Ljubomir Levčev è nato a Trojan, in Bulgaria, nel 1935 ed è morto a Sofia nel 2019, è stato un poeta bulgaro. Vincitore della Corona d’oro del Festival della poesia di Struga e tradotto in molte lingue, è uno degli autori più apprezzati della letteratura bulgara contemporanea. Membro del Partito Comunista Bulgaro, dal 1975 al 1980 è stato il vicepresidente del comitato culturale. Wikipedia
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L’ammutinamento di tutte le parole e la loro silenzializzazione
La crescita economica avvenuta in Europa occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni sessanta ha prodotto la tumultuosa stagione delle post-avanguardie a cui è seguita una crescita meno rilevante ma costante che ha assicurato una certa continuità sotto l’ombrello della Nato. Al contrario, in Europa orientale la stagnazione economica del socialismo reale ha determinato una stagnazione politica e culturale: la stagnazione politica ha determinato e influenzato una certa stagnazione culturale; si può dire che c’è stata una corrispondenza speculare tra le due stagnazioni. E poi c’è stata una terza stagnazione che potremmo definire la Grundstimmung della conservazione, quella degli ultimi due decenni che hanno condizionato i maggiori poeti europei dell’Est Europa.
Nel «nuovo» mondo di oggi «i maestri» delle generazioni dei Pasolini, dei Sartre, degli Herbert, dei Char, dei Montale sono scomparsi irrimediabilmente e la poesia è diventata una questione «privata», una questione privatistica da regolare con il codice civile, con i manuali da condominio e da perorare con un linguaggio polifrastico, un linguaggio «interno» che ammicca all’«esterno» ad un «metalinguaggio» o «superlingua»: la poesia di Andea Zanzotto da La Beltà (1968 fino a Sovrimpressioni (2001) docet. Oggi ormai la questione «tradizione» non fa più questione, è un fuori questione. I linguaggi poetici sono metalinguaggi prodotto di proliferazione di altri linguaggi polifrastici. Oggi un critico di qualche serietà non avrebbe alcuna ermeneutica da applicare a questi linguaggi polifrastici o polinomici. Rispetto a tali linguaggi la poesia di Ljubomir Levčev spicca per la sua «nudità», per la sua «antichità», la sua «sincerità», per la sua «non esposizione» ai metalinguaggi; quello di Levčev è un lessico «nudo» e «povero» in quanto indifeso ed esposto; non metalinguaggio, ma linguaggio poetico, cosa geneticamente diversa e allotria rispetto ai linguaggi poetici giornalistici che vanno di moda oggidì in Europa occidentale. Dalla storicità forte del novecento si è passati alla storicità debole di oggi, alla storialità. Il pensiero poetico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica, l’eclissarsi della metafisica, con annesso e connesso il bagaglio degli strumenti retorici ed ermeneutici che quella metafisica portava con sé. Ljubomir Levčev raccoglie il testimone di questa eredità di povertà e la coniuga con il rigore di ciò che resta oggi, ad Est, di quella stagione che un tempo fu del modernismo.
Il linguaggio poetico di Ljubomir Levčev ha una propria peculiare Grundstimmung (tonalità dominante). Ogni poesia ha una propria tonalità una sorta di chiave di volta che consente di sperimentare la estraneità a noi stessi e ogni poeta espropria questa estraneità per trasferirla nel linguaggio poetico. Si tratta di un esproprio dunque, e non di una riappropriazione di alcunché. Il linguaggio poetico è lo specchio che ci mostra il vero volto della nostra estraneità a noi stessi, lì non è più possibile mentire, in questa antinomia viene ad evidenza la scaturigine profonda del linguaggio silenzioso: l’impossibilità oggi di dire la «verità» se non nella forma di ipoverità. Nel lessico silenzioso di Levčev si ha l’ammutinamento di tutte le parole e la loro silenzializzazione; qui è evidente che affiora il «silenziatore della verità», l’essere il lessico silenzioso il vero propellente delle parole oggi ridotte a fumo linguistico, segnali di fumo che i contemporanei si scambiano gli uni con gli altri da una collina all’altra, le colline della incomunicazione.
All’improvviso, si apre il vuoto: vuoto di senso, di significato, vuoto intorno alle parole, all’interno delle parole, vuoto all’interno del soggetto e dell’oggetto… e tutto sprofonda nel vacuum del vuoto. Gli esseri umani hanno terrore del vuoto e cercano di riempirlo in tutti i modi e con tutti i mezzi: con le credenze, con parole consuete, con i pensieri di tutti, con i sofismi. Sarà perché nelle società post-democratiche dell’Europa orientale l’esistenza degli esseri umani è stata ridotta a «nuda vita», a vita vegetativa, biologica che il cosiddetto «privato» riflette una condizione di asocialità diffusa, di privatizzazione di tutto ciò che un tempo lontano era «pubblico» e pubblicistico. La poesia di Ljubomir Levčev registra, in chiave post-lirica, questo passaggio: la degradazione a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta.
