oltre quelle attinenti al diritto, si è occupato anche di cultura dell’automatismo, letteratura e poesia. Ha pubblicato, inoltre: un racconto; una ventina di poesie sparse su riviste e in antologie varie e una silloge di poesia, dal titolo nel letto bastardo, nel 2008, anch’essa in antologia. Con il suo lavoro poetico, talvolta esercitato in forma prosodica, persegue l’intento di riprodurre i versi della vita contemporanea applicando un metodo frattalico ai fenomeni, per affrontare le tematiche più diverse. Lo stile si alterna tra il melodico descrittivo e il frammentato.
Sulla ostilità preconcetta verso la poesia kitchen
un trattore elettrico scuote alberi di catrame
nel garage del Colosseo
(Mimmo Pugliese)
La parola Kitchen “vive per vivere e non per prepararsi a vivere”.
(Antonio Sagredo)
Il capocantiere Euclide mette una nuvola parallela ad un camino.
(Francesco Paolo Intini)
Il capocannoniere Ippocrate ha sparato nel mucchio di lavatrici
Ne è uscito fuori un ometto con i baffetti alla Putler
(Giorgio Linguaglossa)
a quest’ora può essere già aperto! – dice Mr. K.
(Raffaele Ciccarone)
La poesia dovrebbe apparire al primo posto nello spazio metaverso.
(Gianni Godi)
Eredia bacia a colpi di pugni e grida
e di mitraglietta una mostruosa ventosa
(M.L. Colasson)
Ecco dei versi kitchen di vari autori dove è evidente la presenza del «significante eccedente» in azione (il capocannoniere, il trattore elettrico, il capocantiere Euclide, Mr. K. Eredia etc.).
Il significante è eccedente quando non riesce più a trova il suo referente, quando è un residuo, uno scarto del referente, questo fenomeno che compare nel linguaggio poetico della nostra epoca sta a significare che ci troviamo in un momento in cui l’ordine simbolico è al collasso e i segni si disintegrano in mille significazioni; non è un caso che i significanti in queste condizioni non riescano più a trovare la casella dove appoggiare il significato come avveniva magicamente alla poesia di un Sandro Penna quando su una lingua a fondo pascolian-dannunziano riusciva comunque, e grazie proprio al retroterra di quella astorica lingua dannunzian-pascoliana, a mettere comunque il cappello su medaglioni linguistici limpidi ed eufonici. Ma era un’altra epoca, un’epoca nella quale non c’era sentore della scisione e della biforcazione che avvertiamo oggi per i significanti liberi e per i significati liberi (o liberati).
Ho letto su FB un giovane critico, ben preparato, che portava l’esempio della poesia di un Sandro Penna per opporla a quelle petizioni (non faceva ovviamente alcun nome ma è ovvio che aveva letto le poesie kitchen e che se ne ritraeva inorridito, il bersaglio era proprio la poesia kitchen!) che invece fanno in buona fede (scrive il critico) un «lavoro di ricerca», come se fosse una pecca la «ricerca» come se fosse davvero possibile scrivere oggi un solo verso che non fuoriesca da un serio «lavoro di ricerca». Ma questo forse è il meno, l’aspetto più evidente è la chiusura a riccio dei letterati davanti alla poesia kitchen, e questo lo ritengo un ottimo segnale, vuol dire che stiamo facendo centro, che la scrittura kitchen da fastidio, infastidisce, irrita i palati preformattati che pensano sia possibile rifare una poesia levigata e lucidata alla Sandro Penna oggidì, in pieno collasso, non solo del simbolico, ma del reale.
Marie Laure Colasson
17 dicembre 2022 alle 19:41
Il problema Baudelaire è stato «risolto» dalla poesia italiana mettendo il poeta francese in un sacco di juta e agitandolo per farne uscire i dèmoni. Così debilitato e indebolito il problema Baudelaire in Italia è stato archiviato come caso parigino, qui infatti si parla ancora di D’Annunzio e di Pascoli come zoccolo duro della poesia italiana del novecento, quando invece occorrerebbe fare i conti con Baudelaire e la Parigi dei Passages, cioè con il Moderno e la nascita della società di massa. E così la poesia italiana, quella pochissima più acuta ha scelto la maniera di Palazzeschi (il quale è un perfetto estraneo, oggi, come ieri, nessuno parla più di Palazzeschi ritenuto poeta giocoso, formula quanto mai infelice e riduttiva) con il che la poesia di Palazzeschi è stata devalutata come poesia minore, poesia giocosa, poesia motteggiata, poesia psicanalizzata e varianti. Quindi Pascoli molto più di Baudelaire, ecco il quadro (erroneo) della poesia italiana che viene sventolato ai poveri di spirito. Quadro che risponde ad un concetto regressivo ed errato che pensa ancora in termini Pascoli-D’Annunzio.
La poesia kitchen ha l’obbligo storico (non può farne a meno) di fare i conti con la poesia di Baudelaire, con la nuova società mediatica, che è determinata da uno sviluppo tecnologico che ha impatto sul modo di vita e di essere degli uomini e delle donne del nostro tempo e, in specie, ha impatto sulla evoluzione e sul cambiamento dei linguaggi di relazione e dei linguaggi artistici in specie quello poetico e narrativo. Chi non ne vuole prendere atto e riflettere su questa urgenze continuerà legittimamente a fare narrativa e post-poesia narrativeggiata, continuerà a fare poesia inconsapevole.
Sì, il concentrato di modernità che c’è in Baudelaire è incredibile. Non facile percepirlo. Forse molto si chiarirebbe se il titolo della sua grande opera fosse tradotto correttamente in: Fiori dal male.
Però, dai, D’Annunzio è molto spendibile
poesia di Giuseppe Talìa
Tallìa
19 dicembre 2019 alle 20:24
Caro Germanico,
sono molto preoccupato. Giorgio Linguaglossa
non è più quello di prima, E’ diventato un buono
perdona tutti, perdona anche le mie intemperanze
invece di ributtarmi nel vuoto da cui vengo.
Dice che anche il vuoto è una “cosa”, una cosa che
Contiene il vuoto stesso come un vaso che contiene
La presentificazione e il paradosso del pieno e del vuoto.
Tu lo capisci? Farnetica che la verità è più potente
Della verità stessa. Non ti pare, Germanico, delirante
Il pensiero per cui la verità che di per sé non esiste
Possa esistere in un fondo veritativo? E poi frequenta
Piazze dell’Urbe colme di sardine inneggiando
Ad un rinnovamento che dal profondo dei mari terrestri
Possa riportare questa nostra società malata di memoria
A lungo termine dal Nulla al Tutto e che il Tutto possa comunicare
Con il Tutto. Non ti pare la metonimia un sintomo grave?
Lo tengo d’occhio e ti dirò nella mia prossima.
Risposta di Giorgio Linguaglossa
Germanico
16 dicembre 2022 alle 18:50
Se la patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie, per la pop-poesia non ha senso parlare di «soluzioni immaginarie», la pop-poesia avverte l’esigenza di reinventare il reale come finzione, come gioco di specchi, come costruzione e decostruzione ad un tempo del linguaggio nel linguaggio.
Non si tratta di una riscrittura semantica della realtà, perché la realtà come noi la intendiamo non esiste, ma è già, in quanto tale, frutto di una simulazione; si tratta piuttosto di porre in essere una dissimulazione auto ironica della realtà, perché essa viene distrutta e insieme ricostruita proprio nel non-luogo che la contiene: nello specchio del linguaggio.
L’altra sera Marie Laure Colasson, dopo aver visionato il video di Gianni Godi, ha riconosciuto la grande capacità dell’autore di reinventare il linguaggio poetico in un altro linguaggio, un linguaggio simulacrale fatto di avatar, emoticon, figure tridimensionali che si avvale della stessa grammatica del web per ricostruire un video secondo un modernissimo concetto di spazio simulacrale-virtuale. Ha fatto un pop-video, se così possiamo dire.
(Giorgio Linguaglossa)
Per come la vedo io, Pop è scrivere nel geroglifico del banale. Merito dell’arte pop è quello di rendere manifesto e riconoscibile il banale. Dopo l’epoca della grande narrazione, il passo successivo. Nomi e oggetti del vecchio mondo, ancora qui: autentico vintage.
(Lucio Mayoor Tosi)
…lo finisco il pensiero. Il pop pensiero è l’autentico presente che a un certo punto ci siamo dimenticati che per una serie di ingolfamenti temporali torna finalmente a galla. Dalla deriva, dall’esclusione, a cui era stato sottoposto o riapparendo se preferite. Mi vengono in mente le tanto care missive che quell’instancabile di Rago ha inviato a Ewa Lipska, il prototipo delle lettere alla Maria nazionale. Ergo, quindi Ingravallo e li che deve indagare. Madame Colasson ha un gancio perfetto col buona camicia televisivo. (Uno dei miei scrittori preferiti è Sebastiano Vassalli per come riesce ad essere cronista e protagonista in una sua storia è strabiliante. Un teatro tutto suo, grande!). Termino. Cosa voglio dire? Appunto. Che c’è sempre una parte del presente che dovrà diventare futuro, e viceversa, che dovrà diventare passato.
La pop poesia è il presente che affiora.
(Mauro Pierno)
C’è un «significante eccedente» che se ne va in giro per la poesia moderna, questo è indubbio, ma ciò che caratterizza la poesia della nuova fenomenologia estetica della top-pop-poesia, della poetry-kitchen o pop-corn-poetry è una particolare idea di «significante eccedente». Pensare questa idea soltanto nel senso semantico come ha fatto lo sperimentalismo e la poesia tardo novecentesca a mio avviso sarebbe limitativo. Qui occorre pensare l’«eccedente» nella accezione di uno scarto e di un residuo non assimilabile ad alcun significato stabilito; a questo punto si apre uno spazio di «gioco linguistico» nel senso di Wittgenstein sconosciuto alla poesia del Moderno, impensabile dalla poesia del modernismo del novecento. È questo salto mentale che bisogna fare, altrimenti si ricade inevitabilmente nella poetica del significato e del significante.
«Noi crediamo che le nozioni di tipo mana, per quanto diverse possano essere, considerate nella loro funzione generale… rappresentino esattamente quel significante fluttuante, che costituisce la servitù di ogni pensiero finito (ma anche la garanzia di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica o estetica), sebbene la conoscenza scientifica sia capace, se non proprio di arrestarlo, di disciplinarlo parzialmente».1
Lévi-Strauss, citato da Giorgio Agamben, Gusto, Quodlibet, 2015 p. 47 e, in Enciclopedia Einaudi, vol. 6, Einaudi, Torino 1979.
(Giorgio Linguaglossa)
Caro Germanico,
Linguaglossa è definitivamente impazzito.
Tiene in frigo i libri che dovrà buttare
-Tra i tanti che ne riceve- e il fagiolino,
Uno dei due fagiolini presenti nella stanza,
È colmo di copertine classificate secondo
I dolci tradizionali: primo fra tutti il libum,
e a seguire i luncunculus, i globus,
la cheescake di Catone.
I libri sulla consolle invece li fotografa,
dice che bisogna tenerne memoria.
Per la prossima Sigillaria, ha pensato bene
Di comprarsi un assistente vocale, un DOT.
-Patrizi, plebei, liberti, persino gli schiavi
hanno degli altoparlanti intelligenti.
-Alexa o Google Assistant?
-Non è una decisione da poco.
Mi disse, mentre eravamo sul ciglio
Di un burrone sull’Aventino.
-Lei (si può dire lei?) è una palla.
-Lui (si può dire lui?) è un mattone.
-Lei chiacchiera tanto.
-È come avere un supermercato
In casa.
-Lui è più conciso. Gli chiedi la temperatura
Esterna e ti dà un numero.
-Lei, invece aggiunge la media e la massima,
E per domani…
-A casa di Servius Gaulenti ho chiesto,
-Alexa hai fame?
-Mi ha risposto che purtroppo
Non mangia e non beve, ma
Che è contenta se io mangio
E bevo.
-Ho fatto la stessa domanda a lui.
-Mi ha risposto no.”
-Capirai Tallia, è l’evento linguistico
Che ti dà la misura del sublime tecnologico.”
