L’Antologia Poetry kitchen in vetrina in una libreria di Peschici
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Vetrina della Libreria di Peschici con la copia della Antologia Poetry kitchen
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Gino Rago
Madame Colasson
Una torta Sacher + biscotti Wafer Saiwa + una porzione di Camembert, paté de foies gras e una bottiglia di Bourbon annata 1997
Brigitte Bardot
Un violino + la somma dei quadrati sui due cateti di un triangolo isoscele + uno Spritz alla albicocca
Francesco Paolo Intini
NEGATIVO
Che vuol dire? La Sindone fa un balzo alla notizia.
-Pericolo scampato di riportarmi a una vita da Dio.
La vita eccitata da un tocco di virus è un via vai di smentite e conferme
E il risultato finale
Ricade in un pascolo di umanissimo non sense
Il politichese fu inventato prima o dopo il poetichese?
Già vedo l’intervallo: -Tityretupatulaerecubans
Ci vorrà tempo per mungerle e ricavarne un po’ di ricotta
Perché caricarle di colpe e sparare alla gola del vicino?
Non si perde energia tra uno schizzo e l’altro del 2022.
Vuoi sapere che fine ha fatto il Covid?
È queste gazze decisamente Blu,
lontane da ogni peccato commesso nel nome del Rosso.
E più in là dell’hula-hoop un giro di valzer in crociera
O forse d’incrociatore o addirittura di portaerei.
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[Francesco Paolo Intini]
POSITIVO
infin ch’arriva\ colá dove la via\ e dove il tanto affaticar fu vòlto:\abisso orrido,immenso,\ ov’ei precipitando, il tutto obblia.
(G. Leopardi. Canto di un pastore errante dell’Asia. VV 32-36)
Fu così che venne fuori Ottobre Rosso. Bastava fare uguale
che l’avrebbe spuntata sull’argento, senza ferire il Polo
Alle esternazioni si disse non c’è rimedio e tu vedrai le cornacchie battere il ciglio
e farlo a pezzi e dopo essersene nutriti rimetterlo in moto.
Circolarità del cielo, al gusto d’ arancia e ghiaccio secco.
Un osso di Agatocle funzionava da sterno nel petto di Benito
Un frammento di cuore pulsò per ore sul campanile di Milano
Antenne colorate e uno, mille trapezi senza nervi di protezione
La fuga mi ha portato a sfiorare i siluri
Il danno è stato un orco che ha portato gli scatoli di tonno al tiro a segno.
Ebbi in sorte un gruzzolo per Buenos Aires
Dove mi sarei imparentato con le scimmie alberomorfe
E sostenere la lotta per sollevare il morale dell’ Antartide
E stringere la mano al re Pinguino.
La regina Maud non era contenta di tutti quei ghiacciai persi
Dei Sioux e l’immagine di Toro seduto in un’ igloo che si scioglieva
L’argenteria di famiglia dispersa nei Caraibi.
Al merluzzo la parola atlantica
Ai sottomarini che sbuffano e rampognano gli squali
Al vichingo che non sa quel che fa nella mano di bella
Conviene accostare e mostrare il lato peggiore dell’oceano
Riempire di pece lo stomaco, fare di tutto per stuccare il silenzio
E rimpinzarlo di fumo e mostrargli il lato Nord, il Caterpillar nella pancia
Come si avvita una stella a un missile e farlo partire.
La ferita senza rimedio nel fianco.
Oh la coscienza buttata ai porci!
Ancorare nel San Lorenzo con i denti intatti e la spinta del venditore di sandali
Con la disciplina del salmone che indovina la bocca del grizzly
È stato un immane delirio seguire CANOSCENZA e spingere il pulsante del Saturno
Da qui alle colonne d’Ercole non è nemmeno un endecasillabo
Il mare s’è seccato di ragionare e zampillare lampade Davy dal fondo oceanico
Sporchi di lava e fango.
Dov’è finito il neurone ad Est di Capo verde?
Cosa è alla portata di Eric il Rosso?
La voglia di menare le mani e navigare con la cravatta di re e figlio prediletto tra talamo e ipotalamo, mentre il vulcano esplode e una manta colossale sbatte contro le torri gemelle.
Chi osa chiedere un verso santo, immune dal peccato d’invidia
Un trafiletto di messale, un lingotto di settenari e rime baciate
Un trigesimo, un anniversario ripulito da ostriche infette?
Non reggemmo l’assalto del polpo assassino
E tornammo ad ordinare alla carte sull’isola di Sant’Elena
Un refugium peccatorum per aver salvato il mondo dal mal francese
Il sancta santorum dell’olfatto
Un tendone di circo credo con le costellazioni nella gabbia dei leoni
E le scimmie a suonare e Marte ad esporre cartelli di funghi velenosi
e mari tempestosi riservati alle raccolte punti di storione
E gli elefanti a rimescolare le bolle, i santi impietositi,
le guerre e battere il tamburo dei sargassi
i treponemi scandalizzati per i nostri pettegolezzi
Un mostrare traiettorie di postriboli vuoti
Nel bel mezzo dell’ Orsa un raduno di pervertiti e menagramo.
Affondò Atlantide e facemmo rapporto alla compagnia delle Indie
per il grano che mancò all’appello e glu..glu…
per il tiranno che ordinò gli omogeneizzati di vitello
e giocò sul cavalluccio del nipotino col winchester di legno
l’orsacchiotto vinto al baraccone
Glu…glu…
Giorgio Linguaglossa
Come appare evidente in queste ultime composizioni kitchen o kitsch ogni elemento di senso sembra essersi dileguato dall’orizzonte dei significati, Intini impersona il ruolo di un anarco sindacalista che prende sul serio quello che nessuno dei suoi contemporanei prende sul serio: che il Reale appare nel suo deserto, ovvero, che appare il deserto del reale come ossessione, fobia, fantasma, spauracchio, terrore… le parole sono come attratte da un Grande Attrattore, un Grande Vuoto. Mi spiego: il Grande Altro si è convertito in un Grande Vuoto. Un buco grande, un Grande Attrattore, deglutisce tutte le cose e tutte le parole, i nostri sentimenti, le nostre identificazioni, le nostre proiezioni. Di conseguenza, gli oggetti (con le loro parole al seguito) non sono più al loro posto ma si presentano fuori-posto, fuori-luogo; ma il posto è vuoto veramente e questa scoperta è talmente insopportabile che il vuoto assorbe e consuma, letteralmente, ogni parola e ogni oggetto. Una sorta di buco nero (black hole) è in azione al Centro del nostro sistema Simbolico che fa collassare tutta la costruzione edilizia e manifatturiera della realtà. Il Buco del Reale liquefa letteralmente ogni oggetto e ogni parola. Il collasso dell’ordine Simbolico è l’ultimo fenomeno di un Reale che ostinatamente si rifiuta a consegnarsi agli uomini.
