Da Mario Lunetta (1934-2017), Poesia di Satana, con video di Gianni Godi, a Davide Galipò passando per la Poetry kitchen, poesie di Giorgio Linguaglossa, Esercizio per violino e tamburo, Mitoglifici, Lettura del romanzo di Céline Menghi, Dire Mu (2019), È plausibile ipotizzare una nuova avanguardia oggi dopo la fine del post-moderno?

Giorgio Linguaglossa

Davide Galipò e Charlie Nan sono sulla strada giusta, il loro tentativo è beneaugurante e va salutato con favore… ma il problema della stagnazione della poesia italiana di questi ultimi decenni non può essere risolto facendo riferimento esclusivamente al lavoro del Gruppo 93, quello era un movimento tutto interno alla nicchia del «letterario» e del «poetico» e, inoltre, non possedeva un solido ancoraggio filosofico, non andava al di là del «letterario» e delle forme del letterario, di qui la sua presa insufficiente sullo stesso «poetico» e sul «letterario», i problemi di fondo della poiesis rimanevano esclusi dal loro raggio di pensiero. Il mio invito è andare oltre, procedere in avanti con la riflessione critica, affrontare le questioni che stanno alla base del fare poiesis oggi.

Tempo fa chiedevo :

– Dopo la distruzione delle forme avvenuta nel novecento, siamo arrivati alla distruzione dell’orizzonte di attesa. È stato qualcosa che ha colpito al cuore la poesia del soggetto panopticon, dell’io plenipontenziario. L’io è stato de-fondamentalizzato, il soggetto legiferante è stato de-localizzato e l’ontologia negativa di Heidegger è stata sostituita con una ontologia positiva.

– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poiesis dinanzi a questi eventi epocali?

Risposta (indiretta) di Maurizio Ferraris:

«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».

(Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 113)

Esercizio con violino e tamburo

K. sbatte la porta. Resto là, sulla soglia, per qualche minuto.
Impalato. Poi mi scossi e guardai la porta aperta. [1]

Madame Hanska aprì tutte le finestre, «Sa, le finestre sono nere», disse.
E fece entrare le madamigelle con il grembiulino.

«Buonasera Cogito – esordì Hanska – le cose sono cambiate
negli ultimi tempi». Prese una forbice e un posacenere

e li posò sulla siepe di capelvenere e di acanti.

«Sa, c’è una tigre e un pianoforte… Ecco, metto la forbice
sul pianoforte, adesso Vivaldi può suonare.

Woland ha ordinato ai gatti di suonare, il Requiem, quello, sì.
Solo quello. La musica uccide gli uccelli», aggiunse.

«Lo specchio avrà la sua vendetta», disse Baudrillard,
«Non resta che reinventare il reale», aggiunse tra il serio e il faceto.

Era seduta in mezzo alla camera. La tigre sorrideva.
«Per oggi basta con la musica – disse – dovrebbe esercitarsi più spesso.

Impari a suonare piuttosto. La rappresentazione è finita.»

(2018)

23 novembre 2022 alle 10:37 

È plausibile ipotizzare una nuova avanguardia oggi dopo la fine del post-moderno?

Mettiamo il problema nei giusti termini marxiani e chiediamoci:

Il soggetto scabroso (the ticklish subject) di Zizek è l’altra faccia della medaglia dell’oggetto scabroso (the tickish object)? Sì, o no?

Il rapporto soggetto oggetto è un rapporto dialettico e conflittuale, l’alterità dei due Fattori implica una loro riconoscibilità che è sempre data all’interno di un contesto, ovvero, di una serie di rapporti di produzione e di forze di produzione. È l’equilibrio tra queste forze contrastanti ciò che produce il soggetto e ciò che determina l’oggetto. (L’io che acquista una Fiat Punto è esattamente ciò che la merce Fiat Punto riconosce in me come acquirente. È il Capitale che sovraintende all’intero processo).

Sia il soggetto che l’oggetto sono entrambi scabrosi, osceni, inemendabili, indomandabili. La vera domanda che occorrerebbe porre al soggetto è: Che cosa sono io che compro la Fiat Punto?, o meglio, Che cosa sono diventato io per prediligere l’acquisto della Fiat Punto?

Non diversa è la posizione di un «poeta» che voglia porsi nel mercato pubblico. Il mercato pubblico riconosce in me esattamente ciò che io sono: un venditore di merci. Questo è quanto. Se «io» come «autore di poesia» mi metto sul mercato delle merci poetiche, sarò riconosciuto dal mercato delle merci poetiche esattamente così come io mi sono messo in vendita. Che poi la mia personale predilezione sia verso una nuova avanguardia e verso una nuova retro guardia non fa alcuna differenza. Il nuovo Capitalismo cognitivo queste cose le ha digerite da alcuni decenni, sa che l’io come soggetto, che l’attività del soggetto è quella di sottomettersi alle condizioni poste dal mercato delle idee e dal mercato delle merci, altra via di fuga non c’è, se non nella fantasia.

E allora, chiederà il lettore, quale deve essere la posizione del soggetto nelle attuali condizioni? –

Semplice, rispondo: la posizione del soggetto scabroso sarà quella di tentare di sottrarsi alle condizioni produttive che relegano il soggetto nella soggettità e l’oggetto nella oggettità, cioè porsi Fuori del meccanismo identitario e di riconoscibilità del Capitale all’interno delle quali prospera il processo produttivo e la stessa soggettività.

Davide Galipò
24 novembre 2022 alle 15:44

Caro Giorgio, mi permetto di integrare il tuo discorso con alcune riflessioni. Pasolini scriveva che l’arte è “la merce che non può essere consumata”. A tal proposito, la Neoavanguardia ha riportato, con il Gruppo 63 e l’esperienza del Mulino di Bazzano, l’oggetto-libro e nella fattispecie il libro di poesia alla sua condizione materiale di oggetto, appunto, per decostruirlo attraverso le opere dei poeti neoavanguardisti, che attraverso il collage, la performance e il segno tentavano di fuggire dalla forma-libro. La loro poesia è rimasta comunque merce, così come il loro tentativo di decostruire la narrativa degli anni ’60, ma per lo meno il loro si registra come tentativo in tal senso (leggasi a tal proposito Adriano Spatola, “Verso la poesia totale”, 1978).

Dopodiché ci sono stati gli anni del riflusso, gli anni di Piombo hanno lasciato posto agli anni della Milano da bere, nel 1989 il muro di Berlino crolla e con esso le ideologie, il neoliberismo sembra aver vinto la sua battaglia egemonica sul resto del mondo. Il Gruppo 93 e i suoi seguaci non possono, per forza di cose, contrapporsi con la loro poesia al mercato: poiché solo il mercato esiste, pena la dissoluzione totale o peggio, l’insensatezza del loro agire poetico (rimando all’articolo “Contro il presenzialismo” su Neutopia).

Con la fine del postmodernismo e l’apertura della nostra epoca pre-moderna, che io faccio coincidere con l’11 settembre 2001, anno dell’attentato a Ground Zero, ma a detta di Roberto Bolaño e degli infrarealisti potrebbe risalire benissimo all’11 settembre 1973, anno del golpe americano in Cile e della destituzione di Salvador Allende, con l’instaurazione della dittatura militare di Augusto Pinochet, si potrebbe dire che oggi l’avanguardia abbia assunto una nuova urgenza e una nuova spinta propulsiva.

Ma è un’avanguardia differente dalle avanguardie passate, che parte dalle pratiche e non dai manifesti. Una poesia che voglia essere rivoluzionaria oggi dovrebbe innanzitutto occuparsi di rivoluzionare le forme, poiché ci sono molti modi per scrivere una poesia reazionaria: la prima è nei contenuti, la seconda è nella forma.

Cinque anni fa, con NEUTOPIA e con il gruppo d’azione poetica SALINIKA abbiamo provato a dare alcune risposte in questa direzione, partendo dalle avanguardie storiche (futurismo, dadaismo, costruttivismo russo) per capire quale fosse il senso di una nuova avanguardia nella contemporaneità. Alcuni di noi l’hanno vissuta in chiave più situazionista, altri oggi sono partiti dall’ipertesto e dalla realtà virtuale. per comprendere quale possa essere il terreno sul quale le nostre poesie possano diventare totali, dunque entrare interamente nella realtà per proporre un campo differente da quello del mercato editoriale.

Il Liminalismo, i Mitilanti e la Poetry Kitchen secondo me sono esempi che si stanno muovendo in tal senso. A tal proposito, vi lascio il mockumentary sulla nostra attività poetica, girato a Torino nel 2017. Spero ci sarà presto occasione di approfondire il discorso.

Céline Menghi, Dire Mu, Genesi Editrice, 2019 pp. 168 € 18.00

In questa narrazione «anti-edipica» come l’avrebbero definita Deleuze e Guattari, ovvero priva di un limite, un confine, il racconto si presenta come un intreccio virtualmente alimentabile all’infinito, come una catena di eventi nella quale è sempre possibile aggiungere nuovi anelli. La simmetria viene rispettata fin troppo correttamente come il desiderio straborda dagli argini in seguito alla forclusione del Nome-del-Padre e di Thanatos riducendosi a sola jouissance, così fa la trama, priva, a causa della conquista della parola, di una funzione-autore assumendo i connotati tipici dello storytelling, ovvero, puro intreccio senza conclusione. Si impone così una nuova concezione della trama: essa, proprio come la Legge della Castrazione Simbolica non viene più intesa condizione strutturale del desiderio, non chiede più di essere considerata come un elemento determinato dalla fine» che Calabrese, parodiando il titolo del celebre lavoro di Kermode, parla di un sense of a nonending che dilaga nel romanzo postmodernista: nessun epilogo, nessun archetipo “clausulare” hanno sorretto nel postmodernismo il sogno infranto di un Fine che coincidesse con una Fine. Senza una conclusione, e quindi senza una finalità e un momento di determinazione del senso delle vicende, il racconto deve ricercare la propria ragione ermeneutica in altri elementi. A partire ciò, una ermeneutica testuale dovrebbe a questo punto ipotizzare l’esistenza di un nuovo tipo di narrazione conseguente alla condizione postmoderna. Se è vero, come dice Karl Marx, che «Alles was fest ist, schmilzt in der Luft» (Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria),1 è lecito definire questa narrazione “evaporata” in quanto volatile, diffusa ovunque nello spazio, priva di una forma specifica, poiché mancante di una figura che la articoli come faceva l’autore, e difficile da osservare da vicino; oltretutto, con tale dizione si riprenderebbe la formula «Evaporazione del Padre» cara a Lacan.
Eliminato il Padre, eliminato l’autore, privati entrambi della parola, anche la Legge e il Finale sono scomparsi; e la jouissance e l’intreccio hanno iniziato a proliferare in modo incontrollabile. Per quanto concerne la dimensione narrativa, occorre perciò tracciare una teoria plausibile di questa inedita modalità del récit, una mappatura dei caratteri che la narrazione letteraria ha ereditato dall’avvento dello storytelling. Il primo tratto da attribuire alla narrazione «evaporata» è un’ossessiva attenzione alla forma anche a discapito del contenuto, infatti, nel racconto postmoderno il senso è estroiettato nella logica combinatoria della forma narrativa, il senso del racconto non dipende più dalla trama in sé, dalla successione degli eventi, in quanto è la mancanza stessa del finale che agisce retroattivamente inficiandone il plot, la trama narrativa.

