Ilya Yashin, Il testamento di un oppositore russo colpevole di aver detto la parola “guerra”, Giunti alla fine della Seinsvergessenheit, adesso sappiamo (da Massimo Cacciari, Krisis, del 1976) che all’origine del linguaggio non c’è la parola ma il «grido», il grido di spavento e di terrore dell’homo sapiens perso nella savana che si ritira e si dirada. Giunti alla fine della metafisica e alla fine della storia, dunque, torniamo al «grido», alla «parola piena», alla parola «positiva», «ostensiva», alla parola performativa che esaurisce le sue significazioni nel detto, nell’integralmente detto, Commenti di Marie Laure Colasson, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

 

Il Mangiaparole 18 Poetry kitchen
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twiter poetry di Giorgio Linguaglossa

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La ferita alla spalla Diomede l’ha guarita con insert di acido ialuronico antiadesivo, anticoagulante e ibuprofene
Erinomaco attraversando lo Scamandro ha incontrato una freccia in un occhio
Briseide è ingrassata ed è stata ripudiata
Aspasia fa la cura dimagrante
Eudossia guarda il televisore e si gode Odisseo che nel frattempo è tornato ad Itaca da quella megera di Penelope
Demostene è stato sostituito da Piantedosi
Il price cap è stato fissato a 60 euro al barile

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Giorgio Linguaglossa
5 novembre 2022 alle 17:18

È cosa nota la determinazione heideggeriana dell’essenza della metafisica come oblio della differenza di essere ed essente, nonché la contrapposizione del pensiero metafisico ad un pensiero più originario che che viene individuato da Heidegger nei detti dei pensatori aurorali presocratici. Si presenta così un contrasto: un’immagine della storia dell’essere che comincia con il pensiero autentico aurorale per poi cadere nell’oblio della differenza con l’avvento di Platone di contro ad un’immagine che pone la stessa storia dell’essere come storia dell’oblio – togliendo, allora, ogni compiuto riferimento autentico all’essenza dell’essere.
Per Heidegger la Seinsvergessenheit – l’oblio dell’essenza dell’essere, sarebbe succeduta ad un pensiero aurorale più autentico che sconosceva la Seinsvergessenheit. Da qui ecco il Wesen, l’Ente È qui in questione l’inizio della Metafisica – la quale resta pur sempre il pensiero dell’oblio.

Giunti alla fine della Seinsvergessenheit, adesso sappiamo (da Massimo Cacciari, Krisis, del 1976) che all’origine del linguaggio non c’è la parola ma il «grido», il grido di spavento e di terrore dell’homo sapiens perso nella savana che si ritira e si dirada. Giunti alla fine della metafisica e alla fine della storia, dunque, torniamo al «grido», alla «parola piena», alla parola «positiva», «ostensiva», alla parola performativa che esaurisce le sue significazioni nel detto, nell’integralmente detto. Nella situazione attuale della storia ridotta a storialità e della fine della metafisica ridotta a fuori-della-metafisica, la parola così deiettata ridiventa «piena», priva di sfumature semantiche. Ci troviamo nell’epoca della comunicazione universale che deprime ogni sfumatura di senso e preferisce la differenza bianco/nero dove il chiaroscuro viene tendenzialmente cancellato e rimosso e il Grande Altro tende a occupare e sostituire il piccolo altro… ed ecco la parola che rimbalza come una pallina di gomma…

Marie Laure Colasson
5 novembre 2022 alle 19:31

Scrive Linguaglossa :

«Nasce allora il Partito poetico a vocazione maggioritaria. Ecco, il mio lavoro fin dagli anni novanta ad oggi si è diretto a infrangere il tegumento del Partito poetico a vocazione maggioritaria. Il Logos chiama il Nomos, potremmo dire, la parola ha perso se stessa, vaga in una zona di compromissione nella quale a latitare è il significato, il referente, l’oggetto e che nulla lo giustifica, né il soggetto egolalico né l’oggetto posizionato… la parola liberata apre al discorso libero e liberato… così nel mondo storializzato (privo di storia) la poesia del novecento si allontana alla velocità della luce…»

Così, scopriamo che il Partito poetico a vocazione maggioritaria che fa della poetologia è rimasto privo di giustificazione, scopriamo che è arbitrario, né più e né meno come il disegno di decreto legge messo giù dal ministro Piantedosi dove ti accorgi che la norma manca di oggetto, davvero! l’oggetto è scomparso, si parla di “raduni” di 50+1 persone… Non si era mai vista prima d’ora una formulazione di tal fatta: è il mondo storializzato dove tutto è possibile perché tutto è arbitrario. Il linguaggio si sta storializzando. Così una norma che commina fino a 6 anni di carcere in realtà è senza oggetto, si parla di “raduno”, e il cittadino diligente d’ora in avanti dovrà prima fare il conteggio di quante persone ci siano in un “raduno”, se sono 49 potrà partecipare ma se sono 50, NO, perché a 51 scatta la sanzione penale fino a 6 anni di carcere. È talmente grossolana questa norma con la filosofia che la sottende che, ecco: le parole finalmente liberate si rivelano arbitrarie. La ideologia che sostiene e sottende quelle parole si rivela essere ancora più grossolana, rozza, inquisitoria, totalitaria. Evidentemente Piantedosi è andato a scuola di normazione da Putin!

Due domande a Giorgio Linguaglossa

6 novembre 2022 alle 15:21

Domanda: Una strenua lotta al significato contraddistingue tutta la poesia della nuova ontologia estetica?

Risposta. Sì, è una lotta incessante perché il «significato» permea il linguaggio comunicazionale impedendo di scorgere ciò che è al di là di esso, il significato è la cadaverizzazione del linguaggio… e la Musa muore anch’essa soffocata dai truismi e dai convenzionalismi.

Domanda: «Il non-senso sfugge alle leggi che governano il sistema capitalistico»?

Risposta: Penso di no, penso che il sistema capitalistico è il regno del non-senso complessivo perché è fondato sulla legge del plusvalore, del significante e della accumulazione del capitale che in sé è un non significato in quanto atto di fede. Nient’altro.
Il capitalismo è una religione e, come tutte le religioni, è basato su un atto di credenza, cioè di fede, si ha fede nella crescita del capitale e nella bontà di questa crescita come il credente ha fede in Dio e nella bontà delle sue azioni. Se cessasse la credenza nella bontà della accumulazione del capitale cesserebbe di colpo anche il capitalismo. Entrambe le fedi: in Dio e nel Capitale sono legate insieme in un modo misterioso…

Marie Laure Colasson
14 giugno 2021 alle 19:43

Sulle ragioni della Crisi

Jacqueline Goddard, una delle muse di Man Ray, azzarda un’ipotesi originale, incredibilmente semplice:

«Negli anni ’30, Parigi era il centro del mondo e Montparnasse era un club – racconta l’ex modella, una delle poche testimoni di quell’epoca leggendaria. – «Joyce, Duchamp, Picasso, Brèton… ci trovavamo alla Coupole dove Bob, il barman, teneva liberi alcuni tavoli per noi e i nostri amici. Tutto avveniva per un tacito accordo, senza neanche bisogno di darsi appuntamenti. E questo per un fatto molto semplice: allora non c’era il telefono… Una fortuna! Nessun telefono avrebbe potuto competere con Bob. E c’è di più. Al telefono possono parlare soltanto due persone. Noi, invece, eravamo in tanti a confrontarci, a litigare, a vivisezionare le idee». Era questo il segreto? La comunicazione reale anziché quella filtrata dai media? È forse un caso che il celebre detto di Aristotele («Amici miei… non c’è più nessun amico») si affermi proprio nel Villaggio Globale governato da Sua Maestà il computer e la banda larga popolata da folle di solitari disperati? «Eravamo amici e siamo diventati estranei» (La Gaia Scienza). Ancora una volta Nietzsche è stato un lucido profeta.
Il nostro è forse il tempo della inimicizia, della competitività e della conflittualità nel rapporto tra persone, tra artisti e con i lettori. C’era una volta l’amicizia. C’era una volta il sodalizio.

Francesco Paolo Intini
2 novembre 2022 alle 13:04

Caro Antonio Sagredo,

prima di scrivere sull’Ombra ho cercato di imitare Majakovskij, ma anche un po’ Esenin e Lorca, Eliot e Pound e Transtromer e da quando la mia frequentazione su questo giornale è diventata costante, chiunque mi sia capitato a tiro compreso Linguaglossa e tutti gli amici che sai e che fanno a meno di raccontarsi a partire dal proprio io. Perciò è difficile stabilire cosa di realmente mio sia rimasto.
Penso a una specie di deflagrazione dei linguaggi come se tutti questi poeti avessero incontrato sotto i loro piedi una mina colma di tritolo ed al sottoscritto toccasse di ricomporli seguendo i contorni di un puzzle assurdo. Tentativo goffo e destinato a perdersi o ad essere irriso da chi cercasse nell’ opera qualcosa di somigliante alla completezza e alla logica.

Confesso però che c’è un certo piacere nel ricomporli alla luce di qualche stacchetto pubblicitario e al mondo perfetto della cucina. Provo perciò a barcamenarmi in questo Stige e a portare a riva qualche verso pellegrino. Ma come ben sai mica è facile l’entrata nella città di Dite. Angeli delle tenebre stanno lì a guardia, pronti ad arpionarli e rigettarli al largo. Molti sono i peccati da pagare e anche qui ci vuole intelligenza, grazia e molta pazienza per andare avanti. Ciao.

Ilya Yashin

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Ilya Yashin

Il testamento di un oppositore russo colpevole di aver detto la parola “guerra”
07 dic 2022 da Il Foglio

Esorta i russi a combattere, opporsi, essere ottimisti per contrastare il regime di Putin: è il discorso che Ilya Yashin ha tenuto alla fine del processo che lo vede imputato per non aver usato l’espressione “operazione speciale” in riferimento all’invasione dell’Ucraina. Il discorso che l’oppositore russo Ilya Yashin ha tenuto alla fine del processo che lo vede imputato per aver usato la parola “guerra”. È stata proposta una condanna a nove anni da trascorrere in una colonia penale. 

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Cari ascoltatori, sarete d’accordo che la frase “’ultima parola dell’imputato” suoni molto cupa.
Come se dopo aver parlato in tribunale, la mia bocca venisse cucita e mi fosse proibito parlare per sempre. È proprio questo il punto: sarò isolato dalla società e tenuto in prigione perché vogliono che io stia zitto. Perché il nostro parlamento ha cessato di essere un luogo di discussione e ora tutta la Russia deve concordare silenziosamente con qualsiasi azione delle autorità. Ma prometto: finché sarò vivo, non lo sopporterò. La mia missione è dire la verità. L’ho pronunciata nelle piazze, negli studi televisivi, nelle tribune parlamentari. Non rinuncerò alla verità nemmeno dietro le sbarre. Dopotutto, citando un classico, “la menzogna è la religione degli schiavi, e solo la verità è il dio di un uomo libero”.
All’inizio del mio intervento, vorrei rivolgermi alla corte. Vostro onore, apprezzo il modo in cui è stato gestito questo processo. Lei ha tenuto un processo pubblico, l’ha aperto alla stampa e agli ascoltatori, non ha impedito a me di parlare liberamente e ai miei avvocati di lavorare. E all’apparenza non ha fatto niente di speciale: è così che dovrebbero essere tenuti i processi in qualsiasi paese normale. Ma nel campo bruciato della giustizia russa, questo processo sembra qualcosa di vivo. E mi creda, lo apprezzo. Lo dico con franchezza, Oksana Ivanovna (nome della giudice ndr): lei mi ha trasmesso un’impressione insolita. Ho notato con quale interesse ascolta, come reagisce, come dubita e riflette. Per il potere, lei è soltanto un ingranaggio del sistema, che deve svolgere docilmente la sua funzione. Ma vedo davanti a me una persona viva che la sera si toglierà la toga e andrà a fare la spesa nello stesso negozio dove va mia madre. E non ho dubbi che lei e io siamo afflitti dagli stessi problemi. Sono sicuro che anche lei, come me, è scioccata da questa guerra e prega che l’incubo finisca presto. Sa, Oksana Ivanovna, ho un principio che seguo da molti anni: fai ciò che devi, qualunque cosa accada.
Quando è iniziata la guerra, non ho dubitato per un secondo su cosa avrei dovuto fare: rimanere in Russia, dire la verità ad alta voce e fermare lo spargimento di sangue con tutte le mie forze. Mi fa male fisicamente rendermi conto di quante persone sono morte in questa guerra, quanti destini sono stati storpiati e quante famiglie hanno perso la casa. Questo non può essere tollerato. E giuro che non mi pento: è meglio trascorrere 10 anni dietro le sbarre, da uomo onesto, che bruciare silenziosamente di vergogna per il sangue che versa il tuo governo. Naturalmente, Vostro onore, non mi aspetto un miracolo qui. Lei sa che non sono colpevole e io so quanto questo sistema la mette sotto pressione. E’ ovvio che dovrò ottenere un verdetto di colpevolezza. Ma non le porto rancore e non le auguro niente di male. Tuttavia, cerchi di fare tutto ciò che è in suo potere per prevenire l’ingiustizia. Ricordi che non solo il mio destino personale dipende dalla sua decisione, ma rappresenta una condanna per quella parte della nostra società che vuole vivere pacificamente e civilmente. Quella parte della società, a cui, forse, appartiene anche lei, Oksana Ivanovna.
Usando questa tribuna, vorrei anche rivolgermi al presidente russo Vladimir Putin. All’uomo responsabile di questa strage, che ha firmato la legge sulla “censura militare” e per volontà del quale sono in carcere. Vladimir Vladimirovich, guardando le conseguenze di questa mostruosa guerra, probabilmente ha già capito quale grave errore abbia commesso il 24 febbraio. Il nostro esercito non è stato accolto con fiori. Siamo chiamati giustizieri e occupanti. Le parole “morte” e “distruzione” ora sono fortemente associate al suo nome. Ha portato terribili disgrazie al popolo ucraino, che probabilmente non ci perdonerà mai. Ma lei è in guerra non solo con gli ucraini, ma anche con i suoi compatrioti. Manda centinaia di migliaia di russi nell’inferno della battaglia, molti non torneranno mai più a casa, essendosi trasformati in polvere. Molti rimarranno paralizzati e impazziranno per ciò che hanno visto e vissuto. Per lei, queste sono solo statistiche sulle perdite, numeri in colonna. Per molte famiglie invece è il dolore insopportabile di perdere mariti, padri e figli. Sta privando i russi della loro casa. Centinaia di migliaia di nostri concittadini hanno lasciato la loro patria perché non vogliono uccidere ed essere uccisi. La gente sta scappando da lei, signor presidente. Non se ne accorge? Ha minato le basi della nostra sicurezza economica e trasferendo l’industria sul campo militare sta riportando indietro il nostro paese. Carri armati e pistole sono di nuovo prioritari e le nostre realtà sono di nuovo povertà e mancanza di diritti. Ha forse dimenticato che una tale politica ha già portato al collasso il nostro paese? Lasci pure che le mie parole suonino come una voce che grida nel deserto, ma la esorto, Vladimir Vladimirovich, a fermare immediatamente questa follia. E’ necessario riconoscere la politica nei confronti dell’Ucraina come errata, ritirare le truppe dal suo territorio e passare a una soluzione diplomatica del conflitto. Ricordi che ogni nuovo giorno di guerra significa nuove vittime. Basta.
Infine, voglio rivolgermi alle persone che hanno seguito questo processo, mi hanno sostenuto in tutti questi mesi e attendono con ansia il verdetto: gli amici! Qualunque decisione prenda il tribunale, non importa quanto severa sia la sentenza, questo non dovrebbe spezzarvi. Capisco quanto sia difficile per voi adesso, quanto siete tormentati dalla sensazione di impotenza e disperazione. Ma non dovete arrendervi. Per favore, non cadete nella disperazione e non dimenticate che questo è il nostro paese. Merita che per lui si combatta. Siate coraggiosi, non tirartevi indietro davanti al male e resistete. Difendete la vostra strada, le vostre città. E, soprattutto, difendetevi a vicenda. Siamo molti di più di quanto sembri, e io e voi siamo una forza enorme.
Beh, non preoccupatevi per me. Prometto che sopporterò tutte le prove, non mi lamenterò e percorrerò questo percorso con dignità. E voi, per favore, promettetemi che rimarrete ottimisti e non dimenticherete mai di sorridere. Perché vinceranno loro proprio nel momento in cui noi perderemo la capacità di goderci la vita.
Credetemi, la Russia sarà libera e felice.