Lucio Mayoor Tosi
In diretta su Alfa Centauri.
Boschi e casette, confezioni di ribes, molti silenzi;
prati che si allontanano, nonni sulla porta; mamme
danzano a piedi nudi, spose attente al vestito giocano
con bambini imbarazzati. Non manca il cane dei vicini.
Il bosco sottratto, Arcangeli registri bollette scadute.
Riposo. La vita inutile. Bella vedetta, spalline, aquilotti,
zeri con faccina. Povera me. A Capri con la mamma.
Silvia ha il vaiolo. Questo scrive, l’altro si mangia
le parole
Olga rimane, abbiamo fatto tanta strada.
– Lista dei cocktail, lista delle pizze, liste
abat-jour, tutte le notti.
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Chiamò se stesso per potersi catturare.
Grazie. Ma dimenticò il titolo del libro.
Il grande sonno, R. Chandler. Musica per ottoni.
– Un titolo che valga il prezzo di copertina.
I grandi romanzi. Grandi romanzi. Romanzi.
Alberi senza trasporto.
Giorgio Linguaglossa
«Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato» (Adorno, teoria estetica). Anche le parole si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato, le parole irrigidite, raffreddate, iperbarizzate sono quei molluschi dell’aria, quelle meduse dell’atmosfera in rapporto alle quali non possiamo fare altro che disabitarle, abbandonarle, lasciarle cadere; le parole già reificate, una volta costrette e costipate nello spazio neutro della nuova reificazione della scrittura poetica, cessano di parlare, restano mute, non abitano più alcun condominio di parole e se ne vanno ramengo nell’universo silenzioso e rumoroso. Nella poesia di Lucio Mayoor Tosi c’è il Bellosguardo, le pubblicità del Mulino Bianco, c’è la cornice della Buitoni con il quadretto idillico e agreste delle mucche e dei pastorelli felici, cose di un’altra galassia, di un altro pianeta: «Boschi e casette, confezioni di ribes, molti silenzi». Oramai qui, sul pianeta Terra, non c’è più niente altro da fare che andare a fare yoga, andare per prati con l’acchiappafarfalle o seguire i seminari di teologia e jogging nei parchi, fare antirime agrituristiche alla Umberto Piersanti o dedicarsi alla flat-tax al 15% o al 23% delle parole superficiarie e sublimatorie di Franco Arminio, il novello Tagore della poesia italiana. In un mondo talmente irrigidito bene ci stanno i video di Gianni Godi con gli avatar irrigiditi che perorano parole in rigor mortis.
Lucio Mayoor Tosi
Vivere nella realtà è mortificante. Starò più attento al consumo delle risorse pubbliche. Il mondo incantato di cui scrivo è ben piantato nella mia mente. Non so dove altri piantino il loro. Il mio lavoro adesso consiste nell’inscatolare parole. Le parole mi arrivano col contagocce, e per collaborazione. Non do consolazione, se tento un insegnamento, subito ne rido. Piuttosto bravo nel lasciar perdere. Poeta, se poeta, occidentale.
Slavoj Žižek
«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il “Quadrato nero su superficie bianca” di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttametne esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»1
1 S. Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine), 2010 pp. 28-29
Jacopo Ricciardi
Mi pare questa descrizione perfettamente calzante per descrivere il quid della Poetry Kitchen. Ma questa descrizione nelle intenzione di Zizek descrive perfettamente il quadrato nero di M. e di seguito Duchamp, opere di 110 anni fa. Allora dove sta il nuovo, ossia dove la Poetry Kitchen fa qualcosa di ulteriore rispetto a quanto detto da Zizek, riferendomi anche alle affermazioni precedenti della Colasson che sostiene che la PK è qualcosa di completamente diverso rispetto alla tradizione (se in arte sono intanto esistiti Paolini, Denominicis e Boetti)? La mia provocazione non sta in questa mia domanda quanto piuttosto nel mio tentare una risposta: la poesia italiana è attualmente indietro di un secolo sull’arte italiana? Possibile?
Giorgio Linguaglossa
caro Jacopo,
la poesia italiana è stata prigioniera di un pensiero estetico provinciale e asfittico, ha sempre pensato e pensa tuttora alla poesia come ad una esternazione privata di un soggetto, come il linguaggio di un soggetto. Parole come autenticità del soggetto poetico fanno sorridere oggi in un mondo che è collassato. Siamo nel bel mezzo del collasso dell’ordine Simbolico, Zizek ha messo bene in evidenza che nel collasso del Simbolico il primo a farne le spese è la presunta integrità o autenticità del linguaggio del soggetto cartesiano, del soggetto plenipotenziario; quello che noi abbiamo oggi come materiale da costruzione è il prodotto di un gigantesco collasso, i suoi residui fossili. Ma quello che è più importante, penso, è che questo gigantesco collasso del Simbolico lascia intravvedere dei varchi, le lacerazioni del simbolico, in questi varchi neutri il soggetto si perde; come in un black hole tutto ciò che entra nel perimetro del suo orizzonte degli eventi precipita al suo interno e scompare. Così siamo rimasti senza un linguaggio, quel linguaggio dell’antico novecento è finito nel black hole, è scomparso, e non c’è modo di riacciuffarlo in alcun modo. Quello spazio neutro (in quanto non significazionabile) è il «vuoto» di simbolizzazione, il «vuoto» di linguisticità. Semplicemente, il linguaggio è venuto a mancare, manca, non c’è più. Così un poeta consapevole di oggi si accorge che non può più dire nulla perché non ha più un linguaggio, perché un linguaggio dovrà andarselo a prendere dal futuro, dovrà costruirsi un linguaggio dalle parole ibernate e raffreddate, dai relitti di un mondo linguistico collassato; che quella «cornice» dove poteva collocare il suo linguaggio, non c’è più, è scomparsa, la cornice è vuota, è un vuoto e il linguaggio che il poeta ha è un vuoto anch’esso.