«La trama- scrive l’autrice nel risvolto di copertina -, per chi volesse la trama, o il senso per chi volesse il senso, non solo non è lineare la prima e non è necessario il secondo, ma chi leggerà incontrerà deviazioni, smarrimenti, cose che non si direbbero, cose che non si sanno bene, certamente cose che io non so bene. L’ordito c’è e nasce tra le stoffe in un armadio. Spero, quello sì, che si intravveda. È fatto di resti, di pezzi staccati, di trame, di fili, molti dei quali senza nodo, altri già ripresi in un’altra scrittura. Insomma, alla fine, si tratta di una storia, forse un po’ “scombiccherata”. Volevo che assomigliasse alla tela del sogno, voce silenziosa dell’inconscio che non ha né tempo né contraddizione e si manifesta in quella maniera tanto insensata da sorprenderci. A volte, l’ordine è davvero alla corda, liso come si dice, e, proprio per questo, pronto al rattoppo, al ricamo, ancora un lavoro di ago e di filo…»

Una avvertenza utile si trova nel retro di copertina: «Mu» si riferisce a μ, dodicesima lettera dell’alfabeto greco – detta abitualmente mi – lettera muta e silenziosa, come la h in spagnolo. Dire la lettera muta che accompagna certe parole è una porta invitante e impegnativa. Il titolo “Dire Mu” è un ossimoro: dire l’impronunciabile e il silenzio, enunciare l’assenza. Scommessa decisa, rispettosa e audace fronte al silenzio: da un lato, perché evoca certi silenziamenti che non fanno bene, dall’altro, perché bisogna saper tacere fronte a certe cose, a condizione di non restare muti; e, finalmente, Céline arriva a intrecciare e annodare il silenzio dell’assenza strutturale del femminile con il suo stile.

“Sta lasciando Parigi. È aprile, aprile è il più crudele dei mesi, ma a lei quel dicembre sembra il più crudele e il più strano dei mesi. Dicembre, di solito, non è il più crudele dei mesi. Dicembre non genera lillà dalla morta terra, non mescola ricordo e desiderio, non stimola le sopite radici con la pioggia primaverile. No, eppure quella volta dicembre aveva fatto morire e resuscitare la nonna. Prima aveva solidificato in un sol corpo la vita e la morte, poi le aveva separate, e poi di nuovo ciascuna era tornata al suo posto e al suo tempo. Ma adesso è davvero aprile, e così aprile è davvero il più crudele dei mesi. La telefonata… Lei su un altro binario… La sacca di pietra del silenzio… Dal peso cattivo un giorno anch’io il Bello creeerò… Guarderò anch’io come il poeta? Guarderò anch’io attraverso il peso del silenzio? Tirerò fuori anch’io parole come ali da una catte4drale di silenzio? da tanto non aveva pensato a Vera, era sorpresa. perché?” 2

1 Karl Marx, Friedrich Engels, Manifest der Kommunistischen Partei [1848], Severus, Berlino, 2017, trad it. Manifesto del Partito comunista, p. 18.
2 Dire Mu, p. 43

Giorgio Linguaglossa

Mitoglifici di oggi

Circe lavora all’uncinetto sta preparando una t-shirt per Odisseo
Ad Itaca c’è inflazione e carestia perché i proci hanno chiuso i rubinetti del Nord-Stream 1
Penelope vive nel freddo e nelle ristrettezze ma a Tebe Agamennone non se la passa meglio

*

Telegono chiama al telefono suo fratello Telemaco
Odisseo s’è preso il Covid ed è entrato in terapia intensiva
Il pappagallo Gazprom gorgheggia “Bella ciao”
Il nano Fasullo reclama il salario minimo in applicazione di una direttiva europea di Ursula von der Leyen
L’appendiabiti del critico Linguaglossa litiga con la giacca catarifrangente del Mago Woland.
Bulgakov soffre di alopecia
Il succo di albicocca in bottiglia sale sul Bus 23 alla fermata della Piramide Cestia e si dirige al Circo Massimo dove ci trova il generale Massimo Decimo Meridio nelle vesti di gladiatore
Il romanzo “Il maestro e Margherita” di Bulgakov litiga con “la coscienza di Zeno” di Italo Svevo

*

Circe ha avviato la procedura del crowfunding
Calipso nel mare egizio chiama allo smartphone Odisseo
Il cane ha sei zampe
Il cavaliere ha dimenticato gli occhiali in frigorifero
Olimpia si aggiusta la parrucca per andare al supermercato
Ad Itaca il PD ha lanciato un rave party
Penelope si è unita al Terzo Polo di Renzi e Calenda per un sit-in p.za Montecitorio
In Italy il Poligrafico dello Stato ha fatto un francobollo con l’effigie di Putin
Official said

*

Penelope assume via orale dieci pastiglie di Bentelan contro l’artrite reumatoide e il mal di Ulisse mentre il manigoldo se la spassa negli ozi di Ogigia con le ninfe e la formosa Kim Kardashian
Le pale eoliche hanno preso l’influencer
Trasimene capo dei Lestrigoni ha sconfitto i Lotofagi ad Abukir
Nausicaa se la spassa con il pesce Lavrov

*

Prescrizioni della ancella Melanto a Penelope:

Leggere attentamente il foglio illustrativo prima di sera e la mattina
Se avete qualche dubbio rivolgersi al medico o al farmacista
Non dare il medicinale ad altre persone anche se i sintomi sono simili
Conservare il prodotto in frigo
Potrebbe manifestarsi qualche effetto indesiderato
Non assumere il Bentelan con il Viagra
Combatte la trombocitonemia
È allergico al betametasone
È allergico al termosifone

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18 risposte a “Da Mario Lunetta (1934-2017), Poesia di Satana, con video di Gianni Godi, a Davide Galipò passando per la Poetry kitchen, poesie di Giorgio Linguaglossa, Esercizio per violino e tamburo, Mitoglifici, Lettura del romanzo di Céline Menghi, Dire Mu (2019), È plausibile ipotizzare una nuova avanguardia oggi dopo la fine del post-moderno?

  1. Marie Laure Colasson
    24 novembre 2022 alle 19:08

    L’intreccio kitchen

    è un intreccio di enunciati segmentato, dissestato, sismicizzato ma al contempo elastico. La nuova fenomenologia del poetico adotta in senso postmodernistico lo storytelling quale cornice multidimensionale e prospettica.
    Le singole unità narrative, le scene, appaiono e scompaiono da una zona franca. Per questa ragione la formalizzazione strutturale, la composizione a polittico o a distico viene in primo piano a scapito della modellizzazione stilistica unidimensionale della poesia della tradizione. Le opere della «narratività diffusa» della nuova fenomenologia del poetico rivestono una nuova e inusitata centralità, l’ingegneria testuale si rivela essere una ingegneria teatrale, il luogo dove il Fantasma e i Fantasmi prendono l’azione; l’intreccio, se v’è, passa in subordine. Non è più essenziale quello che si dice ma il come lo si dice: il racconto viene progettato al fine di prolungare e diramare il più possibile la narrazione in esiti secondari, terziari e quaternari. La forma della narrazione così evaporata deve dare l’impressione di essere priva di confini, priva di margini, e per far ciò adotta particolari strategie compositive. Tra le principali figure della dispositio che lo storytelling postmoderno assume si segnala:
    1) l’impiego di certe coordinate autoriflessive atte a riverberare l’intreccio su sé stesso in complicati giochi di specchi dando l’illusione di una trama virtualmente infinita, come avviene per il nastro di Möbius e la mise en abyme, in una narrazione «narcisistica», «giubilato ria», «fantomatica»;
    2) l’espansività testuale che volatilizza del tutto le estremità del testo dilatandolo con improvvise e non premeditate digressioni dell’intreccio;
    3) un dimidiamento dell’autorialità la quale si disperde a favore ora di figure invisibili e/o collettive – come nel caso degli sceneggiatori delle serie TV – ora dello stesso pubblico che diventa parte autoriale della costruzione della trama estesa – (vedasi le fanfictions e in generale nella dimensione del fandom).

    Il nastro di Möbius:

    In topologia il nastro di Möbius è un esempio di superficie non orientabile, inorientata, non individuata, una superficie “con una sola faccia”. Come si sa, tutte le superfici geometriche possiedono due facce: “superiore” e “inferiore”, “interna” ed “esterna”, per cui è possibile percorrerne idealmente una senza mai raggiungere l’altra, se non attraversando una linea di demarcazione costituita da uno spigolo o “bordo”. Il caso del nastro di Möbius, al contrario, è costituito da un solo lato, ed è quindi possibile percorrerlo all’infinito senza mai staccarsi da esso e ritornando sempre all’esatto punto di partenza. Traslato in termini narratologici, un testo che presenta una topologia strutturale analogo al nastro di Möbius è un testo che nella sua conclusione riporta il lettore all’inizio delle vicende in un ciclo continuo di nascita e morte nel quale l’explicit collassa sull’incipit in una trama virtualmente interminabile.

  2. 19 gennaio 2020 alle 14:29

    La «nuova poesia»

    Oggi, nel nuovo quadro problematico di una nuova poesia e di una nuova filosofia, è chiaro che quando si parla di metafora e di metonimia, di figure retoriche, di tropi, di lessico, di metro, di sotto generi della poesia etc. lo si fa sul presupposto di una certa metafisica. E allora il problema centrale sarà la metafisica e non il linguaggio o i linguaggi (come si diceva una volta), tanto meno è determinante l’intervento sui linguaggi, cosa che può essere svolta amabilmente e con competenza da un ottimo algoritmo, oggi la questione sul tappeto è piuttosto un’altra: che i linguaggi poetici e narrativi sono diventati tutti neutrali e neutralizzati. Come è avvenuto un fatto del genere? Come è potuta accadere una cosa così vistosa senza che ce ne siamo potuti accorgere? Ecco, questo è il problema che dovremmo solvere.
    Oggi è determinante, proprio perché siamo precipitati in una crisi senza via di uscita, in una crisi che alimenta lo status quo delle società post-democratiche, oggi – dicevo – bisogna prestare grandissima attenzione alle categorie (estetiche e non) che impieghiamo. Perché sia chiaro che ogni volta che parliamo e pensiamo impieghiamo, anche se in modo inconsapevole, delle categorie date per presupposte, per ovvie. Quando propriamente le categorie non sono ovvie affatto. Quando impieghiamo la categoria del «discorso poetico», è chiaro che qui entriamo, consapevolmente, in un territorio ulteriore ed estraneo alle categorie continiane «linea innica» e «linea elegiaca» ormai del tutto inidonee a capire la poesia più evoluta di oggidì. Non è un caso che un libro fondamentale come quello pubblicato da Giorgio Agamben nel 1977 si titoli Categorie italiane. Perché bisogna ripartire da lì, dalla formulazione di categorie adeguate per la comprensione dei nuovi tempi.

    Alla durezza dei nostri tempi corrisponde l’impoverimento dell’esercizio critico, mentre si delinea per la filosofia e la poesia il destino di una loro funzione vicaria alle necessità di legittimazione e di rafforzamento dello status quo.

