Gino Rago, Strutture serendipiche, Mauro Pierno, Poesie da Antologia Poetry kitchen, Francesco Paolo Intini due poesie kitchen, Dialogo tra Giorgio Linguaglossa e Jacopo Ricciardi sulla poetry kitchen, La poesia maggioritaria di questi ultimi decenni adotta pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno, l’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato, fanno una liturgia del modernariato

Mauro Pierno
da antologia Poetry kitchen (Progetto Cultura 2022)
1
Il basilico dei vicini la sera si finge morto
di fronte alle nostre serie TV
Una Olivetti 32 vuole riscrivere la storia
dice di averla tutta nei tasti
Einstein pipa in bocca violino sotto il mento
suona la relatività in quattro dimensioni
I cavalieri stanno aspettando
che la partenza sia per sempre rimandata
Per rifiorire sull’altro versante.
Prima o poi. Domani. O forse…
2
Ora i proletari erano tutti agenti di commercio
Odorava di miele la catena di montaggio
La pagina quindici oscillò di sette secoli
Il fantasma entrò dalla porta blindata
Il secondo altissimo e magrissimo
indossava occhiali di tartaruga rossicci e mocassini neri in vernice
la carrozza di mezzogiorno, lungo il viale dello Steccato,
accompagna il cambio della guardia nella torre d’avvistamento.
3
Le mani rumorosamente sfregarono il gel disinfettante.
Lo sciacquone derubricato mondò i peccati.
Seduto sul divano uno spartito
sparpaglia tutt’intorno carte napoletane
l’utente è impegnato in un’altra conversazione
Daniil Charms sente nell’aria come un sibilo,
a distanza di chilometri non dà peso al fatto.
Pensa:
“Sarà stato il miagolio di un gatto
O uno starnuto dal Cremlino”.
Intorno sta un paesaggio deforme.
4
Due uomini non si capiscono ma conversano –
Molti altri umani si uniscono a loro.
“Avevi promesso di scrivere.”
“Ho preso appunti. Ma li ho mangiati.”
Un faro illumina un peschereccio che ondeggia.
Qualcuno paga con il bancomat.
Le dico, dattero. Non ho altre parole.
Toh, sei cavalli.
“Guerre, guerre e ancora guerre…basta, non studio più.”
Sofia lancia il libro dalla parte opposta della cameretta.
5
Alice non trova l’uscita dal Paese delle meraviglie,
Arianna gli offre la soluzione in cambio del cappello a fiori
Una squadriglia d’uccelli in alto nel cielo
nelle vesti di poliziotti sospettosi armati di binocoli ispezionano le migrazioni
i cieli inferociti sul mare
non si rassegnano a diventare uno sfondo
Strisciando sul guscio, sbriciolandone il calco.
Oltre i muri il pigolio, l’allucciolio, il bio
Monoliti contro un cielo blu-nero. Ghetti verticali.
6
Non c’era tempo per la chimica.
Il verso generava spettri di risonanza magnetica.
Gli schiamazzi della Performance si sentirono
Fino al terzo secolo avanti Cristo.
In un bastone da passeggio con il manico di avorio,
in un ombrello tricolore, in un fazzoletto profumato.
Molly è tornata ad innaffiare i gerani questa mattina: il professore dice
che Urano è nella costellazione del Leone e che l’oltre non avrà dominio.

Gino Rago
Strutture serendipiche

John Cage suona il flauto del filosofo Empedocle mentre sulla ventunesima stella piove a dirotto.
Il vespasiano in via dei Dauni aspetta la fine dei fuochi artificiali.
Un romanzo di Moravia + una poesia di Sandro Penna – un bicchierino di Rum x “Il nome della rosa” romanzo di Umberto Eco.
4 + 4 = Corsivo – Normal = Discorso etero diretto.
Era una sera buia e tempestosa. La poiesis ha finalmente fatto ingresso in cucina.
Evitare l’invidia degli specchi quando le lampadine sono fulminate.

Francesco Paolo Intini (da Facebook del 29 settembre 2022)

Spyke di fine settembre

Accadde all’inizio che un gatto sognò Tex Willer
E mangiò un topo.
Il nulla sopravvisse nelle scatolette di tonno.
Gnam!
La parola passò di bocca in bocca ed infine diventò poltrona e sofà:
-Che c’è di buono in France?
Il parrucchiere di Gay-Lussac trasmette la notizia al dentista di Biden:
-Qui i secoli non hanno vita facile, spesso perdono la testa e si avvitano allo zero assoluto.
Ma poi rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.
Il potere si conserva in bottiglie di pelati.
Dal sorriso riconosci il botox.
Putin nei lifting massivi
Labbra e denti della Pennsylvania.
Ma se vuoi un Andreotti saporito
Devi cucinarti un rospo all’amatriciana.
-Io non sono Antigone -ripete un ragno sul muro
Ho lunghe bollette nel cassetto. Un mutuo per ogni angolo del soffitto
E stasera si mangia un sushi di vespa orientalis.
La giuria lanciò i suoi dadi
lati che facevano linguacce
versi che mostravano le fiche
L’endecasillabo stravinse dappertutto
Mentre la rima divenne primo ministro.

Questa poesia è la prova comprovata che il kitchen sorge insieme all’ insorgere di un colpo apoplettico che colpisce il linguaggio riducendolo a zattere in-significanti e inoperose (g.l.)

Giorgio Linguaglossa

Roberto Mussapi, Biancamaria Frabotta, Antonella Anedda, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Antonio Riccardi e altri epigoni minori adottano pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno, l’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato, fanno una liturgia del modernariato. Da questo punto di vista il minimalismo di un Magrelli è linguisticamente più avanzato, almeno lui si libera di quegli oggetti liturgici gettando dalla finestra i pezzi di un modernariato ormai implausibili e impresentabili.

Il fatto è che oggi parlare di «autenticità», di centricità dell’io, di «identità», di «soggetto», di «riconoscibilità», di «originarietà» della scrittura poetica implica un rivolgimento: porre al centro dell’attenzione critica la questione di un’altra «rappresentazione», di un «nuovo paradigma», di una «nuova forma-poesia». Il discorso poetico della poetry kitchen passa necessariamente attraverso la cruna dell’ago della lateralizzazione e del de-centramento dell’io, della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo Novecento incentrato sulla metastasi dell’io egolalico ed elegiaco e su una «forma-poesia riconoscibile». Il capitalismo cognitivo in crisi di identità e di accumulazione genera ovunque normologia e riconoscibilità, quello che occorre è l’«irriconoscibilità», una poiesis che abbia una forma-poesia irriconoscibile, infungibile, intrattabile, refrattaria a qualsiasi utilizzazione normologica.

Jacopo Ricciardi

1 ottobre 2022 alle 18:14

Il mio ultimo libro Dei sempre vivi è uscito con Stampa2009 diretta da Cucchi. Il libro non è né avvicinabile alla Poetry Kitchen (anche se si dirige verso quei lidi) né parente della poesia minimale dell’io e dell’esperienza di cui Cucchi è certamente l’esponente più autorevole.

Si distanziano da questa posizione io-centrica tutto quel gruppo di poeti simili a Marco Giovenale che escludono l’io in favore di una oggettualità del mondo.

Già tra questi due gruppi non c’è alcuna comunicazione, posti come sono sulle due facce della stessa medaglia. Un passaggio però esiste, e riguarda l’utilizzo è la considerazione (la lettura) da parte del secondo gruppo di tutta una serie di testi che per esempio vengono dall’arte contemporanea (Emilio Villa in testa) e questo dal mio punto di vista fa loro onore. Mentre parlavamo del libro da pubblicare Cucchi era avverso al Lucio Fontana dei tagli mentre esaltava il sempre eccezionale Lucio Fontana delle ceramiche figurative, o pseudo figurative. Dal mio punto di vista l’inclusione è sempre migliore dell’esclusione.

Ora se uno volesse una poesia che lavorasse sull’esperienza e sull’io ridimensionandone la portata da una diversa angolazione, si potrebbe benissimo parlare dei due premi Nobel Szymborska e Transtromer, molto diversi ma “rigenerativi”. Che il minimalismo italiano sia invece “conservatore”, paragonandolo a due Nobel, mi pare lampante.

Soprattutto Transtromer nella poesia “Silenzio” mostra come il contesto o il collante, o il linguaggio, debba essere compreso o ricompreso, perché il testo ne stabilisce un nuovo ordine: le immagini in successione sostituiscono il dettato, il parlato, quindi il poeta non utilizza le proprie parole ma delle immagini che si sostituiscono al suo parlare e al suo apparire nel mondo. Quindi le frasi di immagini si autoindagano e sprofondano in un abisso del linguaggio rinominando il “silenzio”, rinominandolo in “Silenzio”.

Quando in Poetry Kitchen si citano i versi di questa poesia “Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami / giù nel profondo dove l’Atlantico è nero” si isolano questi versi dal proprio contesto e così isolati sembrano già una poesia Kitchen. In PK si passa dall’immagine sola di Transtromer che tramanda l’abisso dell’essere come cosa della Natura, al distacco elementare di due parti del linguaggio che fa sbuffare su di noi il vuoto.

Io colgo in queste tre fasi una direzione di progressiva liberazione dall’io del testo poetico, e la Szymborska e ancor più Transtromer ne segnano il vettore. Quindi rifiutare questo fatto è pericoloso per la contemporaneità del proprio scrivere.

Jacopo Ricciardi

1 ottobre 2022 alle 10:26

Da un punto di vista decentrato rispetto alla posizione centrica di Linguaglossa e di altri come Intini o la Colasson ecc., io mi trovo a guardare in lontananza ciò che accade in quel centro teorico e pratico, che vuole o vorrebbe, battendo sempre sul medesimo punto, mostrare uno spazio privo di metafisica, quindi senza l’illusione della rappresentazione. Quindi il processo della lettura nella Poetry Kitchen vuole o vorrebbe disarcionare tutta l’abitudine narrativa o lineare dell’osservazione e della comprensione tradizionali, fondati sul riconoscimento delle cose del mondo. Quindi si ottiene un percorso spezzato che dà su una realtà che è appunto quel vuoto o nulla scoperti in un improvviso altrove che non ha più rapporto coi frammenti che l’hanno suscitato, un vuoto che genera quei frammenti galleggianti sul vuoto. Frammenti che non sono però il vuoto, ma che per frammentazione fanno scorgere oltre di loro il perfetto il vuoto. Ora se questo vuoto sta anche all’interno dei frammenti, le parole operano come forme e racconti metafisici, con una metafisica tradita che però è sempre metafisica. Una metafisica dal volto disilluso come dice Bertoldo. Il piacere della lettura è appunto questo perdersi nella parte metafisica, tradente sé medesima, dei frammenti e nei fantasmi delle cose, più che con l’incontro con il vero vuoto che è fisso, identico, tra i frammenti di un solo poeta, e di poeti diversi, uguale, solo momento, a dire il vero inafferrabile, e non trattenibile. Quindi io credo che il vuoto esterno ai frammenti non sia un appiglio per la mente, e che si riveli alla mente come attimo comunque mascherante se stesso, nel suo essere veritiero, e che i veri appigli siano nei frammenti dalla linearità cortissima o abortita, che trattengono in sé una metafisica ripetutamente e variegatamente ripiegata nel proprio tradimento. Uscire veramente dalla metafisica vorrebbe dire teorizzare il comportamento di una mente senza corpo e priva di mondo, e del tutto senza pensiero, in un tempo vasto senza tempo.

La Poetry Kitchen produce lo shock del vero vuoto? Forse.

Giorgio Linguaglossa

1 ottobre 2022 alle 14:27

caro Jacopo,

è che il vuoto ce l’abbiamo di fronte a noi ed è dentro di noi, dentro gli oggetti, è nel soggetto e nell’oggetto, specularmente. E allora, quale sguardo impostare?, quale esperienza?, quale lin-guaggio? Il problema di ogni giudizio o rappresentazione derivate da una posizione frontale, è che si è sempre di fronte a se stessi, che non si può sfuggire da se stessi e che si tratta sempre di un giudizio nei confronti di se stessi, che sarà sicuramente narcisistico, specularmente autoriferito, ombelicale ovunque poi cada, se nella storia o nella storialità, nell’ipoverità o nella iperverità o nella perversione. È che non resta che una educazione alla lateralità, alla disfunzionalità del linguaggio e del soggetto che lo agisce e del soggetto che viene agito, alla formazione di un’altra ottica che sdipani i fili di quel che si è costruito ponendo attenzione alla dis-attenzione, a quel che, di volta in volta, è andato smarrito, cetrifugato. Il «cogito ergo sum» di cartesiana memoria è stato rovesciato da Lacan nel monito «penso dove non sono, dunque sono dove non penso»: il diffondersi di questa concettualizzazione non-lineare della rappresentazione del soggetto non ha avuto seguito nella produzione poetica del novecento italiano, la rivoluzione copernicana iniziata da Freud deve essere portata a compimento anche nel cassetto della poesia italiana. Il linguaggio non è la sede del trauma, il trauma buca il linguaggio, ma il trauma del linguaggio obbliga il soggetto a perdere la cosa e a entrare nella rappresentazione. Questo è il passaggio fondamentale e strutturale: il momento in cui si struttura la soggettività per la rappresentazione è il medesimo momento in cui si struttura il linguaggio. Da questo momento in poi quando entriamo nel linguaggio perdiamo la Cosa e trattiamo con i suoi sostituti: le «parole» delle «cose», le «parole» delle merci, così le «parole» acquistano legittimazione giuridica e vengono convogliate attraverso i canali della comunicazione. Le parole vengono degradate ad utilitarietà e convogliate nella comunicazione. E così perdono peso, senso, significato.

Pensare che vi sia una uscita gratuita dalla fine della metafisica è errato. C’è sempre un dazio da pagare.

https://www.academia.edu/37583578/PK_9_Soggettivazioni_Segni_scarti_sintomi_Subjectivations_Signs_wastes_symptoms?email_work_card=title

Jacopo Ricciardi

1 ottobre 2022 alle 17:10

L’ipoverità e la disfunzionalità del linguaggio anche se possono essere messi in un discorso come distinti fattori, potrebbero a un atto pratico di verifica – analisi testuale – sovrapporsi ed essere addirittura la stessa cosa. Ossia, come posso sapere se il vuoto vero non è un’ipoverità del vuoto ovvero una sua immagine. Non ho difficoltà a vedere il vuoto, a “sentirlo” addirittura, nelle cose – coglierlo nella struttura della società contemporanea -, a formare di vuoto il soggetto, a rendermi conto della non aderenza tra frontalità e pratica disfunzionale del linguaggio come lateralità, ma penso che essere certi alla lettura che quel dato frammento o parola non mantenga un’aura metafisica che si confonda col desiderio di sogno e di racconto, ancorché negato, non è certo.