È una situazione drammatica, lo ammetto, c’è poco da ridere.
Jacopo Ricciardi
Grazie Giorgio, quando tu dici in altri luoghi ‘andare a tentoni’ e ‘navigare a vista’ mi accorgo di quanto questa azione implichi un non sapere dove si è al limite di non sapere esattamente cosa si sta facendo, e, questo costruire una poesia o un testo in modo sganciato da qualsiasi idea di testo che non si sa se è una poesia o mai lo sarà, è direi impaurente: ci si ritrova con frammenti dispersi, che il poeta combina e ricombina, interrompe con altri frammenti; questa dispersione interna al lavoro, e intorno a lavoro, simile a un gattonare nel vuoto, in un senza linguaggio che reiterato non genera maggiore attrito (anzi dove c’è attrito si deve rompere e spezzare ancora, per togliere ogni residuo di simbolo), ed è qui in questo ritentare che non si accumula nella linearità del tempo che va dalla nascita alla morte che c’è qualcosa di drammatico, perché da una parte non si esce dall’esercizio e dall’altra si tenta continuamente una più riuscita attivazione del vuoto. Da una parte la volontà e il concetto di una pratica e dall’altra il caso. Arrivo a pensare che il caso sceglierà la migliore attivazione del vuoto e che i poeti della Poetry Kitchen dovranno produrre soltanto (con le migliori intenzioni) più materiale possibile. E forse questo giudizio è probabile che si trovi nel futuro.
Giorgio Linguaglossa
caro Jacopo,
mettersi in sintonia con il «vuoto» è l’unico stratagemma che possiamo adottare dinanzi ad un mondo fatto di «pieno», di «pieni» a perdere. Dal punto di vista del «pieno» possiamo ipotizzare un «vuoto» solo con il segno negativo, con un meno, ma, se proviamo a pensare il «vuoto» dal punto di vista del «vuoto» che già siamo, cambia tutta la prospettiva, scopriamo che il «vuoto» è produttivo, è l’istanza creatrice che ci libera della presenza oziosa e ingombrante di un creatore demiurgico che ci risolve tutti i problemi. Se proviamo a pensare il «vuoto» come una istanza, cambia tutto, cambiano anche le parole e l’uso delle parole cui siamo abituati da sempre. Quello di cui l’umanità di oggi ha bisogno è sapere che c’è un nuovo e diverso modo di pensare e adoperare le parole rendendole indispositive. Mettersi in sintonia con questo diverso «sentire» ci consentirà di fare con le parole e i pensieri delle cose nuove, diverse.
da lescienze.it
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Potremmo dire: tutto questo è ciò che resta del reale, di ciò che un tempo è stata la vita vissuta. A questo punto sorge la domanda: che cos’è il reale? Il Reale è l’impossibile, ciò che resta al di fuori della simbolizzazione, il reale è l’inconscio in quanto indicibile. Il Reale è ciò che resta di ciò che viene rifiutato dal Simbolico, in quanto il Simbolico è connesso con il godimento (jouissance) e da questo dipendente, in quanto la funzione immaginaria è subordinata alle determinazioni del Simbolico, l’Immaginario e il Simbolico si distinguono in base alle loro relazioni con il Reale, e quest’ultimo è determinato da ciò che resta dopo il suo investimento nel Simbolico. Così tutto torna in «ordine», ed il reale può continuare a sussistere. A sussistere per l’io organizzatorio in quanto il reale è sempre osceno, è sempre fuori scena, è l’immediato che non ci aspettavamo, è il prodotto della falsa coscienza dell’io che vuole «Tutte le cose… al posto giusto». E così la coscienza della falsa coscienza è in pace, può smettere di interrogarsi.
Le parole sono sempre inadeguate a ciò di cui si parla, sono fatte per altro… non si parla mai dall’esterno della cosa o al di sopra di essa, guardandola dall’alto, ma ciò che si dice fa parte di essa. Questo parlare della poiesis implica una continua de-supposizione, una continua deviazione, un continuo de-spaesamento.
Questa consapevolezza della inadeguatezza del discorso poetico a rendere il registro del Reale è acutissima fin dalla pagina di apertura de Il disperso (1976) di Maurizio Cucchi, dove accediamo ad una elencazione quasi da referto poliziesco di oggetti d’uso quotidiano.
Accedere allo spazio fra i significanti, cioè ad una rete «a maglia larga», è ciò che può consentire di accedere a una poiesis che si sottragga alla catena del significante codificato e alla gabbia ferrea del significato consolidato. La struttura «a rete» a maglie larghe frastagliate di certe descrizioni dettagliate ed accurate del poemetto rende evidente questa caratteristica, la composizione «a maglie larghe» della versificazione è qui una tappa obbligata. Una scelta stilistica determinata da altro, dall’Altro.
Ciò che collega la nuova poiesis e Il disperso di Maurizio Cucchi (1976), come un filo spezzato e interrotto che attraversa i decenni del tardo novecento e giunge fino a noi, è questa dimensione della nuova fenomenologia del poetico collegata al fantasma, come escrescenza del Reale, come ciò che eccede dal reale, come ciò che non può essere assorbito nel Simbolico, come resto.