    Il linguaggio è sempre il linguaggio del potere, quello che accompagna il gioco delle tre carte, che imbambola lo spettatore, distogliendolo dal movimento delle mani che si mostra sotto i suoi occhi. Più che con la-o-le verità abbiamo a che fare con menzogne postruiste. Il linguaggio si struttura unicamente come comunicazione mediatica, insieme a una logica che pensa per concepts, secondo il modello pubblicitario del marketing, che è ciò che definisce gli obiettivi del business. Una logica sempre più invasiva e pervasiva, che ingloba sfere sempre più ampie, ma intervenire sul linguaggio non è sufficiente, perché, come avvertiva già Ingeborg Bachman, “la realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qual volta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tratta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto”.

    Unheimlichkeit

    Non c’è soggetto senza oggetto. “On pense avec son objet”, diceva Lacan nel 1964. Ancora una volta non è questione di un oggetto del mercato, uno di quelli che si trovano sulle bancarelle dell’ontologia parrocchiale o allo spaccio della filosofia acritica. Intendo l’oggetto del Dopo il Moderno o del’ipermoderno.

    Coraggio

    Occorre coraggio a fare poesia dopo la fine della filosofia, ovvero dopo la fine – largamente condivisa – di ciò che Heidegger chiama «metafisica», cioè l’identificazione dell’essere con una struttura stabile, oggettivamente riconoscibile e soprattutto fonte di norme e regole di condotta. Da solo il coraggio di congedarsi dalla metafisica e dalle sue rassicurazioni non è sufficiente per produrre nuova arte, ma è anche vero che senza coraggio non avremo mai nuova poesia e nuova arte.

    Vivere all’altezza dei nostri tempi

    Pier Aldo Rovatti un giorno disse questa frase: “Non riusciamo a vivere all’altezza dei nostri tempi”. Oggi potremmo ripeterla tale e quale. In quale epoca i suoi abitanti sono riusciti a vivere all’altezza dei propri tempi? Forse mai. In realtà, viviamo sempre ben al di sotto dell’altezza che i nuovi tempi richiedono.

    Un numero della rivista on line de lombradelleparole.wordpress.com non è un prodotto finito, ma un reagente, il catalizzatore di un processo. Prende pezzi di idee, pezzi di dibattiti in atto, pezzi di pensiero nuovo o dimenticato e li offre, da un suo punto di vista ad altri punti di vista. Sollecita pensieri nuovi, sollecita a riprendere pensieri vecchi, li emulsiona, li scuote, li agita…

    È come se fossimo vittime di una doppia ingiunzione contraddittoria: da un lato la coazione di continuare a utilizzare una parola che significa sempre me-no, dall’altro quello di giustificarsi in continuazione per il fatto di utilizzare una parola, un fraseggio che potrebbe invece, nonostante tutto, significare ancora qualcosa. E allora, qui occorre coraggio, il coraggio di rischiare anche di fare una poesia «brutta»…

    Creare «consenso», la quasi totalità dell’arte e della poesia accademica vuole sedurre il “pubblico”. Così, generalmente in arte, in letteratura, nel cinema, nel sapere accademico: basti pensare a quel mix indiscernibile di realtà e di finzione che è il reality show (téléréalité in francese), termine con il quale sarebbe senza dubbio più corretto designare una condizione diffusa, generalizzata della techne (della cultura) contemporanea,

    Si può uscire dalla lingua?

    Ho sempre trovato questa frase ben nota di Lacan: «non c’è metalinguaggio», contemporaneamente enigmatica e sconvolgente; in essa c’è qualcosa che, è in consonanza con la frase diHölderlin, «siamo un segno senza interpretazione».1

    1 Titolo originale “‘Il n’y a pas de métalangage’ (Lacan et Beckett)”, in L’angoisse de pen-ser, Minuit, Paris 2008, pp. 77-90. Il libro sta per essere pubblicato in italiano con il titolo L’angoscia del pensare. Artaud, Beckett, Blanchot, Derrida, Foucault, Levinas, Lacan, trad. diAnna Chiara Peduzzi, premessa di Dario Giugliano, postfazione di Flavio Ermini, Moret-ti&Vitali Editore, Bergamo, nella collana “Narrazioni della conoscenza” diretta da Flavio Ermini.

    Scrive Roland Barthes:

    postulare che esista «uno stato neutro del linguaggio” è un’illusione, un’«immagine teologica imposta dalla scienza». Occorre oltrepassare, sottolinea Barthes, l’opposizione dei linguaggi-oggetto e dei loro metalinguaggi, opposizione che alla fine resta sottomessa al “modello paterno di una scienza senza linguaggio”.
    L’impossibilità del metalinguaggio – del discorso di un linguaggio che esce da sé per parlare su di sé – è assoluta, ha ripetuto spesso Derrida: si è sempre presi nei nodi che si tessono; o ancora secondo la famosa formula: non c’è fuori testo.
    Roland Barthes nella sua lezione inaugurale al Collège de France diceva: «Il linguaggio umano è senza lato esterno: esso è una porta sbarrata».3

    2. R. Barthes, Dalla scienza alla letteratura (1967), in Il brusio della lingua. Saggi critici IV (1984), a cura di B. Bellotto, Einaudi, Torino 1988, pp. 10-11
    3 R. Barthes, Lezione (1977), in Sade, Fourier, Loyola seguito da Lezione, a cura di L. Lonzi e R. Guidieri, Einaudi, Torino 2001, p. 179

    C’è coscienza

    C’è coscienza quando un certo automatismo, che le forme di vita inferiori a quella umana incarnano, si interrompe, differisce il suo compimento. È qui che si realizza quel modo peculiare dell’umano che è il dilazionare la realizzazione. C’è coscienza solo quando c’è tempo. C’è coscienza quando la realizzazione dell’impulso è rinviata. Che cosa fa il padre freudiano, nella ricostruzione freudiana dell’Edipo? Impedisce al bambino di soddisfare immediatamente il suo desiderio, cioè impedisce al bambino di realizzare subito il suo godimento. Lo stesso fa il significante lacaniano, nella ricostruzione lacaniana dell’Edipo. Il significante, «lo scettro fallico» come Lacan lo chiama, si interpone tra il soggetto e la Cosa fabbricando il soggetto come soggetto che è a distanza dalla Cosa, la Cosa come passato perduto nel momento stesso in cui si dà il soggetto, e l’oggetto come futuro sempre incipiente. Il significante è il dispositivo stesso dell’esitazione. Con l’ingresso del significante sorge il significato, sorge il linguaggio. E l’esitazione fabbricando il tempo fabbrica la coscienza e l’inconscio nella loro struttura circolare, che è la struttura di una messa in forma fabbrile dell’umano.
    La grammatica soggetto-predicato e la dialettica della domanda-risposta sono il segreto delle società della sovranità e delle teologie politiche della decisione, cioè di quelle piramidi di uomini incentrate sull’esercizio del potere.

  3. milaure colasson

    I video di Gianni Godi sono in sé delle opere d’arte, che poi i testi dei due poeti videati siano meravigliosi, è fuori di dubbio. Di Mario Lunetta ho già detto altre volte, della sua generosità, del suo humour e della radicalità del suo pensiero, per questi motivi è sempre stato un poeta scomodo, molto avversato dalle alte sfere. Grande poeta Mario come nessuno in Italia dopo Pasolini e Fortini. Ma la lezione di Pasolini e di Fortini è tutta da reinventare oggi, Peccato, se vivesse ancora Mario Lunetta ne avremmo lette delle belle! con Linguaglossa avrebbero fatto una coppia terribile e temibile…

  4. antonio sagredo

    Tra le varie singolarità della poesia KITCHEN spicca la CITAZIONE, continua, incessante da non lasciar respiro nemmeno alle metafore, alle metonimie e persino alla sinedoche, e ancora infine alle catastrofi prima ancora che alla strofa (BENN)…
    ma non è finita: vi sono presenti musiche e rumori domestici ad ogni verso, a armonie e disarmonie e al caos degli specchi e delle derive luoghi imbarazzanti e bordelli linguistici… da pensare a Joyce perdio! ….

    E allora non conosce tranquillità, requie, pausa questa poesia KITCHEN che vuole travolgere per cambiare lo stato della poesia e la poesia di tutti gli stati possibili…

    Menzogna e verità si mescolano per far fruttificare versi di cui si fa fatica a conoscere le origini, tanto che questi stessi versi li puoi benissimo legare a tutte le avanguardie del ‘900 e i distinguo sono aboliti e messi sotto accusa… insomma ho seri dubbi che possa esserci stato un postmoderno come ho seri dubbi che non possa non esserci la possibilità di una qualsiasi avanguardia.

    Tutto è possibile ed è possibile il tutto.
    Ed essere profeti non ha più importanza se siamo già oltre ogni fine tant’è che ogni rigore o un mettersi di traverso (come fece Lunetta, ma vi sono esempi più lucidi, forse un Pasolini che aveva il proprio limite nell’asservirsi a una ideologia presunta e conclamata).

    E’ passato il tempo di sperare in una verità e in una libertà: non esistono più…
    ma dalla loro non esistenza o morte dobbiamo comunque ripartire, e si riparte dalla POESIA, sia essa KITCHEN o altra forma o genere – o cenere?
    Ma come ripartire, di dove e quando?

  5. il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore, volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia – può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.

    (Vincenzo Vitiello)

    Per una topologia della poiesis

    Pasolini nel 1975 in una intervista pochi mesi prima del suo assassinio, scriveva:

    «Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come».1

    I rospi hanno preso il posto dei corvi.

    Siamo giunti alla completa de-politicizzazione del politico e del privato, le pratiche artistiche si sono ridotte ad apparato decorativo e di intrattenimento, molto diverse da quelle delle occupazioni serie, quelle rette dal plusvalore e dalla valorizzazione del capitale. I conflitti politici si sono de-politicizzati, così come i conflitti estetici; il valore trasformativo del conflitto si è mutato in contro-valore, in conflitto controllato, autoregolamentato. Ad una poiesis critica oggi non resta che porsi nel turning point dei conflitti, diventare protagonista dei conflitti estetici implica accettare il rischio dei conflitti come possibilità celibi.

    C’è oggi una nuova modalità poietica, è possibile aprire un campo di possibilità celibi?, è possibile una adozione dei conflitti nell’ambito della poiesis con tutti i suoi corollari: il rifiuto, il diniego, la sottrazione, la provocazione, il gesto, l’interruzione quali atti spendibili e possibilizzazione di alternative? Il conflitto per la trasformazione coincide con la trasformazione del conflitto, il campo dove si determina la possibilità di un progetto per una nuova poiesis; nell’asserzione pratica delle differenze si apre la possibilità di una mise en acte di una via di uscita dalla normografia autoregolata. Una nuova sfera pubblica nell’ambito della forma-poesia passa necessariamente attraverso una nuova pratica delle differenze e delle possibilità celibi, cioè senza la utenza dell’io plenipotenziario e legiferante. La nuova prassi può essere soltanto celibe, non-trasformativa, non-rituale, cioè rivoluzionaria. L’unica alternativa è il cambio di paradigma. Forse Karl Marx non è ancora del tutto morto.