Ilya Yashin

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16 risposte a “Ilya Yashin, Il testamento di un oppositore russo colpevole di aver detto la parola “guerra”, Giunti alla fine della Seinsvergessenheit, adesso sappiamo (da Massimo Cacciari, Krisis, del 1976) che all’origine del linguaggio non c’è la parola ma il «grido», il grido di spavento e di terrore dell’homo sapiens perso nella savana che si ritira e si dirada. Giunti alla fine della metafisica e alla fine della storia, dunque, torniamo al «grido», alla «parola piena», alla parola «positiva», «ostensiva», alla parola performativa che esaurisce le sue significazioni nel detto, nell’integralmente detto, Commenti di Marie Laure Colasson, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

  1. I primi testi kitchen che ho letto hanno suscitato in me scetticismo, non li apprezzavo e non sapevo come fosse possibile gustarli. Tuttavia non li ho abbandonati, ho continuato a leggerli e al contempo a studiare i contributi critici e sono passata alla curiosità, ma non osavo scriverli. Mi limitavo a considerarli ‘altro ‘ da me,lontani dal mio modo di fare e leggere poesia. Giorno dopo giorno, però, le parole delle autrici e degli autori kitchen mi aprivano un mondo: non si trattava più solo di poesia e di letteratura, era una nuova visione del linguaggio e del mondo che mi veniva incontro. L’innamoramento è arrivato bruciante e mi sono messa alla prova. Ora non mi riconosco più nelle poesie che ho scritto anche nel passato recente e non sarei in grado di scrivere in altro modo.

    Tiziana Antonilli

    • Sarebbe interessante che ciascuno di noi rendesse conto di come e per quali vie è giunto alla scoperta della nuova fenomenologia del poetico e della poetry kitchen, sarebbe utile a noi tutti (e anche a chi ci legge).

      In fin dei conti, le procedure, le tecniche sono inessenziali (a parità di tecniche impiegate la differenza non c’è, o meglio, c’è differenza soltanto in chiave tecnica, ma si tratta di differenze secondarie, il poeta significativo è quello che individua e adopera una diversa ontologia estetica). Ciò che è essenziale è cogliere che una ontologia si basa su alcuni concetti: la parola, il metro, il tempo, lo spazio, il pentagramma sonoro. È dal modo di concepire questi concetti che cambia la poesia. Ogni ontologia estetica ha i suoi concetti validati e su «quelli» va avanti, va avanti almeno fino a quando non interviene qualcosa, un Evento (dall’esterno, dal mondo, dalla storia) che determina l’esaurimento di quel modo di concepire «quella» ontologia estetica. Ma, la fine di «una» ontologia estetica la determina la storia (l’Evento), non sono i letterati che la decidono. La storia va avanti. Ci sono epoche, come quella che va dagli inizi degli anni Settanta ad oggi, nella quale la poesia dorme il suo lunghissimo sonno epigonico, nella quale si è continuato a fare poesia sulla base di una ontologia estetica che si credeva valida su tutti i fronti (le differenze interne erano in realtà delle sfumature, e niente di più).

      Per troppi decenni abbiamo pensato, in Italia, in termini di procedure, di tecniche; che fossero di accumulo o di demoltiplicazione come corollari di una libertà concessa alla scrittura poetica, non cambia il nocciolo della questione.

    • Mimmo Pugliese
      9 dicembre 2022 alle 12:53

      Anche se in ritardo , colgo l’invito di Giorgio del 4.12.’22

      Chi scrive non vive nell’iperuranio, è dentro le pie(a)ghe del mondo. Avverte forte il frastuono, l’insignificanza degli accadimenti e trova nel linguaggio agito una incolmabile insensatezza e nessun riscontro.
      Nell’impossibilità di accettare tale sviamento si capovolge il paradigma usuale. È l’oggetto che esce dallo specchio e si addentra nel groviglio delle insensatezze che generano guerre, pandemie, immigrazioni, povertà, disastri climatici che per nessun motivo possono indurre all’indifferenza e all’ignavia.
      Avverso tutto questo l’impellenza e l’importanza dell’urlo delle parole (solo apparentemente inconciliabili tra loro) reclama la sua “anarchia” che non si riduce solo alla denuncia e alla protesta, ma è libertà e proposta altra, diversa. Esattamente come altra , diversa è la Poetry Kitchen .