Nel mio caso poetico uno spazio e un tempo si dilatano in un modo che trova un luogo fatto di fuori spazio e fuori tempo, eppure resta una forma di spazio e di tempo, anche se nell’esperienza – alla lettura – molto diverso. Nei testi della Colasson trovo personaggi e loro gesti e situazioni ridotte e frammentate che mi danno godimento per essere dei fantasmi la cui aura mi fa sognare, nel vuoto diciamo, però sognato. Può essere un mio errore, il godimento. Però la lettura richiede soddisfazione di un godimento, altrimenti non ci sarebbe lettura. Intesti di Linguaglossa mi piacciono perché il luogo dove avviene una serie di fatti idiosincratici è un vuoto che nonostante tutto si riempie, di vuoto forse, ma che è sempre qualcosa. Così seguo la pallottola di Gino Rago, perché fa dipanare una storia che non si svolge, il filo della pallottola è fatto di vuoto ma pure passa come un filo continuo attaccato ad un ago che attraversa e lega distanze e tra loro il vuoto. Se Rago non mantenesse in vita la storia quale piacere proverebbe il lettore. Lucio Tosi seziona la realtà e la isola in maniera tale che la disgrega, ma pure la mantiene viva in pochissimi pezzi e quasi incomunicabile; perché ogni poesia comunica, e lo stare davanti a un testo così stringato che non si stringe può affascinare il lettore. Intini forse è l’unico che concede al lettore meno spazio, e che si trova al centro di un centro. Il testo di Intini si trova nel centro del centro della teoria di Linguaglossa, ma il lettore – dalla mia personale esperienza di lettura – vede il suo desiderio insieme al proprio sogno bruciati via.

Ora questo margine degli autori dal centro del centro – per esempio di Linguaglossa poeta rispetto al Linguaglossa critico – della Poetry Kitchen meno Intini, offrendo uno spazio meno stringato del linguaggio, dove ancora spiffera il desiderio e il sogno del lettore, a me pare necessario; evitandolo nella direzione di Intini – oltre di lui -, che pure non ne è esente, si farebbe del testo un esercizio filosofico anziché restare nel letterario, vivrebbe insomma nel presente della teoria anziché nel futuro della pratica.

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55 risposte a “Gino Rago, Strutture serendipiche, Mauro Pierno, Poesie da Antologia Poetry kitchen, Francesco Paolo Intini due poesie kitchen, Dialogo tra Giorgio Linguaglossa e Jacopo Ricciardi sulla poetry kitchen, La poesia maggioritaria di questi ultimi decenni adotta pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno, l’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato, fanno una liturgia del modernariato

  1. A proposito di dis-attenzione di cui scrive Giorgio Linguaglossa.
    La distrazione, parente stretta del gioco e della fantasia, ha questo di buono : cambia il paradigma, inverte l’ordine del discorso, rovescia gli stereotipi. La mente e il corpo non ripetono i gesti e i pensieri , ne inventano di nuovi .Il motivo è semplice, si esce dall’Io. Una mente distratta è libera di accedere a nuovi mondi. Ecco perché la poesia kitchen è libera, giocosa, incoercibile,.

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    • cara Tiziana,

      occorre imparare ad essere molto dis-attenti e dis-tratti per fare poesia kitchen, e anche molto dis-adatti a stare nel senso e nel significato come ci stanno tutti. È molto facile stare nel senso e nel significato consolidati, quello lo sanno fare tutti, è molto difficile invece stare fuori.luogo, fuori-senso, fuori-significato. In questa impresa i grandi comici (Totò, Buster Keaton, Crozza…) sono stati i primi a farla.

      Marie Laure Colasson Composizione acrilico 40×40 2021
      Per dirla con Adorno: in un’epoca dove lo stesso diritto all’esistenza dell’arte non è più una cosa ovvia, l’arte non può che essere arte moderna.
      La poesia di Ewa Tagher manifesta il proprio rigore individuando con precisione il punto in cui porre la poiesis: «bisognerebbe costruire un quadrato di senso con questi antipodi! Verrebbero fuori due assi: quello orizzontale avrebbe ai suoi estremi SPERANZA vs ASSENZA DI SPERANZA, quello verticale DISPERAZIONE vs ASSENZA DI DISPERAZIONE».
      «Per chi le contempla con pazienza le opere d’arte si mettono in movimento».1 ha scritto Adorno.
      A mettere in moto l’immagine, a fare dell’immagine un motore di significati imprevisti e imprevedibili, è la mancata identificazione dell’oggetto. L’opera d’arte è quella res che si distingue dalle altre res in quanto non ha una propria identità stabile e stabilita, perché la stabilizzazione del significato è il «proprio» del pensiero razionale e mimetico, quel «proprio» non è in grado di generare un «di più» o un «di meno», un significato ulteriore o citeriore non previsto e non messo nel conto.
      Il senso della poiesis non si esaurisce in un determinato, in un porre ma mantiene un fondo inesauribile di senso ulteriore, di senso citeriore, di senso ultroneo. Ciò che appare abnorme ha l’aspetto di «enigma». Il contenuto di verità dell’enigma mantiene sempre uno scarto in più o in meno dal significato; la comprensione di un’opera kitchen non può essere compiuta proprio in quanto al suo essere «di più» o «di meno» rispetto al significato. Il rapporto di reciprocità tra significato e non-significato si ripropone nello statuto di esistenza di questo «di più» e di questo «di meno» proprio della poiesis kitchen: il suo statuto di esistenza nell’ambito del significato è sempre in pericolo, ragione che esso viene indirizzato nella ostensione verso l’Altro, nel suo mostrarsi e nel suo dis-apparire di significati ultronei. La sua inafferrabilità è pari al suo mostrarsi e al suo dis-apparire: «In ogni opera d’arte genuina appare qualcosa che non c’è», afferma Adorno.2 Infatti, il contenuto di verità dell’opera d’arte, è diventato una verità problematica e instabile che abita in questo «di più» o «di meno», ed appunto perciò non può sottostare a nessuna comprensione concettuale né ad alcun giudizio di gusto o predicativo. La verità sedimentata nell’arte coincide con la non-verità sedimentata, coincide con la sua non-oggettualità, essere una res non-oggettuale. La sua verità attraversa la fatticità, le res, il presente e il disapparire del presente.

      1 T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, p. 115.
      2 Ibidem p. 119.

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  2. trascrivo una email che Giuseppe Talia ha inviato oggi a Mauro Pierno:

    Caro Mauro,
    A me piace piace molto l’idea del compostaggio che stai portando avanti con esiti interessanti.
    Da ragazzo, molti anni fa, provai a fare un esperimento simile, prendevo dall’indice dei libri di poesia di un autore il primo verso di ogni poesia, oppure il titolo, e cercavo di costruire un testo, intervenendo pochissimo con i collanti fra un verso e l’altro, solo congiunzioni e connettivi. Non volevo appropriarmi dei versi degli altri e nemmeno “tradirli”. I tempi allora non erano maturi per una operazione simile, inoltre ero da solo ed isolato e giravo a vuoto come un criceto nella ruota della sua gabbietta cercando ancora un senso. Oggi non penso a nessun tradimento, anzi il compostaggio che è formato da diverse parti organiche, rivitalizza la torba ottenuta.
    Un giorno portai da un restauratore di mobili una vecchia credenza di mia nonna, malconcia, scassata, a cui mancavano alcune parti e altre erano parecchio rovinate. Il restauratore mi disse che avrebbe recuperato il 35% dell’originale e che il resto l’avrebbe sostituito con parti nuove, in questo modo l’oggetto avrebbe mantenuto la sua “aura e valore di pezzo antico originale”. La cosa mi fece riflettere: il 35% delle parti originali era “significato“, il restante 65% era composto da “significanti”.

    Detto questo, penso che la tua ricerca del compostaggio sia molto interessante e con esiti rilevanti. L’unico consiglio che sento di darti è di lavorare sulla percentuale degli innesti.

    Non è il momento di fare polemica tra di noi ma di procedere compatti.

    Buona giornata
    Giuseppe

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  3. Giuseppe Talìa

    Questo verso di Intini

    Il verso, «Accadde all’inizio che un gatto sognò Tex Willer/E mangiò un topo,» di Francesco Paolo Intini, è composto da scatole, ognuna contenente una parola chiave, le scatole si aprono e si scopre un altro rebus, un gioco delle tre carte, gatto, Tex Willer e il topo. La combinazione dei tre assi ha una sua natura e sue specifiche leggi, presenta caratteri di induzione, qualcosa sfugge nella soluzione dell’ovvio, mangiò un topo.
    I versi si prestano ad un gioco: le tre carte di cui sopra sono degli addendi a cui possiamo attribuire diversi intrecci, dal più semplice il gatto che mangia il topo, al più complesso Tex Willer come un gatto, l’inconscio del gatto, l’istinto del gatto, il sogno del gatto, Tex Willer che mangia un nativo americano, eccetera.
    Il gioco potrebbe continuare per il resto del testo, con il rischio di “perdere la testa” dal “parrucchiere di Gay-Lussac.” (Qui ci starebbe bene un emoji)

    Le dis-soggettivazioni di Rago

    Gino Rago, «Evitare l’invidia degli specchi quando le lampadine sono fulminate», ci illumina riguardo la mancanza di illuminazione in rapporto allo specchio da sé a partire dall’avviso dato dal dato emozionale, l’invidia.
    Un rilievo di pregio nella poesia di Rago sono le dis-soggettivazioni che si rifanno sul soggetto, sulla bocca troppo piena di soggetto del soggetto, con questo procedimento la parola modifica il corpo del soggetto e acquisisce una sua corporeità.

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  4. Allegra Meroni
    La condizione del soggetto postmoderno

    da https://www.academia.edu/36662863/La_condizione_del_soggetto_postmoderno_in_Slavoj_Zizek?email_work_card=title

    Il soggetto occupa la posizione di «mediatore evanescente», vuoto sostanziale che, mediante il processo di soggettivazione, crea la rete Simbolica, nonché la realtà in cui noi tutti viviamo. Il soggetto si costruisce come un ente in se stesso decentrato rispetto al suo àgalma, concetto platonico ripreso da Lacan e tradotto in objet petit a, ovvero ciò che ho interpretato come identità primordiale dell’io.
    L’àgalma si caratterizza come l’oggetto nel soggetto, quella parte di Reale che, in quanto indomabile e non soggettivabile rispetto alla rete Simbolica, non è altro che un vuoto, un nulla che rende il soggetto diviso rispetto alla sua rappresentazione Simbolica, alla sua maschera identitaria creatasi nella realtà. Ma tale vuoto conserva in sé la potenza che mette in moto la jouissance, il sentimento di desiderio, per un verso terribile mentre per l’altro attraente, che riporta il soggetto a contatto con quella parte di Reale presente in lui che ritorna come spettro perturbante. Questo oggetto presente nel soggetto, che è più del soggetto stesso è la sua stessa verità, è quel residuo di Reale rimasto in lui che lo rende resto eccedente rispetto all’ordine Simbolico.
    La realtà, l’ordine Simbolico in cui si costituisce la vita sociale è dunque creato da un gesto vuoto di soggettivazione da parte del soggetto, c’è quindi un’iscrizione, parziale, del Reale all’interno del grande Altro. Questo processo è ciò che in Žižek viene identificato come operazione ideologica: è l’ideologia che permette al Simbolico di prendere vita nello specifico e di non rimanere nel generico, è l’ideologia che crea un campo di significati e significanti entro i quali si muoverà tutta la realtà sociale

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  5. Commento

    Le nuove forme di soggettività post-edipiche sono sostanzialmente soggettività serendipiche, Esse generano un costante bisogno di assoggettamento e dominio a fronte della perdita del grande Altro; la libertà di scelta del soggetto diviene dunque incondizionata (serendipica) e ora mediata da quella riflessività che è già da sempre presente nell’àgalma del soggetto (questo oggetto nel soggetto più forte del soggetto stesso, che resiste alla soggettivazione per il suo essere un «vuoto», vuoto di senso e di significato), il quale è costretto ad oscillare, obbligatoriamente, tra un reale pre-ontologico, il non-simbolizzato (spettrale, orrifico, spaventoso) e un reale ontologico (comprensibile, razionale, condivisibile), il simbolizzato. Nell’arco ampio e periglioso di questa oscillazione perpetua si dispiega il processo di soggettivazione, che è una soggettivazione alienata nel suo centro, una oscillazione perpetua che non conosce requie né stabilizzazione.

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  6. Giuseppe Talìa

    Caro Germanico,

    de-soggettivare la Bitinia
    produce un moto nel Messese
    (Messages for web).

    Le donne si tagliano i capelli
    sulle porte dell’agorà.

    Penso più surreale del surreale
    perché la lingua me lo impone.

    La lingua è fascista dice Barthes
    ti obbliga in quanto esiste di per sé.

    Un moto dalla provincia della Bitinia
    Produce un moto nel Messese.

    Ora, se l’Oracolo afferma che la lingua
    esiste di per sé, mi domando
    com’è fatta la lingua dell’Oracolo?

    Tallia

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    • caro Tallia

      il Grande Altro, Cesare, ci osserva di nascosto, dalle feritoie del suo Palazzo di specchi.
      La sua voce, de-soggettivata, è diventata impersonale,
      apodittica, ci chiede: «sì, sì o no, no», ci spinge alla reazione emotiva, o di qua o di là…

      La voce, le voci, quelle silenziate e quelle silenti, sono scomparse.
      Questo ludus perenne, questo gozzovigliare delle menti ci induce alla resa, letteralmente, ci disarma.
      Sì, tu dirai: «però le donne si tagliano i capelli».
      Ed io: «appunto, e poi?».

      Tu dici: «se l’Oracolo…», l’Oracolo dice ciò che conviene al Grande Altro, caro Tallia… siamo sub judice, inermi ormai.
      Tu dici: «la lingua è una prigione», ed io ti rispondo: «appunto, non possiamo uscire dalla prigione».
      Tu dici: «com’è fatta la lingua dell’Oracolo?», appunto, caro Tallia, l’Oracolo mente, è un fingitore, dobbiamo uscire dalla sua lingua menzognera fitta di ipoverità, la sua lingua è funzionale alle domande del Grande Altro.
      Tu dirai: «e allora?», ed io ti rispondo: «dobbiamo uscire dalla sua lingua invereconda, dobbiamo renderla inoperosa, infungibile, incomprensibile, intrattabile…»

      (Germanico)

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      • Giuseppe Talìa

        über die Linie

        Germanico, la provocazione
        È una nevrosi del clavicembalo.

        Cesare non lo sa, il consilium principis
        In segreto costruisce fagotti.
        Lotta con la trascendenza.
        Con il rientro nella storia.

        È ancora presto.

        I sintomi li conosci bene.
        L’atto finale del Grande Altro
        È una psicosi del clarinetto.

        Tallia

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  7. La procedura serendipica, tanto bene individuata su questa rivista, mi porta a considerare il rapporto tra la-voce e le-voci che affollano la mente (provenienti da fuori, dal mondo, e sedimentate all’interno); la prima, quale voce del non-io che a stento riesce a farsi sentire, la cosiddetta epifania (?). Mentre le-voci hanno andamento orizzontale (inerenti al linguaggio).
    La-voce, lungi dal provenire dall’alto, è invece, per così dire, voce a scomparsa (dell’Io e di ogni altra voce). Dico a-scomparsa perché la-voce non ha quasi durata; inadatta a sostenere il discorso, arriva e subito scompare (inutile tentare di inseguirla, è un adesso o mai più).
    Detto questo, cosciente di scrivere nell’incertezza, mi chiedo se l’ottima procedura serendipica non serva anche ad allargare le maglie del poetico. Allo stesso tempo mi chiedo se affidarsi unicamente al discorso orizzontale (le-voci), e con queste dare abilmente parvenza di senso, + non-senso a profusione, possa bastare. Vorrebbe essere una domanda.