    Resta il problema di prendere il testimone là dove lo avevano lasciato Fortini e Pasolini; quest’ultimo prima di morire, indicava la via di una poesia rivoluzionata: pluristilistica e plurilinguistica, in un certo senso rilanciando e correggendo l’idea sanguinetiana per un neosperimentalismo pluriprospettico e critico, una poesia labirintica ed ermafrodita, pluristilisticamente composita e plurilingue, una poesia da palus putredinis liberata dai liquami intersoggettivi del poetismo conventuale della tradizione lirica e antilirica novecentesca.

    La storia letteraria salta le generazioni. Dagli anni settanta al 2019, data di esordio della nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen ha operato per riannodare il filo che si era spezzato per ragioni storiche e di conflitto tra le poetiche normative e autopubblicitarie che si sono avvicendate negli ultimi cinque decenni secondo una visione dei rapporti di forza tra le istituzioni stilistiche: c’è stato in questi anni chi ha operato attraverso l’adozione di composizioni in stile palus putredinis con il superpiù della rivoluzione internettiana e della compiuta transvalutazione dei valori antropici della società italiana avviata ed avvitata in una crisi di stagnazione e di pauperizzazione sistemica, ma si trattava di una via permanentemente sbarrata la cui impasse era ben visibile a monte, in quella pratica di un riformismo neosperimentale che coniugasse il registro «basso» con quello «alto» della tradizione poetica. E invece una crisi sistemica si è abbattuta su una società signorile di massa, quella italiana che non consente più alternative possibilistiche che si muovono nell’orbita di un riformismo moderato, di una opzione tra registri e lessici distanti in vista di una loro coabitazione riformistica e autonormata.

  6. su suggerimento di Giuseppe Gallo

    (GR – Gianluca Rizzo + LM – Lorenzo Mari)
    da leparoleelecose

    A voler parlare di “noi” con una voce sola si peccherebbe di logica, oltre che di coerenza. Un “noi” che voglia mostrarsi credibile deve parlare con più di un accento, presentare più di un solo punto di vista. Se ne pagherà il prezzo in termini di chiarezza, forse. Si dirà che lo sguardo critico ne risulterà sfocato, strabico perfino. Ma il guadagno in complessità di composizione e in ricchezza di sfumature giustificherà l’operazione, ne siamo sicuri.

    Più che la formazione di “gruppi” (ormai consegnata, forse definitivamente, al passato prossimo) o alla pubblicazione di “mappe” e “antologie” (pratica che interessa ancora il presente), le questioni legate al “noi” in poesia – nelle sue possibile accezioni di “comunità”, “collettività”, “pubblico”, “sistema letterario”, etc. – possono essere più accuratamente esplorate dalla forma-questionario, in quanto forma plurale dell’indagine sulla poesia e con la poesia – forma che, negli ultimi tempi, ha assunto sempre più chiaramente la fisionomia di una domanda radicale, e radicalmente connessa al “noi”, sulla presa di parola[1].

    Riproponendo in questa sede un questionario, si intende dunque sfruttare il potenziale euristico di questa forma, ben sapendo che ciò non è garanzia, di per sé, di particolari esiti. Nello specifico, ciò che appare inevitabilmente disarticolato (e potrebbe benissimo esserlo anche in questa occasione, con un piglio però più programmatico) è la forma delle risposte, spesso divergenti a tal punto da risultare idiosincratiche, tanto incomunicanti tra loro quanto lo è il panorama descritto: questo, non tanto per una forma di narcisismo intrinseca alla posizione autoriale, nel campo della poesia o delle scritture di ricerca contemporanee (posizione che sarebbe inutilmente moralistico, nonché presuntuoso, da parte nostra, tornare a sottolineare), quanto per alcune zone oscure della forma-questionario in rapporto alle tematiche che informano e sollecitano questo tipo di interventi. Oscurità che questo intervento non si propone, in prima battuta, di combattere e illuminare, ma di moltiplicare, e riposizionare dialetticamente[2].

    Vogliamo porre, dunque, un dialogo a più voci all’origine di questo nostro discorso sul “noi”, pronome e strategia retorica che bisognerà definire collettivamente, in comunità, senza puntare al consenso, ma piuttosto all’avanzamento della conversazione: perché ci si incontri in uno spazio condiviso nello sforzo di vedere il mondo dal punto di vista dell’altro (compagni* di strada, sodale o avversari* che sia), almeno per un momento.

    Da qui la struttura insolita di questo invito al dibattito, presentato come un dialogo a due voci (Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo), ciascuna con stili e punti di vista che, se sono diversi, non per questo sono incompatibili. L’obiettivo non è la riduzione a un denominatore comune ma piuttosto la ricostituzione di un “noi”, punto di partenza imprescindibile per qualunque (eventuale) programma poetico e/o politico (ma per la problematicità di questo nesso, vedi sotto) si intenda portare avanti.

    Assiomi e prolegomeni (GR)

    1) La politica fa la politica, la poesia fa la poesia. Cercare di fare in poesia (con gli strumenti della poesia) il lavoro della politica è il modo più sicuro per mortificare sia la politica sia la poesia. Questo non vuol dire che la poesia sia estranea alla politica. Tutt’altro! Ma se si tratta di organizzare e mobilitare l’elettorato, o le collettività, regolare l’accesso al potere e alle istituzioni, la poesia non è lo strumento adatto.

    2) L’identificazione del discorso poetico tout court con la lirica ha danneggiato la poesia e limitato il suo margine operativo all’interno della società, imponendole una doppia condanna: da un lato prodotto culturale elitario, difficile, opaco; dall’altro, provincia esclusiva per anime belle. È un fatto che si apprezza ancora meglio al confronto con altri generi e media artistici che si sono mostrati più efficaci nell’allestire occasioni per l’emergenza del Reale (usando un lacanismo, ma nel senso politico indicato da Fisher, si veda più sotto), e dunque permetterne l’osservazione e lo studio. L’identificazione della poesia con la lirica è essa stessa un sintomo, una figura di quel Reale soppresso dal Capitale, fatto di atomizzazione, isolamento, alienazione, fallimento delle strutture sociali intese ad organizzare i cittadini nell’interesse del bene pubblico. Generi come l’invettiva, la satira, l’epica sono stati trascurati o estromessi all’ingrosso dal discorso poetico. Così sono andate perse preziose occasioni per la riflessione in comunità, per il confronto, in altre parole per la manutenzione di un “noi politico”.

    3) Porre la questione nei termini di “creazione di un ‘noi’ in poesia” invece che come questione del “pubblico di poesia” fa una differenza enorme. Pubblico implica una dimensione passiva, di ricezione. La distinzione fra produttori e consumatori di cultura è ormai obsoleta. Lo era già in seguito alla rivoluzione estetica operata dalle avanguardie all’inizio del Novecento (anche se possiamo farla risalire all’altezza della cesura “oggettiva” tracciata da Rimbaud); lo era già in seguito al lavoro svolto dalla seconda e terza ondata di avanguardia in Italia (si pensi al ruolo svolto da un modello stocastico di composizione dei testi, di derivazione dadaista, poi ravvivato nella seconda metà del Novecento); obsoleta anche alla luce della “rivoluzione digitale” il cui araldo, Mosaic, primo browser moderno, nel 1993 ci ha aperto le porte del world wide web; è a maggior ragione obsoleta oggi, nell’era dei social media, quando siamo tutti scrittori (chi più, chi meno). Occorre programmare una poesia che sappia sfruttare questa nuova realtà a suo vantaggio (invece di lamentarsene in modo nostalgico, o comunque sterile).

    4) L’individuazione di un soggetto politico nuovo (o la restaurazione di uno vecchio, per quanto improbabile), di un “noi politico”, se vogliamo, non è compito che può essere portato a termine da una singola istituzione. Questa entità ipotetica (perno di tutti i discorsi che riguardano la res publica) può emergere solo come risultato di una convergenza di forze, istituzioni, strategie messe in atto da una varietà di gruppi che agiscono di concerto.

    5) Domanda: Che ruolo può e deve assumere la poesia in questo processo?

    6) Si comincerà dall’ovvio: questo non è un problema per l’individuo, da affidare alla singola dichiarazione di poetica, passibile di risoluzione attraverso una data postura stilistica. È un problema per la comunità di coloro che scrivono e leggono poesia. E allora eccoci qui, a proporre una conversazione, uno scambio, usando due degli strumenti che, tradizionalmente, abbiamo a disposizione: il saggio e il questionario.

    7) Domande: Perché abbiamo tanta difficoltà ad articolare un “noi” in poesia? Perché facciamo tanta fatica a scrivere e leggere “noi”? Cosa vogliamo dire quando diciamo noi? Noi chi? Noi italiani? Noi borghesi? Noi lavoratori interinali? Noi meridionali? Noi emigrati? Noi immigrati? Noi maschi? Noi donne? Noi genderfluid? Noi abili? Noi animali umani? E al di là di etichette più o meno rigide, più o meno identitarie, noi che scriviamo poesia? Noi che leggiamo? Noi che eleggiamo? Noi chi? Come si può sfuggire al sospetto che leggendo e scrivendo “noi” in versi ci si stia arrogando un plurale che non ci si è guadagnati? Come fare a esorcizzare la sensazione che dicendo “noi” si indichi un vuoto, una mancanza, che nella migliore delle ipotesi rimanda a un’aspirazione a costituirsi come comunità di sodali; al peggio, invece, nasconde stereotipi e preconcetti che vengono da un’idea di identità collettiva basata sull’esclusione, obsoleta, inattuale, regressiva, quando non apertamente reazionaria (o razzista)?

    E anche quando si saranno individuate risposte soddisfacenti a tutte queste domande, come si farà a tradurre quel “noi”, così costituito e chiarito, in termini stilistici, retorici, poetici? Si vede bene che non è questione da poco.

    Una questione di pronomi? (LM)

    Come ricordato in una conversazione tra Antonio Loreto e Massimiliano Manganelli che dava inizio ai lavori (anche in questo caso plurali, come ogni forma-questionario) del secondo convegno ex.it di Albinea (2014), già Valéry scriveva nei Cahiers che «ci sono due persone in Io», je e moi, dato che «noi riceviamo il nostro Io conoscibile e riconoscibile dalla bocca altrui». In altre parole, prese a prestito da Jean-Christophe Bailly, “io” e “non-io” sono presi in una relazione costitutiva che è certamente ideologica – da questo punto, anche da questo punto, prendono forma le ormai note discussioni su “identità” e “alterità” che alimentano le politiche identitarie contemporanee – ma non è ideologia in modo né precipuo né esclusivo (né necessariamente degradante, per chi voglia concedere una certa polisemia al termine “ideologia”).

    Del resto, la jonction tra “io” e “non-io” citata da Bailly era già stata rilevata da Benveniste come uno dei Problemi di linguistica generale (1966) nell’ambito della discussione del “noi”. Tale pronome apre un varco nella prima persona, poiché, sempre tornando a Benveniste, in nessuna lingua a lui nota, all’epoca, il “noi” poteva risultare formato dalla pluralizzazione dell’“io”, ma dalla relazione molteplice “io + tu”, “io + voi” e “io + loro” (o anche: “io/me + non-io/tu”, “io/me + non-io/voi” e/o “io/me + non-io/loro”). Molteplicità che tuttavia finisce in molte lingue per essere designata, in modo paradossalmente univoco, dal solo “noi”, spesso richiudendo, o almeno cercando di richiudere, il varco che si era aperto.