(Giorgio Linguaglossa)
Ljubomir Levčev
Poesie da I passi dell’ombra
Adesso andate tutti via,
benevolenti,
consiglieri,
ansiosi di come io debba essere!
… Voglio essere il tappino di latta
di una bottiglietta di limonata
Voglio che mia figlia
vestendomi di mattina
mi nasconda
nella taschina del suo grembiulino.
Per avere qualcosa di casa
nascosto all’asilo.
Perché non è permesso
portare qualcosa di simile.
Qualcosa di così necessario!
Quando è necessario
io di colpo divento raggiante
dentato,
argenteo,
come una stella.
E mia figlia sorriderà
Che si infranga pure il divieto!
(1967)
Soglia
Per Radoj Ralin
Nella cittadina del sud non c’era un albergo,
ma c’era gente ospitale.
Era un grande onore ospitarti.
Darti pane bianco,
vino rosso
e riposo
E non pensare a pagare!
Diventi un loro nemico.
Abbi una sola attenzione
e ricordatela:
Tu,
viandante
a ogni soglia generosa
devi pulirti le scarpe!
Mi arrestai cortesemente su una scala di pietra.
Ma di colpo io stesso impietrii –
vidi
murata là sulla soglia
una grande
antica stele
con un verso lapidario.
Profondo.
Sepolcrale.
Così comodo
per pulire le scarpe infangate…
Perdonatemi se sono un po’ maligno,
ma è così nell’essere
e nel non essere.
Epoche gloriose sprofondano nell’oblio.
E nessuno ne ha un senso di colpa.
Il fango si pulisce.
E il verso rimane.
E diventa soglia di tempi nuovi
(1981)
Gli scherzi di amore
Oggi è l’onomastico
di chi non ha il nome di un santo.
Allora su, giochiamo
agli scherzi
di Amore…
Passione mia!
Mio meraviglioso inganno!
Mio Purgatorio!
Mio unico amore!
Ti cerco febbrilmente.
Mi dimeno —
così come un animale ferito
cerca sui prati
l’erba medica che lo guarisca.
Dove sei?
Vedo male.
Ah, vedo male!
Chi tira le fila della mia vita?
Chi le tira
così maldestramente?!
Voglio perdermi
in una città,
in una notte,
in una folla,
dove nessuno mi riconosca…
E io non riconosco nessuno.
E per questo
saranno tutti buoni.
E io non sarò
repellente.
Ma non riesco a perdermi.
Ovunque ci sono cartelli.
Ovunque ci sono segnali.
Ovunque ci sono indicazioni…
Signora Davidova,
mia
prima
maestra —
perché mi hai insegnato a leggere?
Mi odiavi a tal punto?
Ecco —
la luna tramonta
al sorgere del sole…
O forse albeggia
dal tramonto…
Questo non so più decifrarlo.
Non c’è una scritta!
Non c’è una scritta in cielo…
Amore mio!
Mia unica passione!
Mio meraviglioso inganno!
Noi
mai
più
ci incontreremo.
Perché,
quando dico:
“Su, cominciamo
una vita nuova!”
tu ti trovi
in un’altra costellazione.
E anche
perché
quando tu dici:
“Su, cominciamo
una vita nuova!”
io mi trovo già
in un altro mondo
dove tutto è segnalato…
E non riesco a perdermi.
(1976)
*
Se ne va la luce rossa.
L’ultima lince selvatica scruta
cose per noi invisibili.
Se ne va la neve dalle cime dei monti.
Le cabine della funivia immobili
viaggiano verso l’oblio,
viaggiano.
Come un miraggio scacciato.
Come una speranza disperata.
Se ne va questa epoca.
Se ne va l’estasi…
E solo io rimango.
Non so se potrò scriverti ancora.
Non so se potrò vederti.
Ma so che non c’e modo che io ti dimentichi
fino alla fine,
e forse anche dopo.
Dimenticherò le chiavi sulla porta del non essere.
Dimenticherò gli occhiali e diventerò cieco.
Con dita insanguinate ti cercherò,
ma tutto quello che toccherò,
diventerà polvere
Chiarezza
Ad Al. L.10
Non insegnate alla giovinezza a essere chiara.
È la vecchiaia che deve essere chiara.
Sul far della sera,
quando silenziosamente si spegne
la follia del sole
e la notte
manda i suoi primi esploratori –
stelle profumate di fieno.
Non c’è più bisogno di falciatori –
pensi sotto la tua terribile falce.
Non insegnate alla giovinezza a essere chiara.
Lasciatela essere giovane.
Sì! –
La mancanza di chiarezza è un pericolo,
piena di fulmini e di sorprese,
ma dai cieli imperscrutabili
scende il taumaturgo –
la pioggia.
E si levano i poveri semi
per darci ancora
pane
ed esempio.
Che ciò che oggi non è chiaro,
domani diventa con prepotenza legge.
Diventa orribile
oppure stupendo…
Non insegnate alla giovinezza a invecchiare!