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    • Giuseppe Talìa

      Caro Lucio,

      «C’è qualcosa della lingua che sfugge completamente al parlante. La lingua, in questo senso, non è un fenomeno psicologico, non è qualcosa che dipenda da quello che il parlante ricorda, crede o pensa. La lingua, anche se non riusciamo a spiegarci come sia possibile, sta fra i parlanti, come l’acqua fra i pesci del mare. E “pesce” non vuol dire, altro, in fondo, che: non sapere di vivere nell’acqua. C’è, appunto: «i fatti sociali non differiscono solo per qualità dai fatti psichici; essi hanno un altro sostrato, non si evolvono nel medesimo ambiente, non dipendono dalle medesime condizioni. […] Gli stati della coscienza collettiva sono d’un’altra natura che gli stati della coscienza individuale; essi sono rappresentazioni d’un’altra specie. La mentalità dei gruppi non è quella dei particolari; essa ha leggi proprie» (Durkheim 1970, 16-17). Saussure scopre che la lingua non è un «fatto sociale» fra gli altri. La lingua è il «fatto sociale», tutti gli altri non sono che conseguenze di questo fatto fondamentale. La principale conseguenza di questa scoperta è che se la lingua c’è, c’è per ragioni interne alla stessa lingua: «una spiegazione puramente psicologica dei fatti sociali» ha infatti il «difetto di lasciarsi sfuggire tutto ciò che essi hanno di specifico, cioè di sociale»

      Felice Cimatti
      Philosophy Kitchen #9

      https://www.academia.edu/38581057/La_lingua_c_è_Saussure_Chomsky_e_Lacan

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      • Caro Giuseppe,
        avverto lo scarto nel pensiero ogni qualvolta tento di collegarmi al sociale ( “i fatti sociali”). In questi frangenti ognuno può sperimentare il dramma dovuto alla condizione minoritaria del singolo. Ma non me ne preoccupo, ho idea che poesia, nel suo farsi quotidiano in tutto il mondo, sia dell’umanità il sussurro roboante, e forse anche la migliore testimonianza storica. Con questo, ho massima stima per chi ci riesce, i Fortini e Pasolini. Anche te, che so ti ci arrabatti. E non ho alcun problema in merito alla procedura serendipica, anzi ne faccio uso, adesso (grazie a tutti) anche più consapevolmente.
        Torno a dire della orizzontalità del pensiero, da intendersi come provenienza dello stesso. A me piace indagare su le procedure psichiche, per cui un pensiero e non un altro, ecc.

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        • Giuseppe Talìa

          Caro Lucio, se la lingua è, essa è il fatto sociale tra gli altri fatti sociali. Ad esempio, leggendo le tue Instant Poetry alcune volte ricorrono immagini di un bar, ci sono elementi sociali collettivi, il giornale, la tazzina di caffè, e sociali individuali, il modo in cui tu, parlante, comunichi. Si potrebbe tratteggiare un identikit dei luoghi dove le tue istantanee nascono, le suppellettili che le popolano, tra un ordinario casalingo e un ordinario esterno.
          Allo stesso modo si potrebbe fare con alcuni versi di Intini, il primo verso di solito, quello già citato del gatto, Tex Willer e il topo, dove della triade, forse l’unico oggetto o soggetto è Tex Willer, probabile che il giornaletto di Tex fosse vicino al parlante? Come anche un gatto? Chissà. l’altra di Intini riguarda il pesciolino d’argento, non riesco a trovarla quindi vado a memoria, il pesciolino d’argento che zig-zagheggia e non si riesce a schiacciarlo. Soffermiamoci su come può esser nato quel verso, a partire dal dato reale esperienziale di Intini che forse ha provato a schiacciare un pesciolino. Qui però con il pesciolino d’argento, siamo al cospetto di significanti, i grandi assenti che però ci sono e sono coinvolti nella lingua sociale.

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          • INSEGUENDO UN PESCIOLINO D’ARGENTO IN UN SERBATOIO DEL VUOTO (ovvero tentando un compostaggio viene fuori un puzzle)

            Dal libro di Poe un pesciolino
            grande quanto un orangutan
            E su in alto c’è un aereo
            Che ronza tutto attorno

            Seguitava un pesciolino a mostrare le ferite d’argento.
            Il microfono era salvo per miracolo e poteva fare il suo servizio.

            L’evoluzione è ovvia. La cucina contiene tutti gli elementi di un perfetto disordine. Se la lavastoviglie è la suocera, il frigo è la nuora. C’è spazio per Antigone ma anche per un pesciolino d’argento o un’aragosta nella grotta del divano.

            Invece solo un pesciolino è sembrato interessarsi a te,
            ti avrebbe persino adulato e citato uno dei tuoi versi
            se gli avessi promesso di tirarlo fuori dal lavandino
            anche solo per le zampette d’argento.

            Non è il caso di invidiare il pesciolino
            che pattina tranquillo
            sul ghiaccio dell’argento
            godendo l’ aria fresca
            dell’alcol all’aceto.

            Tutti al pesciolino d’argento!
            E quello si gira, fa un tentativo di sfuggire alla potenza dei piedi, a zig zag sui mattoni.
            Poi arriva un verso, sfuggito da un catorcio nel cestino, che gli abbaia dietro. La ricerca del corpo fu inutile. Ognuno aveva la sua ragione, il pezzo di racconto rumoreggiava tra i denti. Le parole insomma ne furono orgogliose.
            Il mondo libero è anche un pesciolino morto, tre miliardi di anni o quattro spazzati via da un verso che crede di aver visto un lupo correre dentro casa.

            (F.P.Intini)

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            • milaure colasson

              Intini, non smetti di sorprendermi per i tuoi lazzi serissimi come un colabrodo e uno scolapasta. Bellissimo l’accostamento della nuora e della suocera con Antigone, l’aragosta e con il pesciolino grande come un orangoutang. Ti volevo dire che ho ritrovato una aragosta che aveva appena deglutito il tuo pesciolino ma gli era venuto un mal di pancia argentato e lo aveva sputato di fuori.
              Ecco quanto.

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  8. La procedura serendipica esiste da sempre, ma è solo con la poetry kitchen che questo fenomeno, da episodico viene elevato al rango di consapevolezza critica, di centralità ontologica, di epistemologia, ovvero, di procedura della prassi, artistica e non.

    «Ogni giorno rimanevo […] seduto a tavolino,provavo un gran numero di combinazioni e non arrivavo a nessun risultato. Una sera, contrariamente alle mie abitudini, bevvi una tazza di caffè nero, e non riuscii a prendere sonno: le idee scaturivano in una ridda, le sentivo quasi cozzare le une con le altre, fino a quando due di esse non si agganciavano […] a formare una combinazione stabile. Al mattino, avevo stabilito l’esistenza di una classe di funzioni fuchsiane […]. Non mi restava altro da fare che mettere per iscritto i risultati.»
    Jules-Henri Poincaré (1914)

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  9. antonio sagredo

    “La procedura serendipica esiste da sempre, ma è solo con la poetry kitchen che questo fenomeno, da episodico viene elevato al rango di consapevolezza critica, di centralità ontologica, di epistemologia, ovvero, di procedura della prassi, artistica e non.”
    (Linguaglossa)
    —————————————————————
    Per me è quasi ovvio che sia di natura universale nel senso che anche la poetry kitchen rientra di diritto nella poesia sperimentale o non. E da sperimentale può divenire addirittura classica, cioè trovare delle basi così solide da essere di esempio per una poesia futura in tempi vicini.
    Con la poesia il critico può giocare o scherzare per il POETA è UNA COSA SERIA O O APPARTIENE AL REGNO DI cOMO, E TRA QUESTI DUE POLI UNA INNUMEREVOLE VARIETà DI GENERE, EC.

    AS

    —————————————————————————-
    ai morti e ai viventi
    antonio sagredo

    SERENDIPITY

    Se l’uomo è fatto di anima e di acqua
    non ha eguali per destino e vento –
    quando mai la vecchiaia è un cavo arbusto
    e il suo contrario un baratro nel fiore?
    o nel cuore?
    Sapete, la vita errante ha una fine
    o è uno specchio che si ritorce.
    Non ho che promesse come soglie effimere
    che seducono lo scettico e un credente senza fede.
    Insolenti gli universi che ci illuminano d’inganno
    e più malati sono i trionfi ignavi che ci guidano.

    Gli ossi, la casa e il doganiere non hanno senso per me
    e pure le altre corti, ignare, che ci circondano gementi.
    Coraggio, entriamo gioiosi, nati ieri, nella Villa accesa.
    Le mie Legioni hanno bisogno di scongiuri: che auguri, ZanZan!
    Contro tutti difendo la celeste AMO dai compagni
    e dalle capre, dai falchi, con eurovigore!
    Dalla Boemia invocai: A cha Kandicha!
    Bendir, Bendir siamo giunti a Tarab! A Toledo!
    Gioia del sama’: palme… lagrime… arrabbìche!
    O notte salentina! O folle Carmelo!
    Ya lîl!… ya lîl!
    La bestia senese divorai sul Ponte delle Legioni,
    sotto i rossi lampioni m’inseguiva il famelico Campana,
    mi… mi tallonavano le sue visioni levantine.
    Imbianchini, insanguinate i candelabri, le croci, le moschee!
    Nelle vostre piazze versate cisterne di occhi, artigli di tigri!
    Come arlecchini i tre profeti insozzate
    di succo di mirtillo!
    Dissacrateli!
    Distruggete i loro inferni e i loro paradisi!
    La terra?
    Purificatela!
    L’anima?
    Hanno mutato in eresia!

    Nutrivo di radici immaginarie le brughiere,
    i miei occhi infanti, di pietra!, sono esplosi,
    esplosi i vessilli su torri saracene!

    Io, 12 enne: Padre mio, quando ritorna Oriente?
    La luna sembra una moneta di rame…
    lalla illali… lalla…
    mi girano intorno statue colonne bifore…
    djinns! djinns! djinns!
    Era nerastra la torre moresca, dai merletti
    gettava il silenzio nello strazio, come un affondo di stiletti…
    lilah! lilah!
    dagli arazzi liquefatti ai campanili ammutoliti
    le umide lancette spente… alle cinque della sera.
    Finzioni,
    abbiate pietà!
    aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah,
    ho paura!… ho paura!… se svanisce la stranezza antica dei profeti!
    il loro – incanto!

    Tracciavano sui cuori eretici verità ambulanti:
    meridiane informi… tangenti di progresso… ellissi innominabili…
    deff… duff… deff…
    I ponti divorati dagli arcobaleni, i suicidi dai marosi.
    Sciagurati attori, dietro le quinte, misuravano i loro gesti
    su tavolette d’argilla col suono di creta delle destinazioni:
    percussioni di scritture dette e non comprese.
    taratîn… taratîn… taratîn…
    Offerte della rivelazione: sciocchezze!
    Rivelazioni dell’offerta: sciocchezze!
    Via il Coro:
    al-B-usc… usc… al-B-bee… b-bee… al-B-lai… b-lai… al-A-azar…!

    In lingua quequa s’uccise in fiumi profondi e fuggenti,
    piombati i luminosi naufraghi, corazzati vagabondi per i Rii
    di mutilati pelosi alberi… maestri di disarcionati amori… colombe!
    Natura,
    Natura non c’è via di scampo, per TE!
    Non ci sono più Simboli!
    Non esistono più Nuovi Mondi!
    Il Sogno di altre Terre?
    Puah!
    Non esiste più un Altrove!
    NON SOGNATE-MI PIÙ!
    La memoria andina se ne va… colpa dei mulini a vento!
    Specchio barbuto di Filippo… lacrimoso hildago…
    Corsaro delle croci, sudate pece – dai roghi!
    Spade di Eldorado, voglie equine di Berenice,
    città violate, come il pianto di Veronica!

    NON TI FARE SEDURRE: NON ESISTE RITORNO! LAZZARO
    LA VITA CHE TU CERCHI NON LA POTRAI TROVARE, ALTROVE!

    Scesi dalla scala di Giacobbe… malleoli in lagrime,
    rivelai la falsa fede dei profeti: facce di bronzo!
    Millenni di finzioni sui patiboli!
    Supplicai i moli di oscurare il mare con selci, ossidiana, e ossa nere!
    Incisioni d’ametiste trionfavano nella decifrazione egizia delle stelle:
    dinastie di piramidi, di bende, di schiavi, esodi di canti, tragedie di cori.

    Primitivo terrore, senza dei, senza colpa, ed era il Canto della Terra!
    Era il Tempo delle Privazioni… senza scrittura… senza pensiero…
    tutti gli eldorado, dopo, furono tremanti, fragili epitaffi,
    volgarità, selezione, liquidazione: infami balsami!
    Non ci resta che la barbarie, questa malattia natale!

    Viventi, noi?
    Fino a che un Dio già morto non ti succhia il corpo,
    geloso della nostra Domanda Inconoscibile,
    cantico umano o rettile incarnato in – leopardo!

    Non ho che la morte che mi esprime!
    Il mio più spietato disamore per tutti i calici che mi offrono!
    Non ho che da scegliere un sangue – non umano!
    Volevo salvare la mia vita: ho generato un Demone!
    La mia Creazione è più che un’offerta,
    è una Condanna!

    antonio sagredo

    Vermicino, 24-27 novembre — 1 dicembre 2003

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    • milaure colasson

      Sono rimasta senza parole, ci vorrebbe Carmelo Bene per recitare questo inno goliardico di disperazione e di illusione. Gentile Antonio lei è un illusionista, rientra nella classe dei maghi e dei maneggioni, coloro che imbrogliano con le tre carte e che si arricchiscono con i soldi dei potenti crasi e grassi.
      Questo pezzo farebbe gola anche a Dino Campana.

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  10. milaure colasson

    La serendipità del linguaggio corrisponde alla serendipità del funzionamento della nostra mente, come bene illustra la citazione del matematico Poincaré.
    La poetry kitchen non può fare a meno della prassi serendipica, e questo conferisce una novità straordinaria e dà straordinarie possibilità alla scrittura kitchen.
    Eccone un esempio.

    Un berlingot* géant dit à la blanche geisha
    “Écoute cette mélopée guerrière écoute
    Tagada boum boum…”

    “Eh bien oui c’est crever le plein
    et le vider comme un cochon bio-orthogonal
    assis sur un fauteuil Louis Philippe”
    répond-elle allongée sur un tapis volant

    “Ou bien” ajoute Eredia
    “Un tuyau d’aspiration muni de 48 dents
    et 3 ventricules!”

    “Cela semble vraiment une source de nourriture
    pour un yaourt rempli de poils de pubis”
    tranche sévèrement Madame Green

    L’homme du vide muet

    *

    Un berlingot* gigante dice alla bianca geisha
    “Ascolta questa melopea guerriera ascolta
    Tagada bum bum”

    “E bene sì questo è scavare il pieno
    e svuotarlo come un maiale bio-ortogonale
    assiso su una poltrona Luigi Filippo!”
    risponde la bianca geisha allungata su un tappeto volante

    “Oppure” aggiunge Eredia
    “Un tubo d’aspirazione munito di 48 denti
    e 3 ventricoli!”

    “Questo sembra veramente una sorgente di nutrimento
    per uno yogurt colmo di peli di pube”
    trancia severamente Madame Green

    L’uomo del vuoto muto

    *caramella di Carpentras, città del sud della Francia

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  11. Giuseppe Talìa

    Ogni volta che leggo Milaure trovo nella versione originale francese desideri di velluto, caramelle, e poi subito, Eh bien oui c’est crever le plein et le vider comme un cochon bio-orthogonal. La serendipità una volta scritta rimane, resta e con essa bisogna fare i conti, tra tubi, ventricoli, peli di pube, cibo, Tagada boum boum…et 3 ventricules!
    Ciò che rimane della serendipità, l’homme du vide muet.

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    • milaure colasson

      Apprezzo moltissimo, caro Giuseppe, il vostro dialogo tra le vostre controfigura, Tallia e Germanico, originalissimo modo di intendere il contemporaneo con un linguaggio ibrido e ibridatizzato (dizione di Linguaglossa). Anche questo (il parlare attraverso una maschera) è un mdus kitchen.