    • vincenzo petronelli

      Complimenti per questa testimonianza cara Tiziana: la trovo significativa della ristrutturazione profonda che la Noe già pre-Poetry kitchen ha operato nel panorama della poesia italiana e mi piace anche per la fotografia del tuo percorso personale.
      Un percorso nel quale in parte mi ritrovo, perché pur avendo io invece avuto un’attrazione subitanea per gli autori della Poetry kitchen e della Noe già dai tempi del modello del frammento poetico, e pur essendomi avvicinato non per caso alla Noe per un’irrequietezza interna che mi aveva già condotto verso l’idea di modificare significativamente il mio usus scribendi, mi sono inizialmente trovato davanti ad un portone chiuso, perché mi sembrava di cogliere una difficoltà estrema pensando di poter ricalcare questo percorso.
      Non sono praticamente riuscito a comporre più nulla per un anno e mezzo (al di là di qualche timido balbettio), ma ormai pur essendo consapevole della mia ancora totale perfettibilità secondo i canoni kitchen, mi sento privilegiato rispetto allo scialbore che caratterizza gran parte del panorama poetico generale attuale, sentendomi parte di un mondo espressivo a sé, specifico, qual’è la Poetry kitchen.
      Grazie ancora della tua testimonianza e tanti cari auguri per un buon inizio d’anno.
      Vincenzo

  2. PIETRO EREMITA

    Credetemi, la Russia sarà libera e felice.
    Ilya Yash
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    Anche io sono preso ogni tanto dallo sconforto. Ma Ilya Yash è speranzoso come me… quelle sue parole le ho scritte (su questo blog) dopo una settimana dalla invasione russa, perché la conoscenza della storia russa e di come si comportano i soldati russi in battaglia (tranne che per le vere guerre patriottiche come nella seconda guerra mondiale dove furono davvero encomiabili) è notorio. Ma non dipende dai soldati ma dalla storia miseranda che si portano dietro cioè dalle condizioni di vita nelle piccole cittadine sperdute nell’immenso loro territorio. Sono stati mandati al macello come …carne da macello… ignari inconsapevoli… non motivati da alcun principio di giustizia per una difesa giustificabile… non è che non sanno combattere ma non hanno alcun motivo di combattere… moltissimi dotati di cellulari e altri apparecchi denunciano alle loro famiglie e amici la realtà di questa inutile strage… in Cecenia fecero sfracelli i soldati professionisti, ma moltissimi morirono le condizioni furono denunciate dalla Anna Politkovskaja: unica a tenere testa a Putin che la fece assassinare (questo evento è notorio) nel giorno del compleanno della Politkovskaja e del suo stesso: di Putin, facendosi un regalo: quale cinismo criminale! che è solo prerogativa dei servizi segreti di tutti nel mondo (ma in Russia ha un sapore singolare)… ma lo sconforto mi riprende: sono migliaia questi agenti segreti sparsi per il mondo sotto tutte le possibili mentite spoglie!

    Qui da noi sono centinaia e centinaia e non esiste nessun controllo su di loro, ma questa situazione vale per tutta l’Europa dove vi è propriamente una invasione “speciale” di quei servizi segreti e possono colpirci quando e quanto vogliono… con ben celate complicità.
    Ha distrutto, questa casta di criminali incalliti, qualsiasi rapporto culturale positivo, ma distruzione si ritorcerà contro di loro, come già nel loro passato è accaduto: non imparono le lezioni che la storia ha dato loro e non sono capaci di insegnare alcuna storia degna d’essere acclamata benignamente. Ancora nel suo (della casta) dna vi è sapore di invasione mongolica e barbarica: gli indizi sono innumerevoli, p.e. far ricorso a truppe mercenarie, liberare i criminali dalle loro carceri… insomma qualsiasi feccia pronta a sterminare e a procacciarsi il bottino di guerra.
    E si continua… non lasceranno a breve termine la presa, azzannare quanto più territorio possibile e farlo proprio per sempre e poi centinaia – se non migliaia – di bambini e giovani portati in territorio russo per educarli e addestrarli alle loro maniere e farne soldati-mercenari inconsapevoli per uccidere la loro stessa gente: questo per risparmiare le vite ai futuri soldati russi.
    Ma basta così..

  3. Maurizio Ferraris

    Dal 1993 a Boston esiste un MOBA, un Museum of Bad Art che organizza mostre e convegni sviluppando un’idea semplice ma efficace: prendete dei brutti quadri e chiamateli con il loro vero nome. Non sempre funziona, alcuni pezzi non sono poi così male, e nel complesso si ha l’impressione che la percentuale di cattiva arte non sia significativamente maggiore di quella presente in molti musei di belle arti, antichi e moderni. Ciò che conta, però, è che MOBA ironizzi su quella che ormai da un secolo è la topica estetica fondamentale delle avanguardie, che definirei il “dogma dell’indifferenza estetica”. Ovvero la tesi secondo cui la bellezza non è più l’obiettivo primario di quelle che si chiamavano “belle arti” per distinguerle dalle arti utili. Questo credo estetico (o più esattamente anestetico) viene da lontano e risale almeno al Romanticismo, caratterizzato da Hegel…
    […]
    La bellezza non serve, basta l’aura, anche se questo è avvenuto nell’epoca del dagherrotipo – cioè di quella riproducibilità tecnica che, secondo Benjamin, sancisce la fine dell’aura artistica. Questa è una prova precoce ed evidente, credo, della tesi che sto cercando di difendere, e cioè che la scomparsa della bellezza e l’imposizione dell’aura sono due fenomeni concomitanti. Tuttavia, come in ogni religione, il dogma dell’indifferenza estetica ha molti più seguaci in teoria che in pratica. Quando si scrive un saggio di estetica si è sempre pronti ad affermare che si tratta di un’esperienza concettuale in cui la bellezza è un fossile fuori posto. Non si è così pronti, però, ad affermare la stessa cosa quando si acquista un tavolo o una poltrona, un tappeto o un abito: allora l’esigenza di gradevolezza estetica resta immutata. Non è difficile riconoscere qui una contraddizione (o, per restare in gergo religioso, una doppia verità), sicché abbiamo un’epoca, la nostra, che coltiva con cura il mito della bellezza e tuttavia accetta facilmente quello che si chiamava “ belle arti” non hanno più la bellezza come obiettivo primario.