    Da un punto di vista strettamente linguistico, dunque, non vi è una sola “prima persona” – né singolare, né plurale – cui si possa fare riferimento, bensì un continuo gioco, in prima battuta deittico, di natura relazionale e differenziale. Il gioco può restare aperto, oppure tentare di darsi una conclusione (e una chiusura), ad esempio nella costituzione delle “comunità poetiche”, comunemente designate con le etichette finora individuate dalle più diverse tradizioni critiche: dalla lirica alla post-lirica, dall’oggettivismo al neo-oggettivismo, dal concettualismo al post-concettualismo, etc.

    Tutte queste comunità risultano basate sul paradosso di una relazione molteplice (“io/me + non-io/tu”, “io/me + non-io/voi” e/o “io/me + non-io/loro”), che si potrebbe al tempo stesso descrivere in modo unitario (“noi”). In funzione del varco che si è aperto, ciò può succedere anche in assenza di un’esplicitazione, nell’enunciazione, di marche deittiche personali, e cioè specificamente riconducibili alle “prima persona”. In altre parole, è possibile arrivare a dire “noi” anche senza attivare alla deissi corrispondente? Viceversa, è possibile non arrivare a dire “noi” pur dicendolo?

    Le risposte trovano verifica nei testi, una verifica che attraversa, ma non per questo resta limitata alla questione pronominale.

    Noi: un problema quantitativo? (GR)

    A questo proposito, mi viene in mente un servizio sentito qualche anno fa alla radio pubblica americana NPR, e poi visto quella stessa sera sul canale televisivo pubblico PBS (già da qui si intuisce chi fosse il destinatario implicito del discorso). Si parlava dell’ultimo libro di Robert Putnam, l’autore di Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community (2000); da cui viene il “bowling” in Bowling for Columbine (2002), famoso documentario di Roger Moore. Tutto questo per dire che si trattava di uno di quei libri la cui pubblicazione fa notizia. Il pressappochismo filosofico e metodologico di Putnam è cosa risaputa, ma in quest’ultima sua fatica, intitolata The Upswing: How America Came Together a Century Ago and How We Can Do It Again (2020), raggiunge nuovi livelli di ottusità. Sfruttando il database Ngram (“Il programma Ngram ti può dire quante volte compare una data parola in tutti i libri pubblicati in un qualsiasi anno”, spiega Putnam al giornalista che lo intervista), si misura, anno per anno, la quantità di volte in cui si scrive “I” rispetto alla quantità di volte in cui si scrive “we”. Il suo Upswing traccia l’evoluzione di questo parametro dagli anni ’60 a oggi e scopre che negli anni ’60 si usava più spesso il “noi” di quanto non si faccia oggi. Da qui si desume un crescente grado di narcisismo ed egoismo nell’americano medio, atteggiamento che si è pronti a condannare moralmente, attribuendone le cause all’individuo (ma anche un po’ al trumpismo, che tanto c’ha le spalle larghe). Naturalmente si tratta di un’operazione ingiustificata (e, direi, offensiva) dal punto di vista scientifico e logico, ma che serve a dare l’apparenza di oggettività a quella bugia banale cui diamo tutti credito: andiamo molto meno d’accordo oggi di quanto non facessimo 40 anni fa. Perché, dunque, non troviamo un modo di convivere? In fondo, basta poco per volersi bene… Gli strumenti offerti dalle “digital humanities” e da tutte le tecniche analitiche del “distant reading” (lettura a distanza) aprono prospettive inedite su testi e fenomeni che pensavamo di conoscere a fondo, ma il rischio di un riduzionismo determinista e miope è sempre in agguato. Bisogna sottrarre il discorso a quelli che, come Putnam, imbarazzanti laudatores temporis acti, ne fanno occasione per un moralismo sciocco e riduttivo.

    Lirica: parte della soluzione o parte del problema? (LM)

    Se si prende in considerazione il piano formale nel suo insieme, con e al di là dell’abbondanza quantitativa nel ricorso alla deissi, è possibile prendere coscienza di una monadologia sempre più asfittica, probabilmente lontana dall’harmonia mundi leibniziana e più vicina alle categorie, tipiche della modernità e tarda modernità capitalista, del conflitto.

    Si pensi alla nota descrizione lukácsiana delle strutture estetiche come monadi cieche, senza porte o finestre: una delle matrici più evidenti, tra le altre, per il lavoro teorico-critico di Guido Mazzoni sulla poesia[3]. Seguendo l’argomentazione del suo lavoro più noto e importante, On Modern Poetry (2022), la poesia moderna si è sviluppata non solo e non tanto in chiave romantica e dunque espressivista, quanto come una proliferazione di monadi, provocata dalla perdita di un quadro di riferimento condiviso, in funzione del “diritto”, eminentemente moderno, “alla non appartenenza” (non solo a una società come quella dell’Ancien Régime, ma anche a una tradizione, a un insieme di tecniche ed elementi formali, ecc.). Al predominio dell’insieme di tecniche, testuali ed extra-testuali, che costituivano quel quadro di riferimento si sono andate sostituendo le individualità delle poetiche e degli stili; vi è stato, però, almeno un esito paradossale, poiché questa proliferazione di monadi mantiene in vita, e anzi riproduce continuamente, un commercio con il “sistema” più generale – basato, di nuovo, su imitazione e appartenenza.

    Senza pretendere di esaurire qui la discussione sulla vastità di temi che questo approccio chiama in causa, si può di sicuro notare, insieme a Mazzoni, come negli ultimi secoli si sia prodotto un certo separatismo tra le comunità poetiche e la comunità sociale più ampia, essendo quest’ultima striata dalla non appartenenza. Nelle comunità poetiche, d’altra parte, le monadi non smettono di essere monadi, riflettendo nella loro singolarità e separatezza quello che è lo stato della società capitalista – o, in seguito, tardocapitalista – nel suo insieme (per Mazzoni: relativismo, perdita di valori comuni, atomizzazione e conflitto degli interessi, etc.).

    Si tratta, dunque, di una storia che, come giustamente osserva Mazzoni, è irta di contraddizioni: non potrebbe essere altrimenti, del resto, se si parte da una prospettiva analitica di stampo materialista e, per di più, con una chiara impronta lukácsiana. A partire da questo, come indicano molti altri studi – nell’ambito, in particolare, ma non solo, dei Modernist Studies anglofoni – si può sempre delineare una storia alternativa della modernità, sfruttandone le pieghe, i risvolti, le potenzialità antagoniste che le sono inevitabilmente correlate[4], anche quando la modernità si auto-immagina e auto-descrive, in primo luogo, come un movimento lineare e progressivo.

    In fondo, è originariamente concepita come monade anche l’immagine dialettica di Benjamin, oggetto-feticcio (in relazione al passato) e al tempo stesso interruzione ambigua del sentire (in relazione al futuro). E dunque, è ancora possibile rintracciare immagini dialettiche nella poesia contemporanea?

    Viceversa, si possono enfatizzare maggiormente gli elementi di continuità che non quelli di discontinuità; a quel punto, e tornando a parlare della problematicità del “noi”, una tale storiografia e monadologia, nella loro sovrapposizione con la “poesia moderna” e nella frequente coincidenza di quest’ultima con la “lirica” – in un’accezione che può essere tanto continentale quanto anglosassone (rinviando, per esempio, a Theory of the Lyric di Jonathan Culler) – non è forse parte del problema, oltre che parte della soluzione?

    Rilievi e percorsi (GR)

    Da dove cominciare? Forse da un inventario di cosa è cambiato nel mondo e nel modo in cui gli esseri umani lo abitano; in parte, per individuare le cause dell’incertezza che ci vede invischiati; in parte per prendere atto della morfologia di un paesaggio che occorre attraversare.

    Mutazione antropologica / Crisi del sistema democratico. Deleuze, Žižek, Fisher,[5] fra gli altri, hanno indagato e documentato i cambiamenti fisici, psicologici, spirituali causati dal (tardo) capitalismo. Siamo di fronte a un processo paradossale che da un lato omologa orizzonti, immaginari, prospettive, storie, sogni, aspirazioni; dall’altro isola e atomizza la popolazione, racchiudendola nella sua individualità, nel suo privatissimo interesse. Per superare questo paradosso occorre espandere l’orizzonte dell’immaginabile e, allo stesso tempo, includere nel proprio universo di coscienza i desideri altrui, accettandone la presenza, la validità, l’urgenza, l’uguaglianza rispetto ai propri. “Rivendicare un’azione politica vera significa prima di tutto accettare di essere finiti nello spietato tritacarne del Capitale al livello del desiderio”[6], scrive Fisher. La poesia può aiutare nel processo di modulazione e concertazione del desiderio a livello della comunità.

    La verità forse più scomoda è che nonostante tutte le illusioni che possiamo nutrire riguardo alle differenze e ai disaccordi che ci dividono, nel senso più profondo, antropologico, siamo già costituiti come un “noi”: “Quello che dobbiamo tenere a mente, è sia che il capitalismo è una struttura impersonale e iperastratta, sia che questa struttura non esisterebbe senza la nostra cooperazione”[7] L’alienazione è una delle diagnosi più efficaci, accurate e longeve della critica marxista. Più difficile è riconoscere e accettare la complicità che ciascuno di noi ha nel sostenere e perpetuare quello stesso sistema che causa il nostro isolamento, accresce la nostra infelicità: “In un certo senso, è vero che le élite politiche sono nostre serve: ma il miserevole servizio che ci prestano è quello di mondare le nostre libido, di esibire i desideri che abbiamo ripudiato in maniera compiacente e come se questi non ci riguardassero”[8].

    Un’influenza tanto invasiva e continuata sulla dimensione del desiderio ha avuto un impatto intergenerazionale. Le sue conseguenze – che si accumulano e moltiplicano nel passaggio da una generazione all’altra, come tare genetiche che, passando di padre in figlio, si aggravano e s’amplificano – hanno superato la soglia che marca una differenza antropologica. Gli esseri umani contemporanei sono sostanzialmente diversi dagli esseri umani di mezzo secolo fa.

    Per questo sarà utile un ritorno all’antropologia, e in particolare agli studi di kinship (da Lévi-Strauss a Eduardo Viveiros de Castro) per ricostruire le caratteristiche costitutive di questo nuovo essere umano e del modo in cui si costituisce in gruppi sociali. L’antagonismo è stato spostato dallo spazio fra le classi all’interiorità dell’individuo[9]. Non solo: quel sistema (Capitalismo) che un tempo era uno fra i tanti modi di organizzazione della produzione economica, diventa l’unico (e dunque “naturale”, “necessario”, “immutabile”) sistema di organizzazione di tutti gli aspetti sociali, morali, affettivi. Come scrive Fisher: “il capitalismo semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile” [10].