Mi è chiaro…
Come un vecchio soldato
sussurro con labbra insanguinate, terribili:
Lasciate che ognuno possa essere grande!
E in quanto a me
lasciatemi essere ancora non chiaro.
(1981)
Pane
Viene mio figlio. Ma non che torni a casa.
Viene in visita nella casa paterna.
Passa di colpo come un pensiero.
Passa semplicemente come una pioggia d’estate.
Gocce di cristallo nella calda polvere della strada.
Saggezze di vita, che non ho capito.
E ogni mia domanda diventa ridicola.
Io so tutto, dato che mio figlio è diventato un ospite.
Dato che sorride. Dato che sorseggia lentamente il vino…
Dalla televisione ci guardano ceffi sospetti in blu.
“Hai bisogno di soldi?”
“Domani è il primo e riscuoto.”
“Perché sei solo?”
“Non lo so… Ma non ho nessun problema.”
Allora il pendolo del vicino risuona.
Controlla il tempo. Ma si tradisce.
“Fumi troppo…”
“Per abitudine…”
E io accompagno mio figlio fino al suo nuovo appartamento,
in macchina – laggiù lontano – vicino a Gomorra, prima
[di Sodoma.
Là crudeli palazzoni misurano le loro ombre uguali
La luna bianca è come Biancaneve avvelenata.
E noi – due nanetti, ci abbracciamo amareggiati.
Si sbatte il portone. La luce nelle scale. È ora di tornare.
E torno indietro da solo. E parto da solo.
Città e vita dopo mezzanotte – oh, come vi conosco!
In quest’angolo c’era il forno del quartiere.
Infornava misteri. E nelle notti di tempesta,
quando la neve seppelliva persino i tram in servizio,
Sognavo di questa fermata, di questa contrada…
Là – a metà strada – tra l’amore e la solitudine,
di fermarmi un attimo per scongelarmi le ali.
Ed ecco noi – un giovane sognatore e un vecchio fornaio –
come a un incontro tra un re della terra e uno del cielo.
Lui ha aperto il forno, io il mio cuore pazzo
e ognuno è illuminato dal proprio miracolo.
Lui mi dava del pane miracoloso, fatto a mano,
contornato da un’antica brace di legna.
E voleva sempre che gli parlassi
del corso della storia umana.
Io potevo. Io gli profetizzavo il mondo di domani.
Io ero follemente innamorato e follemente giovane.
Il profumo del pane e la fede sono rimasti in me
nascosti sul fondo della ferita creatrice.
Ma il forno dei sentimenti è chiuso.
Di sicuro è morto il taumaturgo.
Di sicuro non c’è quella stessa fame –
di cercare,
di profetizzare un mondo dopo un mondo.
E torno indietro da solo. E parto da solo.
E guido sempre più veloce. Ma perché? Non lo so.
La città è la stessa. Il mondo è lo stesso, si capisce.
Riforniscono i negozi con pane casalingo, detersivi e
[birra.
Attaccano manifesti. Lavano le strade. Si baciano
[abbracciati…
Quando sarò a casa gli telefonerò.
Dirò a mio figlio:
“Ascolta, amico mio,
tu sei il miraggio di un secolo svanito.
Non hai il diritto di essere scuro, di essere debole.
In generale… Dove compri il pane?”
E lui dirà con tenerezza e apprensione:
“Hai fatto bene a chiamarmi. Abbiamo bevuto molto.
È chiaro… Ero io il colpevole.
E il pane… Per la tua età è un veleno.”
(1986)
Il gatto beve dal mio bicchiere d’acqua
Per Toma Markov13
So che si tratta di un sogno.
So che ora
dovrei muovere
il braccio. Per scacciarlo. E prendere un sonnifero… Ma
non posso.
Al posto mio,
il paralume si muove.
Si trasforma
e diventa una navicella interstellare,
da cui
scendono omuncoli per catturarmi,
come se fossi il loro sonnifero.
S’intende, non tutto.
I miei scopi,
il mio asse,
il mio inquieto esser fine a me stesso –
queste cose non servono loro.
Vengono a strapparmi dall’anima
solo un supposto ossicino.
Una piccola ampolla, nascosta
sotto l’involucro di una lucida coscienza.
Ma sotto di lei…
Accade qualcosa di misterioso.
Gli omuncoli scappano terrorizzati.
Ma la navicella non c’è.
Avverto un succhiare… Oh, Signore! –
Il gatto beve dal mio bicchier d’acqua.
Grazie, Salvatore!
Grazie!
Ora
il mio braccio prenderà a muoversi.
Le visioni moriranno di paura. Ed io,
in mancanza di sonnifero,
devo inghiottire un pezzo di me stesso…
“Puoi bere anche l’acqua,” dice il gatto.
“Perché io sono solo un ricordo
del tuo gatto d’un tempo, Simo.
Se non ci credi,
se ne dubiti,
ricordati di Antoine,
ricordati di Lavoisier.