Nel frattempo, si aiuta con gli antiociani:
-Prevengono ictus, combattono la ritenzione,
Rafforzano le difese, come per l’Augusta.
Va dicendo a spron battuto.
Come dargli torto.
Noto che il metodo “elencazione” ha preso piede dopo che ho pubblicato alcune “caratteristiche” della poesia kitchen, in un post precedente. Metodo che ho usato altre volta in questo blog.
Che sappiate comunque che era un metodo dei futuristi russi poco più di 100 anni fa.
E quanto a “kitchen” c’è a Roma a due passi di casa mia un negozio di cucienria, di vendita cioè di cose di cucina: strumenti e altro… ed è scritto proprio sulla insegna “KITCHEN!
—-
X Colasson
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Archiviare Baudelaire per far posto a D’Annunzio e a Pascoli è opera soltanto di critici mentecatti. Perché qui si tratta di misurare la statura dei poeti che si trattano: è necessario possedere una vista buona capace di vedere e intravedere oltre e senza essere dei metafisici. Si vede benissimo che quelli hanno usato in pieno novecento dei metri antiquati. E’ che sono deboli in letteratura e poesia comparate.
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Me ne intendo di tecnica poetica come fosse una scarpa rotta da, forse, riparare, se ne vale la pena.
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E di poesie tradotte male – abbagli o errori ecc. – ne ho corrette con lo spago e con la colla: filologia e visione a spasso insieme!
In questi ultimi giorni si sta parlando molto della chat GPT open AI che usa l’intelligenza artificiale per colloquiare con gli umani su un numero elevato di argomenti. Ho provato a capire quanto ne sa di poesia. Se gli chiedi di scriverti una poesia “alla Pavese” su un certo tema, o qualsiasi altro poeta o corrente letteraria, scrive dei testi paragonabili a tanta poesia social. Le metafore sono giuste, è giusta la sintassi e mai capiresti che sono stati scritti da un’intelligenza artificiale. Poi gli ho chiesto se conosce la Poetry Kitchen, e si, mi ha risposto che la conosce; ha citato anche Giorgio Linguaglossa. Dove fallisce è nel tentativo di scrivere una poesia Poetry Kitchen. In questo caso diventa evidente che non sa proprio come approcciarsi al “gesto poetico” evidenziato da Carunchio nella poesia di Giuseppe Talia o Paolo Intini.
Chissà se la IA di GPT è dotata di senso dell’umorismo…
Quanto afferma Cataldi è la conferma oggettiva che si va avanti per la giusta via perchè coglie nell’imprevedibilità un concetto fondamentale della poesia Kitchen. Per chi nella vita ha cercato di far quadrare ogni cosa dal punto di vista delle leggi scientifiche, questo è un bel risultato perché afferma che a sua volta il testo poetico non obbedisce a una disciplina rigorosa e indiscutibile. Non sono queste leggi che stanno costruendo l’AI come tutto il resto della tecnologia per fini che attualmente sono difficili da immaginare? Sfuggire a questa caccia con gli strumenti dell’ interferenza, della serendipità e della tecnica del montaggio ci porta al largo del non detto, in un quadro di costellazioni sconosciute ma sempre con i piedi e la mente su un pianeta di forma sferica.
(…)Magellano scorrazza per il cortile Sud
Ci fosse un budello nelle forze Atlantiche
un dubbio della crosta terrestre per tornare in Spagna
ma cascano sui piedi incudini grandi quanto la Siberia.
(Oh, Superbone!)
Auguri a tutti gli amici dell’Ombra
Tre versi di Simone Carunchio:
Su di un cielo che muto si stringe
A imbuto disegni in filigrana dei rami nudi
Trucchi di rugiada il fiordaliso
E adesso li trasformiamo con un colpo di bacchetta magica in potery kitchen:
Su di un cielo che mi parla e si stringe cammina
Nel suo cappotto ad imbuto che ha disegni e losanghe in filigrana e dei rami dai quali pendono nudi piccoli martelli
Con trucchi di altezzosità appare il Sig. Fiordaliso mentre si soffia il naso e alterna improperi e semitoni di zinco.
Una virgola è appollaiata lassù con un camice bianco…
Ecco, la poetry kitchen segue il principio sinonimico e accantona il falso problema della locuzione sensata e pensata da un io…
Il cielo muto spinge rami nudi nell’imbuto
Ne esce fiordaliso per dieci bottiglie di rugiada
Il trucco è nella filigrana dei disegni.
Imbuto, disegni in filigrana. Fiordaliso.
UN CAPPOTTO TAGLIA 110 PER BEETHOVEN
Flex e il violinista si piantano sul balcone.
All’aereo che passa mandano un saluto ultravioletto
È giorno di cieli rotti e rifacimenti in nero.
Mattonelle scendono sugli abeti, riempiono i cortili
Un passero rovista nel riciclabile. Manca un led alla rabbia finale.
Il potere si concentra in un motore poi passa di mano in mano
Ma non saprà dirci, con tutta evidenza,
Cos’è quest’allegrezza nel fil di rame.
Si tratta di prolegomeni. Quello che accadrà ai nervi.
Se interroghi una scocca il parafango brandisce dubbi.
Dentro l’uovo cresce un velociraptor: TRRRRRR…
Spaccherà il guscio dell’Europa
Cosa vuoi che sia un trapano?
Toc..Toc… fa l’inizio di un bussare alla serranda:
che ci fanno i Cristi nella banda?
C’è sempre il lancio dal quinto piano
Previsto per il 15 dicembre.
Si aprono i lapsus e nel fuggi-fuggi dei violini
Beethoven azzanna un violoncello:
per i figli-dice- quelli che verranno.
Sulla bacchetta spunta una rapa
tra le orecchiette, le acciughe al sale
e patacche d’oro da inghiottire all’alba.
Francesco Paolo Intini
Buone feste a tutti\e
Siete tutti sulla buona strada a divertirVi.
Anni fa mi divertii con Eliot, e il risultato era migliore
dell’ originale.
Vi riferisco la prima strofa (da Bistrot, 2015):
————————————————————
Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando Il cielo è in pace e finisce il giorno,
come un infermo folle che sul letto si acquieta .
Torniamo da viali chiassosi poco noti,
dai luoghi strepitanti dei flâneurs,
nei tranquilli cantucci di locande lussuose,
bistrots lindi e colmi d’ogni sorta di pietanze;
sono sfiniti i viali come un piacevole ragionamento
di concreto disimpegno,
e ci inducono a una domanda opprimente
e ci allontanano da una sopportabile risposta.
Oh, rispondete, cos’è?…
quando saremo tornati da un consulto.
————————————————————
Cara COLASSON illuminami, sono curioso :
FIORI DEL MALE O FIORI DAL MALE?
vesi sopra Simone Carunchio
Disegni e Trucchi. Li ho utilizzati in maniera particolare per giocare sulla doppia valenza di sostantivo e di verbo. In quella poesia mi sono divertito a far di questo. Come con: sogni, tocchi e varchi.
Ho solamente giocato a scombinare le parole.
Grazie del tuo intervento interessante.
Ringrazio io per l’attenzione. E poi, certo: se qualcuno lavora su del materiale che proviene da me non posso che esserne contento: non c’è che da imparare!
Però, dai, D’Annunzio è molto spendibile
(Carunchio)
Chissà se la IA di GPT è dotata di senso dell’umorismo…
(Carunchio)
——————————————
Sia più compèrensibile:
che vuole dire “spendibile”?
—
e cosa è: GPT?
——————————————-
mi scusi sono di una tale ignoranza!
‘Più spendibile’ nel senso che fra i vai autori riconosciuti dalla storiografia letteraria italiana, il D’Annunzio è forse il più moderno e quindi quello che è possibile proporre come in Francia il Baudelaire: il notturno, il fuoco, le faville del maglio, alcune prove poetiche dell’alcyone, sono opere ancora, a mio parere, molto attuali (molto più attuali di un Montale o di un Ungaretti). A persone estere, infatti, quelle poche volte che ho trovato qualcuno interessato alla letteratura italiana, il D’Annunzio era conosciuto! Insieme, forse, al Quasimodo e al PPP. Di altri autori se ne sapeva o niente o molto poco.
GPT è un programma (un’applicazione) a cui è possibile accedere connettendosi a internet che si basa su algoritmi e, quindi, rappresenta un’intelligenza artificiale. A questa IA è possibile porre gli interrogativi e affidargli i compiti più diversi, come per esempio scrivere un articolo di cronaca o, appunto, una poesia o fargli effettuare una ricerca a tema o chiedere altre notizie. Pare che manchi di senso dell’umorismo…
Ringrazio Simone Carunchio per l’utilissimo contributo. Ne sono ammirato.
Ricordo di avere sollevato anch’io, timidamente, la questione del venir meno dell’aspetto ontologico. La ragione, a mio avviso, sta in certa poesia estroversa, rivolta esclusivamente al mondo; parlo del mondo reso infinito dalla mancanza di ritorno all’essere.
Di sé, o dell’essere, rimane il gesto di scrittura.
Altro aspetto posto in rilievo da Simone, l’ironia e l’umorismo: probabile conseguenza del definitivo allontanarsi dall’elegia. Ne dissi in un commento, non senza avvertire un senso di colpa senso di colpa, dovuto a educazione cattolica; ma è probabile che avvertissi la difficoltà di dovermi confrontare con certo catastrofismo moderno, per intenderci, alla Agamben.
Notte, passa un’automobile. La luce improvvisa dei fari accende arabeschi sulle pareti della camera da letto. Poniamo che non siano ombre di cose, ma di parole; ecco allora una composizione astratta di Intini, piena di punte; oppure, di Giorgio Linguaglossa, un insieme informale di significati e non-significati. Dura un attimo, il tempo che ci mette un’auto a passare per la via. Poi ancora, ma la composizione si fa più astratta…
Simone Carunchio scrive poesie con pochissimi articoli e aggettivi, nel far ciò è molto kitchen. E si avverte la volontà di restare in ambito ontologico.
“Buon appetito
Sei proprio là dove ti devi di essere”
Il refuso lascia spazio a diverse interpretazioni. Giorgio, Alfonso ed io, abbiamo sopra esposto le nostre diverse tavolozze. Sono sicuro che Simone troverà presto le sue. Ma la sorpresa c’è, e ne sono contentissimo.
Sono io che ringrazio! E sì: l’ontologia rimane un nucleo centrale del lavorio che porto avanti. E, purtroppo, anche il catastrofismo. Credo che provenga da delle sviste culturali che si potrebbero far risalire agli anni ’70 del secolo scorso. Roba tipo: il lato oscuro della luna.
Poesia sul Natale.
Buona Libertà! È il grido delle renne appena fuori
dall’ospedale. Buona libertà a te, a te…
Mi ustiona la pelle il Natale. Ai demoni non piace.
Troppo facile arrivare ai cuori.
Babbo Natale con barba bianca. Quel sentimento.
Di questo discutevano i Magi attorno alla culla.
Gesù era felice.
LMT
L’enunciato kitchen opera in uno spazio che è diventato mera superficie, in questo spazio o, più propriamente, «campo», si inscrive il discorso in termini di «campo» o di «superficie» nella quale la scrittura si presenta in formazioni dispersive.
Ma questa dispersione è ben più che un artificio retorico, si tratta invece d’una petizione di principio in virtù della quale siamo spinti a parlare del discorso secondo una nozione, cara a Foucault, di «esteriorità», o a definire il pensiero come una «griglia». Attraverso queste griglie e queste esteriorità gli enunciati assumono la connotazione di significato, ed ecco emergere il senso. Foucault asserisce che è possibile che a volte queste griglie vengano momentaneamente rotte, allora soltanto si dà l’opportunità fugace di fare esperienza di qualcosa proprio per il tramite di questa parziale rottura, del fatto stesso dell’ordine. È in tal modo possibile esperire l’esistenza in sé di qualcosa come un ordine di senso o di non senso che regge il tutto. Infrangere questo ordine di senso o di non senso è il compito precipuo del kitchen.