    Questo mancare a se stessi nonostante (o a ragione di) una compiuta omologazione con gli altri è il Reale (osceno, nel senso di irrappresentabile, impensabile, etc., nel senso di Lacan) che soggiace all’incapacità manifesta di dire “noi” in versi. L’unico tratto che ci unisce tutti, al di là delle nostre trappole narcisistiche, dei nostri interessi individuali per come ci sono dettati dal senso comune (dal Capitale), pare essere proprio l’instabilità, questa trasformazione in fieri, l’indeterminatezza, l’imprevedibilità del paesaggio interiore che ciascuno racchiude, in contrasto con l’apparente immobilità e universalità del sistema di valori nel quale siamo tutti immersi. È da qui che occorre partire. Viveiros de Castro affronta un problema omologo a proposito dell’antropologia, nel tentativo di liberarsi da uno sguardo eurocentrico, per farne una disciplina per la “decolonizzazione permanente del pensiero”; e con il secondo fine di “creare un’altra modalità, oltre alla filosofia, per la creazione dei concetti”.[11] Mi sembra che, con minimi adattamenti, strumenti e programma possano essere adottati dalla scrittura poetica e dalla critica letteraria, per la “decolonizzazione permanente del linguaggio”. Forse la soluzione nel creare un “noi” in poesia sta nel concentrarsi sul processo di trasformazione piuttosto che sul prodotto. Jamille Pinheiro Dias riflette sull’utilità in letteratura dei concetti esplorati da Viveiros de Castro: “Quello che chiamo creatività – e creatività nella poetica amerindia, più specificamente – […] punta alla poiesis o al “fare” precisamente come una modalità di trasformazione fra umani e non-umani”[12]. E questa apertura a una collaborazione fra umano e non umano (ma non solo animale, anche vegetale, elettronico, etc.) è un elemento cruciale, da tenere ben a mente anche quando si parlerà di crisi climatica e cambiamenti legati alla tecnologia.

    Crisi climatica.

    La crisi climatica sta al capitale come la realtà sta al reale (sempre in termini lacaniani). Fisher spiega così:

    Per Lacan il reale è quello che ogni «realtà» deve reprimere; meglio ancora: la realtà si costituisce proprio attraverso tale repressione. Il reale è una X non rappresentabile, il vuoto traumatico che può essere soltanto intravisto tra le spaccature e le contraddizioni della realtà apparente. Viene quindi da pensare che una prima strategia contro il realismo capitalista potrebbe partire dall’evocazione di quei «reali» che sottendono la realtà per come il capitalismo ce la presenta. Uno di questi è la catastrofe ambientale. Certo, a prima vista le questioni ecologiche non danno esattamente l’idea di essere un «vuoto non rappresentabile» per la cultura capitalista: più che inibiti, argomenti come i cambiamenti climatici e la minaccia dell’esaurimento delle risorse vengono essi stessi sfruttati dalla pubblicità e dal marketing. È però un modo di trattare la catastrofe ambientale che illustra alla perfezione il tipo di fantasia le risorse siano infinite, che la Terra altro non sia che un guscio da raschiare, e che qualsivoglia problema verrà risolto dal mercato.[13]

    Si potrebbe invocare qui anche il lavoro svolto da Naomi Klein sul modo in cui il concetto di “crisi” viene impiegato dal Capitale per implementare riforme radicali che deprimono la democrazia e concentrano poteri e privilegi.[14] Ma a maggior ragione, il rimedio non può che passare dalla costituzione di un “noi” che sia capace di discutere, decidere razionalmente, affrontare quel Reale politico descritto da Fisher, ma soprattutto capace di immaginare un futuro che sia sostanzialmente diverso, altro rispetto al presente, un ordine sociale, morale, economico che sia in completa alternativa rispetto al sistema capitalistico attuale (come suggerisce Klein). Quando facciamo riferimento a un “noi” in poesia oggi, questa entità deve includere anche i discendenti umani e non umani di chi è vivo oggi. Se è vero che oggi si decidono le sorti delle prossime 3, 5, 10 generazioni, allora, proporzionalmente, aumenta la responsabilità di cui ciascuno di “noi” è investito.

    Noi: un problema politico? (LM)

    Per iniziare a rispondere a questo interrogativo, si possono riprendere le sollecitazioni di una recente linea di indagine sul “noi” nell’ambito della filosofia e critica letteraria francese, rappresentata dal già citato Bailly e da Marielle Macé, in cui, a partire proprio dal confronto con la poesia, si identifica il “noi” con una comunità politica dai contorni porosi, o anche fluidi, in opposizione ai rigidi confini delle comunità nazionali, religiose, etc., coagulate intorno a un discorso ideologico e/o identitario tout curt. Tale comunità risulta formata, nel caso di Bailly, dalle nostrations, ovvero «petites et […] éphémères formations insulaires» («piccole ed […] effimere formazioni insulari»). Le nostrations sono dunque simili alle costellazioni monadologiche già incontrate, eppure mantengono in vita un’apertura dell’ “io” – nella relazione con il “non-io” (il punto di riferimento di Bailly, nella linguistica, è sempre Benveniste) – che ha esiti potenzialmente emancipanti. In un contributo successivo a quello di Bailly, Marielle Macé ha cercato di elaborare ulteriormente tale posizione, pervenendo a una definizione “non-limitata”, più che “indeterminata”, del “noi” – non fissata a priori, dunque, bensì costantemente generata da un fare che è poetico e insieme politico. Nostrations, si potrebbe aggiungere, che sono anche nostractions, come nella possibile traduzione italiana provvisoria “nostrazioni”.

    Una parola d’ordine incidentalmente simile a quella di Bailly e Macé, ma che si fonda e presupposti diversi e porta a conclusioni piuttosto lontane, è invece quella di Jean-Claude Milner che, nei Nomi indistinti (1983) e anche nel Periplo della struttura (2002), cerca di teorizzare una politica all’altezza del Reale lacaniano, lezione della quale Milner è uno fra i molti eredi. Anche Milner rivendica l’apertura e la precarietà delle parole e delle azioni, ma lo fa in aperta polemica con Benveniste, del quale accetta quasi unicamente il lavoro di scavo archeo-filologico. Parole e azioni, secondo Milner, appartengono ai “nomi indistinti”, ossia alla molteplicità dei soggetti coinvolti sulla scena politica, arrivando a destituire il concetto stesso di “pronome politico” – anche per Milner, il “noi” è reso “conoscibile e riconoscibile dalla bocca altrui”, generando, in particolare in lingua francese, quel suo rovescio speculare che è “non-noi”, l’on cosiddetto “impersonale” – e invocando invece un’azione di disvelamento e critica quella “omonimia radicale” che identifica il potere (omonimia che potrebbe istituire perverse alleanze, a quel punto, con le “omofonie radicali” già rintracciate, nel proprio lavoro, da Benveniste).

    Questi esempi – sintomaticamente basati su profili ancora parzialmente umanisti (nonostante il noto intreccio delle posizioni di Bailly e Macé con l’attuale dibattito post-antropocentrico) o, per altri versi, su una matrice lacaniana che conduce, infine, a identificare la critica con la sua azione demistificatoria – portano a formulare un’altra domanda: qual è il raggio d’azione politica del “noi”?[15]

    Altri rilievi, altri percorsi (GR)

    Tecnologia: I social media.

    Se la cifra della disciplina è il lavoratore-prigioniero, quella del controllo è il debitore-tossico. Il cyber-Capitale agisce creando dipendenza nei suoi stessi utilizzatori […].

    Se insomma la sindrome da deficit di attenzione e iperattività è una patologia, si tratta allora di una patologia peculiare del tardo capitalismo: una conseguenza dell’essere connessi a quei circuiti di controllo e intrattenimento che caratterizzano la nostra cultura consumistica e ipermediata. Allo stesso modo, in molti casi quella che chiamiamo dislessia altro non è che post-lessia: gli adolescenti processano dati densamente affollati di immagini senza alcun bisogno di saper leggere davvero; il riconoscimento degli slogan è tutto quello che serve per navigare il piano dell’informazione online e mobile. «La scrittura non è mai stata retaggio del capitalismo. Il capitalismo è profondamente analfabeta», sostengono Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo; «il linguaggio elettrico non passa né per la voce né per la scrittura: l’elaborazione dei dati può fare a meno di entrambe».”[16]

    La scrittura, intesa come riflessione attiva su e attraverso il linguaggio, è attività intrinsecamente critica. Una forma di scrittura è anche il tipo di lettura cosciente, deliberata, attiva, creativa, che viene presupposta dalla poesia. Ma se gli incentivi (sociali, tecnologici, culturali) sono allineati a favore di una fruizione del testo superficiale, strumentale, narcotizzante, come fare a raggiungere la popolazione post-lessica descritta da Fisher?

    Esiste un “noi” continuamente creato dagli algoritmi che regolano le piattaforme di social media. Occorre rassegnarsi a questo noi come all’unico possibile, un noi costruito sulla figura del “debitore-tossico”? Assolutamente no: si dovrà trovare il modo di fare di meglio, di esplodere la bolla sociale che ci contiene, la camera d’eco che ci assorda. Anche perché il centro di aggregazione dei gruppi social è tanto più attraente ed efficace, quanto più radicato in un nucleo di fastidio, odio, e disprezzo che nutre la comune e condivisa irritazione. Più deboli, meno efficaci e duraturi sono i gruppi costruiti intorno a una passione, un progetto di crescita in comunità. Lo verifica ciascuno di noi nella sua esperienza quotidiana (ma si veda almeno, per quanto concerne la poesia, la raccolta Nuova poesia troll che ha pubblicato di recente Argolibri).

    Questo “noi” dei social viene creato in un modo o nell’altro, che ci piaccia o no. Bisogna strappare questa modalità, il controllo di questo strumento di aggregazione dalle grinfie dell’algoritmo, dalle mani del capitale neoliberista… ed affidarle a chi? A “noi”? Ai poeti!? Per carità! E allora?!

    La priorità più urgente è sottrarre il discorso ai nostalgici del prima, che idealizzano un passato probabilmente mai realmente esistito. O, peggio, ai tecno-utopisti che vedono nel miraggio della democrazia diretta e digitale la soluzione a ogni male. Si tratta di una questione urgente, pratica, e occorre affrontarla con acume politico e piglio pragmatico: come si costruisce una retorica del noi che non sia basata sull’odio? Che non sia basata su un senso di identità che viene da una storia mal studiata, mal insegnata, mal imparata? Occorre lavorare alla progettazione di nuovi significati; “progettazione e non fondazione” come scriveva Pagliarani più di mezzo secolo fa:

    Molti fra i più impegnati dell’avanguardia […] ritengono […] che la finalità e/o funzione dell’arte sia quella dell’opposizione […] Ma qui preme far rilevare che l’opposizione è una modalità e non una finalità. […] Allargando l’orizzonte, […] la negazione si è specificata come contestazione. Contestazione dei significati, dei significati precostituiti, che lo scrittore trova nella lingua […]. Contestazione dei significati precostituiti e usurati della langue, e progettazione di nuovi significati. Progettazione e non fondazione di nuovi significati, perché la fondazione di nuovi significati relativamente alla lingua è opera della collettività, della società nella storia […]. Progettare il nuovo, perché non basta negare […].[17]

    E cioè, poesia, prima persona plurale! Serve un “noi poetico” da opporre al “noi algoritmico” propinato dalle piattaforme di social media. Senza, si corre un rischio doppio e speculare: da un lato, di non riconoscersi nel gruppo in cui si è inseriti (con il conseguente codazzo di smarrimento, depressione, senso di isolamento). Dall’altro, ci si può identificare troppo strettamente con l’identità e l’ideologia di un gruppo formato sulla base di logiche economiche (di marketing, etc.) che ci sfuggono completamente e che non servono i nostri interessi (economici, sociali, spirituali, etc.) né rispecchiano o soddisfano i nostri bisogni affettivi.