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  13. milaure colasson

    Tallia e Germanico si scambiano messaggi da un altro mondo, così Giuseppe Talia e Giorgio Linguaglossa indossano una maschera e parlano dalla maschera e dicono cose che non potrebbero mai dire se parlassero in prima persona e soprattutto se parlassero dell’oggi. Al contrario, Antonio Sagredo parla sempre in prima persona, usa un linguaggio da terrorista anarchico, linguaggio ribellistico e imbelle, mescola e fa friggere il sacro e il profano, anzi fa cozzare il sacro con il profano, il suo è un linguaggio patchwork camuffato e contraffatto dove ci trovi di tutto: barattoli, bottoni di madreperla, camicie sdrucite, incenso, pugnali, lampadari, semi di girasole, il vecchio e il nuovo testamento ridotti a operetta buffa alla Feideau. Il percorso di Sagredo è parallelo alla poetry kitchen ma, in sostanza gli è estraneo, Sagredo è un isolazionista, va per conto suo…
    L’Ombra è un workshop, un negozio-officina dove ci trovi di tutto, ma un tutto contraffatto e adulterato: ci trovi i patchwork di Intini e i compostaggi di Mauro Pierno, i frammenti di Tiziana Antonilli e i personaggi romani della coppia Talia-Linguaglossa, quel Tallia e quel Germanico del tutto fuori calendario, e per questo tanto contemporanei…

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  14. Giuseppe Talìa

    Dunque, saremmo fuori calendario secondo Eredia.

    “Eredia non è la parte eretica, Tallia.
    L’eretismo è sempre autoerotismo, desiderio.

    Però se dai bordi dell’Impero si spezza l’atomo
    Lo si fa quadrato come nell’Edipo, il fallo”

    Questo dispaccio mi è arrivato stamani
    Germanico,
    inviatomi dai servizi segreti del commercialista.

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    • Qui nell’Urbe non ce la passiamo tanto bene.
      La plebe è nel dubbio se stare dalla parte dei meloniani o se da quella del bullo di Mediolanum.
      In entrambi i casi siamo fottuti, caro Tallia.
      E poi c’è quel Cavaliere con le sue coorti di lucidascarpe e sciacalli che maneggiano con l’azero Ozerov che viene dalla Sarmatia in cambio di clorexidina e fanghi del mar Morto…
      Al momento, è in vetta agli scudi il tribuno dei contiani, quel manigoldo vuole la pax costi quel che costi con i barbari sarmati. Asserisce: «la Dacia se la sbrighi da sola, non sono fatti nostri, teniamoci le legioni a guardia delle Alpi apuane, i bordi dell’impero non è questione che ci riguardi!»
      Questo dicono i contiani, affermano la resa senza condizioni al barbaro d’oriente.
      Il cavaliere cincischia, i meloniani fanno minzioni, i salviniani spetazzano, caracollano per l’Urbe con le magliette con l’effigie dell’azero perfino nelle terme di Diocleziano…
      Nel frattempo i prezzi del gas dei sarmati sono già alle stelle, le cibarie costano quanto un occhio, servono rigassificatori, stoccaggi di armi e munizioni e meno climatizzatori, serve il grano della Dacia e meno ciarle tribunizie…

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    • Essere contemporanei implica essere fuori calendario
      non so se lo asserisce Eredia o il capo dei sarmati, Ozerov.

      Ma il calendario ha bisogno dell’orologio per esistere
      e l’orologio ha bisogno di due lancette.

      Ergo, il tempo ha bisogno di due lancette, due registratori in azione per poterlo indicare a dito.

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  15. antonio sagredo

    E si, carissima Colasson, ci siamo arrivati infine…
    un Carmelo Bene… ma è vivente ancora anche se le suE ultime parole furono :
    “non sento piu’ le gambe, voglio dormire”.

    ho dovuto tallonare la sua voce che se ne veniva verso di me per incontrarmi e essere a mia volta da lui inseguito… e ci siamo incontrati: la mia poesia nasce anche dalla sua voce piu’ i grandi poeti amatissimi: il cozzo è stato terribii.e per entrambi, come lo furono i nostri due incontri, e come ci guardammo negli occhi…

    I versi che dedicai a lui sono senza tempo come quelli di pasterna’k su majakovskij! e dino che origliava estasiato!
    eccoveli!:eccoli:
    (a C.B., in punto di morte, ore 21,09 del 16 marzo 2002)
    Requiem per Carmelo Bene

    Mi nutrirono di lacrime i nitriti dopo il crepuscolo
    quando l’Immortalità si fermò alla stazione del Nulla,
    nella notte che una maschera e la gloria uscirono di senno
    si mutò in rantolo di carne, come il Verbo, il tuo sguardo.
    Fu l’abbecedario di una malattia moresca
    a tradurre la lucciola libertina in notte eretica,
    i nerastri cantici dei tuoi occhi in raccapricci di cera,
    il pianto equino di una bambino nella cripta.
    Smoccola il cielo, ossa!
    Ti sei bardato della Grazia del vischio,
    come pelle di Magenta è la tua Voce.
    La gorgiera del tempo si sfarina…
    Nei padiglioni il tuo furore tracima cenere,
    come se la morte fosse altrove…
    dove i dèmoni hanno smarrito l’anima!
    dove gli dei hanno ceduto il corpo!

    antonio sagredo
    Vermicino, 19 marzo 2002
    ……………………………………………………………………….
    E quanto riguarda il secondo intervento: anche qui non siete lontana dal vero, e sia GiorgIo che Donato Di Stasi (prefatore dei miei “CAPRICCI”) e qualche altro più o meno lucido critico hanno tratteggiato con molta fatica la febbrile creazione del poeta.
    e mi sono messo allora in testa l’alloro da solo: non devo nulla a nessun poeta, anche se tanti hanno concorso (hanno fatto loro la lotta per entrare nella mia visione! e li ho fatti entrare perche’ e’ un credito che ho dovuto pagare coi migliori dei miei versi!
    perche’ l’altezza si misura con l’umilta’ del sangue!
    meritato e’ il mio risultato ed è anche loro merito . l a poesia mi ha prestato il suo “duende” senza tempo: ne ho approfittato senza alcun timore per 20 anni e alla fine ho ringraziato cosi’:
    e ora, poesia, andate a cercarvi un altro poeta giovane:
    ne avete bisogno!
    AS
    (non credo di aver esagerato, anzi mi sono pure trattenuto:
    i poeti sono sempre iN guerra col potere)
    AS
    —————————–
    E chiudo con l’aforisma di un poeta russo minore:
    “I talenti hanno bisogno di aiuto, la mediocrità sfonda da sé”.
    L. A. Ozerov

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  16. milaure colasson

    Citazioni di Jacques Lacan, Giorgio Linguaglossa, Vincenzo Vitiello, Pier Aldo Rovatti

    Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
    come soggetto, non era niente, ma che,
    appena apparso, si fissa in significante.

    L’io è letteralmente un oggetto –
    un oggetto che adempie a una certa funzione
    che chiamiamo funzione immaginaria

    il significante rappresenta un soggetto per un altro significante

    J. Lacan – seminario XI

    *

    L’«Evento» è quella «Presenza»
    che non si confonde mai con l’essere-presente,
    con un darsi in carne ed ossa.
    È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
    o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento

    G. Linguaglossa

    Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
    e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico

    G. Linguaglossa

    La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo

    G. Linguaglossa

    La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo

    G. Linguaglossa

    Con il primo piano si dilata lo spazio,
    con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo

    G. Linguaglossa

    Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
    con la metonimia la si raffredda

    G. Linguaglossa

    Non l’atto è prima della potenza, non l’essere è prima del possibile,
    ma questo – il possibile, il possibile non la potenza –
    è prima del mondo, della vita, dell’essere.
    “La possibilità più in alto della realtà”, mette in giuoco tutto…

    *
    Il più grande pericolo del pensiero è – il pensiero.
    L’onnifagia del pensiero. Là più pericolosa, dove si cela.

    *
    Il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
    volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
    può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
    che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia

    Vincenzo Vitiello

    L’evento è prima dell’essere, è più antico e originario dell’essere.
    E questo dipende da quello come la possibilità
    viene prima dell’evento e lo fonda

    G. Linguaglossa

    L’enigma non può essere sciolto con un atto di padronanza categoriale
    ma può solo essere percorso

    Pier Aldo Rovatti

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  17. antonio sagredo

    Profondità degli aforismi linguaglossiani, ecc. COME:

    Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
    con la metonimia la si raffredda

    G. Linguaglossa

    ma….
    riferisco alcuni versi che sono un ELOGIO DELLA METAFORA:
    ————–
    La metafora è un’arma a doppio taglio
    sintesi a priori
    di un certo bagaglio
    ha due significati
    puzza come l’aglio
    o può servire
    da comodo bagaglio.

    —————————
    Il principio del tuo fonema è tutto nel trastullo
    che governa il tradimento e il fondo del tuo grido.
    Quando la Morte giunge nasce la metafora:
    è il mio rinascimento in barba a tutti i veri morti!

    —————————————————————–
    Quella mia morte che io non vedrò mai esiliata,
    affamata come una metafora geografica
    griderà: sapete, l’infinito ha le ore contate!
    Tutti i numeri crolleranno come antichi imperi!
    ——————————————————————-
    La lettura volgeva al tramonto di uno stile il vaticinio
    di una lingua tòrtile, come una colonna asmatica
    che dal leggio al calice celebra la sua caduta,
    lo stupore di uno scacco e l’applauso di una metafora.

    ————————————————————
    È fantasia di una potenza che ha numeri reali,

    non immaginari, né naturali, sospesa fede incredula…
    metafora del numero è il sogno della lingua,
    insiemi di luce e luce degli insiemi:
    divergenti nella lacrima degli universi!
    ——————————————————————

    E dal battello io me ne venivo fuori come una metafora sdegnata che nemmeno al sole donava
    la sua barocca meraviglia, e crucciato e oltremarino era Edipo nel suo complesso… d’archi
    non sapeva il poveretto, mentre il tempo di leuca lo tallonava già in una tinozza di sangue – e
    se la rideva Antigone dei tempi antichi e di quei fasci incrollabili, fari gelosi – d’Alessandria!
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    La tenuta dei fiati intonava una nota tenebrosa per voce bianca,
    dai timbri raffiche di carni danzavano su un patetico registro.
    Il trillo di una scala leggero come la grazia di un miserere
    giocava d’agilità e tenerezza come l’epifania della metafora.
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    il Nulla si ritrasse da se stesso,

    come il Tutto! Non sono un cinico, disse Ruben, sono assente come una metafora… le figure sono una tortura e non conosco la differenza fra le macerie! Accidia è là dove mi sorprendono con un Pensiero! Il resto non è nemmeno un delirio o un caos… non ho che la mia presenza: vivo per vivere e non per prepararmi a vivere!

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    POI TOCCA ALLA METONIMIA

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  18. L’Evento e la poiesis sono due facce di un poliedro che ha tante facce, e comunque la visione del linguaggio (non della lingua) come una realtà poliedrica ci porta a considerare il fenomeno della processualità del linguaggio nel suo divenire, nel suo momento azionatorio-predicatorio e nel suo essere un fatto sociale. Il linguaggio stesso è un fatto sociale da cui derivano tutti gli altri fatti, anche i fatti non linguistici rientrano, in un certo senso, tra i fatti linguistici.

    a) La metafora è un atto di predicazione. La teoria della nominazione è del tutto insufficiente a spiegare la natura della metafora.
    b) La teoria della deviazione in sé non spiega in modo esauriente l’emergenza di un nuovo significato.
    c) La nozione di un senso metaforico di un enunciato implica una diplopia del referente propria del discorso poetico e una triplopia, quadrilopia, quintuplopia etc. … del linguaggio in azione.

    C’è una tesi secondo cui l’enunciato poetico anche se non contiene alcuna parola che sia direttamente metaforica, anzi che evita accuratamente la metafora, ha una risonanza e una ridondanza metaforica che risulta dall’insieme non metaforico. Qui non è questione della plausibilità di una idea della metafora considerata all’interno dei limiti dell’atto di nominazione (la teoria tradizionale, quella aristotelica della metafora), quanto di porre la metafora come una componente inevitabile del linguaggio in azione; è il linguaggio agito da un parlante, il linguaggio, quando è in vita ad essere naturalmente metaforico, pur contro l’intenzione di ogni enunciato, di ogni parlante, pur contro ogni intento azionatorio-predicatorio del linguaggio.

    Voler espungere la metafora dal linguaggio è un mestiere di Sisifo, nessuno può riuscirci; ma anche esprimersi con un linguaggio integralmente metaforico è destinato al fallimento, la metafora non si lascia padroneggiare, non si lascia prendere a comando, non si presenta all’appello dell’alzabandiera, non risponde a chi non si corrisponde. Metaforico è il rispondimento ad un domandare che è sempre implicito quando non è esplicito; anche quando lo si voglia evitare con tutte le proprie forze, il rispondimento e l’interrogativo si danno sempre all’unisono nell’ambito di un fatto sociale che l’atto linguistico fonda e presuppone allo stesso tempo.

    Una poesia di Francesco Intini, ed anche la poesia di Antonio Sagredo del 2003 postata sopra, come qualsivoglia poesia che si rispetti, quand’anche intenzionalmente non-metaforica produce sempre una risonanza e una ridondanza di natura metaforica.

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  19. “Voler espungere la metafora dal linguaggio è un mestiere di Sisifo, nessuno può riuscirci; ma anche esprimersi con un linguaggio integralmente metaforico è destinato al fallimento”
    GL

    Sono pienamente d’accordo. Si è detto di Intini, ebbene, quando rasenta il linguaggio metaforico presta il fianco al significato, apre le porte all’interpretazione, l’evento linguistico subisce rallentamento e si complica. Non leggo tante metafore nella poesia evento, quindi nella poetry kitchen. Personalmente ne faccio a meno, troppa poesia usa la metafora come stampella per accrescere l’effetto creativo, o poetico.

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  20. L’Ereignis e la Poiesis

    Voler costringere il linguaggio ad un intento azionatorio-predicatorio è già in sé un atto intimidatorio che il linguaggio tende ad espellere come un corpo estraneo. La poiesis è l’azione del linguaggio che accoglie l’Estraneo, il non-nominato, il non-nominabile. Nominando il non-ancora-nominato il linguaggio dimostra di essere in vita, di far festa, di non essere morto. E questa nominazione è, propriamente, l’atto della poiesis, il gioco di specchi che fa apparire qualcosa rende manifesto il gioco del linguaggio, in quanto il linguaggio «gioca» con se stesso senza finalità, senza scopo. Proprio come due specchi posti l’uno di fronte all’altro, essi riflettono il nulla che si cela al loro interno. La poiesis è il gioco di due specchi che riflettono il nulla che vi è all’interno di essi.