Ordine del discorso e ordine del pensiero, lo spazio in cui pensiamo e parliamo, può essere rotto: è la situazione limite delle eterotopie, ovvero, sorta di «contro-spazi» di cui le culture sono munite e «in cui gli spazi reali, tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati».1
1 Id., Eterotopie , in Archivio Foucault III , a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 310.
l’odore del frittomisto di Simone Carunchio è buono, rivela una buona cottura e una buona digestione delle complesse argomentazioni che sottendono la poesia kitchen e il discorso ermeneutico di Giorgio e di noi tutti che lo accompagniamo. Sarei curiosa di sapere che ne pensa degli adattamenti in modalità kitchen che abbiamo fatto di alcuni suoi versi l’amico Simone Carunchio.
Due parole natalizie però le vorrei dedicare alla poesia kitchen di Francesco Paolo Intini, lui la sua meravigliosa lingua di plastica la impiega in quanto lingua miserabile, la lingua del commercio degli affari propri; questa lingua, o meglio, questo linguaggio, quello che desertifica il logos, quello della melona che ruba ai poveri (toglie loro il reddito di povertà) per darlo ai ricchi (mi riferisco ai 980 milioni di euro donato ai presidenti delle società di calcio italiane), è qualcosa contro cui gridare vendetta. Neanche il governo Tambroni-Scelba degli anni cinquanta era mai giunto a tanto. Ecco, Intini usa questo linguaggio spiegazzato, miserabile, ipoveritativo e lo fa facendolo deflagrare in autentici colpi apoplettici di riso amaro. Intini è, a mio avviso, un classico della poesia kitchen perché lui è arrivato a tanto accettando il linguaggio miserabile e spiegazzato che troviamo nelle discariche delle refurtive parolaie-mediatiche di ogni giorno del nostro miserabile Paese.
(dico «nostro» anche se sono francese).
Per me questi ‘adattamenti’ sono molto utili, soprattutto per individuare ancor più le singole voci di ogni autore su materiale che, alla base, non è il suo. Inoltre mi permettono di comparare e imparare. Certamente ciò che mi pare evidente è che la mia poesia manca di quell’umorismo, di quel senso del gioco che invece pervade molte delle opere poetiche che leggo qui. Ma questo forse dipende dall’umore di fondo che ognuno assapora anche a seconda del proprio periodo di vita…
di Valdimir Majakovskij
—————————————–
Aghi di pino
Non è necessario.
Non chiedetelo.
Non ci sarà l’albero di Natale.
Come potete
nel bosco
far andare papà.
Verso di lui,
di dietro il bosco
le schegge di proiettili
tenderanno,
per poterlo acchiappare
la zampa rapace.
Non si può.
Oggi luccicanti lustrini
non giaceranno
sotto l’albero di Natale
nell’ovatta.
Là –
un milione di carichi micidiali
pungeranno
e ai feriti non basterà l’ovatta.
No.
Non accenderanno.
Non ci saranno candele.
In mare
mostri di ferro strisciano.
E da questi mostri
uomini cattivi
aspettano:
se non si accenderà l’occhio delle finestre.
Non parlate!
Gli sciocchi attaccano discorso:
che il nonno venga,
che ci sia un mucchio di giocattoli.
Non c’è un nonno.
Il nonno è nella fabbrica.
La fabbrica?
E quella che fa la polvere da sparo.
Non ci sarà musica.
Le manine
Di dove le prenderebbe lui ?
Non si siederà, a suonare.
Vostro fratello
è ora,
un martire senza mani,
se ne va, luminoso, verso il portone del paradiso.
Non piangete.
A che scopo?
Non accigliate i visini.
Non ci sarà –
ebbene, che importa!
Presto
tutti, in un gioioso grido
intrecciando le voci,
accoglieranno un nuovo Natale.
Ci sarà l’albero,
e che albero –
non riuscirai ad abbracciare il tronco.
Vi appenderanno ogni sorta di brillìo.
Ci sarà un pieno Natale.
Così che
persino
si avrà noia di celebrarlo.
1916
(trad. A. M. Ripellino)
Whatever it takes
La poetry kitchen è una realtà del panorama culturale del Paese. Stanno tentando in tutti i modi di fare silenzio intorno alla poesia kitchen ma se resteremo uniti, anzi, se ingrosseremo il numero degli artisti e dei poeti kitchen sarà sempre più difficile per l’arco costituzionale della politica culturale del Paese dire che non c’è niente di nuovo all’orizzonte della poesia italiana e che il nuovo solo «loro» con i loro compitini educati e lucidati. I tavoli delle conferenze culturali sono fatti dello stesso legno di quello delle bare della cultura ammuffita e aggiudicata che ha orchestrato quelle conferenze. La poesia nuova scaccia la vecchia per ragioni ontologiche, prima o poi la nuova poesia prevarrà, è solo una questione di tempo, è una questione eventuale. Prima o poi l’evento accadrà. Proclamiamo: Whatever it takes
Leggo in un articolo del Riformista di oggi:
I tavoli delle conferenze della pace sono fatti con lo stesso legno delle bare. Quando una guerra entra nella fase delle trattative tutto si incarognisce e lo vediamo in questi giorni in Ucraina dove appena comincia a circolare la voce di un possibile negoziato ecco che inizia un nuovo calvario per la popolazione civile: il blackout totale, all’inizio dell’inverno più gelido, senza luce, senza gas, senza possibilità di far funzionare le macchine, i cellulari, gli ospedali con le loro attrezzature.
Caro Giorgio,
Il 14 Dicembre all’università di Palermo, in un incontro sulla poesia e sulla scrittura contemporanea, è stata citata la Poetry Kitchen
Oggi l’Ucraina, ieri Troia
Menelao all’esame di maturità proclama:
«Whatever it takes»
«Troia è il nostro cortile di casa»
Diomede spera sempre che Troia non vinca
Odisseo passa la mano ad Agamennone il quale vuole almeno salvare la faccia
E non è detto che uno vinca e l’altro perda, è probabile che perderanno entrambi la faccia
Gli achei mangiano telline sulla spiaggia
Nel frattempo Elena ha ripudiato Paride
L’orso si mette il fungo all’occhiello
Però sulla pista ciclabile c’è posto per i Tank
Col gioco delle tre carte ci beve il rosolio, recita il rosario, maneggia manubri e timbri con lo scolapasta
Scambia uncini per gondole, lucciole per lanterne
21 dic 2022 La Repubblica
La morte di Asor Rosa, nei suoi libri il destino di un Paese di Corrado Augias
Mi è sempre parsa insufficiente la definizione di “critico letterario” attribuita ad Alberto Asor Rosa. Non perché non fosse in grado di analizzare un testo in ogni sua peculiarità linguistica, compositiva, strutturale. La definizione di “critico” semplicemente non coglie lo sguardo molto più completo – anche extraletterario – con il quale Asor scrutava l’essenza di un testo. Alberto sentiva forte il senso della storia, faceva premio la sua formazione, tra marxismo e Croce, dove la storia – per diverse ragioni – ha il grande peso che sappiamo. Esemplare da questo punto di vista il suo ultimo grande saggio pubblicato da Einaudi nel 2019: Machiavelli e l’Italia. Me ne dedicò generosamente una copia definendo la sua fatica “il mio estremo tentativo di capire”.
La formuletta coglieva il senso intimo dell’opera: analizzare il genio disperato del segretario fiorentino per cercare di capire l’Italia e gli italiani, capire chi siamo, perché e come siamo diventati ciò che ora siamo. Infatti, il sottotitolo – non rassegnato ma furente – era Resoconto di una disfatta. Ad Asor interessava analizzare il quadro storico politico nel quale quel genio visse ed agì. Vi si legge di un paese in piena fioritura intellettuale, però politicamente a pezzi. La sua analisi si concentrava sul quarantennio nel quale era esplosa una crisi destinata a durare circa tre secoli. Anni aperti nel 1494 con la “calata” del re francese Carlo VIII. Sollecitato dal Duca di Milano Ludovico il Moro, il sovrano francese aveva varcato le Alpi per scendere come un fulmine fino a Napoli.
L’altra data, che suggella la prima, è quella dell’incoronazione dell’imperatore Carlo V a re d’Italia, 1530. La cerimonia, presente papa Clemente VII, avvenne a Bologna e non a Roma dato che tre anni prima, Carlo V aveva fatto mettere a sacco dai suoi lanzi la città eterna. Asor vede in quegli anni la fase in cui il destino della penisola viene suggellato. Sono appunto gli anni in cui Machiavelli concepisce le sue grandi opere politiche che rappresentano nello stesso tempo una lucida analisi del fenomeno e l’invito, appassionato, a risanare un’Italia ormai ridotta “più stiava (schiava) che li ebrei, più serva che e’ persi, più dispersa che gli ateniesi”. Passione, amore, il contrario esatto di quel “cinismo” che chi non sa è a volte tentato di attribuire al segretario fiorentino.
Tutto diverso, ma bellissimo e anzi rivelatore, anche il primo libro di narrativa che Asor s’era concesso. Uscì nel 2018, titolo L’alba di un mondo nuovo. Il racconto di un’infanzia, o prima giovinezza, i fatti che erano seguiti all’8 settembre 1943, la disfatta, i bombardamenti, l’occupazione nazifascista di Roma. “I fascisti giravano per Roma in branchi di quattro-cinque, sbracati e disordinati come sempre, ma con l’aria ostentatamente sfrontata e aggressiva”. Immagine opposta, rappresentazione di un ordine implacabile, quella delle truppe tedesche: “Marciavano inquadrati in mezzo alla strada, cantando canzoni guerriere; lo schieramento di parata era perfetto, anche quando i soldati erano in bassa tenuta, le file si disponevano e si susseguivano in ordine assolutamente esatto”. Pagine di sconvolgenti memorie, piene di sconsolata passione, le stesse che ha chiunque quell’esperienza abbia condiviso. Ricordo di aver parlato più di una volta di questo con Ettore Scola che era rimasto segnato anche lui dagli stessi eventi e che su quel periodo, chiuso dall’arrivo degli americani (4 giugno 1944), avrebbe voluto fare un film che purtroppo non ebbe poi modo di realizzare.
Ho citato questi due libri di Asor perché sono in qualche modo opposti, sono un inizio e una fine. Nelle pagine del primo si sente davvero L’alba di un mondo nuovo; in Machiavelli affiora invece il doloroso Resoconto di una disfatta. Alberto Asor Rosa, come Scola, come chi scrive questa nota, appartiene a quella generazione che ha visto la possibilità del cambiamento, ha visto spuntare quella famosa alba e ora deve prendere atto del suo tramonto.
Omissis
Un mio ultimo inedito
lo dedico a Simone Carunchio
13.
Pour ressourcer une bombe atonique
un coup de canif dans le contrat
Pourquoi pas?
Du nord départ de tracteurs juteux
de carcasses bien rasées
aux babouches retroussées et gilets brodés
L’Arum titan* traverse les frontières
reluque sous les jupes des filles
subjuguée par le son envoûtant de l’inflation-blues
Place de la République des filets de bave
picorent le macadam gonflé à l’hélium
Le débraillé du cynisme bichonné
dans des pots de fleurs est de mise
La Georgette du dimanche
se gargarise d’encre noire
Ramasse le grelot primaire
et attrape l’encéphalite de l’autruche
*
Per alimentare una bomba atonica
un colpo di temperino nel contratto
Perché no?
Dal nord partenza di trattori sugosi
di carcasse ben rasate
con babouche a punta in su e gilet ricamati
L’arum titan attraversa le frontiere
sbircia sotto le gonne delle ragazze
soggiogata dal suono seducente dell’inflazione-blues
Place de la République dei filamenti di bava
becchettano il macadam gonfiato di elio
La sciatteria del cinismo coltivato
in vasi di fiori è alla moda
La Georgette della domenica
fa gargarismi con inchiostro nero
Ramazza il superpremio della medietà
e acchiappa l’encefalite dello struzzo
Merci davvero Milaure Colasson!! Du nord départ de tracteurs juteux // Le débraillé du cynisme bichionné/dans des pots de fleurs est de mise.
Me parle…
Ce français a quelque chose d’inoui: très recherché; ou pas? Peut-etre que c’est moi qui ne le maitrise pas assez (problemi di accenti sulla tastiera qwerty…), mais j’ai cette impression.