Il Simbolico è strutturato intorno ad un nocciolo traumatico non simbolizzabile, ad una mancanza centrale che deriva dalla sua stessa interazione con il reale, con la dimensione pre-simbolica della jouissance. Compito del fantasma dunque è nascondere il fatto che l’Altro sia strutturato intorno a qualcosa che non è simbolizzabile, ad un trauma che rende impossibile la simbolizzazione. Ecco perché la fantasia fondamentale non può essere realizzata dal soggetto, perché non esiste, non ha mai avuto luogo, essa è una menzogna o, quantomeno, una non-verità. Se ciò accadesse infatti, si disintegrerebbe, e il soggetto sarebbe costretto a percepire l’assenza di fondamento ontologico di cui consta la realtà stessa secondo la vulgata lacaniana. Pertanto, pur essendo il nocciolo costitutivo del soggetto, la fantasia più che configurarsi come la verità fondamentale, rappresenterà piuttosto la non-verità che abita ogni fantasma e, proprio per questo, tanto più preziosa della «verità».
La non verità è ciò che tiene oscenamente insieme i pezzi sparsi della soggettività che, in quanto formazione di natura traumatica, si innesta nel simbolico (ma non gli appartiene – appartiene invece al reale), nel quale si configura come un residuale (sintomatico) vuoto di senso, che sostiene, paradossalmente, la realtà, coprendone il vuoto ontologico insostenibile.
«È necessario far riferimento al fantasma fondamentale, inteso come concetto presente in Freud e Lacan, e da questi definito come la più intima essenza del soggetto, come la definitiva cornice proto-trascendentale del mio desiderare che proprio in quanto tale rimane inaccessibile alla mia comprensione soggettiva; il paradosso del fantasma fondamentale è che l’essenza stessa della soggettività, lo schema che garantisce l’unicità del mio universo soggettivo mi è inaccessibile. Nel momento in cui mi avvicino troppo, la mia soggettività e auto esperienza perdono consistenza e si disintegrano […] Più reale del reale, il fantasma è nell’oggetto più dell’oggetto stesso».1
Il viaggio nel tunnel dell’angoscia è labirintico: si sta contemporaneamente dentro e fuori un’esperienza di parole, nell’esperienza del parlare di qualcosa che possiamo solo contornare, bordeggiare, rivisitare.
Penso che anche la nuova poiesis, la poetry kitchen, sia il prodotto della ontologia della crisi e delle sue strutture fenomenologiche e fenomenognomiche, e questo lo si può evincere secernendo il campionario degli oggetti che popola quella poesia.
Non è che mettendo il tutto dentro il sacco indifferenziato dell’inconscio collettivo si giunga a qualcosa di determinato, è piuttosto da un lavoro analitico, minuzioso, cavilloso sugli oggetti della poesia e sul loro posizionamento che si può risalire al suo quantum di innovazione.
1 S. Žižek, Lacrimae rerum, Libri Scheiwiller, trad. it O. Braccini, p.217.
La Pampas e la pummarola. L’esibizione avvenne inaspettata.
Il fiato sospeso al dodicesimo piano. All’incontro di due semplici pareti. Così come nasce un muro
la sofisticazione di un divano letto domani finisce non si interrompe. Un guscio.
Senza presupposti ne ante ne bloccasterzo. Salvaguardare le api.
Aprire e chiudere qualsiasi rubinetto.
Soffiamo a motore soffriamo a gas e a carbone.
Delle due una o una maniglia
o il telecomando. La smerigliatrice.
Si apprestano entrambi. Sostituire entrambi i due microchip. Me cojoni!
Grazie OMBRA.
Invisibili
Manca il pane fresco sulla linea di porta
la Var ha deciso l’espulsione dei fornai di zona.
Il grano è in ostaggio negli spogliatoi
«Un sacrificio necessario per salvaguardare le coreografie dentro e fuori lo stadio.»
Le coppie di youtuber sorrisetti fissi lei strilloni lui
fatturano l’identità di Giacomo annoiata sul divano.
Cambiano i lavori, cambiano i nerd.
Il coding ha attecchito tra i frutteti dell’entroterra, lungo i terrazzamenti.
La CGIL ha paura dei tornanti stretti che finiscono nel bosco
Il bosco non tradisce e non fa scherzi.
A Bergeggi le meduse intrattenevano i turisti a riva
nelle retrovie gli inservienti su e giù lungo la spiaggia faticavano ad attirare l’attenzione.
10/08/2022
La composizione Kitchen si riappropria del personale lo smembra in filamenti di vera storica appropriazione indebita:
nelle poesie di Alfonso Cataldi riconosci gli schizzi dell’individuale nelle chiazze dell’indefinito generale.
Il generale ed il particolare, in questo caso familiare, di un familiare fagocitato dalla realtà del vuoto circostante. Per il poeta Cataldi Kitchen è scontro generazionale puro, attivo, politico.
La sterilità del pensiero generalizzato e vivo combattimento Kitchen.
“Le coppie di youtuber sorrisetti fissi lei
strilloni lui
fatturano l’identità di Giacomo annoiata sul divano.”.
“La CGIL ha paura dei tornanti stretti che finiscono nel bosco
Il bosco non tradisce e non fa scherzi.”
Grazie Cataldi, grazie OMBRA.
Grazie a te Mauro che trovi sempre il grimaldello giusto per leggere le mie poesie
Slavoj Zizek, Il Trash sublime
«… nell’arte contemporanea il margine che separa lo spazio consacrato del bello sublime dallo spazio escrementizio del trash (i rifiuti), si sta gradualmente assottigliando fino ad arrivare ad una paradossale identità degli opposti: i moderni oggetti artistici sempre più escrementizi, trash (spesso in senso esattamente letterale: feci, corpi in putrefazione, ecc.) non sono forse esibiti per – fatti al fine di, destinati a riempire – il LUOGO Sacro della Cosa? Non è forse questa identità la “verità nascosta” dell’intero movimento? Qualsiasi elemento che reclami di diritto di occupare il Luogo Sacro della Cosa non è forse un oggetto escrementizio per definizione, un rifiuto che non può mai essere “all’altezza del suo compito”? Questa identità della definizione degli opposti (l’elusivo oggetto sublime e/o il rifiuto escrementizio) con la minaccia sempre presente che l’uno sconfinerà nell’altro, che il sublime Graal si rivelerà essere un pezzo di merda, è iscritta proprio nel nocciolo dell’objet petit a lacaniano.