Ricordati come studiava l’acqua
e al posto del pesciolino d’oro, scoprì
la legge, secondo la quale nulla
si crea e nulla si distrugge,
ma solo si trasforma…
Poi
ricorda la ghigliottina dove
lo stesso Lavoisier
perse la sua testa.
Adieu, mon cher! Adieu!
Tua mamma ti ha detto di non aver paura.
Non morirai all’estero.
Stai attento all’acqua e alla gloria.
In questo terribile tempo di trasformisti,
contrariamente alle regole –
crea!”
(2001)
Ha scritto Herbert nel 1991:
«La letteratura dell’emigrazione ha perduto la sua funzione principale: la difesa della libertà di pensiero. Oggi in Polonia purtroppo non c’è la censura per aggirare i divieti dei censori. Scrivevo poesie serie, sulla perdita del pudore».
Il problema psicologico e psicoestetico per Ljubomir Levčev si può dire che sia analogo: ho come l’impressione che vi sia un prima e un dopo la caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989. Nel nuovo mondo non c’è più ragione di avere una censura e non c’è più ragione di mantenere e coltivare una auto censura. Nel tardo poeta bulgaro si avverte la consapevolezza di essere entrati, magari controvoglia e obtorto collo, in una nuova epoca a cui forse Levčev non si è mai consegnato mentre lo stile tardava ad arrivare. Il fatto è che la poesia dell’epoca del comunismo non poteva più esser proseguita nella nuova stagione, ma mancava il linguaggio, mancava lo stile. Così, Levčev si è trovato a sopravvivere, come poeta, come un sopravvissuto, come un reduce di una guerra mai combattuta.
Con la crisi del ’29, dopo la seconda guerra mondiale, quella che Baudrillard chiama la rivoluzione strutturale del valore, avviene «il passaggio dalla forma/merce alla forma/segno, dall’astrazione dello scambio dei prodotti materiali, sottoposta alla legge dell’equivalenza generale, all’operatività di tutti gli scambi sotto la legge del codice, l’oggetto-segno si è emancipato da ogni riferimento a un bisogno come proprio significato, «i due aspetti del valore […] sono disarticolati, il valore referenziale è annullato a vantaggio del gioco strutturale del valore», nel quale «tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale»(Baudrillard 1976, pp. 17-18) e il principio di realtà è stato sostituito da un principio di simulazione di cui l’economia politica è il modello e in cui la produzione, ormai priva di finalità, funziona come un codice e diffonde un «terrorismo del codice» che «invade tutta la vita come repressione fondamentale» (Baudrillard, 1976, pp. 24-25).
Oggi noi sappiamo che anche l’inconscio storico delle società a capitalismo cognitivo non si sottrae, non può sottrarsi a questo gioco della simulazione, a questo specchio della produzione: l’inconscio diventa un simulacro operativo, un modello di simulazione; l’inconscio è il fuori gioco che rientra in gioco come simulazione, come ergonomia del rapporto sociale e produttivo capovolto e introiettato. In questo nuovo quadro storico l’arte si consegna alla simulazione, diventa essa stessa gioco simulatorio, scambio di segni con altri segni senza alcuna finalità o intenzionalità.
I pensieri sulla METAFORA ,che in una ottima sintesi Giorgio Linguaglossa esternò leggendo alcune poesie della poetessa bulgara EKATERINA JOSIFOVA, valgono anche per Levčev, anch’egli di origini bulgare come la Josifova, benché per il poeta Levčev si addica molto la cosiddetta “metafora silenziosa”,
la quale è la più pura forma di metafora. Perché è la metafora che non si fa vedere e che, secondo il pensiero illuminante di Linguaglossa, “preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è.
La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura.”
Metafora silenziosa per Levčev, come in questi versi estratti dalla poesia
Pane
[…]accompagno mio figlio fino al suo nuovo appartamento,
in macchina – laggiù lontano – vicino a Gomorra,
primadi Sodoma.
Là crudeli palazzoni misurano le loro ombre uguali
La luna bianca è come Biancaneve avvelenata[…].
Sento Levčev assai dentro la lunghezza d’onda della NOE e anche nella Poetry kitchen soprattutto per il sapiente uso delle inserzioni colloquiali o, se si vuole, del cosiddetto “dialogato” .o “parlato”.
SCHIETTEZZA E SINCERITA’ DI INTENTI DEFINISCONO LA POESIA DI LEVCEV… UN DISCENDENTE LONTANO DI ESENIN
Antologia Poetry Kitchen
a cura di Giorgio Linguaglossa
Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2022, pp. 277, 18 euro
La poetry kitchen viene da lontano, da un lungo lavoro di ricerca poetica nell’officina-laboratorio de L’Ombra delle Parole. Un momento, tra i tanti, (tutti indimenticabili), è questa conversazione franca sotto forma di
Dialogo
tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa
Domanda: La «nuova poesia» pone sicuramente la necessità di una «nuova lettura». Lasciamo stare per il momento se questa«nuova lettura» sia proprio quella della «nuova ontologia estetica» o sia qualcosa d’altro. Resta il fatto che la «nuova lettura» implica munirsi di una dotazione intellettuale nuova e diversa, il critico che deve fare una «nuova lettura», deve abbandonare i linguaggi ermeneutici pregressi, deve inventarne di nuovi, di desueti, non riconoscibili. Certo è che una «nuova lettura» della Poetry kitchen si deve munire di strumenti «diversi», deve saper pescare nel linguaggio filosofico recente quegli spunti che ti offrano una «nuova visione» della poesia veramente moderna. Quello che è indubbio è che gli strumenti ermeneutici tradizionali non possono aiutarci. Rinnovare il linguaggio ermeneutico (per carità, lasciamo il termine “critico”) è oggi una necessità della «nuova ontologia estetica».