Je viens de lire et tenter de traduire la Gallienne… Une lecture intéressante
caro Simone,
innanzitutto complimenti per la capacità di aver esposto in un articolo una complessa argomentazione sulla poesia kitchen che è cmq ancora in corso…
Il mio linguaggio comprende e oscilla tra il piano ricercato (recherché) e il piano volgare (l’argot), il risultato è penso diverso da quello che si può nella lingua italiana, ad esempio la mia poesia ha una leggerezza ariosa che magari un poeta italiano non ha, ma qui è questione del linguaggio e della lingua e della storia dei rispettivi paesi e dei rispettivi background.
Cmq resti tra di noi, lasci perdere le allegorie dell’io e la poesia della soggettoalgia. Quella lasciamola ai letterati di medio livello.
Cara Milaure,
Sì, c’è un certo tipo di poesia che forse, infine, semplicemente, annoia. La questione mi pare che abbia a che fare con il concetto di autorità: la poesia dell’io, infatti, può reggere, a me pare, solo nel caso in cui l’autore abbia davvero avuto una vita eccezionale. Per esempio le poesie di Alex Carozzo, che è possibile trovare in Zen Time Atlantico – e su cui è basata la struttura stessa del libro – assumono un gusto particolare perché Carozzo è il più grande navigatore italiano di sempre e, in qualche maniera si percepisce che provengono da esperienze particolari ed estreme.
Lui partì con Moitessier per la prima Golden Globe organizzata. Anche i libri di Moitessier sono pieni poesia, ma tutta in prosa.
E, comparando le due prove letterarie, non si può che condividere quanto affermi: che il francese, soprattutto se scritto, è più arioso dell’italiano; tuttavia, mi pare che nell’oralità il rapporto sia completamente l’inverso…
Un altro elemento che tu, caro Simone, hai individuato con acume è la caratteristica “atea” della poesia kitchen, sì, è vero, anch’io penso che la poesia kitchen non prevede, nel suo orizzonte, la presenza del trascendentale, ovvero, di dio. Ma gli italiani di oggi, anche coloro che professano la religione cattolica, in realtà sono degli atei inconsapevoli, cioè vivono secondo i valori e i costumi di una società che ha sostituito Dio con il Capitale.
Certo, tocco un tasto molto sensibile, ma non c’è niente di male a dire che la poesia kitchen la si fa meglio se si pratica una esistenza del tutto immanente e priva di trascendenza.
Sì, discorsi difficili.
Per come la vedo io, l’unica religione possibile è quella cristiana, la quale nel mondo, nella società – almeno occidentale – intendendo sia quella atlantica sia quella mediterranea -, non esiste e non c’è (il cristianesimo è finito co i catari, mi pare). Il resto è semplice laicismo mascherato.
Molto interessante la tua riflessione tra l’immanenza e la trascendenza nella pratica della nuova poesia.
Personalmente credo di avere ancora una trascendenza molto forte, sebbene completamente immerso nell’immanenza fino al collo. Forse è quanto di questi ingredienti si mette nell’opera poetica che fa la differenza.
In ogni caso rimane sempre la costatazione che, in dialettica: massimo dell’immanenza massimo della trascendenza…
“chi scrive questa nota, appartiene a quella generazione che ha visto la possibilità del cambiamento, ha visto spuntare quella famosa alba e ora deve prendere atto del suo tramonto”
(Linguaglossa).
Caro Giorgio,
non hai Torto affatto. Proprio la possibilità del cambiamento: questo ci hanno fatto intravedere in quel frastuono di quella epoca come fosse qualcosa di calcolato per ingannare tutta una generazione – che era anche troppo ingenua e propensa a credere!
Ma avevo dei dubbi seri, e lo studio comparato delle storie delle culture europee anche sotto il profilo linguistico mi aiutò a capire meglio.
In Occidente e in Oriente illuminati spiriti tentavano attraverso risultati comuni ottenuti dai due fronti di realizzare una fusione unitaria e universale dopo secoli di incomprensioni e di conflitti, ma la real politik se ne fotteva delle speranze di quelle generazioni, e si inventò per queste una speranza appunto universale di sana pianta! Perché? Se le generazioni avessero compreso subito l’inganno sarebbe scoppiato l’inferno senza limiti di latitudini e longitudini.
Fu necessario ingannare e tutti i poteri occidentali e orientali si misero di accordo: dalla politica alla stampa, concordi. Forse il ’68 fu concordato tra i due fronti occidentale e orientale da politiche e ideologie apparentemente opposte: la distinzione doveva esistere per ancora più ingannare e convogliare quella generazione speranzosa ovunque.
Ho avuto un attimo di debolezza quando anche io credetti, ma con le pinze, alla “possibilità di cambiamento”… non si capiva bene se c’era davvero una possibilità e se c’era davvero un cambiamento.
Me ne andai a Praga a studiare sul vivo terreno della filologia slava le manipolazioni linguistiche che a ovest come a est avevano un origine comune, e me ne accorsi in questa capitale che era una finta guerra della stampa e della politica internazionale… riuscii a sapere come gli attori delle manipolazioni di giorno si combattevano, ma di notte gozzovigliavano insieme alla barba dei creduloni e degli idealisti.
Mi dispiace ma figure come Asor Rosa (senza nulla togliere all’indubbio talento di studioso) e similari mi divennero più chiare non solo perché erano parte di una ideologia, ma perché non s’accorgevano loro stessi dell’inganno. Per capire meglio dovetti scoprilo dall’esterno e in un terreno privilegiato come quello praghese, che per me era come una grande lente di ingrandimento. Quei critici e storici europei ingannavano se stessi ingannando i loro studenti e giovani studiosi.
Non vi fu alcuna alba e non ci fu alcun tramonto! Questo lo compresi bene, non dovetti attendere decenni per riconoscere un fallimento – non un tramonto!- e un inizio privo di bagliori aurorali. Ne sapevo tante di storie – tante ne venni a sapere là dove studiavo – che critici letterari e storici italiani non conoscevano affatto.
L’ aver incontrati studiosi di altissimo livello e perseguitati pure continuavano le ricerche e mi indicavano errori e abbagli dì ogni genere… che ne sapevano in Italia la stragrande maggioranza di studiosi!?… e per restare nel mio campo di studio soltanto seri slavisti erano al corrente degli eventi e ogni tanto facevano sentire le loro voci messe subito a tacere dai poteri occidentali e orientali in combutta tra loro perché nulla si scoprisse.
Quando cadde la cortina di ferro per me e altri che avevano avuto esperienza su diversi campi culturali slavi in “Oriente” non fu davvero una sorpresa: la caduta era stata preparata almeno 20 anni prima.
E ora? Quale la possibilità di cambiamento che possa interessare?
Grazie mille per queste note storiche. Spesso mi è venuto da riflettere sul grande inganno che ha subito e subisce ancora la mia generazione. Non ho strumenti adatti a poterne parlare storicamente, ma, per esempio, mi ha stupito, con il tempo, quando sono riuscito a considerare gli avvenimenti con più distanza e rispetto, come l’estetica della politica, sia sempre rimasta indifferente a quella dell’arte, in particolare musicale (parlo della seconda metà del XX secolo).
Naturalmente, dopo ‘politica’ non ci va nessuna , …
‘ La letteratura è sempre autobiografica, che essa espliciti l’io o meno. O almeno il lettore è automaticamente indotto a cercarlo. ‘ scrive Simone Carunchio nel suo interessante articolo. Quello che, per fortuna, manca alla poesia kitchen è l’autobiografia e un lettore non sprovveduto non la cerca, la cerca, forse , il critico tradizionalista e resta spiazzato. Come dice Lucio Mayoor Tosi nel suo bel testo ironico sul Natale se ‘è troppo facile arrivare ai cuori ‘ non è poesia kitchen , è la melassa che ci è caduta addosso in questi giorni.
Concordo perfettamente con la ‘melassa’ e con l’operazione di complicare un po’ la trasmissione del vissuto; tuttavia sono convinto che la letteratura racchiude in sé sempre la possibilità dell’autobiografismo, benché l’autore, consapevolmente o meno, lo voglia esporre. Ciò è reso possibile dalla presenza del non-detto e dall’esistenza di metodi interpretativi particolari. Per esempio il metodo decostruttivo (correttamente applicato, ossia che abbia come epilogo una ricostruzione) può riuscire, mi pare, in quell’operazione.
Due poesie di Chandra Livia Candiani
Due poesie piatto-target di una Signora che cuoce al forno elegie normologate e omologate per la normologia e l’omologia del cuore, normologia asessuata e assennata che specula parole ghiotte per il muscolo cardiaco… E pensare (nel senso che dà da pensare) che la Signora è stata pubblicata più volte dalla collana bianca Einaudi. Nei testi della Signora Chandra si ritrovano tutte le petizioni della retorica della parola epifanica che arriva come una manna e un mana alla bocca del poeta e, di qui, alla penna a sfera che la scrive; tutta una misticheria pseudo teologica viene a concentrarsi nel punto della parola illuminata dalla fede nelle sue proprietà apotropaiche, un cumulo di idiotismi e di superfetazioni obbrobriosamente banali. Sembra uno scherzo, in tempi di mutazione degli equilibri geopolitici del globo e della guerra di conquista e di rapina da parte di un gruppo di criminali l’FSB scatenata in Europa. E invece è la realtà.
di Chandra Livia Candiani
Un innesco di fuoco la parola
un’accensione simile al passo
quando un piede lascia la terra
quando una sillaba lascia il silenzio
quando il passo è sospeso
quando il silenzio è rotto
quando la terra è ritrovata
quando la parola pronunciata tace.
In mezzo la sospensione e l’attesa,
il volo. Forse.
da ‘La domanda della sete’. Einaudi
C’è brina
bianca e stellare,
querce
svelano rami amari,
alle pecore
fuma il fiato.
È un sole introverso,
il nudo lo spoglio
ha splendore.
Un urlo
che affronta il cielo,
il cielo
alloggia l’urlo,
senza consolazione.
C’è metodo
nel ghiaccio sopra le foglie.
Tutta
meccanica di misericordia.
da ‘Fatti vivo’. Einaudi.
A ogni scoperta segue un… insegnamento. Non una semplice condivisione. Chandra Vimala (Livia Candiani) segue questo percorso. Nelle filosofie orientali, nel buddismo, tutto passa attraverso gli insegnamenti, apprendimento e insegnamenti. A lei piacciono gli insegnamenti, ci è portata / Ma qui è un vero disastro. Deve essersi stancata e magari neanche lo sa, di creare insegnamenti; diventa lavoro, ci si addormenta. Un vago niente. Dieci versi, dove basterebbe un punto di interruzione.
Però so che ha amato tanto la poesia di Pasternak… ancora oggi, sento nei suoi versi qualcosa che va in quella direzione. Però, secondo me, una decisione andrebbe presa: Buddha e Pasternak, insieme, io non ce li vedo.
di Matteo Marchesini da Il Foglio del 22 dic. 2022
Valerio Magrelli è un poeta che ha avuto una fortuna precoce. Il suo esordio è stato astuto. Non avendo niente da dire, lo ha nascosto offrendo al lettore la recita di una distillata esattezza, che in realtà è l’effetto di un’elusione. Il problema è che a un certo punto non si è nascosto più, e ha provato a esprimere apertamente il suo modo di vedere la vita. Allora è venuto in primo piano il profilo di un borghese piccolo piccolo, rancoroso, sentimentale e stilisticamente kitsch, a cui piace spiegare le barzellette dopo averle raccontate. Le geometrie escheriane, la mistica razionale di questo monsieur Teste disegnato da Folon si sono rivelate delle mezze verità banali in giornalese, accompagnate da un pedante commento di apposizioni e da un utilizzo esornativo di termini tecnici. In questo senso “Exfanzia”, l’ultima raccolta magrelliana uscita nella bianca Einaudi, raggiunge vertici di rara bruttezza. In un tessuto fitto di rime telefonate – quasi sempre zeppe – ricompaiono il solito soggetto che si morde la coda, il solito procedimento attraverso cui le cose mostrano meccanicamente il loro rovescio, e il solito scambio di parti tra l’incorporeo alfabeto di lettere o byte e le corpose materie del mondo (esempio: al primo piano il poeta taglia versi, mentre nel negozio di sotto il suo macellaio studia la carne). L’autore spera invano che la sua finta sottigliezza o il suo spirito di patata lo assolvano dal cattivo lirismo: non capisce che al contrario lo peggiorano, come quando dopo aver evocato adolescenti dalle “mammelle tese come vele” ne fa “prodigi / di energia eolica”. S’illude che una sgraziata poesia d’amore sia meno sgraziata se si riferisce al “QR code del tuo viso / che mi fa sussultare, ogni mattina”. Magrelli trascrive ideuzze che non esigono affatto la forma di queste poesie, ma sono traducibili senza residui in qualunque altro linguaggio. Traducibili, cioè sostituibili: se avete fatto l’errore di comprare il suo libro, avete buone ragioni per chiedere al libraio di cambiarlo con un altro dello stesso prezzo.