    Così abbiamo, da una parte, le donne e gli uomini più belli della storia, gli oggetti meglio rifiniti, i cibi più selezionati, vini incomparabilmente migliori di tutti i vini che l’umanità abbia mai bevuto – e opere d’arte che sono brutte, apposta così, o trasandato, o privo di significato, o almeno un’arte che pensa di poter essere brutta perché si considera intelligente. E siccome l’aspetto (e il gusto) conta ancora, la consolazione per i visitatori è offerta dalle gallerie, che sono bellissime (su questo torneremo dopo, perché non è un dettaglio). O forse la gratificazione sta nel vino bianco e nel formaggio gratis che ti vengono offerti alle inaugurazioni (a differenza del cinema, dove vino e formaggio li paghi tu, se li vuoi, visto che si suppone che la gratificazione estetica venga dallo spettacolo) . Ora, c’è gente convinta che tra quello che vedi in una galleria e quello che metti in casa tua ci sia un abisso. Io (e dubito di essere l’unico) credo che non sia così, anche perché molte opere sono destinate ad entrare nelle case della gente, come tanti altri manufatti. Nelle pagine seguenti cercherò quindi di combattere i dogmi correlati di indifferenza estetica e onnipotenza auratica tentando una risposta alla domanda: cosa si può fare per evitare che qualsiasi MOMA o MOCA o MACBA o MADRE o MAMBO diventi indistinguibile da un MOBA? Nonostante le apparenze, il MOBA appartiene a una tradizione antichissima…

    Inoltre, non è così male se confrontato con molte opere d’arte che riempiono gallerie e musei, e che fanno appello a quella che propongo di chiamare Grande Arte Concettuale: l’arte che ha coltivato i dogmi dell’indifferenza estetica e dell’onnipotenza auratica. Se le opere dei “pazzi” erano spesso brutte ma non apposta, quelle della Grande Arte Concettuale sono altrettanto brutte, ma apposta. Si sarebbe tentati di vedere in questo una responsabilità in più ma invece, con un procedere in qualche modo miracoloso (perché ha a che fare con la trasfigurazione) non è così. Mentre ridere del Vittoriano, disprezzarne la bruttezza e compatire il suo autore sono tutti atteggiamenti accettati, se si rischiasse di fare lo stesso con la Grande Arte Concettuale ci si troverebbe nei guai, accusati di nostalgia, incompetenza, cattivo gusto e insensibilità estetica (ed è bizzarro, visto che quest’arte non aspira alla bellezza). La bellezza non è più affare dell’arte e se non l’hai capito sei un ignorante.

    Ma il genio di Duchamp non consisteva, come talvolta si crede, nella sua rottura con il passato. Piuttosto, in senso opposto, consisteva nella continuità ultima della sua arte con essa. Il suo orinatoio, così come la Gioconda con i baffi, riannoda i fili delle frustrazioni estetiche accumulate da generazioni di eclettismo e pompierismo, insieme a un culto forzato e semireligioso della Grande Arte Non Concettuale. Sei stanco di mostrare una devozione estetica che non ti appartiene prima della Gioconda? Non preoccuparti, disegnale dei baffi e sarai salvato dall’intervento della Grande Arte Concettuale. Sei stufo di opere che faticano a essere belle e sono solo volgari o ordinarie? Anche in questo caso niente paura: prendete un orinatoio, o un portabottiglie (strumento curioso, tra l’altro) o una ruota di bicicletta, esponetelo in un ambiente pertinente (una galleria o un museo), dategli un titolo e firmatelo: avrai realizzato la meravigliosa transustanziazione concettuale grazie alla quale un oggetto comune diventa opera d’aura. Da questo punto di vista, è fondamentale applicare a tutti i costi il ​​dogma dell’indifferenza estetica e dell’auraticità, per evitare che qualche incompetente pensi che il miracolo dipenda dall’azione delle proprietà estetiche invece che dall’invenzione concettuale.

    Qualche anno fa un’importante fondazione di Grande Arte Concettuale mi ha chiesto di organizzare un ciclo di conferenze in concomitanza con la mostra di un artista che proponeva, mi è stato detto, una profonda riflessione sulla violenza. Quando ho chiesto di sapere di cosa trattava la meditazione, mi hanno spiegato che l’artista era andato in un mattatoio in Messico e lì aveva ucciso, con un martello, una dozzina di cavalli. La riflessione sulla violenza è consistita nelle registrazioni della strage. Ho fatto notare che non riuscivo a vedere il lato meditativo, dato che (ammesso che le parole abbiano un significato) non era un riflesso ma un’azione, crudele ed estremamente violenta, una specie di snuff movie contro gli animali. Mi è stato poi detto che quegli animali sarebbero stati macellati comunque. Quindi se l’artista fosse andato alle docce di Auschwitz martellando a morte i disgraziati che entravano (e che comunque sarebbero morti) forse qualche critico o curatore avrebbe detto che quella dell’artista era una profonda riflessione sulla violenza. L’intera conversazione si è svolta, come doveva (torneremo su questo punto, che può sembrare laterale o ambientale ma è fondamentale nel suo essere laterale o ambientale), in una stanza bianca, minimale e molto elegante come un Apple Store, e le persone con cui parlavano erano tutti uomini istruiti, educati e gentili e (soprattutto) donne. Ero io quello maleducato, poco disposto a capire. Tornando a casa mi sono chiesta se la trasvalutazione di tutti i valori non passasse dall’estetica all’etica, perché forse l’atrofia estetica, l’abitudine a inghiottire qualsiasi cosa, ha iniziato a scatenare una forma di atrofia morale.

    da https://www.academia.edu/8347092/Why_Matter_Matters?email_work_card=title&li=0

  4. Maria Pia Latorre

    Banalmente, senza scomodare Cacciari, ogni qualvolta parlo ai bambini dell’origine della lingua lascio che loro immaginino le grida degli ominidi che poi via via si sono articolate in suoni sempre più distinti, sofisticati e vari. Come allo stesso modo si è raffinata la motilità fine. E sono simpaticissimi quando si divertono ad imitare quei probabili ominidi. Stiamo dunque tornando all’orlo di guerra senza poter più pronunciare la parola guerra? E poi la parola blablabla che ci ha stancato. E le innumerevoli parole stereotipate incasellate addolorate omologate di cui non sappiamo che farcene tanto da farci invocare il silenzio per noi – che non sarà mai -.