Questa impasse è, nella sua dimensione più radicale, l’impasse che influisce sul processo di sublimazione, non tanto nel senso che la produzione artistica non sia più oggi capace di realizzare oggetti semplicemente “sublimi”, quanto in un senso molto più radicale. Si può affermare, infatti, che lo schema fondamentale della sublimazione – quella del Vuoto centrale, dello Spazio vuoto (“Sacro”) della Cosa esonerata dal circuito dell’economia quotidiana, che viene infine riempito da un oggetto positivo che è “elevato alla dignità della Cosa” (definizione lacaniana della sublimazione) – è sempre più minacciato. Ciò che qui è minacciat è proprio lo scarto tra il Luogo Vuoto e l’elemento (positivo) che lo riempie. Quindi, se il problema dell’arte tradizionale (pre-moderna) era quello di riempire il sublime vuoto della Cosa (il Luogo puro) con un oggetto bello – ossia come riuscire ad elevare efficacemente un oggetto comune alla dignità della Cosa – il problema dell’arte moderna è, in un certo senso, quello opposto (e molto più disperato): non si può più contare sul fatto che il Luogo sacro sia lì, pronto per essere occupato dai manufatti umani; perciò il compito è di sostenere il Luogo come tale, per assicurarci che questo stesso luogo “avrà luogo”. In altre parole, il problema non è più quello dell’horror vacui, riempire il Vuoto, ma piuttosto quello, innanzitutto, di CREARE il Vuoto. Diventa, perciò, cruciale la co-dipendenza tra un luogo vuoto, non occupato, e un oggetto elusivo che si muove rapidamente, un occupante senza un posto?
Il punto è che c’è semplicemente il surplus di un elemento rispetto agli spazi disponibili nella struttura, o il surplus di un posto che non ha alcun elemento che lo occupi; infatti, un posto vuoto nella struttura sostiene la fantasia di un elemento che presto o tarsi lo colmerà, mentre un elemento eccedente senza posto sostiene la fantasia di un luogo ancora sconosciuto che lo attende. Il punto è invece che il posto vuoto nella struttura è in se stesso correlativo all’elemento eccedente che manca al suo posto: essi non sono due entità diverse, ma il diritto e il rovescio di un’identica entità, quell’una e medesima entità che si iscrive nelle due superfici del chiasma di Moebius. In altre parole, il paradosso è che soltanto un elemento che è completamente “fuori luogo” (un escremento, un rifiuto o uno scarto) può reggere il vuoto di un luogo vuoto – cioè la situazione à la Mallarmè, in cui “nulla, tranne il luogo avrà luogo”; nel momento in cui questo elemento eccedente “trovasse il posto giusto”, non ci sarebbe più nessuno Luogo puro distinto dagli elementi che lo riempiono.
Ed effettivamente, come suggerisce Gerard Wajcman il grande sforzo dell’arte moderna non è proprio quello di mantenere la struttura minima della sublimazione, uno scarto impercettibile tra il Luogo e l’elemento che lo riempie? Non è questa la ragione per cui il Quadrato nero su Fondo Bianco di Kazimir Malevitch riduce il meccanismo artistico alle sue componenti essenziali, alla mera distinzione tra il Vuoto (lo sfondo, la superficie bianca) e l’elemento (la macchia del quadrato)? Dovremmo cioè sempre ricordare che il tempo verbale stesso (il futuro anteriore) del famoso rien n’aura eu lieu que le lieu (“nulla avrà avuto luogo se non il luogo stesso”) chiarifica che abbiamo a che fare con uno stato utopico il quale, per ragioni strutturali a priori, non può realizzarsi nel presente (non ci sarà mai un tempo presente in cui “solo il luogo stesso avrà luogo”). Non è semplicemente che il Luogo conferisca all’oggetto che lo occupa una dignità sublime; è che soltanto la presenza dell’oggetto sostiene il Vuoto del Luogo sacro, ma sarà sempre qualcosa che, retroattivamente, “avrà avuto luogo” dopo esser stato intralciato da un elemento positivo. In altre parole, se sottraiamo dal Vuoto l’elemento positivo, “il piccolo pezzettino di realtà”, la macchia eccedente che disturba l’equilibrio, non otteniamo il puro Vuoto equilibrato come tale; il Vuoto stesso, piuttosto, scompare, non è più lì.
Perciò il motivo per cui gli escrementi sono elevati al rango di opera d’arte, utilizzati per colmare il Vuoto della Cosa, non è semplicemente quello di mostrare come “anything goes – qualsiasi cosa va bene”, come l’oggetto sia, in definitiva, indifferente, dal momento che qualsiasi oggetto può essere elevato ad occupare il Luogo della Cosa: questo ricorrere agli escrementi testimonia, piuttosto, l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo sacro c’è ancora. Il problema è che oggi, nel duplice movimento della mercificazione progressiva dell’estetica, e dell’estetizzazione delle merci, un oggetto bello (piacevolmente esteticamente) può sostenere sempre meno il Vuoto della Cosa – è come se, paradossalmente, l’unico modo per mantenere il Luogo (Sacro) sia di riempirlo di rifiuti e di escrementi. Gli artisti contemporanei che espongono escrementi come oggetti d’arte, lungi dall’indebolire la logica della sublimazione, in realtà si sforzano disperatamente di salvarla. le conseguenze di questo collasso dell’elemento nel Vuoto del Luogo son potenzialmente catastrofiche: infatti, senza uno scarto minimo tra l’elemento e il suo Luogo, non esiste ordine simbolico: cioè, noi dimoriamo dentro l’ordine simbolico solamente in quanto qualsiasi presenza appare contro lo sfondo della sua possibile assenza(questo è ciò a cui Lacan allude con il concetto del significante fallico come significante della castrazione: è un significante “puro”, il significante come tale, nella sua accezione più elementare, in quanto proprio la sua stessa presenza evoca la SUA STESSA possibile assenza/mancanza).