(Matteo Marchesini)
Potente!
Gentili amici, interventisti, poeti, ecc.
concludo la mia partecipazione per l’anno 2022 all’Ombra delle parole con questi stupendi versi stracolmi di mestizia del poeta russo Osip Mandel’štam. Presumibilmente compose questi versi verso la fine di dicembre del’anno 1930; il 14 aprile dello stesso anno morì ucciso o forse costretto a suicidarsi Vladimir Majakovskij (prima o dopo usciranno i documenti); sia il regista S. Ejzenstejn che Pasternàk e altri erano convinti che non si fosse suicidato.
In questo periodo Mandel’štam non se la passava affatto bene e trovò un alloggio in uno scantinato di un palazzo nel centro di Leingrad dove si accedeva scendendo per una nera scala.
Il poeta aveva scritto una poesia contro Stalin dimostrando di non aver paura affatto di lui e comparandolo a un nero scarafaggio, Seguì una telefon tra Pasternàk e Stalin (chiamo questi) perchè dal poeta voleva sapere se Mandel’štam era un grande poeta.
Mandel’štam lesse questa poesia a un circolo di amici, ma uno di questi lo tradì; e noi sappiamo il nome del traditore dal poeta futurista polacco A.Wat, amico di Majakovskij.
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(segue commento di A.M. Ripellino:
“Mandel’štam con questi versi (Leningrad) vuole in effetti congedarsi dalla vecchia Pietroburgo, ricordando l’epoca di Pietro I°. Sa bene, intuisce, che la metropoli non sarà più quella di prima [ma prima di lui lo aveva compreso il visionario Blok! Aveva compreso dunque, acceso da preveggenza, come sarebbe andata a finire in Russia! Tanto è vero che Majakovskij – amareggiatissimo nella sua seconda visita a Varsavia nel maggio del 1927, parlando coi “futuristi” polacchi — in specie con Aleksander Wat (cognome vero: Chwat) definito dal poeta russo ”letterato e traduttore…Wat è un futurista nato (Wat –uroždënnyj futurist”) — non faceva che ripetere: “Aveva ragione Blok! Aveva ragione Blok!”, intendendo e intuendo che anche per lui s’avvicinava la resa dei conti col potere sovietico].”.
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Leningrad
Sono tornato nella mia città, nota sino alle lacrime,
sino alle nervature, sino alle glandole gonfie dell’infanzia.
Tu sei tornato qui – dunque inghiotti al più presto
l’olio di pesce dei fanali del fiume di Leningrado!
Riconosci al più presto il giorno di dicembre,
dove il sinistro catrame è mescolato al giallo d’uovo.
Pietroburgo, io non voglio ancora morire:
tu hai i numeri dei miei telefoni.
Pietroburgo! Io posseggo ancora gli indirizzi,
dove troverò la voce dei morti.
Io vivo su una scala nera, e sulla tempia
mi batte un campanello strappato con la carne.
E tutta la notte io aspetto ospiti cari,
squassando i ceppi delle catenelle della porta.
dicembre 1930. Leningrado
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(mia nota 1, p. 3)
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A. M. Ripellino cita questa poesia dall’edizione americana Osip Mandel’štam – Collected Works in Three volumes, ed. Inter Language- Literary Associates, 1967, vol. I, p. 158. La successione cronologica di questi tre volumi è: 1967, 1969, 1971. Nel 1981 il 4° volume. Ma nel 1956 (o 1955?) fu pubblicato un primo volume delle poesie di Mandel’štam; mentre il secondo in Sobranie sočinenij v dvuch tomach, vol. II, New York 1966. In questi versi su Pietroburgo (Leningrad), più che in quelli profetici e melodicamente lirici di Blok, si esprime la preghiera invocativa e realistica di Mandel’štam, tesa e protesa all’ascolto: qui è il senso dell’udito, più che gli altri quattro sensi, ad essere preminente; e così vivido e realistico è questo senso che ti appare come un enorme orecchio, più grande della stessa metropoli, ma che si tormenta in un spazio così ristretto, umidamente malsano da non poter udire quelle risposte che il poeta attende, invano! Il telefono gioca un ruolo di primissimo piano fra i poeti russi. Anche per Mandel’štam, come per Majakovskij, è qualcosa di terribile, tanto che questi nel poema Bene dice: “Il telefono è impazzito/ mi rintrona nell’orecchio/ come una mazzata:/ l’enfiagione della fame/ ha chiuso quegli occhi scuri”. In Majakovskij- Opere, a cura di I. Ambrogio, Editori Riuniti, 1972, p. 411. L’Achmatova, quasi ripetendo Mandel’štam, così parla di Leningrado a Lidija Čukovskaja : ” Leningrado, in generale, è una città straordinariamente adatta alla catastrofe. Questo fiume freddo su cui ci sono sempre nuvole pesanti, questi tramonti minacciosi, questa spaventosa luce teatrale… L’acqua nera coi riflessi di luce gialla…Tutto è terribile: non riesco ad immaginarmi che aspetto avrebbero catastrofi e sventure a Mosca: là tutto questo non c’è”.; in Lidija Čukovskaja, Incontri con Anna Achmatova 1938-41, Adelphi 1990, p. 73. (vedi anche nota 276, pp.131-132) ////// Quanto al colore giallo: vera ossessione dei poeti simbolisti, acmeisti, e futuristi (la gialla blusa di Majakovskij!)! La fine del secolo XIX e l’inizio del XX sono dominati dal giallo. Viktor Šklovskij apre il suo saggio dedicato a Ejzenštejn, rivivendo le atmosfere e i colori di Pietroburgo: “Il cielo non ha alcun alone rossastro, brillano sempre le stelle. I lampioni a gas mandano una luce lilla. Nelle vie del centro ronzano i carboni ravvicinati dei lampioni ad arco: intorno ad essi la luce è azzurro-giallognola….i lampioni a petrolio somigliano a collane dalle perle molto diradate…. Di mattino ….la luce dei lampioni a petrolio assomiglia alle macchie sbavate di piscio equino in mezzo alla neve….La vita è lenta… Di questa lentezza rende ancora testimonianza Blok all’inizio del nostro secolo….Nelle scuole si mostravano nebulosi quadretti, che venivano proiettati su uno schermo a Pietroburgo, Mosca, Riga, da gialle lanterne magiche, scintillanti per le viti di rame e il legno laccato.”in: Viktor Šklovskij –Sua Maestà Eisenstein – Biografia di un protagonista, De Donato, 1974,; stupenda traduzione di Pietro Zveteremich. Mentre una edizione indegna è quella del 1998 a cura di Liborio Termine, Il leone di Riga, ed. testo&immagine, che offre una traduzione raffazzonata, imprecisa e, ripeto, parecchio incompleta (non sono tradotti interi capitoli!), e addirittura vengono saltati decine e decine di interi passaggi. Come esempio, proprio all’inizio del testo : “Chaplin non ha compiuto ancora 11 anni! Edison ha già brevettato il cinematografo. La parola non è ancora matura”, ( a p. 9. nella traduzione del 1974), è un passaggio assente nel testo edito del 1998, p.. 41. Al lettore viene sottratta quella puntualità storica che per Šklovskij è essenziale, e quindi edizione da stracciare! (vedi n. 260, p.121). ////// “scala nera”… in effetti è propriamente la “scala di servizio”. /
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(commento di A.M. Ripellino)
“Nel giugno 1940 il fratello di Mandel’štam, Aleksandr Emilevič, ricevette la comunicazione che il poeta era morto il 27 dicembre del 1938, a 47 anni, per paralisi cardiaca. Ora, ci sono diversissime leggende: c’è chi dice che fu ucciso da delinquenti comuni che stavano con lui; un’altra dice che morì su una nave diretta verso la Kolyma, che fu gettato nell’oceano”.
Gentile Simone Carunchio,
la ringrazio anticipatamente per le parole che ha scritto sulla presentazione dell’Antologia Poetry Kitchen e sul debutto della Poetry Kitchen come una nuova realtà poetica. Non sapevo fosse tra il pubblico dell’evento, Giorgio non ne aveva parlato. Ho fatto training autogeno a casa di Giorgio per poter recitare e interpretare al meglio i miei testi e quello di Intini e sono contento che sia arrivata quella “serietà leggera del gioco”, che interessa gran parte della Poetry Kitchen, come pure l’ironia che lei ha evidenziato nella Lettera a Giorgio Linguaglossa.
A casa di Giorgio i libri sono ovunque, ogni volta mi sembra di aprirne uno dopo un altro e dopo un altro ancora come con i cioccolatini, in particolare quelli che circondano il castrum della sua postazione di lavoro; libri gustosi, di pensiero e ripieni di riflessioni. Le questioni aperte che lei ha riportato nella Lettera al saggio di Giorgio Linguaglossa, L’elefante sta bene in salotto, pongono chiaramente in evidenza come dialettica e neoliberismo, anticonformismo e convenzionalismi si siano ispessiti in un accumulo patologico in conseguenza del potere che si è del tutto o quasi sfarinato, “il soggetto è assoggettato al linguaggio”. Prendere coscienza della capacità di condizionamento e di potenza finanziaria che sovrasta l’ecosistema globale, in particolare le grandi multinazionali dell’economia digitale, significa comprendere che esse sono i veri operatori globali capaci di eludere i controlli giuridici e fiscali di un paese: “che la nuova poesia è affollata di mondo; che la nuova poesia corrisponde al sublime tecnologico; che la nuova poesia non ha più messaggi da inviare.”
La Poetry Kitchen, essendo appunto poesia da cucina, un luogo da dove passa tutto e di tutto, ne è informata e formata, utilizza un diverso modo di codifica dei messaggi globali, i testi Kitchen si costruiscono a partire dal frammento, dalla deviazione, dall’accumulo, dal disorientamento e raggiungono la loro interezza nell’epigenetica.
La Poetry kitchen è una nuova mutazione genetica specifica e trasmissibile della poieisis.
La ringrazio ancora per sua preziosa attenzione.
Caro Giuseppe Talìa,
Sono io che ringrazio per l’opera che svolge, come anche le dissi di corsa, andando via, alla fine della presentazione dell’Antologia.
Ero tra il pubblico, ma nessuno (nemmeno Giorgio) sapeva che sarei stato lì, anche perché, a dirla tutta, nemmeno io sapevo che ci sarei stato. Una serie di circostanze mi ha condotto a essere presente (tra l’altro con parte della prole, che ha così potuto ‘toccare con mano’ la follia dell’ambiente!!). Mai coincidenza fu più propizia! Anche perché, stando io la maggior parte del tempo fuori Roma, non riesco facilmente a partecipare agli eventi letterari romani.
Letterario. Eventi e frammenti. Frattali. Incroci. Ed è proprio all’incrocio del via vai culinario che i nuovi gesti poetici mi interessano, poiché, mediante analogie e metafore molto forti, si allargano i temi e gli argomenti di scrittura e di discussione, pervenendo, così a poter percepire nitidamente quel collegamento della poesia con la nostra attuale realtà sociale così complessa e così piena di inganni. Senza che venga a mancare il sentimento!
La Poetry kitchen è una nuova mutazione genetica specifica e trasmissibile della poieisis. )Talia)
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non esageriamo
La poiesis kitchen è un minuscolo drone che però può affondare un incrociatore, è un virus che mette il corpo del malato a soqquadro, è un’arma potentissima contro la normologia della soggettoalgia. Questo drone, o se volete, questo virus si insinua all’interno della parola e ne combina di tutti i colori, cambia la struttura molecolare, il DNA della parola rendendola infruibile alla ideologia, a qualsiasi ideologia.