    Nella Erörterung (la ricerca del Luogo) si può misurare la sfiducia di Heidegger nei confronti del linguaggio di tutti i giorni. Per l’ultimo come per il primo Heidegger, il linguaggio ordinario resta sotto il segno dell’anonimato del «si», dell’opinione, della chiacchiera e del senso comune che promana sempre da una concezione impropria della natura del linguaggio. Il linguaggio ordinario è tale in quanto esso non è che l’uso della lingua, in questo uso le parole sono destinate a logorarsi, all’usura permanente. Per Heidegger l’uso delle parole implica la loro usura. Le «parole» (Worte) diventano «vocaboli» (Wörter). In ciò consiste la morte del linguaggio. Questa usura ha inizio in quanto le parole sono intese come dei «recipienti» destinati a ricevere un contenuto significante. Il senso che riempie le parole è già un’«acqua stagnante», afferma Heidegger. A questa immagine dell’«acqua stagnante», il filosofo tedesco contrappone l’immagine del pozzo e della sorgente.
    L’Ereignis e la poiesis giocano la medesima partita, si scambiano gli scarti del linguaggio, in quanto ciò che viene espulso dal linguaggio può farvi ritorno tramite la poiesis. In questa accezione Ereignis e poiesis sono intimamente collegate nel linguaggio, esse si rimandano il significato dall’uno all’altra come in un gioco di specchi e di maschere. Si corrispondono: dove si dà l’uno c’è anche l’altra. La poiesis accoglie ciò che viene scartato dal linguaggio. La poiesis che fa ritorno al linguaggio è l’evento a cui il linguaggio stesso si dà, così il circolo del linguaggio può essere ripristinato e la lingua può continuare a vivere. Si tratta del circolo poietico che è in vigore in ogni atto di linguaggio. Possiamo allora dire che in questa processualità del linguaggio stanno insieme l’Ereignis e la poiesis come due specchi che si specchiano. E il gioco può continuare.
    La poesia in quanto ha la funzione di preparare l’incontro con l’Estraneo, con l’a-topon esige un’apertura massima del gioco del linguaggio: la poiesis può sorgere finché c’è la festa del linguaggio.
    Per Heidegger non c’è che il «gioco» del linguaggio, il linguaggio «gioca» con gli attori che lo abitano. Questa idea del linguaggio come «gioco» non deve essere confusa con il concetto dei «giochi linguistici» del secondo Wittgenstein. Per Heidegger ciò che è essenziale è il gioco stesso, non i giocatori. In queste accezione si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo e, giocando con lui, lo rende umano al più alto grado, lo umanizza. Gli uomini che sono «giocati» dal linguaggio sono i poeti, coloro che si lasciano «giocare». L’Ereignis è il «luogo dei luoghi», il luogo dove il linguaggio «gioca» con se stesso.

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  21. La scrittrice premio Nobel Svetlana Aleksievic: “La Russia sta facendo quello che i nazisti facevano sul suo territorio: ora abbiamo a che fare col fascismo
    di Ezio Mauro

    Nata da madre ucraina e padre bielorusso, la scrittrice premio Nobel 2015 ha raccontato l’homo sovieticus. Oggi sta scrivendo un libro sulla nuova guerra: “Solo se vince Kiev vinciamo tutti”.

    Svetlana Aleksievic è nata in Ucraina nel 1948 ma è cresciuta e ha vissuto prevalentemente in Bielorussia. Oppositrice del regime del presidente Aleksander Lukashenko, ha trascorso lunghi periodi in esilio ed è dovuta fuggire in Germania nel 2020. Da giornalista e scrittrice ha raccontato le principali vicende dell’Urss e della Russia nella seconda metà del Novecento in una serie di romanzi corali basati su centinaia di testimonianze. Nel 2015 ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura “per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo” (dalla motivazione). Su sua iniziativa l’editore Bompiani pubblica ora le sue Opere principali in due volumi a cura di Sergio Rapetti con la traduzione di Rapetti e Nadia Cicognini: Guerre e Tornare al cuore dell’uomo (in libreria dal 25 maggio). Riportiamo, con l’autorizzazione dell’autore, l’intervista di Ezio Mauro pubblicata su Repubblica e Il Venerdì del 13 maggio 2022

    Svetlana Aleksandrovna, lei è cresciuta sovietica, è diventata scrittrice di lingua russa, con padre bielorusso e madre ucraina. Come vive oggi il conflitto tra queste quattro nature, entrate in guerra tra di loro?

    “Quando ho ricevuto il premio Nobel dissi che avevo due case, perfino tre: la Bielorussia, l’Ucraina e la cultura russa. Ma erano tempi completamente diversi, e tutti noi eravamo sotto l’influsso grandioso della cultura russa, sentivamo tutto il suo incanto, mentre oggi sembra di essere in un altro mondo. Dobbiamo domandarci, e domandare all’intera élite russa, perché la cultura del Paese è divenuta impotente, perché non aiuta in questa situazione tragica, perché le persone non si rivolgono alla parola della cultura, e non la ascoltano, e invece ascoltano soltanto la televisione”.

    Che cosa è successo?

    “Me lo chiedo ogni giorno. Lei sa che si parla sempre della ‘misteriosa anima russa’, nel Diciannovesimo secolo era un modo di dire molto comune. Oggi, dov’è finita quell’anima? Le faccio un solo esempio che mi ha colpito di recente. I servizi segreti ucraini effettuano continuamente intercettazioni delle conversazioni dei soldati russi con i loro genitori, le loro famiglie. Ed ecco che un soldato russo telefona alla moglie, e la informa: ‘Noi qui stiamo rubando, stiamo facendo sciacallaggio. Io non ho con me un borsone, ma qualcosa sono riuscito a prendere. Per esempio, argento non fresco’. ‘Argento non fresco? Che vuoi dire?’ chiede lei. ‘È ad esempio quello che leviamo ai morti. Ma tu riesci a lavorare con l’argento vecchio?’. Risposta: ‘Tu prendi, prendi tutto quel che trovi…’. Capito? Ecco dove nasce la mia domanda: come sta operando questa grande cultura russa? Perché oggi non funziona? Perché una propaganda così primitiva come quella della televisione ha preso il sopravvento? Senti che cosa dicono i soldati russi tra loro, o al telefono con i familiari, e ti chiedi: come è potuto accadere, perché abbiamo perso le persone in così poco tempo?”.

    È una mutazione indotta dalla guerra o in atto già da prima?

    “Io so che fino a poco tempo fa parlavamo di una nazione spirituale, di un Paese che, come sempre si dice, legge più di ogni altro: ed oggi, ecco, siamo arrivati all’argento non fresco da togliere ai morti… E tenga conto che potrei fare moltissimi esempi come questo. Quando, dopo lo scontro armato, il battaglione ripiega a riposare in Bielorussia, arrivano prima i carri armati colpiti e i blindati ammaccati, e subito dopo li seguono i Kamaz, i camion carichi di lavatrici, frigoriferi, biciclette da bambino… Una razzìa. E io mi sento disperata, e penso a come si può trovare una strada per raggiungere questo tipo di umanità, come scegliere le parole perché la gente capisca che sono cose terribili. La Russia sta facendo quello che i nazisti facevano sul suo territorio: ora abbiamo a che fare col fascismo russo”.

    È una spoliazione?

    “Sì, esattamente. I soldati razziano questi beni in Ucraina e li spediscono a casa utilizzando la nostra posta bielorussa. Centinaia di chili. E poi, soprattutto, laggiù le loro mogli, i figli, le famiglie indossano e usano quelle cose. Come ai tempi delle tribù primitive. Un bottino di guerra, un saccheggio dell’anima”.

    Noi parliamo di guerra, ma in Russia non si può. I giornalisti per raccontare quello che vedono al fronte devono usare le formule scelte dal potere. Perché la guerra comincia sempre con l’arresto delle parole?

    “Ma perché qualunque guerra è innanzitutto una grande menzogna. Lei deve tener conto, sempre, che Putin vuole appropriarsi del popolo. Per questo non vuole che la gente sappia la verità: che conosca la ragione per cui, ad esempio, la radio Eco di Mosca ha dovuto chiudere le trasmissioni. Ecco, questo è il motivo: la popolazione non deve sapere. La cosa più sorprendente è la reazione dei cittadini a questa confisca della verità. Ho visto in televisione un giornalista che cammina sulla Piazza Rossa, a Mosca, e domanda ai passanti: che ne pensa della guerra in Ucraina? La risposta di uno su due, se non di più, è di sostegno a Putin. Mi ha colpito una donna che ha detto: ‘Mia sorella vive a Kharkov, che è stata bombardata e lei è rimasta senza casa, ma io appoggio comunque il nostro Presidente. Perché se non fossimo stati noi ad aggredire saremmo stati aggrediti dagli americani’. Sono mitologie che vengono inculcate nella coscienza delle persone”.

    Ma come spiega questo consenso, è solo frutto della propaganda?

    “Certamente no. Vede, io in questo momento sto scrivendo un libro sulla situazione in Bielorussia e sulla guerra in Ucraina, e devo dire che studiando e analizzando quel che accade è sempre più difficile considerare Putin come l’unico colpevole. Ogni russo porta la sua parte di responsabilità. Perché ognuno, anche nel suo isolamento, nella paura, nella sua solitudine, può domandarsi cos’è questa guerra, cosa c’è di giusto in quel che facciamo in Ucraina, e trarre le proprie conclusioni. Fino a scoprire la vera questione: questa guerra chiama in causa una colpa collettiva”.

    Tutti colpevoli, nessun vero colpevole?

    “Proprio il contrario. Voglio dire che la finzione di un popolo oppresso e disgraziato è troppo facile, non spiega niente. Bisogna comprendere che anche il popolo è colpevole, e avere il coraggio di dirlo, perché è da qui che si deve ripartire. Ecco per esempio di nuovo un’intercettazione: un soldato russo in Ucraina parla con suo padre, il ragazzo non gli racconta le cose tremende che stanno facendo, ma si lamenta: “Papà, ci hanno detto che ci avrebbero pagato di più, invece ci hanno pagato pochissimo”. Ed è di questo che si mettono a discutere lui e il padre, è sui soldi che si sentono ingannati, non sulle ragioni della guerra. Non una parola sulle sofferenze di Mariupol, sulla tragedia di Bucha, sui cinque milioni e più di profughi e rifugiati, sulle centinaia di bambini che sono scomparsi o morti. Il mondo è annichilito da questo dramma e noi siamo davanti a un padre che dice a un figlio di guadagnare il più possibile per quando tornerà a casa. E io, personalmente, come scrittrice sono disperata”.

    Ma lei si aspettava l’invasione dell’Ucraina? In Occidente molti pensavano fosse una minaccia che non sarebbe diventata realtà. Lei aveva capito?

    “Io parlo molto con gli ucraini e loro, tutti, se lo aspettavano. Si preparavano. Facevano scorte di cibo, compravano benzina per le auto, partecipavano alle esercitazioni per imparare a sopravvivere in una situazione di guerra. Il fatto è che l’Ucraina da tempo avverte la Russia come un pericolo. Negli anni Trenta Stalin voleva prenderla per fame, oggi Putin la prende con i missili. Io sono ammirata dalla capacità di combattimento degli ucraini. Conosco ragazze e donne ucraine che lavorano qui in Germania, nelle pulizie delle case, mi raccontano che sono arrivate da poco coi bambini e coi mariti, i quali sono subito tornati indietro a combattere. Nessuno li obbligava, ma loro appena messa in salvo la famiglia sono rientrati in quell’inferno. Anche altri, che già da tempo vivevano in Germania, sono tornati in patria per combattere. Sono ammirata da questo popolo”.

    Lei si aspettava una resistenza di questo tipo da parte degli ucraini?

    “Io sono cresciuta con la mia nonna ucraina, ho passato molto tempo con lei, conosco la mentalità delle persone in quel Paese. Ma no, non mi aspettavo che avrebbero mostrato questa forza d’opposizione, temevo che si perdessero in un momento così estremo. Pochi avrebbero potuto mettere in campo una resistenza di questo genere. Ricordiamo l’effetto che ha fatto su di noi vedere tutti quei carri armati che arrivavano alla frontiera, quelle colonne in fila dalla Russia: e loro? Mi sembrava logico pensare che avrebbero tremato, anche per la sproporzione delle forze in gioco, potevano disgregarsi. Invece sono rimasti lì, ci sono ancora e continuano a resistere”.

    Ma Putin che cosa vuole con questa guerra? Io non credo che punti a ripristinare lo spazio dell’Unione Sovietica, perché manca il cemento ideologico del comunismo. Piuttosto credo che voglia reinterpretare il sovietismo come esercizio sovrano dell’autorità di Mosca, restituendo la Russia alle dimensioni imperiali di una volta. È questo l’obiettivo, il recupero del ruolo imperiale per il Cremlino?

    “Lui vuole ristabilire l’impero zarista. Ha l’idea e il mito della Grande Russia, e noi sappiamo bene come finisce nella Storia l’inseguimento di questo sogno di grandezza, la Grande Serbia, la Grande Germania, e ora la Russia. C’è sempre una premessa vittimistica. Putin continua a ripetere che la Russia è stata offesa, che è stata mortificata, che dobbiamo costringere gli altri a rispettarci, E poi c’è un odio quasi fisico verso l’Ucraina. Che cosa è la Russia senza Ucraina? Non c’è più l’antica Rus’ di Kiev, sparisce col suo deposito mitologico di tradizione. Putin, in poche parole, ritiene che l’Ucraina si sia appropriata della storia russa. E vuole riscrivere quella storia. Infatti alla vigilia dell’intervento armato ha dichiarato che la creazione di quello Stato fu un errore commesso da Lenin”.

    Ascolta anche il podcast >> Nella testa di Putin: viaggio all’interno del pensiero del nuovo Zar di Russia

    Non crede che l’Occidente abbia sbagliato, dopo la fine dell’Unione Sovietica, a ridurre la Russia al rango di potenza regionale, pensando che la dimensione imperiale fosse una sovrastruttura del bolscevismo – mentre invece c’era prima e sopravvive dopo – perché è parte dell’anima russa?

    “Io credo che nessuno si sia davvero reso conto di quel che sarebbe rimasto dopo il crollo dell’Impero. Intanto è rimasto un uomo corrotto, l’homo sovieticus – prodotto del bolscevismo – che per prima cosa vuole che lo si rispetti. Ma mi domando: per che cosa va rispettato? Per la quantità di armi nucleari che controlla? Ci sono molte cose per cui si può rispettare un Paese moderno, le idee, la ricerca tecnologica, le sue conquiste scientifiche. Invece no, noi dobbiamo rispettare soltanto la potenza militare, cioè il pericolo rappresentato dall’homo sovieticus: perché così, ridotto ad una sola dimensione, si tratta di un uomo cresciuto nella cultura della violenza, e che solo con la violenza sa risolvere i suoi problemi”.

    Non pensa che Putin, più che la Nato e la sfida territoriale, tema il contagio occidentale della democrazia?

    “A giudicare da quel che accadde a Minsk, durante la Rivoluzione bielorussa, quando centinaia di migliaia di persone scesero in piazza, direi che Putin ha aiutato Lukashenko proprio perché aveva molta paura della democrazia. Ha capito che sarebbe dilagata e per questo, poco per volta, le truppe russe hanno occupato la Bielorussia. All’inizio si disse che era per le manovre congiunte, ma poi le truppe non hanno più lasciato il nostro territorio. Oggi è Putin a guidare la Bielorussia, non è Lukashenko a stabilire se i carri armati passeranno di qui o di là e se i missili partiranno”.

    Ma è per questo tornaconto che Putin ha rinunciato al rango di leader di una grande potenza rispettata nel mondo? Per diventare il campione dell’antidemocrazia?

    “Io penso che Putin, diciamo così, è un uomo che è stato rinchiuso in un lager per tutta la vita. A un certo punto è uscito da quella gabbia. Eccolo, adesso è fuori, ma questo non vuol dire che superato il cancello del lager riesca a trasformarsi in un uomo libero. E guardi che questo è esattamente ciò che è accaduto a noi, a tutti noi. Siamo usciti dal recinto del lager, ma non sapevamo che cosa fosse la libertà. Neanche Putin lo sa. E non lo sanno i nostri oligarchi. Non lo sanno i nostri eserciti. Secondo un grande filosofo russo, Caadaev, l’idea che la Russia sia un Paese come gli altri è solo un’impressione. In realtà in Russia tutto dipende da chi si trova al vertice, tutto dipende sempre da un uomo solo. Dal suo egoismo, dalla sua idea della vita stessa, dalle sue ossessioni. La Russia di oggi è il riflesso di quello che Putin immagina della vita e del mondo”.