Forse la definizione più concisa della rottura modernista in campo artistico è proprio che, grazie ad essa, la tensione tra l’Oggetto (arte) e lo Spazio che esso occupa è considerata riflessivamente: ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali, ma il luogo che occupa, il Luogo (sacro) del vuoto della Cosa. In altre parole, con l’arte modernista, si perde per sempre una certa innocenza: non possiamo più fingere di produrre oggetti che, in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che occupano, “siano” opere d’arte. Per questa ragione, l’arte moderna si divide, fin dalle sue origini, proprio nei suoi due estremi, Malevic da un lato, Duchamp dall’altro. da una parte, l’enfatizzazione pura del vuoto che separa l’Oggetto dal suo Spazio (il Quadrato nero); dall’altra, l’esposizione di un oggetto quotidiano (una ruota di bicicletta) come opera d’arte, per dimostrare che l’arte non si fonda sulle qualità dell’opera d’arte, ma esclusivamente sullo Spazio che esso occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche se è merda, possa “essere” un’opera d’arte se si trova nel Luogo giusto. E qualsiasi cosa venga fatta dopo la rottura modernista, anche se è un ritorno al falso neoclassicismo alla Arno Breker, è già “mediata” da questa rottura. Prendiamo un realista del XX secolo come Edward Hopper: ci sono almeno tre aspetti del suo lavoro che testimoniano questa mediazione. Primo, la ben nota tendenza di Hopper a dipingere paesaggi urbani di notte, soli, in stanze molto illuminate, visti dall’esterno attraverso una finestra (anche quando la finestra non è direttamente percepibile, il quadro è dipinto in modo tale che lo spettatore sia spinto a immaginare una cornice immateriale e invisibile che lo separa dagli oggetti raffigurati). Secondo, il modo in cui sono dipinti i suoi quadri e la sua tecnica iperrealista, producono nello spettatore un effetto di irrealtà, come se si stesse osservando qualcosa di onirico, spettrale, etereo, invece che comuni oggetti materiali (come l’erba bianca nei suoi quadri campestri). Terzo, il fatto che la serie di quadri raffiguranti sua moglie seduta in una stanza solitaria, fortemente soleggiata, mentre guarda attraverso una finestra aperta, sono percepiti come un frammento disarmonico di una scena globale, che necessita di un supplemento, che rimanda ad un invisibile spazio fuori campo, come il fotogramma di una sequenza cinematografica privo del suo contro-campo (e in effetti si può sostenere che questi quadri di Hopper siano già “mediati” dall’esperienza cinematografica).»*»*
«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevic. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il “Quadrato nero su superficie bianca” di Kazimir Malevic e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevic di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevic fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevic: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevic, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttamente esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»**
* S. Zizek, Il Trash sublime, Mimesis minima, Milano, 2013 pp. 33-37
** S. Zizek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine), 2010 pp. 28-29
da formiche.net
In bilico sulla fine del mondo, sospesi sull’apocalisse nucleare, i sei reattori della centrale atomica di Zaporizhia sono al centro di tutti i più segreti dossier dell’orrore e della paura che l’intelligence continua ad aggiornare e elaborare sui possibili sviluppi dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin.
Se uno o più reattori della più grande centrale atomica europea dovessero essere colpiti da un missile o dall’artiglieria, gli scenari principali sono due: uno estremo, l’altro “controllabile”.
Il primo scenario é quello del crash nucleare oltre il livello 7, molto superiore cioè a Chernobyl e con effetti devastanti ad ampio raggio, dall’Atlantico al Mediterraneo agli Urali.
Il secondo riguarda invece un incidente di livello 6 che causa gravi danni all’impianto e provoca una fuoruscita di materiale radioattivo ed un fallout che contaminano tutta l’area centrale dell’Ucraina e il bacino del Dnipro.
I capitoli più delicati dei dossier dell’intelligence occidentale riguardano la possibile sovrapposizione fra effetti di un incidente di livello 6 e quelli determinati dall’uso di una bomba atomica tattica, di dimensioni molto ridotte.
Con l’ipotetica dicitura Beyond the bomb l’analisi dei servizi di sicurezza di Washington, Londra ed europei avrebbe elaborato la possibilità che per scongiurare il fallimento dell’invasione dell’Ucraina e la rovinosa ritirata provocata dall’incalzare della controffensiva delle forze ucraine e dal collasso di perdite umane e di mezzi dell’armata russa, al Cremlino possano programmare il ricorso ad un finto incidente nucleare da addebitare a Kiev per giustificare l’ ”arretramento” a distanza di sicurezza delle truppe di Mosca. In pratica il rimpatrio dell’esercito.
Un fantomatico incidente nucleare che imporrebbe una tregua per attivare i soccorsi internazionali e sancirebbe lo status quo della situazione militare, sul modello della Korea, da 70 anni divisa da una linea di demarcazione. Il che salverebbe la faccia a Putin, terrebbe in piedi suo regime e potrebbe inoltre portare alla sospensione delle sanzioni occidentali.
Secondo il ventaglio ipotetico del dossier Beyond the bomb, con beyond che riprende il senso di “oltre le rapide” riferito alla traduzione del termine Zaporizhia, il Gru il più sofisticato organismo dell’intelligence militare russa per le attività offensive, avrebbe mobilitato scienziati, esperti e tecnici dell’agenzia nazionale dei programmi nucleari e delle centrali atomiche Rosatom e del sistema nucleare strategico del paese.
L’11mo Direttorato del Gru starebbe studiando aspetti e conseguenze dell’incidente nucleare avvenuto nel 1957 a Kyštym negli Urali meridionali.
Un incidente tenuto segreto dall’allora Unione Sovietica, ma che devastò l’Oblast di Čeljabinsk ed é considerato intermedio rispetto a quelli di Černobyl e Fukushima. Molto attenzionate anche le previsioni meterologiche, in particolare le direzioni dei venti.
Le catastrofiche controindicazioni della di per sé terribile ipotesi di provocare la fuoriuscita “controllata” di combustibile e materiale nucleare per contaminare il cuore produttivo dell’Ucraina, spacciando il tutto per un incidente provocato da “irresponsabili” bombardamenti o da sabotaggi dei ”terroristi” di Kiev, sono infatti rappresentate dai venti che potrebbero sospingere il fallout verso la Russia.