«Le parole sono il primo algoritmo: pezzi di ‘flatus vocis’, pezzi di voce, che sono tornati indietro come strumenti.
Erano dentro di noi, erano il grido, e tornano indietro, articolati come voce con l’imprinting del significato.»
(Carlo Sini)
2a versione
Odisseo è tornato a Itaca
Odisseo è tornato a Itaca
Ha inaugurato la NPA la nuova politica di austerità
Ha messo in piedi il Ministero della Verità ed ha istituito il Grande Fratello
Ha avviato il compromesso storico con il partito dei proci
Odisseo aiuta i miserelli e i menestrelli
I critici sono utili per suonare il piffero
I poeti sono di là, in anticamera a lavare i piatti
Il Ministero della Verità controlla i passaporti, le carte di identità e le disfunzioni erettili
Omero è un impiegato della Agenzia delle Entrate
È addetto ai prelievi fiscali e alle onoranze funebri con il compito di accompagnare i feretri degli eroi nell’ultimo viaggio per l’Ade
Il Sig. Draghi è stato sostituito dal Sig Lollobrigida
Dio è stato sostituito dal Signor Piantedosi
Il Ministro dell’Interno Piantedosi ha cancellato la parola «water closet» e l’ha sostituita con le parole «buco dell’ozono»
La presidente del Consiglio Melona ha disposto che a giorni alterni analgesici e antipiretici vengano somministrati agli abitanti della Nazione
In grandi quantità
Con i tagli al reddito di cittadinanza ha finanziato l’acquisto di milioni di rotoli di carta igienica
mi scrive Maria Pia Latorre:
«Mi chiedi un giudizio su Simone Carunchio… Si sente che è fresco di studi filosofici e di autori (alcuni non li conosco), che muove agevolmente sulla punta delle dita e questo è un bene per gli ampi ed interessanti spunti di riflessione che propone. All’elenco avrei aggiunto Bauman, colonna portante del concetto di società liquida. Sono felice del fatto che una personalità culturale così solida abbia approfondito la Poetry kitchen (cita la fiera di Roma e l’importanza che ha avuto per lui l’avervi partecipato, e questo mi fa rimpiangere di non essere stata a Roma in quei giorni). Trovo fondamentale l’elenco di sintesi che ha ricavato dal saggio introduttivo dell’antologia. Da leggere e rileggere e riflettere, e poi tutta la lunga e arguta disquisizione sul tentativo di dominare/non dominare il linguaggio da parte del poeta. Questo credo che sia un nodo cruciale, almeno io lo vivo come fondamentale per me. A ben guardare, i sistemi filosofici sono affascinanti proprio per le architetture di pensiero che riescono a creare e che modificano in maniera sostanziale la nostra percezione del vivere.»
Cara Maria Pia,
sono dell’opinione che il SALTO dalla poesia narrativizzata ed egolalica che si fa e si è fatta in questi ultimi decenni e la poetry kitchen sia un vero e proprio triplo salto mortale. Tra l’una e l’altra non c’è spazio alcuno per i riformismi moderati e/o per i riformismi radicali, la poetry kitchen è un formidabile strumento nelle mani e nelle idee di chi abbia saputo tagliare tutti i fili e i nodi gordiani della poesia italiana ed europea (quella di accademia) che infatti finisce nei nomi di Chandra Livia Candiani e di Valerio Magrelli, due tipi di scritture della normologia inconsapevole e/o adulterata con innesti spuri: la prima mette dell’acqua e dei barbiturici nel poco vino che ha, il secondo mette dell’Alka Selzer nell’acqua corrente di rubinetto.
Riguardo alla annunciata (da Heidegger) fine della metafisica:
“La tecnica e l’umano sono la stessa cosa, se si toglie la tecnica rimane un animale, non c’è più l’umano. La tecnica è una strumentalità esosomatica che si sviluppa negli ominidi, molto prima dell’homo sapiens”.
(Carlo Sini)
Il discorso non è qualcosa di accessorio che si aggiunge al pensiero, ma è il luogo in cui tutti noi siamo immersi. Il discorso è un labirinto dal quale non puoi uscire, una volta entrato
Se proprio volete sapere qualcosa da una intelligenza economica che non la manda a dire (e che infatti non viene mai invitato nei talk-show) ascoltate Oscar Giannino
Grazie alla sig.ra Latorre per le parole che spende sul mio scritto. E grazia anche per il “fresco” (ormai anch’io mi sto imbiancando…). A me paiono così lontani gli anni in cui mi dedicavo alla filosofia a tempo pieno: adesso è un passatempo. E forse è la dimensione giusta per questa materia … Per non rimanerne imbrigliati … Oltre alla tecnica c’è anche la risata; il fumare … il problema è l’assolutismo, infatti.
Il linguaggio: che gatta da pelare!! E pensare che è anche alla base della Legge: anzi: è la sostanza della Legge!!! E lì, il soggetto scompare quasi completamente. Come si entrasse nel medioevo del linguaggio, nel suo consumismo più puro…
Molto interessante l’intervento di Giannino (ma anche di Parsi). Soprattutto le informazioni economiche che fornisce. Ma proprio da quelle informazioni la conclusione mi pare che sarebbe potuta essere diversa…
Forse è Itaca che sfugge ad Ulisse, e questo lo ha già deciso Penelope che deve ringraziare Elena, da cui ha imoarato l0arte del tradimento amoroso, da cui nè Menelao e nè Ulisse ne hanno tratto giovamento ragiontivo. Invece di ringraziare gli uomino che hanno sedotto Elena e Penelope, hanno perso tempo a immeìaginare metodi di vendetta, tra l’altro postumi, ed aggiungo inutili.
La poesia KITCHEN non ha bisogno di tecnici per essere spiegata. si spiega da sè, come questi versi che non sono kitcheniani, ma si spiegano da soli.
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E se noi ancora una volta procediamo per imitazione
Quali le nostre destinazioni se dai trascorsi impariamo
Se non il Nulla multiplo tanto da amarlo più degli dei?
Poi che per quell’amore dobbiamo sopravvivere nella finzione
Come la marina liberazione del battello davanti al molo,
E restiamo attraccati perché già prima delle partenze
sappiamo tutti i dove! E per questo non partiamo,
E il viaggio non esiste più!
E le ancore delle speranze sprezzanti doniamo all’oblio!
E quel viaggio, io, non feci per un selciato di bestemmie
Dalla soglia all’orizzonte!
((da Parole Beate, 2015-16)
Sono Marco Tabellione, vorrei ragionare su alcuni dei punti brillantemente fissati da Simone Carunchio nella lettera a Giorgio Linguaglossa.
A mio avviso non si può parlare di fine della metafisica, perché la metafisica non è mai stata al centro della vita dell’uomo, non ha mai influenzato le strutture sociali e politiche e tantomeno economiche, ha sempre vissuto in una dualità irrisolvibile, che è la stessa che da sempre investe la poesia. Dunque secondo me non dobbiamo prospettare la fine di nulla, ma piuttosto l’inizio di un tentativo di investire attraverso la metafisica e la poesia quelle strutture sociali e politiche che sono sempre state loro estranee. Voglio dire: non credo che Platone fosse davvero ascoltato a suo tempo, un suo tentativo di applicare le idee della Repubblica finirono per mandarlo carcere.
Piuttosto si tratta di dimostrare quanto poesia e metafisica siano dietro le formazioni scientifiche e in generale tutto l’apparato di conoscenza della contemporaneità. Occorre dimostrare che se abbiamo una possibilità di salvezza a livello di civiltà mondiale, essa risiede nel linguaggio, il linguaggio non considerato come strumento di comunicazione (oggi è sempre più ridotto a questo uso, ma non è sempre stato così); ma il linguaggio considerato come antecedente della coscienza, poiché linguaggio e poesia coesistono già dagli albori, poesia e linguaggio e metafisica, per dirla con Vico, sono i mattoni di costruzione della scienza.
Prima della scienza viene la metafisica, questo è evidente, si pensi alle formazioni mitologiche greche su cui è impostata la civiltà occidentale, si pensi alla pervasività delle religioni, che non possiamo non considerare alla base del progresso umano. La poesia, poi, è madre della cultura umana, ma è anche madre ripudiata. Se la poesia contemporanea continuerà a giocare con le parole e non tornerà ad affondare gli animi nel mare dell’essere, non potrà mai uscire dalla sua drammatica solitudine, forse non lo farà mai, non tornerà più al centro della cultura popolare, ma almeno viviamo nell’illusione che si possa tentare. E non è illusione, è piuttosto orgoglio, è sapere che tutto ciò che c’è nel linguaggio, tutto ciò che c’è nelle facoltà logiche dell’essere umano, e tutta la sapienza che pre-esiste alla scienza e ai suoi progressi, ebbene tutto ciò viene dalla poesia, cioè dalla compresenza nella mente umana di pensiero e linguaggio.
E’ nella immedesimazione di linguaggio e pensiero e di linguaggio ed essere di heideggeriana memoria che continua a vivere la sfida della poesia oggi. Quale linguaggio, quale poesia? Per me non ci sono dubbi, non la poesia come poiesis (come creazione, come fare, cioè poesia solo come gioco di parole e ritmo) ma poesia come dichtung, come dettato; dunque la poesia come ascolto del dettato interiore, tornare e ripartire da Rimbaud che diceva: “Io non penso, ma sono pensato”. Ma ciò non per ricadere nell’automatismo psichico dei surrealisti, o nella indefinita ispirazione vagheggiata dai romantici; no! tornare al linguaggio che informa l’essere umano, che forma la coscienza, alla poesia-lingua che ha regalato all’uomo le prime avvisaglie di consapevolezza (si sa che il bambino acquisisce consapevolezza di sé e del mondo quando comincia a parlare). La prima forma di poesia-lingua con il quale il logos entra in dialettica, spingendo la ragione a farsi partecipe di questo processo; perché non ci troviamo di fronte ad invasati o medium, ma in un ambito di ragione illuministica, come quella di Jung che cercava a piene mani negli archetipi e nelle mitologie perché aveva scorto lì l’origine di tutta la cultura umana e persino della psiche.
Insomma occorre tornare al logos dei greci, un misto di linguaggio e pensiero, il logos di San Giovanni evangelista quando affermò che “in principio era il verbo”, scrivendo in greco e utilizzando appunto il termine logos. La poesia non deve declinare questo compito, di dare il nome alle cose (come il primo Adamo) e di creare i significati nel linguaggio, poiché è evidente che è il linguaggio che ci dà i significati, che ci regala la nostra visione del mondo, è il linguaggio che ha creato la coscienza e se la coscienza non si espande come speravano con Marcuse nel ’68, è perché la collettività materialistica e le pulsioni istintive della specie (aggressività, autoconservazione, conflittualità, protezione della prole, rivalità per l’accoppiamento) tutta la rete arcaica che ci portiamo dentro, continuano a farla da padroni; siamo ancora animali questo è il punto. Freud evidentemente lo aveva capito: che cos’è l’inconscio se non la nostra parte animalesca, la pulsione sessuale e la pulsione di morte che ci lega ancora alle forme primordiali della biologia.
Eppure noi abbiamo il pensiero e il linguaggio uniti nella poesia, niente nell’universo ci eguaglia in questo ed è questo a renderci divini, cioè non più animali. Poiché, infine, abbiamo lei, l’idea di trascendenza, viviamo la vita come possibilità, così come affermava Jaspers, sentiamo l’essere, benché immersi in esso, benché chiusi nell’esser-ci. Poesia ed essere, questo è il dialogo che ancora ci serve, e che rende la poesia preziosa, anche se il mondo non lo sa e forse non lo saprà mai.
Caro Marco,
Sono in accordo con la considerazione che la poesia e l’ontologia debbano resistere insieme.
Per quanto attiene i rapporti tra metafisica e realtà, oltre a Platone il politico che ci ha rimesso, metto di seguito una poesia che prometto a coloro che si dedicano, nell’esistenza della metafisica istituzionale, all’economico e al giuridico.