Risposta: Mi dispiace, molti non capiscono il nuovo linguaggio critico, ma è perché i miei commentatori sono rimasti fedeli ad un vocabolario critico un po’ attempato, i più aggiornati, mi riferisco agli addetti ai Cultural studies, non hanno strumenti categoriali idonei a comprendere la nuova poesia, il loro è un vocabolario accademico!
Alcune persone mi hanno chiesto lumi su ciò che intendo per «linguaggio dell’esplicito e dell’implicito». Non credo di essere stato particolarmente astruso. Possiamo considerare implicito un discorso che va per linee esterne ad un oggetto, che dà per scontata la presupposizione cui una risposta sempre reca in sé, anche in modo inconscio.
Domanda: Tu hai scritto: «Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio».
E fai un distinguo, affermi che il linguaggio poetico del minimalismo romano-lombardo si esprime mediante il linguaggio dell’esplicito, un linguaggio esplicitato (hai fatto, tra gli altri, i nomi di Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, etc.) tramite la forma-commento, la poesia intrattenimento, la chatpoetry, la forma che vuole comunicare delle «cose»: tipo fatti di cronaca, di politica, dell’attualità, insomma, fatti che hanno avuto una eco e una risonanza mediatica. Questo tipo di scrittura che oggi va di moda è la poesia maggioritaria?
Risposta: Interrogare il logos significa che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi «impliciti», il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o non posta. Nella risposta esplicativa l’interlocutore introduce sempre uno smarcamento, una deviazione che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.
La traduzione problematologica diventa nella poesia kitchen una traslazione stilistica. I vecchi concetti di «simmetria» e di «armonia», legati ad un concetto lineare del tempo, vengono sostituiti con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella kitchen invece assistiamo ad un universo sintattico «goniometrico», plurispaziale, pluritemporale, distopico.
Noi abitiamo la domanda, ma essa non sempre si dà come frase interrogativa, questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica (come nei dialoghi platonici), ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Errato. In poesia le cose non sono mai così diritte e dirette. In poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in forma dialettica.
Domanda: Puoi fare un esempio?
Risposta: Nella poesia kitchen è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica; in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzweg), un significato barrato, e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica, una topografia dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito.
La poesia kitchen risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare» dell’io. In questa ricerca eccentrica, spiraliforme, indiretta la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un pluri-spazio che si apre al tempo, anzi, un pluri-spazio fitto di temporalità, un tempo fatto di pluri-spazio, che apre lo spazio, lo svincola dalla sua clausura temporale. È la marca della pluri spazialità quella che appare alla lettura, un pluri-spazio inscindibilmente legato ad una molteplicità di accadimenti.
Per la poesia kitchen il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta che rimanda ad altro, che rinvia ad un altro segno, ad un significato deviato perché non vuole statuire attraverso il discorso assertorio dell’io e della comunicazione. Il discorso poetico kitchen invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare», ciò che Maurizio Ferraris definisce nel suo recente libro, Emergenza (Einaudi, 2017) la «quadridimensionalità». La poesia della poetry kitchen abita un pluri-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi appaiono e basta:
la clessidra, contagiata dal silenzio delle madonne
segna avvoltoi, verande infelici, parole di neve sull’acqua
(Mauro Pierno)
Domanda: Allora, secondo il tuo giudizio, il discorso poetico si darebbe in forma di domanda-risposta e secondo il modo dialettico esplicito-implicito? Possono esservi anche domande tacite in quello che tu chiami discorso poetico?
Risposta: Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora, della metonimia, dell’immagine. La metafora e, soprattutto, la metonimia indicano così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metonimia smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia kitchen, non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, ad un qualche significato o senso, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o commento, non è una glossa, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo, pur se superdissimile e superdistopico.
Domanda: A questo punto, possiamo dire che la questione della poiesis diventa una questione ontologica?
Risposta: La metafisica occidentale conosce da sempre una ontologia per la quale «l’essere è ciò che è presupposto al linguaggio (al nome che lo manifesta), ciò sulla cui presupposizione si dice ciò che si dice» (Agamben, Il linguaggio e la morte, p. 17). Occorre rovesciare il problema: si dà una onto-logia, «il fatto che l’essere si dica e che il dire si riferisca all’essere» (ibid.), che «l’ente in quanto ente e l’ente in quanto è detto ente sono inseparabili» (ivi, p. 18).