Mentre nei sotterranei del Cremlino il regime é tentato d’azzardare il tutto per tutto sulla pelle degli stessi concittadini russi e dell’umanità pur di salvare se stesso, sono dunque i venti che soffiano incontrollabili e imprevedibili come la libertà dell’infinito a sospingere il destino dell’Europa e del mondo verso l’ineluttabile futuro di pace che, prima o poi, seguirà alla tragedia della guerra scatenata contro l’Ucraina?
Propongo cinque tentativi di poesie con procedimenti serendipici
secondo l’idea di Madame Colasson emersa da un suo commento di qualche giorno addietro
Gino Rago
*
Mostra esistenzialista
Manifesto monocromatico. Bianco che copre un décollage di Mimmo Rotella. John Cage che suona con un sandalo di Porto Empedocle
*
Gabbia mentale
Tentativo di fuga da Alcatraz. Un approccio di sguardo panottico su epidemia e guerra. Un vespasiano in via dei Dauni che aspetta la fine dei fuochi artificiali.
*
Gabbia psicologica
Finestre con inferriate. Grate.
Intrico serrato di linee perpendicolari tutte nere.
*
Gabbia ideologica
In galera tutti coloro che dicono che 4 + 4 = 8
La menzogna è la verità al ministero della propaganda del cavalier Berlusconi.
*
Picasso
La colomba è un falso. Voleva disegnare un tacchino.
Gli scherzi del rosso di Montalcino
*
Capisco ora, con sgomento che tipo di mente e mentalità ci vuole per scrivere Poetry Kitchen: una mente che non ha alcuna moneta d’oro da possedere, da fare stringere ai denti per saggiarla; potrebbe sembrare un voto, ma certo è più duro poiché nessun ideale sorregge la fatica; forse solo un lontano pensiero di poter fare la cosa giusta, che comunque nell’atto di essere fatta non ha niente di giusto quanto piuttosto nel funzionamento di più ingranaggi, senza che alcuno scopo sia chiaro perché la macchina non si rivela mai; è tutto un gioco di tentativi di supposti ingranaggi, ma certo non per vaghezza, anzi per nettezza e precisione degli stessi, ma pur sempre inesausti nel vuoto. Questo tipo di mente rende una composizione quieta anche se, credo, assediata da assilli: quindi il poeta è assai calmo, ma assediato di vuoto, e non gli resta che questa reinvenzione instancabile, sperando di riconoscere qualche prodigio compositivo.
Il rumore ha definitivamente sconfitto il silenzio
La Poetry kitchen è priva di un originale, sa che non ci sono altro che copie di copie, e agisce di conseguenza.
«La felicità è al di là della prassi», ha scritto Adorno con micidiale economia di parole.
E la Poetry kitchen vuole semplicemente giungere d’un colpo alla «felicità», per far ciò deve saltare a piè pari la «prassi», ovvero, la storia, la politica.
Posso comprendere come Jacopo Ricciardi abbia afferrato al volo il segreto della poetry kitchen, che sta nel non avere alcun segreto della antica prassi del novecento poetico e delle sue propaggini epigoniche. Non ‘è altro che il «vuoto» fuori della prassi e all’interno della prassi. Questa è l’unica felicità compossibile che ci è concessa oggi, prima della deflagrazione della guerra nell’Indo-pacifico. Dopo non possiamo sapere.
Il rumore ha definitivamente sconfitto il silenzio.
L’ontologia negativa di Heidegger era incentrata sull’assioma: «l’Essere è ciò che non si dice». Da qui il passo successivo è il silenzio come impossibilità di dire ed esperire il silenzio. La grande poesia di Eliot, La terra desolata (1922) e gli Ossi di seppia di Montale (1925) ne sono la eloquente esemplificazione; il non detto diventa più importante del detto, il non si dice più importante del si dice. Tutta l’impalcatura della colonna sonora della poesia primo novecentesca viene calibrata sul parametro del silenzio, di ciò che non si dice, di ciò che non può essere detto. Altresì, tutta l’impalcatura indicativo-ostensiva del linguaggio poetico primo novecentesco più maturo tende a periclitare nello spazio del silenzio quale «altro» indicibile per impossibilità del dicibile. L’intenzionalità significante tesa all’estremo tenderà a sconfinare nel silenzio dell’impossibilità del dire.
Il pensiero filosofico e la pratica poetica di questi ultimi anni pensa una ontologia positiva, per cui si può affermare che l’Essere è ciò che si dice. Ciò che non è detto sconfina non più nel silenzio del dire ma nel nulla dell’essere, nel rumore delle parole. Ci troviamo davanti ad una rivoluzione copernicana nella sfera del pensiero filosofico e del linguaggio poetico.
Le poesie della nuova ontologia estetica, sono una calzante esemplificazione di questa rivoluzione copernicana.
Possiamo affermare che nella poetry kitchen il dire che si esaurisce nel detto, il detto nell’esser stato detto, in un presente che non è più e che reclama una copia del presente da porre nel futuro. Tutta l’impalcatura fraseologica e la denotazione proposizionale di ogni singolo verso indicano una compiuta ostensività della significazione verso il «vuoto» di significazione, la chiudono e la riaprono. Così, la poesia diventa composizione di singole componenti, frasi assiologicamente orientate che periclitano verso il vuoto di significazione, che non possono sporgersi nel silenzio per la priorità del rumore che percepiscono, per la estrema vicinanza del nulla e del vuoto di cui hanno percetto.
Aggiungo una postilla per condensare questo pensiero. La nuova poesia si muove all’interno dell’orizzonte del positivo significare, va alla ricerca del significato come di un positivo assoluto, ovvero, di un falso e, proprio così facendo, il positivo viene inghiottito dal positivo. Il positivo significare è un darsi che è un togliersi, un positivo che si rivela un negativo. Le fraseologie restano come appese ad una sospensione trascendentale, come sopra l’abisso del vuoto dal quale provengono. Paradosso del paradosso: il positivo significare periclita nel negativo significare, in quanto il discorso poetico si situa proprio sul crinale della differenza tra il così posto e il togliersi del così posto in non-posto.
Scrive Massimo Donà:
«Ecco perché non si può assolutamente dire che l’orizzonte della positività costituisce il presupposto a partire dal quale, solamente, qualcosa come una differenza può essere posto; infatti, non c’è “essere” se non nel darsi di una differenza – essendo proprio quest’ultima, ciò che ‘fa essere’.