AGGHIACCIANTE
Della musica lontana solo gli acuti
Un vento pesante di storie e profumi
Tra gli alberi come un suono di richiami
Non esco
Dicono che le frasche possano deambulare
Di notte
Fuochi fatui
Fischi muggiti e campanacci
La luna stasera
Sotto l’arco plantare del cielo
È uno scomodo sassolino di sale
Un ricordo della costa
Arricciato da labirintite da esistenza
In una delle orecchie del mondo
Nel lobo grasso
Infiammato per lo stress
Non si odono cicale sghignazzare
Ma gabbiani sì
Deridono l’umano
Seduto al tavolo colle spalle coperte
Da un mantello di apparente silenzio
Lievita per la concentrazione
Lascia le tue paure sui soffi dei venti
Osserva l’ologrammatica esistenza che si sviluppa
Senza un brusio da queste scritte
Se di notte basta una sorgente luminosa
Un saggio alce voltandosi ammonì:
“I tuoi piedi ci vedono ancora poco”
Tu poppante dalla bocca aperta e bagnata
Non senti la necessità di andare in bagno?
Uomini anaerobici si fumano
Fasci di clienti ben trinciati
Avvalendosi di eroi
***
L’eroe impara ad accettare la noia
La noia della burocrazia
La noia paurosa
Simulacro della paura del vuoto del buco
Nausea
Come fosse un normale paesaggio dell’esistenza
La noia burocratica
Simulacro della paura del vuoto del buco
L’equivalente morale della guerra
L’eroe sopporta la noia
nel tempo reale
in uno spazio ristretto
Se vive in barche da diporto ancor di più
Distillato di eroismo adulto
Non teatrale o fiabesco dell’infanzia ma
Senza pubblico
Nessuna ovazione
Nessun lieto fine
Nessun bacio principesco
Pochi applausi
di poche mani agghiaccianti
Sculacciate
Una suora o un monaco dell’onanismo
Esercizio di probità e attenzione meticolosa
Per un’orgia di numeri
di parole e di simboli
Fantasmagorie di coltelli e torte
Cappelli
Spruzzi di sangue di sperma e di latte
E lozioni per i capelli
Fantasmi sensualissimi
Lottano con gli spiriti predecessori dell’eroe
che immagina i fantasmi
Pause caffè
Come sempre avresti immaginato
Infila la moneta
Merci
Traffici
Tracce di traffici di merci
Senza attinenza apparente con la vita e le tue priorità
L’eroe sopporta la noia
Della paura del vuoto del buco
Nel tempo reale
In uno spazio ristretto
Servendo coloro che sono interessati
al fine ma non al mezzo
Orde di nemici temibili e terribili
Ripetizione
Tedio
Monotonia
Caducità
Illogicità
Confusione
Noia da sbadiglio o da vomito
L’eroe dell’infanzia genera fatti
L’eroe adulto li classifica in atti
Colui che impara che l’essenziale
Profuma
L’eroe è inamovibile
È un tossico
Sotto la doccia canta
Riclassificazioni di bilancio
È lo specchio riluttante delle masse inebetite
È un operaio dell’esistenza
La noia avvia
La noia ferma
L’eroe
La concentrazione di un tubetto di pomodoro concentrato
Una lotta ebraico greco latina anglica da lasciare sbigottiti
O Enea parte alla ricerca della terra promessa
E i numeri della cabala sono la sua guida
Una concentrazione da mangiarsi le unghie
E lo schermo e i fogli
E il tavolino
E laggiù
Oltre la fine della prospettiva
L’eroe
Balla sull’orizzonte della prua
Roteando un secchio vuoto
Dopo la riuscita di un grande e futile
Progetto d’avventura
“Confesso che purtroppo commisero
Coloro che come me
Profumano l’esistenza di istituzioni
Anche se a fin di bene
Finanziare l’istituzione
È rendere l’esistenza creditrice
E rendersi debitori
Per cosa?
Per allontanare la violenza
Per questo adesso vuole la conquista dello spaziotempo1
Per delocalizzare la violenza
Almeno lontano dal pianeta Terra
L’eden tornerà
E poi si pagherà affinché l’esistenza
Assorba la violenza altrove
Ma dove
Dov’è
L’esistenza”
Sì, Dio mi ama; ma gli piaccio?
***
Burrasca stasera tra fischi di sartiame
Muggiti di belame
Transumanze
Di balene
Digressioni di fatti in atti
Dati a greggi
mandrie
sciami
e banchi
Alla fine della visione della porno sterilità
Dell’esistenza
l’uomo vitruviano
Quadrò il cerchio e cerchiò il quadro
Stiracchiandosi sul divano
Tenendo sull’indice
in equilibrio
Una fragile Minerva bianca di marmo
O forse una croce di Cristo d’oro
Enorme
La luna la patata la banana
Tra i tuoi capelli un fulmine
Sui suoi della neve
Nella mia visione cerchiata
Sprofondata di rosso
Per aver troppo corso
Pianto
O troppo studiato
Riuscirò a trovarti
Amor mio
Tra le pieghe dell’agenda
che mi organizza la vita
Un giorno in cui il meteo
Consulterà le previsioni
per volgere al meglio
Le rive del tuo sguardo salmastro
Salano il mio mare riarso
Sull’onda della velocità
C’è vento per tutti2
Una piuma d’oca mi si posa sulla lingua
Simone sono felice per la tua risposta e la lunga, ricca e battagliera poesia. Ti aggiungo qui una mia lirica sullo stesso senso di resistenza al potere burocratico e mass-mediale che appesta e annoia le nostre vite
Riprendiamoci il sole
Riabbracciamo il disordine e l’ala che sbatte
Scompigliamo la morte e la noia
che annebbia il fuoco
Esploriamo dove rivivere
Urliamo di nuovo al vento
Che non sia il rigore e il freddo la nostra via
O linee nette senza errori
Invadiamo i fiumi e i suoni
Perché il pensiero non si contiene
Le idee non hanno confini
E le anime non ammettono dighe
Simone grazie per la risposta e per la lunga e battagliera poesia; sulla critica al potere burocratico e tecnocratico che appesta e annoia le nostre esistenze ti propongo questa mia lirica. Ciao
Riprendiamoci il sole
Riabbracciamo il disordine e l’ala che sbatte
Scompigliamo la morte e la noia
che annebbia il fuoco
Esploriamo dove rivivere
Urliamo di nuovo al vento
Che non sia il rigore e il freddo la nostra via
O linee nette senza errori
Invadiamo i fiumi e i suoni
Perché il pensiero non si contiene
Le idee non hanno confini
E le anime non ammettono dighe
Salve Marco,
Purtroppo il sistema mi ha fatto visualizzare la tua poesia solamente adesso.
Il tema della burocrazia è vasto e spinoso.
In fondo essa può rappresentare anche un baluardo dell’uguaglianza e una sfida alla memoria oscura del creato.
AL CALDO NEL SUO VENTRE
Il sole riluce forte sui vetri
del palazzo delle Poste. Una famiglia
allargata di rondini saetta
allegra, mentre una di gabbiani
pare sghignazzare della condizione
umana. La cicala applaude nervosa.
Un sentiero di ciottoli di cemento
conduce alla soglia dell’ufficio
in entrata; in uscita il percorso
è indicato da frecce marcate
per terra. Dentro c’è una macchina
che distribuisce soldi, ma solo se hai
una certa tessera di cui conosci
il codice di sblocco e la infili dentro.
Una sedia, un bancone, un chiosco
di cellulari e carte sim, moduli,
persone in fila agli sportelli,
matite e biro. L’ambiente
è pieno di tosse e tasse. Si aggirano
tassi. Giovani e anziani: un movimento
corale. Un pettirosso è penetrato
nella sala spoglia. Forbicine
e lepismi occhieggiano dagli angoli.
Un giovane, nello zaino, ha da fumare
uno spinello; un altro, accanto
allo spinello, ha un anello stimolante
il pene o il pensiero, non lo so più;
una mamma ha un ciuccio nella borsa
e un vibratore; un vecchio
un gel lubrificante e un altro
caramelle rinfrescanti. Tutti
hanno il cellulare e le carte
Ma non basta, non ci basta!
Vogliamo esistere di più, lasciare
più tracce nelle anagrafi telematiche.
Vogliamo spuntare ricevute, sputare
sangue e seguire altre pratiche, compilare
allegati in cui possiamo scorgere
divinità pagane che si affacciano sorridenti,
sapendo che con il filo delle parole
si riesce a tenere insieme l’epidermide
delle istituzioni che ci proteggono
e trasportano la violenza altrove
e il cui sangue e latte è un denaro
sempre più liquido e plutonico.
Talora pare una vita altrui
o una morte. Invece
ci creiamo una extra vita.
Riempire un modulo
è alimentare il pachiderma
dell’esistenza che ci ha inghiottiti.
Ci muoviamo al caldo nel suo ventre.
Intanto il sole tatuato cala lungo i viali
e nitrisce seguito da sciami di dati.
Tranquilli, siate di buon umore:
il presente lo espandi quanto ti pare,
dall’esistenza che lamenta le sofferenze
dei tradimenti dei lupi a quella degli ippopotami grassi
delle ore stanche e del risolio dei bimbi.
Tranquilli, siate di buon umore:
pascoleremo ancora sulle nostre guance
la giustizia delle scartoffie e l’ingiustizia:
c’è ancora qualcuno che lenisce,
colla lingua, le ferite dei milionari.
Mentre il sole cala, la luna di marmo
sorge tra i palazzi i seni coperti di nuvole.
Simone ho letto la tua ultima poesia, è quello che ci stiamo dicendo purtroppo. La vita continua ad essere ingabbiata. Per non parlare dell’esigenza espressiva. Mercato, burocrazia, funzionalismo. I mostri sono tanti ed essa soccombe, l’espressione autentica dico. Ciao
caro Marco,
grazie per questo tuo importante contributo.
San Giovanni Evangelista afferma che in principio era il Verbo, tesi opinabilissima che, personalmente, tradurrei in termini più aggiornati alla filosofia del Dopo Heidegger così: In principio c’era il Nulla.
È che nel novecento siamo passati dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva dei recenti orientamenti del pensiero filosofico europeo. E questo cambia tutto. Cambia la prospettiva da cui noi osserviamo il linguaggio. Uno degli assunti lungo i quali si muove la nuova ontologia della poiesis è la sostituzione del «paradigma dell’interiorità», se così possiamo dire, con tutto il bagaglio di una nozione epifanica del linguaggio, al «paradigma dell’esteriorità» che mette in conto una nozione niente affatto epifanica del linguaggio. Il linguaggio diventa così una «formazione», un prodotto ontologico, storico, fattuale e un imprinting dell’homo sapiens.
Un evento di parola emerge dal nulla, ovvero, da un «vuoto» nella dimensione dell’essere (delle relazioni sociali, economiche e politiche), da un «vuoto» dell’oggetto a, infatti intendiamo per «evento» ciò che emerge da una situazione linguistica parallattica che è giunta al suo acme, alla sua massima contraddittorietà, al suo massimo livello di sismicità. Un terreno simbolico sismico è particolarmente adatto affinché sorga una dimensione parallattica del linguaggio, che è una situazione in cui il simbolismo del Simbolico si disgrega e collassa, il che richiede la celebrazione di un lutto, un cerimoniale e una figuralità apposita e un rito, una ritualità. Zizek afferma che «parallasse significa che la stessa messa fra parentesi produce il suo oggetto», cioè che il soggetto è un prodotto della parallasse. Mettere tra parentesi non significa porre una distanza tra il soggetto e l’oggetto quanto porre su un altro piano, su un piano parallattico, il luogo della conflittualità, dal piano economico, sociale e politico a quello del poietico. Questo atto di porre su un altro piano e in un altro luogo è, per l’appunto, il momento parallattico del linguaggio nel momento del suo insorgere. In fin dei conti è un atto di insurrezione.