La questione del linguaggio è che l’essere non parla mai, l’essere è muto. È sempre il linguaggio che parla, e parla secondo la legge del linguaggio differenziale. Il linguaggio non conosce l’io, conosce soltanto il parlante, il che è molto diverso dall’«io parlo», il parlante è «colui che» parla. «Colui che» (quindi un altro) che parla in mia vece, al posto di… È il linguaggio dell’Altro che parla.
La poiesis ha sempre a che fare con il linguaggio di quel «colui che» sta parlando nell’atto in cui parla.
*
Gino Rago
Poetry kitchen
Zorro in sidecar va in Guadalquivir
Il pesce Lavrov trasmigra in Madagascar
Il pappagallo Fasullo e la giraffa Faar
in coppia vanno ad al-Qasr al-Kabir
Riconoscere i limiti di osservatore nei confronti delle nuove generazioni delle nuove congetture.
Il limite è dato dal proprio sentimento. L.L. Non riconosce i meccanismi dell’amore del figlio
Ed ecco noi – un giovane sognatore e un vecchio fornaio –
Si percepisce poeta artigiano. Mi ubriaca la sensazione di voler appartenere a un dettaglio.
Mi arrestai cortesemente su una scala di pietra.
Ma di colpo io stesso impietrii –
L’immedesimazione di un oggetto ormai passato di moda questa la consapevolezza di Levcev.
Inadatto. Si respira il limite nella poesia del nostro. Non c’è supponenza c’è impotenza.
La poetica dell’impotenza.
La luna bianca è come Biancaneve avvelenata.
E noi – due nanetti, ci abbracciamo amareggiati.
(Segue forse compostaggio)
Sa rendere lampanti certi sentimenti, Ljubomir Levčev. Per il fatto che non li descrive, né li nomina, ma li ottiene per accumulo di notizie, in qualche modo è NOE. Mi sembra che kitken sia già un’altra cosa.
«Torno tra i normali» dissi. Giacomo Balla
disegnò “Uova al tegamino”. Io “Ferragosto,
strade interrotte”. Al bar dei pellicani.
Cemento e tequila.
«Il mondo non aspetta, il mondo è.»
Di Anselm Kiefer. Grande paesaggio
tra un volo d’ape e l’altro. Il concetto è reso
visibile. Le spoglie di un soldato. Bucce
d’arancia.
«Quanto grande è il tempo?»
Non abbastanza per poterci vivere in eterno.
Storico Gin Fizz. I migliori cocktail a base di.
Le ricette dei drink. – Disegnata una scapola.
“Angelo della notte”.
LMT
il nomadismo dell’elaborazione in salsa kitchen, cosa sono questi versi se non quel deterritorializzare e riterritorializzare frasari, immagini, parole consunte, definire nuove direzioni di flussi e interruzioni di flussi, interpretare ed aprire accessi a nuovi campi di forze, ad una idea dello spazio poetico inteso come campo di forze disgiuntive e disgiunte che cooperano in modo belligerante, l’erranza degli enunciati come tagli nel caos dei linguaggi che ci attraversano in ogni istante dell’esistenza. Di qui l’idea tutta tosiana di fare di conto sugli istanti e sui tagli istantanei…
Grazie per la squisita lettura. Anche nella tua poesia è presente “l’erranza degli enunciati (i tuoi filosofici) come tagli nel caos dei linguaggi che ci attraversano”. Metafisica di contrabbando?
2 Ip.
*
Aperto il baule, la tua sorpresa nel rivedere
vecchi libri, l’immediato ricordo (oh cazzo!),
l’attimo di fantascienza.
*
Cliccare ‘verde’. Tecno Magia. A cavallo del tempo.
Nel mondo inesistente.
Così parlò Gorilla.
LMT
VERSI ALLA COQUE CONTRO BILE SOLIDA NEL COLEDOCO
A frammenti disse, a sassate corresse e c’è una musica che invade.
Verbo pericoloso per il futuro delle tovaglie.
Dove il basilico si fa largo risponde l’aglio con minacce d’aborto.
Ci sono spie infiltrate nel tritolo e carbonati che precipitano a Milano.
Un modo forse per risciacquare senza lavatrice e cancellare Dicembre dal settentrione?
Niente enzimi nei fucili, niente spargimento di rosso sulle capricciose
solo lancette di gambero ai campanili.
Il messaggio giunse chiaro ma gli occhi si astennero dal guardare
Il contratto va rispettato fino in fondo.
-La penale ha orecchie dure!
Raglia forte il tradimento.
Come cavalcare un significato e farlo correre di schiena?
Si va avanti e i sogni emanano cloro. Per omnia saecula saeculorum
Perché protesta l’ossigeno tra i denti?
-D’ora in poi ci sarà fuoco nelle ossa. Non val la pena- disse-
si è troppo infetti per rischiare i polmoni di uno yankee.
I contratti cercano firme e soldati nei call center.
Crescono fichi d’india nei fili del discorso.