    Formidabile la ticket poesia

    La ferita alla spalla Diomede l’ha guarita con insert di acido ialuronico antiadesivo, anticoagulante e ibuprofene

    Grazie sempre! Maria Pia Latorre

    Il Ven 9 Dic 2022, 08:20 L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internaziona

  5. Grazie Maria Pia,
    per il tuo apprezzamento che sappiamo sincero.

  6. «La miseria del/nel simbolico è qui esplorata rispetto a questa topologia ritmologica, secondo una stratigrafia che legga organologicamente l’intreccio vizioso e virtuoso tra aisthesis e semiosis, alla luce della tèchne. È una miseria generata dal profluvio simbolico che ricade nella sovrapproduzione di cliché vanesi, quindi “genetica” rispetto all’orizzonte simbolico stesso, in cui il soggetto, colonizzato e invaso, appare de-privato dei mezzi di sussistenza del senso, agito piuttosto che agente. In quanto mezzi di produzione del senso, nella società del consumo i simboli sono questione di economia libidica, perciò di politica ed economia politica.
    Impadronirsi dei mezzi di produzione del senso. rin-tracciarli e ri-campionarli, può essere la lotta del “cultore” come nuovo “orribile lavoratore”? Bisognerà forse intendersi sul significato di “lotta”, perché a partire dalle aporie di questa battaglia, dello spirito con se stesso si potrà cogliere il possibile di un’exit strategy, di un balzo fuori dalla rete- Si tratta pur sempre di quella nostra stessa rete, in cui, a corsi e ricorsi, ci ritroviamo traditi in trappola.

    “Che c’è tra di noi?” (“Qu’y a-t-il entre nous?”), recita la frase che campeggia a neon rosso sulla facciata dell’edificio del Centre Pompidou, a Parigi. Si tratta dell’ultima installazione prodotta dall’artista T. Etchells, visibile dal 2 ottobre 2021 al 15 febbraio 2022. Una frase che risuona come una traccia e dischiude forse la volonté de chance di una nuova enunciazione. Una frase che ci cosente di tornare al cantiere del senso, riaprendo il discorso come si rimette mano a un arsenale, e di rin-tracciare il campo di battaglia in cui tendenze e contro-tendenze si giocano la partita dell’iscrizione dell’aisthésis in una semiosis. È della natura della catastrofe stessa del sensibile, con il suo proprio rovesciameno del symballein in diaballein. »

    Commento

    Il problema, a mio avviso, è proprio qui: nella possibilità dell’iscrizione dell’aisthésis nella semiosis che non può non avvenire se non attraverso il fantasma, un soggetto/oggetto, paradossalmente, non-simbolizzabile.

    (Rosella Corda, Introduzione a La miseria simbolica, di Bernard Stiegler, Meltemi, 2021, p. 12)

  7. gino rago

    Caro Giorgio Linguaglossa
    Bisogna uccidere il Grande Dittatore

    A me, come ai poeti della Poetry kitchen, piace la vita fatta a pezzi, la vita che rompe i suoi orditi.
    Fare i conti con Il Grande Dittatore.
    Assumere in sé la concezione di écriture secondo Barthes:

    «Fare letteratura […] riesce davvero solo se chi scrive, forzando la propria natura, bucando il guscio di granito in cui prospera incontrastato Il Grande Dittatore del proprio Io, riesca a connettersi a tutto e a ogni cosa, dalla materia inerte alla più insignificante creatura e da queste alla più lontana esplosione stellare».

    In particolare, con la gallina Nanin, o con la pallottola, è come se scrivere a più mani, non fosse altro che così, per dirla ancora con Barthes, Il Grande Dittatore da solista si trova. anzi, è costretto a cantare in coro.

  8. antonio sagredo

    a proposito del “torniamo al grido” e al chicchirichì
    dal 1989 al 2016:
    —————————————————————–
    Con dita inossidabili accetto le tue labbra,
    tu cerchi invano le mie ossa ballerine.
    La cresta del gallo gareggia col belletto,
    il tuo grido è materia scolorata.

    1989
    ————————————————–
    e a proposito del significato inesistente:
    ——————————————————–
    Il principio del tuo fonema è tutto nel trastullo
    che governa il tradimento e il fondo del tuo grido.
    Quando la Morte giunge nasce la metafora:
    è il mio rinascimento in barba a tutti i veri morti!

    1989
    —————————————————————–
    e infine”

    “la parola performativa che esaurisce le sue significazioni nel detto, nell’integralmente detto” (Linguaglossa)

    —————————————————————-

    E Flora mi tradisce mutando di me il mio martirio
    E il senso, e il corso di un tragitto ingannato dai tracciati:
    Amore che sfiorendo m’offende il disamore!
    E nelle stanze il poeta s’ingravida di suoni e di parole
    E ai girasoli si volge avvitando il centro della rotazione
    Perché la linfa si muti in sangue, come sulla scena l’attore
    Il grido in canto e il gesto in contumacia si dissolve.

    2016
    —————————————————————-

  9. vincenzo petronelli

    Senza dubbio, quest’articolo ci pone di fronte ad una riflessione cruciale per le sorti del sapere e della poesia odierni, dato che il crocevia rappresentato degli avvenimenti succedutisi in questi ultimi anni, ci ha fatto comprendere l’inevitabilità di interrogarci sui modelli gnoseologici, ontologici e di rappresentazione del mondo consolidatisi nei decenni scorsi, a partire dal riflesso individualistico, sfociato nell’edonistico dagli anni’80 del secolo scorso. Sappiamo peraltro come in Italia, questa stagnazione abbia investito in modo particolare la poesia, in buona parte, nelle sue forme dominati, relegata ad arte da salotto o da festival; ciò non toglie, ovviamente, che anche nel periodo suddetto ci siano state voci che abbiano tentato di fare poesia seria, ma indubbiamente l’orientamento prevalente è andato in un’altra direzione.
    Le vicissitudini di questi ultimi anni hanno dimostrato anche a coloro maggiormente adagiati sul senso di un falso benessere ed acquiescenza proprio della società occidentale, come gli schemi siano ormai saltati completamente e che le false certezze su cui tale senso si è basato non hanno ormai più alcuna valenza. La poesia ed i linguaggi della cultura in generale, nelle loro versioni addomesticate agli interessi dominanti (che in particolare poesia italiana coincidono con i modelli prevalenti della produzione poetica) si sono trasformati in una sorta di nullità reazionaria, svilita completamente della componente rigeneratrice che dovrebbe sottendere l’uso della parola letteraria, piegatasi in questo caso all’uso della concezione quotidiana della lingua. Probabilmente, è da considerare questo come uno degli aspetti più deleteri che la cosiddetta “poesia del quotidiano” ha comportato come riflesso non solo sulla prassi, ma sulla stessa espressività poetica: non tanto l’introduzione nella poesia di temi tratti dal quotidiano (che anzi, trattati con il giusto “velo” poetico hanno rappresentato un’estensione del dicibile o del rappresentabile in poesia), quanto l’idea di ridurre la lingua della poesia a quella del quotidiano, appiattendone e svilendone la potenzialità filosofica, antropologica, soteriologica immanente alla lingua poetica, soteriologica (o se vogliamo taumaturgica nei confronti della lingua in generale) perché he più di altre forme d’arte, i canoni linguistici della poesia hanno la possibilità di agire come un bulino, nei confronti della lingua tutta.