    Quattro anni fa, Putin ha detto che la democrazia liberale dell’Occidente ha fallito, non mantiene le sue promesse: che modello ha in testa?

    “Non comprende il principio basilare della democrazia, la sua concezione. Pensa che corrisponda alla discussione aperta nella società, tutto qui. È questa apertura che non capisce, la interpreta come un segno di debolezza. Per lui, tutto ciò che non è forza, è debolezza”.

    Ma la Russia è condannata a non conoscere la democrazia?

    “In ogni caso, penso non nella mia generazione. Noi non la vedremo. La via per la democrazia è lunga e costa fatica. Noi negli anni Novanta credevamo che la democrazia fosse lì lì per arrivare, a portata di mano, solo più tardi abbiamo compreso che invece è un percorso senza scorciatoie. Come si dice? Lunga è la strada per la libertà, e non si possono saltare le tappe. E per questo noi paghiamo col nostro sangue, con il nostro tempo nella storia. Sì, sì, siamo ancora in cammino”.

    Come può il Cremlino considerare l’Ucraina legata alla Russia sul piano spirituale e distruggere le sue città massacrando la popolazione civile?

    “Nella coscienza del mondo russo, tutto avviene attraverso la violenza. È il metro che misura tutto quello che succede in Russia. Ecco, ora, nei giorni della Pasqua, i russi dipingevano le uova e uccidevano gli uomini. E per loro è normale. Non solo. Arriva il Patriarca di tutte le Russie, Kirill, e benedice la guerra in Ucraina dicendo che il conflitto eviterà che da noi si facciano i Gay Pride: si rende conto?”.

    È l’arruolamento di Dio?

    “Si fa perfino fatica a credere che certe persone riescano a pensare cose del genere e che credano in quello che dicono”.

    Che giudizio dà di Zelensky? In Occidente c’è qualcuno che pensa che la resistenza ad oltranza porti ad aumentare il numero delle vittime, e il cinismo della Realpolitik quasi consiglia all’Ucraina di arrendersi. Cosa ne pensa?

    “In queste settimane ho avuto molte occasioni di ascoltare gli ucraini, e credo proprio che si difenderanno, come dicono, fino all’ultimo uomo. Perché Putin vuole distruggere il loro Paese, la loro cultura, la loro lingua. Per lui l’Ucraina non è degna di essere uno Stato, di esistere e di sopravvivere. E la gente ha reagito. È un popolo fiero e non accetterà nessuna capitolazione. Per questo è importante che il mondo sostenga l’Ucraina. Che dia armi e tutto ciò che serve, che aiuti”.

    Ma Putin ha sbagliato i suoi calcoli? E oggi che cosa può sbloccare la guerra, portare a un cessate il fuoco e a un negoziato serio?

    “Vede, Putin non è uno di quelli che accettano una resa. Prima di capitolare spinge il bottone nucleare”.

    Lei pensa che ci sia questo rischio? Che sia concreto?

    “Vorrei poterle rispondere che anche in Russia non tutti sono fanatici come lui: perché prima di premere quel bottone bisogna passare attraverso una lunga catena di controllo con soggetti diversi. E tutti hanno figli, nipoti, persone amate, e non spingeranno quel tasto perché sono esseri umani che hanno molto da perdere. Ma è davvero così? Qual è oggi l’equilibrio segreto del potere al Cremlino? Quella catena di comando, è operativa? Ha qualche grado di autonomia da Putin? O è solo lui a decidere? Perché lui sembra non amare nessuno, e agisce come un fanatico”.

    Lei è scesa nell’inferno di Chernobyl con 485 villaggi svuotati dalle radiazioni, due milioni di persone nelle zone contaminate. Cosa ha pensato quando i soldati russi hanno preso il controllo della centrale?

    “È stata, che dire, una notte tremenda, perché so bene che cos’è Chernobyl, e lì volavano pallottole, colpi di mortaio. E poi non solo hanno fatto irruzione, ma hanno cominciato a scavare, a toccare la terra, a smuovere ogni cosa, un disastro. Ora se ne sono andati. E però tra i soldati ci sono già molti malati, perché quella terra e quell’erba non si possono toccare e non si può vivere e dormire nelle tende in quel territorio. Questo significa che per Putin la vita di quei soldati non vale niente, tanto che non ha sentito il dovere elementare di consultarsi con gli scienziati: gli avrebbero spiegato che una cosa del genere non si può fare. Che è un suicidio”.

    Chernobyl, la bomba, la guerra: lei ha paura dell’Apocalisse?

    “Come posso spiegarle? Io ho già vissuto a lungo, ho visto molte cose. Ho paura per la mia nipotina, per mia figlia: ecco, sì, per loro ho paura. Quel che temo è che l’umanità possa finire per distruggere se stessa”.

    C’è davvero il rischio che questo conflitto degeneri in una terza guerra mondiale?

    “Questo rischio esiste, inutile negarlo. Qui bisogna essere molto accorti. Da un lato aiutare l’Ucraina e dall’altro utilizzare tutte le possibilità della diplomazia”.

    È questo che chiede all’Occidente?

    “Sì, questo, e con la massima urgenza”.

    Ma Est e Ovest sono condannati ad essere nemici? La Russia può fare a meno dell’Europa e l’Europa può fare a meno della Russia?

    “Non bisogna pensare che Putin sia la Russia: non è così. E questa domanda che si ripete sempre – come vivremo senza la Russia? – va aggiornata. Io credo che la politica delle sanzioni sia molto giusta per colpire proprio Putin. Perché si decide il suo destino di leader del Paese. Insisto: la Russia e Putin non sono la stessa cosa, mettiamocelo in testa. Quindi la Russia e l’Occidente torneranno insieme, non ho dubbi: ma quando non ci sarà più Putin”.

    Lei ritiene possibile un cambio di regime ai vertici della Russia?

    “Per ora non ho questa sensazione. Bisognerà vedere l’effetto delle sanzioni, e il corso della guerra. Perché se vince l’Ucraina vinciamo tutti, l’Europa, la Bielorussia, tutti: l’Ucraina combatte non solo per sé, ma anche per noi. Per esempio per quanto riguarda la Bielorussia, se vince l’Ucraina, anche il mio Paese avrà una chance”.

    Dipenderà anche dall’effetto che i soldati morti avranno sull’opinione pubblica russa, o ciò che ne rimane. In Ragazzi di zinco lei ha raccontato i viaggi di ritorno dei 15-20 mila caduti in Afghanistan sul “Tulipano nero”, l’aereo che trasportava i corpi in patria per le sepolture di notte. E oggi?

    “In Ucraina sono apparsi i crematori mobili al seguito dell’esercito russo. Anche questo è un modo per nascondere i morti, per riportarne il meno possibile in Russia. Per non dire la verità sul costo della guerra: nemmeno alle famiglie”.

    Lei racconta che ai tempi dell’Afghanistan i ragazzi non sapevano perché venivano mandati a morire, e volevano solo tornare a casa: è così anche adesso?

    “No, non credo. Oggi molti sono in guerra per guadagnare soldi, è proprio cambiato tutto in questi anni. Ascoltiamo di nuovo le intercettazioni, rivelano ogni cosa. Un soldato telefona alla madre. ‘Mamma, qui stiamo ammazzando la gente normale’. E la mamma risponde : ‘Ma no, io vedo sempre la televisione e voi state facendo una grande opera, state eliminando i nazisti’. E questo inganno per un intero popolo mette paura, non crede?”.

    Per Ragazzi di zinco lei ha subìto un processo perché l’esercito russo l’ha denunciata per diffamazione. Quelle pagine valgono ancora adesso per spiegare questa guerra?

    “Sì, anche oggi quelle pagine vengono lette e recitate in molti teatri. Ora finirò questo nuovo libro, il libro uscirà, e credo che mi aspetti un’altra denuncia e un altro processo per quel che racconto sulla guerra in Ucraina”.

    Lei scrive che i ragazzi-soldato russi partivano per Kabul parlando di internazionalismo, e in guerra scoprivano la realtà. Poi ricorda la scritta sul campo di concentramento delle isole Solovki, “Con mano di ferro costringiamo l’umanità alla felicità”: è questo il totalitarismo?

    “Sì, è il principio del totalitarismo”.

    Lei ha raccolto molte voci di persone che hanno patito la Seconda guerra mondiale. Raccontano che quando tornavano nei villaggi distrutti dai nazisti, si vergognavano che gli animali avessero assistito a questo scempio. Gli altri esseri viventi giudicano la nostra abiezione?

    “Sì. E io credo che l’esercito russo sarà giudicato. Quando l’Ucraina vincerà, tutto il mondo la ricostruirà. Ma prima ci sarà il giudizio”.

    I suoi libri vengono tradotti in quaranta lingue ma sono banditi in Bielorussia e lei ha dovuto lasciare il suo Paese. Si sente in esilio?

    “Sì, un moderno esilio. Oggi vorrei vivere a casa mia, lo vorrei molto”.

    Diceva, pochi anni fa, che siamo tutti uomini e donne “vicini nel tempo”, abbiamo gli stessi smartphone in tasca e soprattutto siamo uniti dalle stesse paure e dalle stesse illusioni. Perché questa convivenza civile si è rotta?

    “È una domanda complessa. Potrei risponderle che ciò è accaduto perché non abbiamo avuto la forza necessaria per resistere, e cambiare. Negli anni Novanta noi credemmo molto in questa possibilità, ma forse non c’era l’uomo libero, e per costruire la libertà ci vuole un uomo liberato. E allora quest’uomo non esisteva. Perché dal socialismo bolscevico non nasce un uomo libero”.

    Noi abbiamo la stessa età: lei pensa che quando finirà la generazione dell’homo sovieticus, la nostra, le cose cambieranno in Russia?

    “Difficile dirlo. Perché anche chi è nato dopo la fine dell’Urss è stato comunque educato da genitori che provengono dall’Urss, in un ambiente che deriva dall’Urss e ne porta ancora tutti i segni. È un processo più lungo di quello che noi avremmo immaginato e voluto. È tutto finito, e nello stesso tempo non sappiamo quando finirà davvero”.

    Suo padre è rimasto comunista fino all’ultimo giorno della sua vita, mentre lei spiega che l’Urss si lascia alle spalle “un mare di sangue e una fossa dove sono sepolti i nostri fratelli”: come sono possibili le due cose insieme?

    “Lei deve pensare una cosa: le persone che credevano in quel mondo erano persone oneste. Mio padre era un romantico. Mi diceva: l’idea era bella, è stato Stalin a rovinarla. È sempre stato una persona giusta, perbene, entrò nel partito durante la battaglia di Stalingrado, e lui ci credeva. Poi io lo amavo e lui amava me, e con il nostro amore abbiamo superato il fatto che vedevamo la vita in modi diversi”.

    Nei suoi libri mi ha colpito moltissimo proprio quello che lei sta dicendo adesso, la generosità di tante persone che hanno creduto nel comunismo in buona fede. Oggi si sentono ingannate?

    “Ma io sono convinta che persone del genere non ci saranno più, già adesso nessuno crede in questa idea. Anzi, ciò che sopravvive di questa idea oggi ha un carattere cinico e mercantile”.

    Scrive a un certo punto: “Siamo stati educati a fidarci della nostra patria”. È questa una delle ragioni del consenso?

    “Quando sono andata in Afghanistan rimasi molto colpita dal fatto che tra i soldati c’erano moltissimi volontari, ed erano figli dell’intellighenzia, anche contadina. Quelli che avevano sinceramente creduto avevano educato i figli nella stessa convinzione. Solo lì, in Afghanistan, i ragazzi hanno incominciato a capire. E io stessa, quando sono tornata da Kabul, ero un’altra persona, finalmente libera”.

    C’è un passaggio quasi metafisico nel suo libro, quando lei scrive: “Pensavamo che il comunismo fosse morto ma è una malattia cronica”, e aggiunge quel che dopo la caduta dell’Urss le ripetevano i vecchi sovietici: “Non ci dovete giudicare in base alle leggi della logica, ma a quelle della fede”. Si trattava di questo, una fede?

    “Proprio così, come una religione”.

    E questo culto cos’ha lasciato? Lei sostiene che i russi possono parlare di libertà solo per negazione, perché non l’hanno mai conosciuta, e aggiunge: “Il dolore è il nostro dono e la nostra condanna”. È la dimensione tragica dell’anima russa vittima e carnefice, immersa in una ordinarietà – lei scrive – sempre eccezionale. Le domando: fino a quando?

    “Ciò che posso dirle è che al momento si vive così in Russia. Ho letto recentemente le parole di una madre che stava accogliendo la bara di suo figlio dall’Ucraina. E diceva: ‘Io sono orgogliosa di mio figlio, è morto per la Russia’. Non so capire e non so spiegare come tutto si sia confuso così nella sua coscienza di madre, il male e il bene”.

    Dostoevskij si domanda: “Perché diavolo abbiamo bisogno di discernere il bene dal male se ci costa così caro?”. E lei aggiunge che “il male non è mai chimicamente puro”. Ma l’evidenza di questa guerra non si tradurrà in pedagogia del bene e del male anche per il popolo russo?

    “Questa è una guerra che non ha nessuna giustificazione, nulla che possa dimostrare la giustezza delle sue ragioni, una qualche motivazione sensata. Ciò nondimeno, ecco che cosa ha fatto Putin: ha investito nella propaganda un’enorme quantità di denaro, ricavato dalla vendita del gas e del petrolio. È un investimento sulla guerra: e infatti è riuscito a fare quello che voleva”.

    Il premio Nobel Dmitrij Muratov, direttore della Novaja Gazeta, costretta a chiudere dalla censura, ha detto che come non si può rimanere immuni dalle radiazioni se si sosta davanti al gruppo 3 della centrale di Chernobyl, così non si può vivere a Mosca e rimanere immuni dalla propaganda. Ha questo potere totale?

    “Qualche settimana fa ho fatto la prova: ho deciso di guardare i programmi della televisione russa per un giorno intero. E ho capito com’è difficile per una persona normale resistere. Molto difficile. Lo so, lei potrebbe dirmi che tocca a noi scrittori e artisti squarciare il velo, trovando le parole giuste. Ma vede, ne troviamo poche”.

    Intanto la guerra conta i suoi morti. Lei ha scritto: “Noi che veniamo dal socialismo abbiamo un rapporto particolare con la morte”. Mi spiega che cos’è?

    “Io immagino che per uno spagnolo o un italiano o un francese sia molto importante la sua vita. Ecco, per quella madre russa di cui abbiamo parlato prima è più importante l’idea. Ha appena visto morire suo figlio, ma l’idea della Russia prevale sul dolore di madre. Capisce quel che intendo dire?”.

    Ci sono pochi vincitori ma molti vinti. È un suo giudizio di dieci anni fa sul conflitto in Afghanistan. Vale anche come epitaffio anticipato per la guerra in Ucraina?

    “Sì. Gli uni riportano i trofei, gli altri le bare. Allo stesso tempo il 68 per cento dei russi sostiene Putin. E quanto più forti sono le sanzioni, tanto più lo sostengono. Perché pensano che la guerra sia la dimostrazione del fatto che intorno al Paese ci sono i nemici: noi siamo vittime dei nostri nemici e dobbiamo compattarci tutti insieme. Tipica, eterna, reazione della Russia quando si sente circondata”.