Galileo perse l’innocenza nel suo esperimento
Impotente a radere il Sole come l’ultimo dei Mohicani.
Il metodo resuscitò piuttosto calmo e luce che spalmava nel cervello
Poi, senza indugi si consegnò all’acido solforico
Più sicuro del sapone nei TFR.
(F.P. Intini)
FRA TANTE COSE CHE SFUGGONO AI NOSTRANI SOLONI DI CUI SANNO TUTTO E PIU’ DI TUTTO SULLA RUSSIA E LA STORIA DELLA RUSSIA, E NELLO SPECIFICO SULLA STORIA DEI SERVIZI SEGRETI (O DISSERVIZI?)… SFUGGE LORO CHE I METODI E LE PERSUASIONI DI QUESTI SERVIZI SONO STATI TRASFERITI IN CAMPO APERTO (LA GUERRA!): CI SI MERAVIGLIA DELLE FOSSE COMUNI, LA CUI REALIZAZIONE E’ STATO UNO DEGLI ORDINI EFFERRATI
IMPARTITI DAI SERVIZI STESSI (LA CECENIA SOLO UN MACABRO ANTIPASTO DENUNCIATO ALLORA DALLA POLITKOVSKAJA)… CHE L’OCCIDENTE ABBIA LE SUE CIECHE COLPE E’ CERTO, MA NON CERTO CHE REALIZZA COI MASSACRI COME FANNO I SERVIZI, I QUALI FANNO PARTE DEL LORO PANE QUOTIDIANO… QUEL SANGUE A RIGAGNOLI CHE USCIVA DAL CREMLINO (NADEZDA MANDEL’STAM) ORA INONDA LA UCRAINA E ALTRE ZONE RITENUTE RUSSE – E NON LO SONO. TUTTO LA SANGUINOLENTE PRATICA DELITTUOSA E’ COSA NORMALE
FIN DALL’INIZIO LENINIANO AI GIORNI CHE VIVIAMO.
MA GLI USA CONTRO I POPOLI INERMI DEGLI ANNI ’60 HANNO ANCHE LE LORO CIECHE COLPE, CHE COMINCIANO CON GLI STERMINI DEI POPOLI INDIANI NATIVI.. E NON DIMENTICHIAMO I POPOLI DEL NORDEUROPA: DANESI, BELGI, OLANDESI ECC. COSA HANNO FATTO!!!
MA E’ CHE ADESSO L’ESTINZIONE E’ UNA CONDIZIONE REALISTICA PER TUTTI E NON SI DEVE PERMETTERE A UN PUGNETTO DI PERSONE – CHE NON RAPPRESENTANO AFFATTO UN POPOLO – CHE POSSA ACCADERE.
E’ DIFFICILISMO ABBATTERE QUEI SERVIZI SEGRETI :
SE NON CON UNA SORTA DI GUERRA INTERNA PATRIOTTICA PER LIBERARSENE PER SEMPRE… MA UN POPOLO APPOGGERA’ CHI COMBATTE IL LORO CARNEFICE?
https://lombradelleparole.wordpress.com/…/comment…/…
Mi è stato chiesto: «ma come si fa a pensare al nulla?».
Penso che sia errato partire da lì, dal pensiero che pensa il nulla, per il semplice fatto che il nulla non è pensabile. Non possiamo dire nulla intorno al nulla perché esso sfugge al pensiero, è questo la impasse della metafisica che vuole pensare il nulla.
Possiamo però pensare al nulla a partire da una cosa, non abbiamo altro scampo che aggirare la questione del nulla e partire dal pensiero di una cosa. Perché il nulla è dentro la cosa, non fuori.
Mi è stato anche obiettato: «ma come fai a pensare all’impensato partendo dal pensato?».
Ecco, anche qui penso che sia errato voler pensare all’impensato partendo dal pensato. Se parto dal pensato ricadrò sempre nel pensato, in un altro pensato. Un altro errore è quello di voler fare una equivalenza: nulla = impensato. Altro errore. Per indicare il nulla devo per forza di cose nominare una cosa, non ho (non abbiamo) altra possibilità che nominare le cose. Non possiamo sfuggire alle cose.
Così, quando scrivo nella mia poesia:
Il silenzio si accostò al tavolo
sopra il quale oscillava un lampadario di cristalli.
Avenarius tirò una cordicella, un misterioso campanellino squillò
e il tendaggio si aprì lentamente…
Una musichetta dolciastra come di carillon.
Degli specchi con le cornici dorate brillavano nella penombra.