    Tecnologia II: L’intelligenza artificiale.

    Non si può più ignorare la presenza, nello spazio della letteratura, dei sistemi di intelligenza artificiale (AI), né di quel complesso insieme di strumenti, generi, convenzioni e tradizioni che alcuni (Leonardo Flores) chiamano “distant writing” (scrittura a distanza). Soprattutto in lingua inglese, i sistemi di intelligenza artificiale hanno raggiunto livelli di sofisticazione tali da non potersi più ignorare. Si vedano code-davinci-002, oppure l’esperimento di Google, intitolato Verse by Verse, anche se i risultati più interessanti mi pare si debbano a Digital Poetry. Presto cadrà l’incomprensione e il pregiudizio che costringe questi sistemi a scimmiottare il poetare (e più in generale la mediocrità) del genere umano. Allo stesso modo, le diverse modalità di scrittura a distanza raggiungono un livello crescente di maturità e indipendenza; si vanno costituendo come una tradizione ricca, stratificata, rigogliosa di talenti e portatrice di messaggi di innegabile rilevanza e attualità. Può essere questo un modo per rimettere al centro della comunicazione poetica un “noi”, un’alleanza di umano e artificiale? Un modo per colmare le distanze (fittizie, temporanee, instillate dai sistemi di potere che ci vogliono divisi) che sembrano isolarci usando proprio quella tecnologia i cui effetti deleteri abbiamo finora sperimentato quasi esclusivamente?

    Il “noi” contemporaneo non può non includere anche la sua controparte elettronica, computazionale, algoritmica, sia nella forma delle piattaforme di social media (con le difficoltà e possibilità che pongono), sia nella forma di intelligenza artificiale, che dà accesso a una serie di strumenti che bisogna imparare a usare per gestire l’enorme quantità di informazioni delle quali la nostra infosfera è intessuta e, allo stesso tempo, ci offre la possibilità di creare un tipo di arte programmata capace di sfruttare l’obsolescenza della distinzione fra produttore e consumatore di cultura, fra artista e pubblico.

    Domande ai poeti e ai critici (LM+GR)

    Per avviare il dialogo, per iniziare quella formazione del “noi” la cui necessità e le cui ragioni ci siamo sforzati di esprimere qui sopra, proponiamo questa lista di domande. Ci interessa soprattutto la dimensione pratica, fattuale, poietica. Ci interessa il come. Parliamo del lavorio, del fare versi, dell’orientare la lettura e la scrittura.

    – Qual è la tecnica (intendendo con questa parola portemanteau un insieme di strategie testuali, para-testuali, extra-testuali, etc., che sia almeno parzialmente oggettivabile e condivisibile da un linguaggio critico riconosciuto o riconoscibile) che permette la conservazione e l’elaborazione della relazione tra “io” e “non-io”, dischiudendo così la possibilità di un “noi”? Tale tecnica ha a che fare con l’esplicitazione deittica del “noi”, o può farne a meno, prendendo altre strade?

    – Qual è la tua posizione nei confronti di un “noi” come “pronome politico” in relazione alla tua e/o ad altre scritture?

    – Come si può concepire, se si può, una sorta di “immagine dialettica” nella poesia e nella scrittura di ricerca contemporanee?

    – Dato il confronto, che appare ineludibile, con le singole comunità poetiche e i loro contorni che, per quanto labili, si sovrappongono spesso ai contorni delle comunità linguistiche, nazionali o culturali, esiste la possibilità di un confronto transnazionale – propiziato dalla traduzione, ma anche da altre forme di scambio, o anche conflitto, come le digital humanities, l’intelligenza artificiale o anche le nuove forme di scrittura a distanza – che susciti nuove opportunità per il “noi”? A quali esperienze specifiche ricondurresti questo confronto, e con quali prospettive?

    – Come si articolano le questioni sollevate (politiche, sociali, tecnologiche, antropologiche) nella tua pratica quotidiana di scrittura poetica e critica? Trovi che alcune di queste problematiche sono più vicine alla tua sensibilità, alla tua poetica?

    – Si è cercato di tracciare un panorama delle questioni più urgenti partendo dal “noi”: condividi questo modo di descrivere l’interconnessione dei vari problemi sollevati?

  7. milaure colasson

    Molto confusa e ambigua questa molto lunga digressione dei due professori di letteratura dove non si capisce chi sia il “noi”, se è una ipostasi eternitaria o una categoria dello spirito… non saprei proprio che dire di fronte a tanto fumo e a tanta astrazione eternitaria.

    • gino rago

      Il lavoro che propone Giuseppe Gallo mette sul tappeto, sì, una grande quantità di quesiti, tutti di stringente attualità e per questo merita rispetto; ma forse c’è troppa carne cruda messa nella griglia ad arrostire sulla poca brace…
      Ogni scrittura di ermeneutica o di tentativi di interpretazione del “poetico” deve tener conto di una moltitudine di variabili, a cominciare dallo “spirito del tempo”, così come in ogni autore si registra la compresenza o la connivenza di due anime differenti come ci ricorda in suo scritto su moderno e post moderno Umberto Eco.

      A tale proposito Umberto Eco scrive:
      “L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di «Abbasso il chiaro di luna» aveva distrutto il passato, lo aveva sfigurato: le Demoiselles d’Avignon erano state il gesto tipico dell’avanguardia. Poi l’avanguardia era andata oltre, dopo aver distrutto la figura l’aveva annullata, era arriva all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura alla condizione minima del curtain wall, all’edificio come stele, parallepipedo puro, in letteratura alla distruzione del flusso del discorso, sino al collage e infine alla pagina bianca, in musica al passaggio dall’atonalità al rumore, prima, e al silenzio assoluto poi.
      Ma era arrivato il momento in cui il moderno non poteva andare oltre, perché si era ridotto al metalinguaggio che parlava dei suoi testi impossibili (l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno è consistita nel riconoscere che il passato, visto che la sua distruzione portava al silenzio, doveva essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.
      Se il postmoderno è questo, è chiaro perché Sterne o Rabelais fossero postmoderni, perché lo è certamente Borges, perché in uno stesso artista possano convivere, o seguirsi a breve distanza, o alternarsi, il momento moderno e quello postmoderno. Si veda cosa accade con Joyce. Il Portrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners, anche se vengono prima, sono più moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wake è già postmoderno, o almeno apre il discorso postmoderno, richiede, per essere compreso, non la negazione del già detto, ma la sua citazione ininterrotta”.

  8. antonio sagredo

    Dici bene Madame Colasson, troppo lunga questa sorta di “digressione” e spero che in futuro non ce ne siano altre così, direi anche pedantesche.

    ————————————————————-
    I rospi hanno preso il posto dei corvi. /Linguaglosaa|
    ————————————————————
    Ebbene talvolta accade che gli anfibi divorino i volatili ed è da augurarsi che ciò possa accadere spesso.
    Uso il termine “divorare” e perciò uccidere perché non esiste altra soluzione se si vuol “prendere il posto”.
    Così spesso accade in poesia quando un poeta attacca un altro poeta e qui uso il termine “fagocitare” che per me significa superare… e andare avanti.
    La poesia Kitchen ha questa caratteristica di fagocitare esperienze poetiche passate e di rivestirle con abiti, se non nuovi del tutto, almenno completamente diversi.
    La poesia kitchen è anche una “maschera” che è necessario portarsi dentro – l’interiore – per poi mostrarla all’esterno.
    Una maschera che non sia di biacca ma multicolore, perchè il variopinto deve confondere e non definire i limiti.
    —————————————–
    Gli occhi dei rospi colpirono la fantasia della Dickinson perché colpiti da improvvisa luce, mentre i corvi danno l’idea del sottorraneo, del seppellimento, insomma di tutto ciò che di nascosto viene disotterrato.
    Quindi il rospo si presenta come l’emblema o il simbolo o la bandiera della poesia kitchen.
    ————————————————————
    La città aveva ciglia violette. Di mattino, finestre e corvi danzavano,
    sottovoce parlavamo dei labirinti, ma la rugiada invecchiava, vanità
    delle lune!

    Libertà è un inverno e non vi puoi indugiare. Ah, gli alberi! Il sentiero
    granato stimolava le orme…
    “Quando i nostri figli ameranno i morti… grideranno i corvi,
    si scioglieranno… queste strane parole staccate dal corpo, fra un pianto e
    un rubino…”

    1977
    ——————————————————————

    Crestati imbonitori, rospi di luce, siete gravidi
    d’applausi oltre la soglia coi primi passi
    del bardo inglese vestito di gramaglie,
    per essere in uno altare e ostia, sacerdote albino
    goloso di fonemi e di frattali. E sono ratti
    comparse spettri, viscido sudario
    sotto i tori di ciechi simulacri,
    ruggiti di rame contro i nostri morti,
    giocatori d’azzardo, astragali di vermi quando la notte,
    chiusa al canto, notifica con lingua mercuriale
    il malgoverno e il tuo sguardo simili a monete
    di menzogna.

    1989
    ———————————————————-
    I poeti sono martiri del futuro, e la loro parola è già oltre torture imprevedibili.

    2011

  9. ANCHE EINSTEIN MANGIA LA PIZZA
    Lo sconcerto è totale. Escono tonno e sansa dall’ Accademia
    c’è la ressa tra lacerti. Alcuni rimpiangono il premoderno
    A far posto in lattina ci pensa il dottor Cencelli.

    Si fa per dire Sofia ma è Andromeda
    Messa in salvo da un grissino.

    Il drago informe ha una pensioncina di comparsa
    arrotonda con uno Spartacus d’avanguardia.
    Muoverà la coda contro mano sull’autostrada
    “MEN AT WORK” sul campione arancione.
    L’occhio perso lotterà con Sigfrido.

    Lo scheletro di Marylin riprende carne e calze. Prova a scrivere una parte
    E a tormentarsi il naso. Il ricavo devoluto al fondo schiena.

    Presto subentrerà l’odore di cipolla.
    “Rimedio naturale “è scritto sulle squame
    contro guerre e pestilenze fa la chiave di violino.

    Un che di luce si rotola dal riso.
    La massa batte sotto un palmo
    Si condisce senza esplodere sul tavolo.

    Ma in cucina c’è subbuglio da fornello pronto.
    Un via crucis di forchette verso la Grecia.
    Dalla cupola di piombo soffia un urlo di rimprovero
    Forse Venere che sguazza nel lavandino.

    ……………………………………………………………………
    SECONDO IL PROTOCOLLO

    Non c’è alcun sapore
    quando il viola lascia le malve e scorre nei semafori.

    Girano le manopole agli incroci: tric trac di catene intorno alle magnolie. S’intravvedono operai frettolosi. Caschi blu di astronauti che presto usciranno a respirare il vuoto. Impomatare le antenne delle mantidi.

    Le vetrine vendono frutti di Urano mentre Marte e Afrodite discutono su come blindare un’ostrica.