    Anche la poesia ha invece abdicato a tale ruolo, contribuendo così alla grande semplificazione che caratterizza la comunicazione del nostro tempo, funzionale al progetto di “normalizzazione” politica cui ormai la società occidentale è sottoposta dalla metà ann’80 del secolo scorso e che è ormai giunto al livello del parossismo delle coscienze.
    La bellissima allocuzione di Ilya Jashin ci conduce direttamente al nocciolo di questo discorso, con il suo tentativo di rischiarare le menti obnubilate dalla propaganda russa a proposito dell’intervento armato in Ucraina ed in generale del liberticidio che contraddistingue sempre più il regime politico dello zar di tutte le Russie. L’esempio russo è particolarmente calzante nella misura in cui ci troviamo di fronte alla “macchina politica” che in questo momento ha probabilmente portato al massimo livello la propaganda tramite l’informazione digitale, divenendo il burattinaio che muove i fili di gran parte degli attuali movimenti demagogico – populisti che minacciano la nostra democrazia, che per quanto imperfetta, è pur sempre un valore da difendere, pena il regresso dell’Europa e della società occidentale ad epoche nefaste del nostro passato.
    A partire dagli ultimi anni, gli effetti di tale manipolazione politica della comunicazione sono emersi in maniera drammatica e siamo di fronte senza dubbio, ad uno dei problemi principali della nostra società in questo momento; le storture operate da questo sistema di controinformazione populista, con le varie declinazioni operate in Ungheria, Polonia, Rep.Ceca, Serbia, ma anche in Grecia, in Spagna ed in Italia, sono sotto gli occhi di tutti, con politiche ammiccanti ora ad istanze di una destra nazionalista, xenofoba, fondamentalista cristiana, ora ad istanze di sinistra troppo sbrigativamente pauperiste e classiste, assolutamente fuori tempo massimo o che, per meglio dire, di fronte al rischio di una nuova polarizzazione della ricchezza, propongono soluzioni legate al comodo sbandieramento di slogan di sicuro effetto, solo perché consolidati nei vecchi proclami storici, ma che rischiano in realtà di trasformarsi in pura propaganda con possibili esiti imprevedibili e nefasti come la storia ci ha del resto già insegnato.
    La semplificazione, l’appiattimento del linguaggio è stato naturalmente lo strumento privilegiato di questo rimescolamento delle coscienze, in un progetto in cui la parola si avvizzisce nel suo potere creativo, producendo una lingua scialba, incolore, amorfa, monocorde, di facile presa popolare e di grande “resa” politica.

    È stato questo, in realtà, un punto d’arrivo di un processo avviato già con il dissolvimento della parabola del mondo socialista e l’assurgere di un padrone unico sullo scenario politico mondiale, percorso che recava con sé la necessità di limitare la complessità del confronto dialettico, tendenza abbinata all’edonismo che ha caratterizzato la cultura occidentale di quegli anni di ripiegamento sull’individualismo e di tramonto delle utopie collettive. Una delle testimonianze più significative di questo nuovo ordine venutosi a creare in quegli anni, l’abbiamo avuta in Italia con una delle voci poetiche più alte della nostra storia del secondo dopoguerra, che ha scelto la musica come campo d’espressione per veicolare la sua poesia e cioè Fabrizio De Andrè, che nel suo album Le nuvole, apparso nel 1990 ritrae questo mondo caratterizzato da un potere sempre più ammorbante, soverchiante, annichilente nei confronti della società, il cui controcanto è dall’altra parte quello di un popolo sempre più rintanato sui fatti propri e che, nella misura in cui il potere glielo consente, continua a vivacchiare facendosi i fatti propri, ignorando (o fingendo di ignorare) la sciagura che sta per abbattersigli addosso. Un brano particolarmente rappresentativo di questa fotografia che il disco riprende è ‘A çimma, scritto in genovese con Ivano Fossati e Mauro Pagani, il cui protgonista è un cuoco – alle prese con la preparazione per una cerimoni, dell’omonimo piatto tipico della cucina genovese – circondato da un mondo prossimo allo sbando, che racchiude tutta la sua vita nella sua cucina, trovando motivo di indignazione solo nella riprovazione del comportamento degli astanti che mandano in fumo il suo lavoro dopo aver consumato la pietanza.

    Il disagio indotto da questa situazione di monopolio politico – culturale, ha però prodotto delle conseguenze, dalle pretese palingenetiche, che però già a partire dagli anni ’90, si rivelano essere peggiori del male che intendevano curare, dando vita – sempre nel nome dell’illusione di poter trovare scorciatoie per problemi complessi – a pericolosi intrecci populistici, estrinsecati tramite una politica divisiva il cui unico effetto è la creazione di slogan imbonitori, che racchiude la retorica nazionalistica e xenofoba delle piccole patrie egoiste delle regioni europee più ricche, la paradossale politica dell’antipolitica, altro inganno di facile presa, che ha sdoganato nell’arengo della discussione politica le chiacchiere da parrucchiere di fronte alle quali un tempo persino chi le esprimeva provava pudore, con le loro derive dell’ “uno vale uno” e della totale elisione della competenza: posizioni politico-ideologiche che ha fatto assunto naturalmente come elemento distintivo culturale l’isterilimento del linguaggio, in quanto meccanismo di controllo dal basso, per avvalorare l’inganno della pretesa democrazia.
    Questa falsa, subdola idea di democrazia prêt à porter, organica in realtà a questo disegno destabilizzante per la vera democrazia, ci ha condotti in questi ultimi anni ad assistere alla formulazione di teorie farneticanti che, deformando il concetto di controinformazione alla luce di queste categorie annichilenti del pensiero, hanno ribaltato l’idea della stessa controinformazione rendendola strumento di questo progetto demagogico, molto semplicisticamente partorendo un modello per cui sarebbe sufficiente sovvertire la realtà di fatto per dar prova di un esercizio di vaglio critico che vada a scovare, in un presunto altrove – identificabile con le proprie pulsioni, frustrazioni, aspettative – le spiegazioni profonde della contemporaneità.
    È sottinteso che in tale contesto ognuno possa ritagliarsi il nemico che meglio risponda ai propri fallimenti personali, grazie alla duttilità delle parole d’ordine coniate e contenute in questi messaggi improntati appunto ad una semplificazione scarnificante del linguaggio, che consente di trasformare i messaggi in veri e propri slogan, volutamente eclettici proprio per il loro minimalismo.