    Il futuro non è più al suo posto, e lei ci avverte che non possiamo più dichiarare con Cechov che “tra cent’anni il cielo pullulerà di diamanti”. Annichilita dalla guerra, è la fine della letteratura?

    “Non credo alla fine della letteratura, tanto che sto scrivendo. Ma sicuramente nel buio di questa grande crisi sarà difficile spiegare quel che ci è accaduto: e raccontare non solo la violenza del potere, ma soprattutto l’umiliazione della Russia”.

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  22. antonio sagredo

    OTTIMA L’IDEA DI PUBBLICARE QUESTA INTERVISTA, CHE SE CI FOSSE UN ” BLOG NAZIONALE ” CHE AVESSE AUDIENCE COME P.E. IL PRIMO CAANALE DELLA TV, SAREBBE UNA COSA MERAVIGLIOSA , MA NON E’ COSI’…
    E ALLORA LEGGIAMO CON ATTENZIONE:

    io spero tantissimo che questa intervista venga letta da migliaia di persone col solo scopo di poter aprire la loro mente ristretta e grezza: è una intevista che mette a nudo alcune delle caratteristiche del pensiero comune del popolo russo che nonostante alcuni progressi del passato prossimo resta ancorato a vecchi modi di pensare che rafforzano il potere dell’uomo totalitario…
    la questione è vecchia e antica… così scirveva Maurice Paleologue il 20 gennaio del 1916:
    ” Sesso, quando penso a tutto quello che d’arcaico, di arretrato, di primitivo, di disusatoc’è nelle istituzioni sociali e politiche della Russia, mi dice : Ecco a che punti sarebbe l?Europa se non avessimo avuto nè il Rinascimento, nè la Riforma, nè kla Rivoluzione francese.!..”

    Dunque, CON LA RIVOLUZIONE RUSSA PAREVA CHE SI FOSSE ALLORA APERTA UNA VIA VERSO LA LIBERTA’, E INVECE DALLA PADELLA ALLA BRACE…
    UNA VIA SENZA RITORNO CHE PAREVA IRREVERSIBILE
    (E NON LO FU PER POCO TEMPO PER GORBACEV) MA IL VIZIO DEL POTERE ASSOLTUO E TOTALE ORAMAI SEMBRA LA NARTURA STESSA DI CUI E’ FATTA LA RUSSIA.

    LASCIA UNA SPERANZA LA NOBEL, E IN QUESTO SENSO LEI LA PENSA COME ME. MA CADONO LE BRACCIA QUANDO SI LEGGE NELLA INTERVISTA CHE I GENITORI DEI SOLDATI RUSSI PENSANO ALLE RAZZIE CHE IL FIGLIO PORTERA’ A CASA. e PEGGIO QUANDO UNA MADRE DICE CHE IL FIGLIO E’ MORTO PER DIFENDERE LA RUSSIA: LA MENZOGNA DEL POTERE E’ QUESTA, E QUESTA E’ LA VERITA’ CHE DEVE TRIONFARE IN RUSSIA!
    IL POPOLO INCOLPEVOLE HA QUESTA UNICA COLPA CHE E’ LA SUA CONDANNA NON REVERSIBILE.
    MA SPERIAMO NONOSTANTE…

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  23. antonio sagredo

    Futuri? Passati?

    Levatrice dei morti —- la notte coi suoi gemiti e le stelle così lontane!
    Non abbiamo parole noi – nella luce! Stiletti di pensiero sono infelici passi,
    fitte delle nostre colpe i ritorni dell’eterno: rifugi, cisterne di insensati giorni.
    Inconsapevoli in un qualcosa da cui nascemmo: senza una fine e un principio!

    Ascoltare, dove non so e quando – da chi e da cosa? Insensata presenza il Nulla delle fedi del passato… è il nostro senso? Smarriti dagli occhi e dalle mani… sugli altari increduli di noi resteranno glorie declassate, tabulae rase, apocalissi di pensiero, orienti e occidenti: spazi scellerati, paradisi infernali… aurore e

    tramonti non ci saranno più… quali altri pensieri avremo che mai
    conoscemmo e quali altre immagini ci domineranno, quali altre matematiche,
    con quali occhi scriveremo un nuovo cominciamento… pace e guerra
    conosceremo in altri non-quando e non-dove… e l’Io sarà un altro Io,
    a noi – ignoto sarà il riso – senza… fine!

    Sulle rive invano cercheremo un albero, un oceano, un cantuccio…
    la distruzione sarà più che il nostro pane quotidiano…
    sarà una tendenza – senza… fine!
    Non si canta il nulla che non esiste – si canta quello che esiste – NOI!

    Antonio Sagredo

    Roma, 7/8 aprile 2015

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  24. https://www.lastampa.it/cronaca/2022/10/11/video/e_la_stampa_bellezza_la_rassegna_dei_quotidiani_dell11_ottobre_la_nuova_tattica_di_putin_e_la_caccia_ai_civili_lue_di-11259631/?ref=twhpv
    È possibile oggi scrivere una poesia sulla guerra?

    È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, per una semplice ragione: è la vita elementare, la vita quotidiana degli uomini delle democrazie neoliberali che è diventata una guerra permanente: andiamo in guerra tutti i giorni, tutti sono già preparati fin dalla culla ad andare in guerra, è una guerra generale e generalizzata, viviamo in una zona di conflittualità permanente e di permanente regime di esclusione (i più forti escludono i più deboli, i ricchi escludono i poveri, i mascalzoni gli onesti). Viviamo e prosperiamo in un regime ad esclusione portabile, controllata e irreggimentata, siamo entrati nell’epoca delle democrazie dell’esclusione controllata e auto controllata, con il premio di consolazione del sussidio di cittadinanza. La nuova ontologia estetica e la poetry kitchen derivano dalla presa di conoscenza di questa situazione globale. Il modernismo è finito. Chi scrive alla maniera lirica e postlirica è un confidente e un connivente di questa situazione politica di stallo stilistico. È inutile girarci intorno: le democrazie neoliberali se vorranno sopravvivere in Occidente devono trovare il coraggio di fare delle riforme drastiche: togliere ai ricchi e agli straricchi per devolvere parte di questa ricchezza smodata ai poveri, rimettere in moto l’ascensore sociale, aprire gli spazi di libertà. Brodskij è stato un poeta del modernismo europeo, la poesia “Lettera al generale Z” risale al 1968, alla invasione di Praga; oggi, con la guerra di invasione dell’Ucraina prendiamo atto che il modernismo è morto e sepolto, scrivere una poesia della memoria o una poesia sulla guerra sarebbe kitsch, un esercizio alla maniera degli anni Sessanta. Brodskij intelligentemente ha aggirato il problema: ha fatto una poesia contro il “generale Z.” non contro la guerra in modo generalizzato. Torniamo all’oggi, chiediamoci: come è possibile che Putin e il suo regime autocratico abbia raccolto e raccolga tuttora tra i disgraziati e i poveri tanto consenso? La domanda è perentoria e richiede una risposta. Io penso che qui in Europa si può rispondere rilanciando la democrazia, con delle riforme, rimettendo in moto la democrazia. In Russia la democrazia non c’è mai stata, ma qui in Italia e in Europa occorre da subito rafforzare la democrazia, soltanto costruendo un più di democrazia si potrà porre un argine alle smanie di potenza dell’élite di professionisti che ha fatto il suo apprendistato tra le file del KGB. Ma quello che c’è di più allarmante è vedere quanti appoggi e approvazioni indirette goda Putin e il suo regime tra le masse degli italiani e tra i partiti italiani di destra e anche in parte di sinistra. Come si può spiegare questo fatto? Come è stato possibile? – ma questo è un problema tutto italiano, squisitamente italiano.
    Negli anni che vanno dal 1914 al 1945 l’Occidente ha messo in atto, senza averne coscienza, un vero e proprio tentativo di auto annientamento. La guerra fredda che è seguita è stato un interludio di pace, armata ma di pace. Oggi con la guerra di invasione dell’Ucraina qui in Europa siamo entrati in una nuova era che però ci è ignota, in un certo senso noi siamo gli abitanti dell’ignoto. Non sappiamo se un’altra epoca si aprirà davanti a noi o se ci sarà il diluvio. Auden titolò L’età dell’ansia un poemetto ambientato in un bar di New York verso la fine della seconda guerra, oggi non so quale potrebbe essere il titolo di un libro di poesia che passerà ai posteri, forse il libro di Francesco Paolo Intini, Faust chiama Mefistofele per una metastasi (2019). Il sottotitolo del mio libro che sono in dubbio se dare alle stampe è: Distretto n. 18. Ora che ci penso la parola «distretto» è un termine militare, siamo già tutti militarizzati senza saperlo e senza volerlo, viviamo in una zona altamente militarizzata in quanto disponiamo di un inconscio storico de-politicizzato e di una vita privata de-privata in via di privatizzazione progressiva. La militarizzazione in atto delle coscienze si avvale di una vita privata che è stata de-privata, incapace di esperire esperienze, si oscilla tutti tra turismo e terrorismo. E questo lo troviamo accettabile.

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  25. PIETRO EREMITA

    Per PUTIN e i suoi seguaci di tutte le latitudini:

    questi (non) russi che hanno il potere assoluto e totale si differenziano dagli altri russi = resto della popolazione perche’ questa e’ la vittima (di sempre!) e quelli sono i carnefici, che vogliono far credere al resto del mondo (la parte piu’ ingenua e stupida) che sono incolpevoli e i non cattivi.
    nemmeno passa loro per la testa (ai non-russi) il credito secolare che hanno coi paesi occidentali in tutti i campi della attivita’ umana, a cominciare dalla architettura ecc. sarebbe una tragedia per loro a ricordarglielo! e grazie ai grandi poeti e scrittori russi (quasi tutti decimati dai non-russi) se hanno raggiunto una emancipazione di tipo moderno.

    Hanno spinto la Rrussia di nuovo indoetro, mentre la loro Russia (quella dei carnefici) ha tutto il diritto di esistere pena la loro estinzione: questo lo sanno fin troppo bene ed e’ per questo che hanno aperto le ostilita’, vantando di essere stati per primi attaccati, e taluno degli alti dirigenti ha affermato che noi occidentali siamo disperati perche’ stiamo perdendo il potere economico mondiale e che quando ne usciranno vincitori da questa guerra finalmente ci sara’ nel mondo la liberta’.
    pensate quale deformazione hanno questi non-russi-orientali che odiano l’ occidente da cui hanno attinto per secoli le conoscenze! ma forse e soprattutto per questo che lo odiano: sono consapevoli della loro arretratezza e della loro inefficienza. p.e. che usano e comprano i droni iraniani, perche’ non sono capaci di costruirseli; che hanno bisogno dei carcerati criminali (come i non-russi) e dei mercenari di vario genere, perche’ la loro armata da sola non e’ sufficiente.
    La vera Russia quella dei poeti e degli scrittori che hanno detto e scritto dei patimenti subiti dal popolo russo nei secoli non fallira mai!; e’ fallita la Russia dei carnefici che si travestono di continuo, tanto che la loro menzogna non esiste piu’ perche’ gli e’ restata soltanto la loro verita’! a cui tanta popolazione russa ancora crede perche’ nel tempo il loro dna e’ stato modificato dalla schiavitu’
    ecc. : non devono nemmeno pensarla la menzogna per dirla, perche’ è divenuta a tutti gli effetti la (loro) verita’.

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  26. Un gruppo di ordigni militari ormai in disuso, guidati
    da Robot la Marchesa (splendida lavatrice) decidono
    di cambiare pianeta. Ci riusciranno?
    (Continua a leggere)

    Le armi sono destinate a gruppi di fanatici russi
    e filo americani; ve ne sono dappertutto, anche infiltrati
    tra i pacifisti. Riuscirà Robot la Marchesa a condurre
    in salvo i sui intrepidi amici?

    Tratto dal bestseller “Roma capoccia”, il film
    racconta del decadimento intellettuale di parte
    della popolazione, e del popolo indeciso tra paura
    e disperazione.

    L’idea di dare voce agli elettro-armamenti negletti
    diversamente programmati, è stata molto apprezzata
    dalla critica internazionale.

    LMT

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    • Un gruppo di ordigni militari ormai in disuso, guidati
      da Robot la Marchesa (splendida lavatrice) decidono
      di cambiare pianeta. Ci riusciranno?
      (Continua a leggere)

      Le armi sono destinate a gruppi di fanatici russi
      e filo americani; ve ne sono dappertutto, anche infiltrati
      tra i pacifisti. Alla fine, Robot la Marchesa e i sui
      intrepidi amici riusciranno nell’impresa.

      «Addio, umani. Ne abbiamo viste più noi che…”

      Tratto dal bestseller “Roma capoccia”, il film
      racconta del decadimento intellettuale di parte
      della popolazione, e del popolo indeciso tra paura
      e disperazione.

      L’idea di dare voce agli elettro-armamenti negletti
      diversamente programmati, è stata molto apprezzata
      dalla critica internazionale.

      LMT

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  27. “Bella ciao” non è una canzone per pacifisti. Piuttosto questa di De André:

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  28. antonio sagredo

    – vedi sopra, Linguaglossa- :

    “oggi non so quale potrebbe essere il titolo di un libro di poesia che passerà ai posteri, il libro di Francesco Paolo Intini, -Faust chiama Mefistofele per una metastasi – (2019).”….
    Il prefatore, Donato i Stasi, del volume dei miei versi di ” Capricci” (2016) così scriveva :
    “Faust (la Poesia) chiede a Mefistofele-Sagredo come mai, essendo un angelo ribelle. condannato in perpetuo all’inferno, possa risalire per venirlo a visitare. E Mefistofele-Sagredo : ” Non è inferno anche questo?”.

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  29. Discorso di Gesù

    Gesù è salito sul palco allo Speaker’s Corner di Hyde Park dove ha tenuto questo discorso:
    «Sarete salvi quando apprenderete che Polipharma è la sorella di Polifemo e che il glucosio è il fratello siamese del lattosio.
    Ricordatevi che il sole non tramonta mai due volte.
    Non dimenticate di chiudere il gas quando uscite di casa.
    Chiudete anche il rubinetto centrale dell’erogazione dell’acqua.
    Chiudete tutte le finestre.
    Spegnete tutti i lampadari.
    Date sempre almeno tre mandate alla porta d’ingresso.
    Dite sempre buongiorno all’interlocutore.
    Dite sempre buonasera all’intercapedine.
    Chi si avvicina è perduto.
    Chi si allontana anche.
    Taci, il nemico ti ascolta.
    Ti ascolta anche l’amico, quindi continuate a tacere.
    Usate il manubrio quando andate in bicicletta.
    Usate il borotalco
    Usate il colluttorio Emoform Plakout active, la prima clorexidina dal gusto gradevole.

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  30. … mi sono chiesto più volte quale sia il lettore ideale della poetry kitchen. Devo ammettere che non ho una risposta esaustiva.

    La poetry kitchen privilegia, anzi, richiede un «lettore elementare»? cioè privo di competenze letterarie?, un «lettore senza rappresentazioni»?, oppure un «lettore con rappresentazioni?», con competenze semasiologiche e letterarie?. Vi sono forme di comunicazione a «storicità ridotta», a tradizione ridotta, anzi, ridottissima. Questo è un bene o un male?, oppure la poetry kitchen deve privilegiare un lettore a storicità evoluta?
    Domande lapalissiane ma complicate da devolvere in risposte. E così torniamo al punto di partenza.