    Perfezione di materia oscura con esibizione di birra australe. I soldi, come riccastri russi, rotolano da una piscina all’altra regalando perle alle amanti. Ombre fertili seminano il buio.

    Ci sarà un’inaugurazione o un delitto. Un frammento di meteorite butta giù due righe sulle costellazioni di ieri. Un susseguirsi di impegnative precede una guerra tra ghiacciai rossi e dematerializzati.

    Reumi e infarti discutono del nero sgorgato nottetempo. C’è bisogno d’idraulici
    Ma ora è tempo di sopportare il rumore dell’ Asl appena sfornato dalla calce viva.

    (F.P.Intini)

  10. La Signora Elena di Troia scambia la vasca idromassaggio del Club di swinger a Pordenone per il mare Egeo e ci si ficca dentro con quel bellimbusto di Paride
    Presto o tardi quel cornuto di Menelao avrà la sua vendetta
    De Chirico guida la Volkswagen di Picasso, dice che il tirchio l’ha presa in leasing, la paga tanto al mese e che vale quanto i quadri del tanghero,
    Putler chiama in videoconferenza le mamme dei soldati russi, dice loro che sono eroi
    Improvvisamente
    Il ministro degli Esteri della Bielorussia ha avuto un raffreddore ed è morto

    *

    Si può affermare che la Instant poetry è un atto linguistico performativo e rappresenta nella lingua una sua antichissima potenzialità, dormiente nell’uso che si fa oggi delle lingue, che viene rimessa in potenza, in atto.
    Scrive Agamben:
    «Ogni nominazione, ogni atto di parola è, in questo senso, un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s’impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che inesso si realizza» (G. Agamben p. 62). Con il passaggio al monoteismo il nomedi Dio nomina il linguaggio stesso, è il logos stesso a essere divinizzato come tale nel nome supremo, attraverso il quale l’uomo comunica con la parola creatrice di Dio: «il nome di Dio esprime, cioè, lo statuto del logos nella dimensione della fides-giuramento, in cui la nominazione realizza immediatamente l’esistenza di ciò che nomina».1 Questa struttura, in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato, è quella che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» (speech act; (cfr. AUSTIN 1962); «io giuro» è il modello di un tale atto. Agamben sostiene che gli enunciati performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere».2

    Per poter agire, l’enunciato performativo deve sospendere la funzione denotativa della lingua e sostituire al modello dell’adeguazione fra le parole e le cose quello della realizzazione immediata del significato della parola in un atto-fatto.
    La instant poetry è quindi un atto-fatto, un fatto-significato, un fatto-non-significato. La instant poetry è vera se legata ad un istante, se è il prodotto di un istante, dopodiché scompare nel non-istante che chiamiamo, per consuetudine, passato.

    1 G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza. 2008, pp. 71-72
    2 Ibidem p. 74-75.

  11. raffaele ciccarone

    In risposta a Franco Intini su ” ANCHE EINSTEIN MANGIA LA PIZZA”

    Una suonata in do maggiore per uno scafandro appena uscito dalla cassaforte.
    Col lezzo di chiuso in via del babbuino, leccornie e panzerotti in carta assorbente, unica novità del giorno.
    Ma da che parte del tavolo stai se il vino è novello?

    (GRAZIE, FRANCO)
    BY C.R.

  12. ricevo da Marie Laure Colasson:

    la poesia di super nicchia che è stata fatta in Italia e in Occidente da alcuni decenni, si è rivelata altamente invasiva nell’epoca Covid che ha registrato un altissimo tasso di pseudo poesia considerata come demanio privato delle strutture psicologiche dell’io, con le conseguenti malattie esantematiche e psicosomatiche e compiacente fibrillazione della malaise dell’io.
    Il mio giudizio su questa pseudo poesia non può che essere severamente negativo. Si tratta nel migliore dei casi di episodi, di sintomi psicanalitici che registrano un malanno psicologico e di sfruttarlo come pseudo tematica del disagio esistenziale. Si tratta di una miserabile e regressiva strategia di sopravvivenza alla crisi politica delle democrazie de-politicizzate dell’Occidente con un superpiù di auto lacerazione e di auto flagellazione dei lacerti di un io posticcio e positivizzato.
    Riassumo qui i punti principali della malattia pandemica che ha attinto la poesia contemporanea:

    – Si fa consapevolmente una poesia da supernicchia;
    – La pseudo poesia positivizzata ed edulcorata che si fa oggi in Italia la si fa avendo già in mente un certo indirizzo dei destinatari e un calcolo di leggibilità e di comunicabilità privatistica;
    – Si circoscrive il microlinguaggio poetico a misura delle dimensioni lillipuziane dell’io;
    – Si rinuncia del tutto alla questione del ruolo della poesia e della letteratura nel mondo storico di oggi;
    – Ritorna in vigore una certa mitologia del «poeta» visto come depositario di saggezza, seriosità, tristezza, pensosità ombelicale;
    – Ritorna in auge il mito di una «poesia» vista come luogo neutro della ambiguità e della astoricità in una posizione di involucro dell’anima ferita e malata ( ingenuo alibi ideologico e smaccata mistificazione culturale);
    – Nessuna capacità e volontà di rinnovamento del linguaggio poetico visto come un che di separato dai linguaggi della comunicazione delle emittenti linguistiche;
    – Moltiplicazione delle tematiche private, privatistiche e quotidiane opportunamente devalutate in chiave privatistica e de-politicizzata;
    – Moltiplicazione di forme narrativizzate ad imitazione della prosa;
    – Moltiplicazione del taglio narrativo, diaristico, quotidiano e prosastico;
    – Moltiplicazione di un super linguaggio de-politicizzato e lucidato;
    – Adozione delle pratiche onanistiche, auto assolutorie e regressive confezionate in forma poetica.

  13. milaure colasson
    14 giugno 2021 alle 19:43

    Sulle ragioni della Crisi.

    Jacqueline Goddard, una delle muse di Man Ray, azzarda un’ipotesi originale, incredibilmente semplice:
    «Negli anni ’30, Parigi era il centro del mondo e Montparnasse era un club», racconta l’ex modella, una delle poche testimoni di quell’epoca leggendaria. «Joyce, Duchamp, Picasso, Brèton… ci trovavamo alla Coupole dove Bob, il barman, teneva liberi alcuni tavoli per noi e i nostri amici. Tutto avveniva per un tacito accordo, senza neanche bisogno di darsi appuntamenti. E questo per un fatto molto semplice: allora non c’era il telefono… Una fortuna! Nessun telefono avrebbe potuto competere con Bob. E c’è di più. Al telefono possono parlare soltanto due persone. Noi, invece, eravamo in tanti a confrontarci, a litigare, a vivisezionare le idee». Era questo il segreto? La comunicazione reale anziché quella filtrata dai media? È forse un caso che il celebre detto di Aristotele («Amici miei… non c’è più nessun amico») si affermi proprio nel Villaggio Globale governato da Sua Maestà il computer e la banda larga popolata da folle di solitari disperati? «Eravamo amici e siamo diventati estranei» (La Gaia Scienza). Ancora una volta Nietzsche è stato un lucido profeta.
    Il nostro è forse il tempo della inimicizia, della competitività e della conflittualità nel rapporto tra persone, tra artisti e con i lettori. C’era una volta l’amicizia. C’era una volta il sodalizio.

  14. pietro eremita

    “Il ministro degli Esteri della Bielorussia ha avuto un raffreddore ed è morto”

    * e il CREMLINO CHE L9 HA UCCISO è RIMASTO SCIOCCATO.

  15. Le parole di Giorgio mi hanno fatto pensare alla tertulia, parola spagnola che indica proprio una riunione periodica di artisti che parlano, discutono, condividono, di solito in un caffè. A Campobasso, la città in cui vivo, anni fa, tentammo un esperimento analogo: aveva aperto un caffè letterario, nel gruppo c’era un ispanista, la suggestione delle tertulias era fortissima. Sono sempre stata attratta dall’idea della collaborazione, invece che della competizione, tra artisti. Il caffè letterario ha chiuso, ma sono convinta che una nuova tertulia rinascerà.

  16. Pingback: Un utile chiarimento. | mayoor

  17. antonio sagredo

    ….e a proposito di rumorismi e umorismi nella poesia KITCHEN,
    oltre che nelle atmosfere domestiche e casalinghe odierne, come non pensare a quelli delle metropoli di allora e a quelli dei nostri contemporanei e da questi, indietro, alle origini di quei poeti e artisti che immagiarono noi 100 e più anni dopo!

    Propongo quindi questa carrellata metropolitana (una delle tante!) di quel poeta Majakovskij rumorista e umorista “eccentrico”come pochi all’inizio del secolo scorso.

    —————————————————————-
    Rumoretti, rumori e rumoracci

    Lungo gli echi le città portano i rumori
    sul bisbiglio delle suole e sugli schianti delle ruote,
    e gli uomini e i cavalli – sono soltanto grooms,
    che seguono le linee delle fuggenti lingue di terra.

    Portano le ragazze minuscoli rumoretti.
    Cassette di rombo porterà l’autocarro.
    Un trattore fruscerà in una tunica reticolata.
    Il tram spanderà schianti di tempesta.

    Tutti sulla piazza attraverso tunnel di passaggi
    navigheranno per i canali di pensieri incrociati,
    là dove contorto nel muso, impiastricciato di fuliggine
    al regno dei mercati è incoronato il rumore.

    1913
    ———————————————————–
    L’infernaccio della città

    Le finestre frantumarono l’infernaccio della città
    in infernucci minuscoli che succhiavano con le luci.
    Rossicci diavoli, si impennavano le automobili,
    proprio sulle orecchie facendo esplodere le trombe.

    Ma là, sotto l’insegna, dove sono le aringhe di Kerč,
    un vecchiaccio stravolto cercava gli occhiali
    e si mise a piangere quando nel tifone del vespro
    il tranvai con una rincorsa sollevò le pupille.

    Nei buchi dei grattacieli, dove ardeva il metallo
    e il ferro dei treni intasava l’imbocco –
    gridò un aeroplano e cadde là
    dove al sole ferito colava l’occhio.

    E allora – ormai spiegazzate le coltri dei fanali –
    la notte si spossò ad amare, oscena e ubriaca,
    e dietro i soli delle strade chissà dove zoppicava
    non necessaria a nessuno, la flaccida luna.

    1913
    ——————————-
    (trad. di A.M. Ripellino- queste versioni
    dal Corso su Majakovskij del 1971-72)

    —————————————————————
    da mia nota n. 67, p. 41 –
    ————-
    “Vi è di certo dell’umorismo, ma di più un r-umorismo, un baccanìo, un tale frastuono che tutto è trasformato in metallo sonoro: dalla luna immobile a tutti i mezzi in moto! La poesia successiva non è che il trionfo esaltante del rumore fine a se stesso; ma questo rumore universale serve solo a mascherare una solitudine cosmica, quella d
    –el poeta che a tutti i costi vuole un pubblico, un applauso, un riconoscimento: ed è quello che chiedeva Majakovskij al suo uditorio, altrimenti si adombrava gravemente e cadeva nell’umore più tetro, già così fin da giovane e molto di più in futuro. ”
    —————————————————————

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