    Appare così evidente l’intento destabilizzante per la democrazia insito in tale disegno, capace di spacciare misure di carattere puramente assistenzialistico, da sempre serbatoio di clientelismo politico, per politica progressista; di ribaltare conquiste storiche della scienza vengono messe in discussione nel nome di un’interpretazione nichilistica del senso della libertà personale, in cui è assente qualsivoglia attenzione per il bene collettivo; di mettere in discussione libertà sociali ormai consolidate, per il tramite di nuovi predicatori dell’integralismo religioso; di esaltare uno dei peggiori despoti della storia contemporanea, re-incarnazione delle figure più sinistre della storia passata e già autore di vari episodi di genocidio ed annientamento di popoli, come liberatore del neo-nazismo, paradossalmente pur essendo movimenti che spesso e volentieri strizzano l’occhio a quell’eredità e che hanno nello stesso despota il loro punto di riferimento. Proprio gli eventi della guerra di aggressione russa all’Ucraina, costituiscono una sorta di apoteosi di questo processo, momento culminante di questa politica che proprio dalla disinformacija russa trae la sua maggior propulsione, funzionalmente agli interessi del neo zar di ridefinire le parabole della storia, alimentando i propri disegni imperialistici.
    Un corollario inevitabile di questo atteggiamento è la creazione di un bacino di divulgatori politici, culturali, di un’intelligencija di riferimento (influencers come si sogliono definire nel vocabolario dei nuovi media), il più delle volte costituito di una pletora di intellettuali del tutto improvvisati, pronti ad approfittare della possibilità di salire sullo scranno donato loro, il cui compito (come sempre avviene con i regimi illiberali) è di arruolare uno stuolo di volontari carnefici pronti ad immolarsi per qualunque causa venga loro affidata dai leaders, non più agghindati in uniforme e stivali militari, ma in giacca, cravatta e valigetta ventiquattr’ore, avendo nel frattempo provveduto a cambiarsi d’abito.
    E la poesia cosa fa in questo contesto? Nella maggior parte dei casi si è ritagliata il suo spazio, la sua fetta di torta nella grande partizione e chi naviga nell’aura mediocritas di questi ultimi decenni, evidentemente non si scompone più di tanto di fronte alla situazione in atto, perché l’importante, dal loro angolo visuale è continuare a crogiolarsi ed a raccogliere consensi (mediatici o attraverso il ridicolo mercimonio dei premi) e mentre questi ambiscono ai “ricchi premi e cotillons”, fuori l’umanità compressa nelle terre dove si concentrano gli appetiti dei nuovi imperatori del mondo, combatte solitaria la sua battaglia per l’affrancamento dalla nuove tirannie.
    Trovo che questa situazione venga straordinariamente riflessa questa condizione in anticipo sul in questa poesia di Miroslav Krleža, poeta tra i più straordinari nel ritrarre la società europea del ‘900 (in particolare dal suo laboratorio, per molti versi privilegiato, del mondo balcanico) lontano da qualsiasi tentazione di poesia dell’egolalia e che meriterebbe senza dubbio una maggior fama.

    NOTTURNO DI SAN SILVESTROMILLENOVECENTODICIASSETTE
    (Silvestarski nokturno godine hiljadu devet stotina sedamnaeste)

    Promemoria a coloro che osserveranno tutto ciò da un’altra prospettiva

    La luna è un tondo sanguigno,
    e gli alberi soffrono eroici nel morto silenzio,
    e la notte del santissimo vescovo Silvestro placida, placida, respira.
    L’astrale semi riflesso verde della nera notte nebbiosa,
    quando nel cosmico gioco il globo gira per una logora cifra,
    e quando sul calendario
    l’Anno Vecchio dal Nuovo è scannato.

    Oh, a Nuova York, a Genova o a Hong Kong
    ora le sirene di tutte le navi ancorate
    ululano,
    e tutte le antenne ora, in questo momento, spargono manciate di scintille blu
    sulle strisce di tutti i meridiani.

    Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong,
    e non ascolto le sirene delle navi ancorate.
    Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,
    e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione:
    martiri in fila, sciagurati, crocifissi.
    E pantere ululano accompagnate dal piffero dell’ebbro Bacco,
    scorpione e serpente e granchi neri,
    sono loro quest’anno sovrani del pianeta.

    Malate e gialle sono forme sanguigne di questa notte di San Silvestro,
    e tutti i colori squallidi e smunti.
    Su, ch’io canti sul cadavere della Vecchia stagione, donna morta:

    «Che cosa ci hai dato, decrepita meretrice?
    Manicomio, caserma, cannoni e imperatore,
    musiche e incendio, funerali e terrore.
    L’Europa si ubriaca sulla mina di questa lugubre notte,
    e Scheletro Grande versa lo spumante nel calice.»
    La luna è sanguigna,
    e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte con coltello piombo e gas,
    e unghie, e calcio del fucile, e pugno,
    la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smrok,
    pure questa è notte di San Silvestro.

    Oltre all’ambientazione che per la situazione di guerra e la collocazione di calendario, potrebbe sembrare una poesia composta oggi (e fa pensare che siano trascorsi più di cento anni dai fatti descritti), trovo che alcuni passaggi, come: Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong/e non ascolto le sirene delle navi ancorate./Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,/ e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione;
    o come:
    Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong/e non ascolto le sirene delle navi ancorate./Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,/e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione, evidenzino mirabilmente lo straniamento che si impossessa dell’intellettuale realmente calato nell’osservazione e nel tentativo di decifrare la realtà di un tempo così desolante come quello dell’epoca cui si riferisce il brano e che richiama in modo impressionante la nostra.
    Il compito della poesia e dell’arte in genere in tale contesto, dovrebbe essere da un lato appunto, lo scrutamento e la denuncia e dall’altro l’approfondimento e la ricerca dei “moti profondi”, delle connessioni sotterranee che sottendono la crosta di superficie, per comprendere a fondo le logiche ontologiche, destrutturandole e proponendo un nuovo possibile paradigma.
    È precisamente questo lo spazio in cui si situa l’opera della Noe, che nella sua formulazione attuale della Poetry kitchen, ha probabilmente trovato la sua cifra espressiva – per quanto in un percorso ovviamente in continuo divenire, come qualsiasi operazione vera di ricerca intellettuale – come appare evidente dall’evoluzione degli scritti del nostro collettivo, un esempio dei quali, in quest’articolo, mi sembrano questi versi di Giorgio Linguaglossa:

    Il cuoco di Agamennone ha preso il posto del Re
    Briseide tiene al laccio Achille
    Prigozhin inaugura la nuova area fitness
    Ci sono Briseide che amoreggia con Rocco Siffredi, le Signore Elena, Aspasia, Neera, Frine, Taide, Pitionice e il Sig. Piantedosi
    Tutti litigano con Diomede.

    Colgo l’occasione per ringraziare tutti voi, cari amici, per il percorso di questo 2022 insieme – anno che tra l’altro è stato per noi particolarmente fruttuoso – e per augurare a tutti ed augurarci come Noe, uno splendido 2023.

  10. raffaele ciccarone

    Un inedito di fine anno per lettori appassionati.

    Le Caravelle

    Dalle tre Caravelle nessun segnale
    la Borsa è volatile sperimenta voli pindarici
    in picchiata, Icaro perde le penne

    Dal nulla nessun messaggio
    neppure da altri, tace Heidegger
    sulla Metafisica, forse un buco nero!

    Il libraio con la poesia ha chiuso, dice che non ha mercato
    la gallina, però, è bella potrebbe partorire l’anno nuovo
    se proprio ci tieni, accomodati!

    By r.c.
    Buon Anno

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