    Il Collasso dell’ordine Simbolico dei nostri anni ultimi ha attinenza con la nascita e lo sviluppo della poetry kitchen? I linguaggi che sono collassati hanno attinenza con i cosiddetti linguaggi letterari e con i linguaggi poetici?

    Ho la sensazione che la prassi del materialismo della poetry kitchen non abbia bisogno di sondare l’intenzionalità, l’abitrarietà, la comunicatività della specificità linguistica kitchen, ma allo stesso temppo la pratica kitchen ha attinenza anche con il non intenzionale, il non analogico, la non corrispondenza/trasformazione del nesso cose-segni-pensiero.

    È stato detto che la pratica kitchen non ha una attinenza nel Politico, ma io penso che sia un giudizio fuorviante: è il Politico che non ha più attinenza con la modalità kitchen o pratica kitchen. Il fatto è che il mondo diventato integralmente kitchen non vuole assolutamente vedersi e riconoscersi allo specchio, preferisce la falsa coscienza delle pratiche assolutorie, preferisce le pratiche linguistiche consolatorie della poiesis tradizionale che non si poneva questi problemi.

    La poesia kitchen in realtà è «giubilatoria» nel senso in cui intende la parola Lacan quando la usa per indicare l’attività frenetica del bambino davanti allo specchio che riconosce la sua sembianza come immagine di sé. Così è la poiesis kitchen: è «giubilatoria» in quanto allegria della scoperta che tutti i nomi sono dei bottoni di madreperla o di plastica che possono essere abbottonati o sbottonati.

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  31. CRONACHE DA STOLTENBURG: ESERCITAZIONI NUCLEARI.

    1-Data una città di mille abitanti calcolare quanto plutonio (Pu) occorre per
    a) cuocerla alla coque
    b) arrostirla
    c) disintegrarla
    In caso avanzasse un po’ di calore dire se basterebbe per cucinare un quintale di spaghetti o lessare tre tonnellate di patate novelle per la truppa.

    2- Calcolare la traiettoria degli elettroni:
    possibili risposte:
    a) migrano da Sud verso Nord rimanendo
    a1)single;
    a2)in riga per due;
    a3)per famiglie numerose. Giustificare la scelta.
    b) continuano a girare come falene intorno a
    b1)un nucleo provvisorio meno caldo,
    b2) un’ oasi di pace oceanica
    b3) la testa di un primo ministro.
    c) fanno finta di niente, fischiettando un inno nazionale alla volta.

    3-I neutroni, come si sa, sono pipistrelli che volano alla cieca. Inseguono insetti ma talvolta impattano sul territorio. Calcolare la probabilità di incontrare:

    a) un neonato
    b) un capo di stato
    c)il DNA di Yersinia pestis.

    Dire inoltre cosa succederebbe in caso di impatto con un altro quintale di plutonio (Pu).

    (F.P.Intini)

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    • Cari amici, purtroppo ho mia madre all’ospedale di Frascati a seguito di una caduta accidentale, ha riportato una frattura all’acetabolo. Frattura molto grave che alla veneranda età di 101 anni può avere conseguenze letali.
      Vorrei qui in questa sede levare un brindisi a questa composizione di Francesco Intini, scritta con stile giubilatorio, gestualità giubilatoria, con una sintassi claudicante, lessico sferzante, composizione derisoria, politicamente ineccepibile, che non fa sconti a nessuno… uno dei punti più alti della poesia in modalità kitchen che consiste nell’avere uno sguardo impassibile, perfino feroce, che oscilla tra giubilo e allegria di naufragi e lutto post-atomico.
      L’Elefante è qui, tra di noi, ma noi non lo vediamo.

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  32. Propongo un
    Tentativo di montaggio in stile kitchen
    (pensando all’idea sottesa all'”Atlante” di Warburg

    Gino Rago
    Montaggio

    Prima di uscire di casa chiudere nel frigo il fattore di Boltzmann
    Il poeta Pavel Řezníček ingoia i diabetici davanti al Ritz Hotel

    La Poetry kitchen frantuma l’intero e ricompone i frammenti
    Un sommergibile sul fondo del mare ha le batterie scariche

    Deus absconditus carica la penna stilografica con il latte versato
    Leggere le poesie dopo le cancellature delle firme

    Mettetevi in tasca la scienza senza nome e soffiatevi il naso
    Spedite a Vladimir Putin le similitudini rovesciate

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  33. È come un attimo che finisce, ha una durata e finisce. Non è eterno.

    *
    Mia mamma, madre sorriso.
    Insegna agli elefanti, scuola di sabotaggio.

    Così scriveva la figlia, un po’ per noia e un po’.
    La traditrice.

    LMT

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  34. Haiku.

    Vorresti che Putin ordinasse il lancio
    di una prima atomica. Non troppo devastante.
    Così noi gli facciamo saltare le budella.

    O che Zelensky morisse suicida, perché
    abbandonato dalla cavalleria pesante.
    Suicida, poi anche avvelenato.

    Bagno di sangue.

    LMT

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  35. Agenda 2023, Progetto Cultura, Roma
    Poesie tratte dalla Antologia Poesia Contemporanea
    Poetry Kitchen
    a cura di Giorgio Linguaglossa

    Ecco una sintesi di ciò che desidererei che dei poeti della Antologia Poetry Kitchen si dicesse e si scrivesse:

    «Sono arrivati/e. Finalmente sono arrivati/e. ORA sono tra noi. Dopo lo choc iniziale abbiamo imparato a conoscerli/e, a frequentarli/e, forse persino ad a amarli/e.

    Attraverso di loro prendiamo un poco alla volta CONTATTO con le cose che ci circondano, che ci assediano, che ci interpellano.
    Siamo di nuovo in grado di leggere la realtà di ogni giorno, realtà da troppo tempo afona, opaca, irriconoscibile ai nostri occhi appannati.

    L’ATTESA è stata lunga ma non inutile.
    Non era soltanto un desiderio incomunicato, né una speranza dettata da una sorta di istinto di sopravvivenza e dal rifiuto di rassegnarsi al VUOTO, a un paese spento, intristito, arreso alla volgarità di poteri arroganti, drogato da una televisione al di sotto delle attese che ci sommerge di frustrazioni e di cinismo, di cialtronerie e di disprezzo per ogni forma di intelligenza.

    Un vuoto di una poesia attardata che chiedeva disperatamente di essere colmato da NUOVE ENERGIE, DA NUOVE STORIE, DA NUOVE FACCE, DA UN NUOVO LINGUAGGIO, DA UNA NUOVA ONTOLOGIA, DA UNA NUOVA ESTETICA.

    Sono arrivati/e.
    Eccoli/e tra di noi quelli/e della POETRY KITCHEN».

    Gino Rago

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  36. antonio sagredo

    Ma vorrei prima di tutto fare gli auguri di pronta giuarigione alla Madrei di Giorgio Linguaglossa, che cadendo si è fratturata: la signora ha 101 di anni.
    —————————————————————————
    —————————————————————————–
    Un” poema infernale” di Antonio Sagredo – articolo di Stefano Valente

    “In questa nota vorrei commentare in breve un componimento del poeta Antonio Sagredo che risale all’anno 2006 ma che è stato recentemente pubblicato a cura di Michele G. Bianchi sul nuovo sito del Centro per la Filosofia Italiana. “Le città di Dio (poema infernale)” è il titolo dell’opera. E di vero poema infernale si tratta. Con versi infuocati il poeta si scaglia contro ogni forma di religione e specialmente contro le tre religioni rivelate e contro il virus incancrenito del loro triplice verbo. Sagredo grazie al linguaggio della poesia (qui spinto fino all’ingiuria ed alla bestemmia) trasforma il suo eretico sentimento di rabbia in una rabbia analitica che in pochi scarnificanti versi denuncia l’impostura della religione. Ma le sue non sono movenze compiaciute da poeta maledetto (nel suo poema non c’è traccia di compiacimento nel male o peggio di autocompiacimento) piuttosto qui è il poeta stesso a farsi maledizione fino a scendere al fondo dell’inferno: l’inferno dell’uomo che abbandona Dio preferendogli l’inferno proprio perché precedentemente abbandonato dall’astratto ed arido Dio delle religioni e delle teologie. Eppure al fondo dell’abisso nella più terribile ed irredimibile dannazione non si trova più solo: la sua solitudine si ritrova inspiegabilmente abitata da una presenza che commuove per la sua tenerezza: Padre, ho paura che nell’erba rorida non troverò mai più un verso umano!/Ho paura del tuo tradimento non voluto… ho paura…/ho paura che ci sia troppo amore… nel Male! Dopo la rabbia e la bestemmia la paura… o meglio una presenza, un nome. Non il nome di Dio, bensì il nome del Padre! É solo al fondo degli inferi che il poeta fatto maledizione – esattamente come il Figlio di Dio appeso al palo della vergogna (Cfr. Galati 3,10-14) – si scopre Figlio. Questa è la sconvolgente verità che sta al fondo di questo poema infernale! “Cristo Gesù sta talmente in basso che chiunque cade precipita in Lui” (Hans Urs Von Balthasar).”
    ————————————————————–
    (riporto l’epilogo del poema):

    Io, fermo, come in moto, atterrito nella stanza dai miei stessi occhi,
    miravo generazioni marciare di là dalla finestra con altro movimento.
    Avanti… indietro… non capivo a quale spazio e a quale tempo appartenevo.
    Io, un vivente recidivo! Il mio capezzale reclamava gli angeli, le Sante votive!
    Quale Male mi cullava contro gli specchi e le vetrate, inchiodato?
    Le leggi erano terribili per un errore umano, o divino?

    Eretici il cuore e la mia mente: fedeli piloti del mio – fantasticare!
    Poesia, vattene, non amo la tua prigionia!

    Non so che farmene del sangue di quel calice, delle luci accese
    di quei sette candelabri, delle palme dorate che tradiscono l’oriente.
    Il mio viaggio non prevede la fine alla stazione Termini dei loro paradisi:
    ho ancora il cervello pulsante dei miei Padri Precristiani!

    Ho il culto della vita nel presente, non l’inganno di una qualsiasi risurrezione.

    Padre, ho paura di questi dei terrestri!
    Dei teologi che osano studiare Dio… delle loro scritture,
    preghiere, promesse, perdoni!

    Ho paura delle guerre, delle loro apocalissi: ossari!

    Padre, ho paura che nell’erba rorida non troverò mai più un verso umano!
    Ho paura del tuo tradimento non voluto… ho paura…

    ho paura che ci sia troppo amore… nel Male!

    Antonio Sagredo

    Vermicino, 3/4/5/6/9/10/17 ottobre 2006

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  37. L’Elefante ha generato un gran numero di corvi con la sua proboscide ha fracassato il vasellame, le suppellettili e i ninnoli, adesso si è accomodato in poltrona, si vuole riposare, una miriade di corvi ha preso il suo posto.

    Siamo già oltre i confini del Moderno, siamo in pieno Dopo il Moderno, dopo l’epoca del modernariato e del vintage come repertorio permanente di stili defunti che possono essere ripescati riciclati e disusati; siamo nel Mondo diviso in due, anzi tre blocchi. Il Signor Capitale dice che non c’è alcun Elefante, che tutto è a posto, che i nostri dubbi sono in realtà miraggi, prodotti di scetticismo e di illusionismo, che abitiamo il non peggiore dei mondi possibili e ci invita a costruire con uno stile patico le nostre abitazioni di cartapesta e i lungometraggi con i quali allietiamo le nostre solitudini sociali. Qui in Occidente il Signor Capitale ci ammannisce la sordità e l’obsolescenza programmata, ci dice che l’ultroneo va bene per situazioni ultronee e va bannato, che il reale è razionale e che ci troviamo nel migliore dei mondi possibili e immaginabili, che i corvi parlano una lingua nera mentre i cigni parlano una lingua bianca, che viviamo come fossimo a bordo di un sommergibile: amiamo e odiamo senza le isoglosse del desiderio e della passione, preda di invidie distopiche e di cinismi da disperati. In realtà siamo tutti diventati apatici, atopici, isotonici.

    La nuova ontologia del poetico è il prodotto del collasso del Simbolico e del collasso del mondo unipolare. L’economia politica è la regina che regna sovrana in Occidente e in Oriente. Nel mondo collassato, la sintassi e lo stile nominale assumono una positura anironica, ipocalorica, iperbarica, termobarica; i corvi hanno preso il posto dell’Elefante. La poiesis seriosa di Eliot e del primo Montale, oggi è un oggetto di oreficeria, un reperto per numismatici, il poeta ha cessato di essere un dandy, non è né un eroe romantico né un vincitore alle bocce e neanche un pigliatore del bonus vacanze; in un mondo dove l’angoscia è stata sostituita da afflizioni esantematiche, labirintiti, crisi di panico e daltonismi la posta in gioco è l’intrattenimento, magari elegante, malizioso, ozioso, manieristico dove il poeta non può essere neanche più un clown, un prete, un predicatore, un maestro di cerimonie, e neanche un ammaestratore di pappagalli o un istruttore di scimmie, è diventato un commercialista delle proprie rendite e della propria dichiarazione dei redditi, un posiziocentrico giocatore di borsa.

    il Grande Altro può collassare, collassa, sta collassando, il suo vero volto è il collasso Simbolico; ciò appare evidente nelle strategie di discorso adottate dalla modalità kitchen. Lacan individua nella dimensione linguistica il campo in cui il collasso si rende evidente, altrimenti resta invisibile, e ciò accade per lacerti, piccoli accenni, faglie, tagli del discorso, inciampi delle pratiche discorsive. Lacan pone la domanda: che cos’è il reale? La risposta è che il reale è ciò che ritorna sempre allo stesso posto. Ma che cosa vuol dire esattamente? Vuole dire semplicemente che il linguaggio, dopo ogni collasso del Simbolico, ritorna sempre allo stesso posto di prima. Le cicatrici di questo collasso sono i fantasmi che abitano l’Immaginario: i fantasmi, gli avatar, i sosia, i doppi che pullulano nella poesia della Colasson sono la prova evidente che siamo appena nelle retrovie del collasso del Simbolico, appena dietro la prima linea dove avviene lo scontro fantasmatico. È la deterritorializzazione della soggettività che qui ha luogo.

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  38. Esemplare il frammentato intervento sulla «filosofia del frammento» di Enrico Castelli Gattinara con tutte le venature sociologiche, musicali, filosofiche, artistiche della sua relazione.

    Nulla da aggiungere all’acutezza delle meditazioni di Giorgio Linguaglossa che instancabilmente adocchia, sceglie e propone relatori e relazioni a hoc rispetto alla economia estetica della NOE-Poetry Kitchen che ormai, piaccia o no, è una realtà poetica in cammino, sì, ma ben riconoscibile nel nostro panorama poetico.

    Dunque, i poeti della NOE-Poetry Kitchen, che intendono continuare a muoversi nello «Spazio Espressivo Integrale», mai più devono avvertire il benché minimo bisogno di doversi giustificare nei riguardi dei vari sabotatori, o guastatori d’assalto, i quali, lungi dal bonificare presunti campi minati, invece saltano l’uno dopo l’altro in aria sulle mine antiuomo e anticarro che pretendevono di bonificare, come se provenissero da chissà quale scuola del «genio pionieri d’assalto» e invece tragicamente ignari della poesia attardata di cui continuano a essere insignificanti epigoni.

    Piuttosto, voglio esprimere la mia totale adesione agli esiti della ricerca estetica di Lucio Mayoor Tosi di cui sta dando prove di alta consapevolezza nella «porzione di mondo» che ha scelto di abitare, nella vastità della storia dell’arte non soltanto occidentale, in qualità di Art-director delle Edizioni Progetto Cultura di Roma.

    Gino Rago

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