Non c’è dubbio che la cerimonialità kitchen della poesia di Intini sia diversa e distinta da quella sketch kitchen di Marie Laure Colasson, ogni testualità kitchen è ibrida e inautentica, delimita e perimetra un proprio esclusivo demanio cerimoniale, con tanto di maggiordomo Camembert e camerieri in livrea Luigi XIV, dame in décolleté e ospiti di princisbecco: la vita privata è giunta allo spazio kitchen e coincide con lo spazio pubblico della vita pubblica, anch’essa kitchen, uno vale uno e due vale due, un vero torneo di Wimbledon dove l’eccentrico va al gabinetto con il povero di spirito ed entrambi colliquano con in Signor Nulla, il Phon litiga con il Signor Putler, l’aspirapolovere amoreggia con l’acchiappafarfalle e lo scolapasta, così la zebra si mangia il coccodrillo e l’ippopotamo bianco solfeggia un’aria di Mozart.
risposta a
Carunchio, Tabellione e Linguaglossa
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IMEROPA
“dal pozzo aspetto la risposta
dalla luce taurina la domanda”
Tessere volevo con l’ombra la mia mente
sotto i portici della ragione estrema,
là, dove l’essere s’incarna non generato
da pensieri. E nel passaggio, sola,
sospeso il gesto, mi venivi incontro
privata al canto: unico mestiere
il tuo freddare nella mano, rotta
al volo, il nucleo intemporale.
È il disegno a simulare l’Opera!
La nota è in corsa con la lingua
se il mercurio scorre ancora tra universi
e tumuli di grida. Non più scarniti
spirito o fantasmi attendono la voce.
Oltre sei dovunque, e al di qua
del fatuo orrore che ci governa.
E io mi so più tenera che viva
nel battito del tasto e nella frode
asettica… e so come nessun dio
fermare il mio futuro sulla soglia.
Spio il silenzio della particella
viva e il mio corpo vinto dai capricci
e dall’orecchio, che al panico non presta
sibili e promesse. O ponti, una volta
arcobaleni! Ora ho nelle mani solo
il disegno di un gesto – non le muovo!
E nego alla nota il suono che mi deve.
Alla gola nego la bianca fusione,
lo spettro che dalla torre in giù
è lo zero assoluto nel verso dell’evento.
La pietra lima i passi, e io svanisco!
Lauri, cembali e clamori, schizzi
in noi d’energia, miti
e la ragione cercheremo, vili!, in una bolla
e nelle tracce che neri suoni
pensano. In gramaglie ti seguirò
forgiato da miraggi reali o immaginari:
numeri incurvati in cerca di una teoria
e di un cuore inattuale. E nella stanza vuota
dei proscritti c’è il punto, il limite
di un principio. Sento la smorfia del tuo canto,
sembiante, io, senza voglie e trucchi!
Altari vi aspetto, capezzali, meridiani e dita
per misurare i tempi con cifre immaginarie,
spazi espansi confusi dalle rotazioni,
fuochi animosi, traiettorie, collassi.
Quale sorte le mie mani nell’offerta?
Ai suoni il centro e il principio
quando il gesto non era il canto,
l’idea di un dio l’immaginario che ci opprime.
E tu m’insegni la musica e l’orrore,
la domanda nel caos priva della mente
la risposta in cui derisi siamo ciechi.
E chiusi nei quadranti le radici,
il dubbio strazio e il riso ellittico,
l’ostile dimensione che travasa il corpo.
Nell’acrostico giocasti sofferente, serio,
col mio sorriso vinto da nastri funebri.
Debutto manovre d’escrementi…
ti trasformi sedotto ai cardini.
Tu, morto, Padre, mi fai vivo!
antonio sagredo
Roma, 20/26/28 marzo 1990
Grazie per questi versi che ci ricordano che: il troppo stroppia!
A morte, migliore amico!
Sei passi davanti all’altare, tre e poi
tornare. Al circolo dei defunti, dove passa
lo straniero. Vento in poppa.
Il navigar gli è dolce.
In questo mercoledì.
Antico romano.
LMT
A Giorgio Linguaglossa su linguaggio ed essere
Grazie Giorgio della risposta, mi hai aperto molte vie che spero di riuscire ad approfondire. Io non userei più le categorie di interiorità ed esteriorità, a livello di linguaggio. Credo che in Vygotskij ciò sia chiaro, quando nota che i bambini costruiscono il linguaggio interiore galleggiando per così dire in un ambiente linguistico, d’altra parte Jung ci mostra che il collettivo è già in noi. Dunque non c’è interiorità e non c’è esteriorità, ma relazioni. Tu sottolinei, mi sembra, l’esistenza di un prodotto ontologico e storico, che però non sono pura esteriorità. Insomma galleggiamo in un magma e propriamente, alla base, non c’è affatto il nulla, per quanto la nostra visione sia parallattica come tu sostieni, cioè inevitabilmente distorta e illusoria. Ma a me, come poeta, non interessa la verità della realtà, a me interessa la realtà dell’umano. I processi umani, e il linguaggio in primis, quindi non sono entità proiettate sul nulla, rinviano sempre ad una esperienza precedente che per quanto mi riguarda coincide con l’essere, che è un oggetto metafisico ovviamente, ed è la grande illusione dell’Uomo, illusione che però ci rende vivi in un certo senso. Il nostro modo di essere, insomma, è secondo me, linguistico. Concezioni ultrascientifiche e post-heideggeriane come quelle dello strutturalismo anni sessanta, possono spiegare come funziona il linguaggio, ma non che cos’è, né tantomeno che cos’è la poesia.
caro Marco,
Con il biennio della pandemia Covid e questi ultimi 11 mesi di guerra di invasione all’Ucraina da parte della Russia di Putin, mi sembra chiaro che siamo entrati in una nuova era geopolitica del mondo che vedrà l’accentuazione del confronto politico tra l’Occidente (Usa, Europa, Regno Unito, Canada, Australia, Giappone) con le sue democrazie e l’Oriente con le sue autocrazie (Russia, Cina e autocrazie minori). Come sempre è la storia che decide la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, non sono i professori di filosofia o di lettere. È la storia con la S maiuscola che decide del corso degli avvenimenti.
Tracciare una mappa tematica e formale del postmoderno (caratterizzato dal citazionanismo, dalla frammentazione del soggetto, del tempo, dello spazio e della storia, interpretate in accezione ludica o parodica del passato recente e meno recente) è ora possibile: il postmoderno ha avuto un inizio con l’esplosione delle prime avanguardie del novecento, e una fine con lo scoppio della pandemia e la guerra in Ucraina. Le arti, come si diceva una volta, non possono non seguire o annunciare gli avvenimenti storici.
La poesia kitchen sembra scritta dopo una funesta esplosione nucleare, annuncia un mondo che si è dissolto, un nuovo mondo che ancora non c’è se non in stato di frammenti, di filamenti semantici e di isotopi radioattivi. Oggi, nel 2022, la condizione della poiesis (non utilizzo più il termine equivoco e screditato di “arte”) è diventata inconciliabile con il concetto di prassi, un concetto critico e autocritico di poiesis oggi obbliga il poietes ad accreditarsi pertinentemente nella sfera dell’anti-mondo e dell’anti-prassi, in una zona della prassi estranea alla Ragione delle forze produttive e dei rapporti di produzione; voglio dire che una poiesis critica oggi può svolgersi soltanto in quella zona di non-compromissione con l’esistente e le sue pratiche fidejussorie. Oggi la poiesis non può che essere accompagnamento sinfonico al funerale delle arti fidejussorie, accompagnamento sinfonico alla discarica pubblica nella quale la poiesis è invischiata. La poetry kitchen si colloca storicamente nella categoria del Dopo il Moderno. Postmoderno e ipermoderno sono categorie geografiche di una macro categoria: il Moderno, che ha attraversato il novecento fino al febbraio 2019 che ha visto l’esplosione della pandemia Covid19. La pandemia del Covid e la guerra di invasione dell’Ucraina (24 febbrio 2022) hanno investito il mondo occidentale nel momento in cui le contraddizioni del capitalismo cognitivo e le società a capitalismo oligarghico sono esplose, sono diventate visibili. Siamo entrati in una epoca in cui il futuro si colora di ignoto, dove le categorie del passato si rivelano non più idonee a comprendere ciò che sta accadendo.
Giorgio concordo sull’idea che siamo oltre qualcosa, post-moderno, iper moderno, e forse la poiesis (ma sai che io preferisco dichtung) ha ancora molto da offrire, come agli albori della civiltà. Insomma la tua diagnosi è perfetta, ma io tenderei a vederla in positivo. Dovranno pure accorgersi che una civiltà basata su industria e tecnica è un vero atto di totalitarismo e, mi permetto, di crudele ateismo. Ciao
da Repubblica di oggi:
«Le ultime parole del Papa emerito Benedetto XVI sono state raccolte nel cuore della notte da un infermiere. Lo riporta su Vatican News il direttore editoriale dei media vaticani, Andrea Tornielli, che racconta l’episodio avvenuto circa alle 3 della mattina del 31 dicembre, alcune ore prima della sua morte…»
A volte penso un pensiero forse irriguardoso ma penso che «amare dio» in fin dei conti non comporti molti affanni o molti compromessi, dio non ti contraddirà mai, non ti darà mai uno schiaffo quando dici o fai una azione indebita o losca o criminale, dio è lontano e forse ti punirà, se ti punirà, in un altro mondo, in paradiso o quando saremo tutti risorti… io penso molto pragmaticamente che «amare l’uomo» sia molto ma molto più problematico, davvero occorre essere un san Francesco, io non riuscirei mai e poi mai ad «amare Putler» o «amare Attila» o Gengis Khan, Hitler o Mussolini. Purtroppo amare gli uomini è molto ma molto più problematico. In fin dei conti, «amare dio» non costa nulla, è comodo, assicura una posizione di superiorità e assicura una rendita.
Ma la poesia pop è dentro o fuori il mercato? Ma la poesia può disgiungersi dall’ontologia? Può la metafisica non avere rapporto con la realtà
MUCCHIO D’OSSA DI PAVONE
Fine del giorno.
Sotto
Lo zoccolo del buio, parcheggiata,
Un’auto rumina il suo dio del sonno
Nera.
Brusii.
L’amore non è riparo.
Fiori e spighe coronano.
Germinano alghe di parole senza riso
Né pianto; petali, dita.
La croce del mio desiderio pesa
Sulle tue spalle e, attorno alla spina
Dorsale, ruota la stanza.
Silenzi sorreggono ponti e montagne.
Silenzi di partenze.
Soffocate grida del mare.
Un mostro regna sulla ricostruzione.
L’alba: l’ora dei mendicanti e dei mentecatti,
dei conigli selvatici e delle lepri.
Zampe pronte alla corsa scattano
Veloci e imprendibili al verde del semaforo.
Trotterellano poesie e kilowatt
Di cavalli.
Estatiche gioie dei corpi fissano,
Sottomesse per poveri amori,
Le prime ombre lunghe.
Gli occhi, pavimenti di marmo.
Soffia un musico vento
Tra arpe di rami e utili bandiere.
Angeli e bestie in coro mi diranno
Che non capisce, che non crede
Ciò in cui credo io. Perché credergli?
Non è più tempo di legare a me animali.
Il parabrezza è incrinato.
caro Simone,
permettimi una libertà: qui ecco due tue strofe. Possiamo dire che si tratta di una poesia ex lirica che sta cercando la propria strada verso il nuovo, ma, ancora la strada che resta da percorrere appare lunga, la poesia resta troppo ancorata ai significati, e così non decolla.
Io ti consiglierei di lavorare sul:
– disallineamento frastico
– sui salti temporo-spaziali
– sui capovolgimenti delle situazioni
– sul mixage dei registri linguistici
– sul mixage tra il contemporaneo e il passato
Ecco una mia (tra le mille possibili) versione.
Metto qui una riscrittura delle due strofe con annesse alcune varianti in modalità kitchen:
Caro Giorgio,
Ti ringrazio per la tua versione in cui è evidente la pratica della poesia in modalità kitchen: in questo caso specifico: una vera girandola!
Leggendola, si presentano ulteriori questioni. Per esempio: quella della fonte dell’ispirazione e del bagaglio culturale di ciascuno o quella dell’ispirazione e del successivo lavorio sul testo solo ispirato …
Sì, la poesia che mi si propone, in effetti, è ancora in rapporto alla lirica e al romanticismo. Forse c’è un legame con la questione ontologica e metafisica in rapporto alla poesia di cui si è parlato più su …