(2017)
È ovvio che io qui stia tentando la rappresentazione del nulla per la via indiretta, nominando cose e azioni e personaggi che fanno qualcosa. Non avrei altra possibilità che comportarmi in questo modo, cercare di nominare le cose, ma è che le cose vanno nominate in un certo modo, è il modus linguistico che determina l’essere delle cose, le chiama alla visibilità linguistica. Chiamare alla visibilità linguistica le cose, questo è fondamentale, chiamarle in modo che esse facciano intendere che galleggiano sul nulla. E questo lo si può fare cancellando la significazione ordinaria dagli enunciati. Ogni proposizione istituisce un teatro, una situazione, una questità di cose che non ha alcun referente con il mondo reale del realismo rappresentativo. È visibilmente assurdo e ultroneo che il signor Avenarius tiri una cordicella proprio nel momento in cui il silenzio si accosta al tavolo. Che relazione ci può essere tra il modus del silenzio e il modus del tavolo? Ecco, questo è il punto, c’è una relazione tra cose diverse e disparate, anzi, ci sono molteplici relazioni ma non più del tipo realistico mimetico della poesia del novecento ma di tipo nuovo, ultroneo, non referenziale. Possiamo dire che le cose nominate equivalgono al pensato e tutto ciò che non viene nominato equivale al nulla che aleggia e insiste intorno alle cose. Il nulla è tutto ciò che sfugge alla significazione. È il nulla, la consapevolezza del nulla che costituisce il motore della composizione. E tutta la composizione sembra come galleggiare sulla membrana del nulla.
Se l’impensato è ciò che il pensiero non riesce a pensare, ne deriva che esso è quel quid che sta fuori del pensato e del nominato, e quindi se partiamo dall’impensato tutta la composizione ruoterà attorno all’asse dell’impensato piuttosto che all’asse del pensato. La novità del punto di vista non è di poco conto, è una novità rivoluzionaria perché cambia le carte in tavola e il modo di impiegarle, cambia le regole della significazione. Il che non è poco.
Perché noi siamo irriflessivamente sempre dominati dal pensiero rappresentativo e referenziale in ogni momento della nostra vita quotidiana, anche quando scriviamo una poesia siamo succubi di questa impostazione irriflessa. La difficoltà è qui, nel ribaltare questa posizione irriflessa, questa prigione. È questo il tentativo che sta facendo la nuova ontologia estetica, partire dalla cosa pensata per andare verso l’impensato del nulla senza cadere nel non-senso, che, in sé corrisponde al modo di impostare il discorso poetico alla maniera convenzionale rappresentativa, referenziale e mimetica. Partire dall’impensato significa partire dal non ancora pensato (non dal non-pensiero), sarà l’impensato che dirige il nostro sguardo, sarà l’impensato che ci costringerà a costruire il discorso poetico in modo che non corrisponda più al pensato, cioè al referenziato. Il risultato sarà una poesia finalmente liberata dal referente frutto di convenzione.
Non si tratterà di pensare in anticipo ciò che verrà pensato poi in un secondo momento. Si tratterà di un nominare-pensare non più mimetico e rappresentativo ma a-mimetico e a-rappresentativo, non più dipendente dalla scala referenziale.
Plotino ricorre ad una analogia: come per l’occhio la materia di ogni cosa visibile è l’oscurità, così l’anima, una volta cancellate le qualità delle cose (che sono della stessa sostanza della luce), diventa capace di determinare ciò che rimane. L’anima si fa simile all’occhio quando ci si trova nel buio. L’anima vede veramente soltanto quando c’è l’oscurità.
In un certo senso pensare all’impensato è analogo al vedere le cose nell’oscurità. Soltanto nell’oscurità si possono vedere le cose in un modo diverso.
“Mi è stato chiesto: «ma come si fa a pensare al nulla?».”…
io sono pieno del Nulla, per questo conosco la condizione opposta, e cioè sono pieno del Tutto!
Tutta la mia poesia si fonda su questo…
…e allora, io, ignaro, edificante come un agnello
della creazione, del Nulla e del Tutto, ammirai
la maestria dei Morti rifiutare il ritorno…
raccogliere le ossa nel pozzo di San Patrizio
(per rischiare la vita? per rinascere?)
perché la gelosia non potesse ammiccare
e regnare sul chiaro Potere della Sacra Prostituta.
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E da qui il nulla e il tutto osservo… indistinta fascinazione vede la mente, e poi…
e qui, su questo inesistente punticino ci si appiglia ancora a calcolare assoluti sistemi!
E dove io sono nemmeno il pensiero di un numero che è ovunque, o non è.
Impossibile nascere, rinascere, generare qualcosa dove già ogni cosa è, o non è.
“Per indicare il nulla devo per forza di cose nominare una cosa”
A me sembra che la scrittura NOE sia adatta per indicare il nulla tra DUE cose. Il nulla tra le cose. Le continue interruzioni, la chiusura repentina dei versi, le molte parole o le immagini, sono tempo trascorso.
… tempo trascorso tra le DUE cose. È qui, a mio avviso, che si interrompe il pensiero lineare. In questo modo i versi somiglieranno a pensieri scoordinati, che è quel che accade durante il giorno nella mente di tutti. E per me questo è elemento di novità. Ma se andiamo a riempire tutto con versi affastellati, ritenuti piacevoli solo perché vuoti di significato, ecco, a me sembra più un gesto di rivolta, penso rivolto più all’istituzione letteraria che al candito (il proprio) lettore.