Nessuna distinzione, dunque, tra il differire ontico ed il differire ontologico – come avrebbe invece voluto Heidegger: non essendo in alcun modo pensabile un essere, se non come essere dell’essente.
Di cos’altro possiamo dire che ‘è’, infatti, se non di questo o quel determinato? Nessun’altra esperienza dell’essere si dà mai all’uomo – stante che lo stesso essere in quanto essere si dà al pensiero sempre come “così e così determinato”; cioè come diverso dall’albero e dalla casa. Per cui, anche dire, dell’essere, “che è”, è dire l’essere di un determinato».1
La nuova ontologia estetica ha il vivissimo percetto della oppositività di tutte le parole, della belligeranza universale e del contraddittorio universale di tutte le parole in quanto provenienti da quella oppositività originaria che le rende «tutte possibili proprio in forza della sua specialissima natura – costituendosi essa, per l’appunto, come opposizione tra essere e nulla. Ossia, come opposizione tra l’esser positivo del positivo (la positività) e l’esser negativo del negativo (la negatività)».2
1] M. Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, Milano, 2008, p. 32
2] Ibidem p. 33
Gino Rago
*
Mostra esistenzialista
John Cage suona il flauto del filosofo Empedocle mentre sulla ventunesima stella piove a dirotto.
*
Fuga da Alcatraz
Il vespasiano in Via dei Dauni aspetta la fine dei fuochi artificiali.
*
Gabbia psicologica
Un romanzo di Moravia + una poesia di Sandro Penna x un bicchierino di Rum – “Il nome della rosa” romanzo di Umberto Eco.
*
Gabbia ideologica
4 + 4 = Corsivo – Normal = Discorso etero diretto.
*
La colomba di Picasso
Era una sera buia e tempestosa. La poiesis ha finalmente fatto ingresso in cucina.
*
Consiglio dell’astrologo
Evitare l’invidia degli specchi quando le lampadine sono fulminate.
*
L’ ospite
Sigillate il futuro in una busta di plastica, lo scolapasta ha litigato con l’appendiabito
*
Ho proposto questa nuova versione di sette tentativi di poetry kitchen con procedimenti serendipici, secondando l’idea di Madame Colasson la quale, in un suo commento (ahinoi, passato quasi sotto traccia e, in ogni caso, ahinoi, sotto valutato) ha così scritto:
«[…]La fenomenologia del poetico della nuova ontologia estetica è lontanissima dai presupposti dello sperimentalismo italiano, la poetry kitchen è talmente nuova che non si può confondere con nessuna altra scrittura poetica della tradizione[…]»
Ho molto apprezzato l’esperimento serendipico di Gino Rago. Contiene numerosi inizi, abbandoni. Il cambio di senso, come anche il fuori senso, è tempo (fattore T) che separa l’attimo del concepimento dall’attimo successivo, totalmente nuovo… Ma in lettura tradizionale, spedita, anche se attenta, ii salti finiscono col diventare bizzarrie, frasi eccentriche, talvolta semplici gag.
Non in questo caso, perché la procedura serendipica comporta sintesi e avvicina la definizione, che per la poesia kitchen è ampia, complessa, tridimensionale e in tumulto. Il tono discorsivo lega e trattiene elementi, i più disparati, ma attenua la percezione del tempo che li separa. Da qui, penso, l’equivoco di leggere testi solo bizzarri.
Grazie Lucio,
già se solo avessi creato Nanin, la gallina della cover della Antologia Poetry kitchen, saresti diventato indimenticabile nella storia dell’arte, ma hai fatto molto di più e anche bene…
Dieci anni in buona compagnia, fanno miracoli;)
Da questa pagina di Cortellessa esce a tutto tondo il rapporto conflittuale tra Franco Fortini e Andrea Zanzotto. Siamo nel giugno 1952, l’anno prima era uscito Dietro il paesaggio (1951).
Non posso fare a meno di notare quanto sia lontano quel tempo!
da Andrea Cortellessa
https://www.academia.edu/3666161/Tra_i_materiali_genetici_del_Galateo_in_Bosco?email_work_card=title
Esce Dietro il paesaggio, da Mondadori nell’agosto del ’51, e qualche mese dopo,nel giugno del ’52, Fortini è tra i primi a parlarne. È una pagina fitta, una muraglia di piombo, quella che appare sul numero 14 dell’olivettiana «Co-munità». Si senta, appunto, come attacca Fortini:
Ad una prima lettura i versi di questo friulano [sic] paiono nati dalla presunzione. Tutto il repertorio dell’avanguardia che nel ’14 aveva vent’anni epiù, e che s’è accortamente spesa fra le due guerre, ci torna innanzi, impettitoe volontario, in immagini convulse e glaciali.
Conoscendo Fortini, si converrà, c’è da tremare. Ma la premessa risulta a contraggenio rispetto al resto dell’articolo che, pur mantenendo un tono
tra l’ammirato e il fastidito (si colga, più avanti, il cipiglio col quale viene pronunciato il termine superbia), risulta complessivamente assai positivo(specie considerata la scala dei giudizi fortiniani). Data l’ardua reperibilità del testo, lo cito qui per intero. Prosegue dunque Fortini:
Diciamo subito che è assai raro, nelle partite di così lunga durata, che la mossa d’avvio contenga già così ben delineate non solo le costanti a venire,nella relazione biunivoca, ma anche un così gran numero di topiche pro-
5 F. Fortini, Zanzotto: Dietro il paesaggio, «Comunità», VI, 14, giugno 1952, p. 76.
Cfr. F. Fortini, Attraverso Pasolini , Torino, Einaudi, 1993.4 AD,
Ricordo di Franco Fortini [1995], pp. 405-10: 406.
Proprio perché Giorgio Linguaglossa, in un suo recente lavoro scrive:«È impellente pensare la ri-concettualizzazione del paradigma del politico e del poetico, è viva l’esigenza di fuoriuscire da quelle formule dicotomiche che hanno caratterizzato la poesia del novecento: lo schema classico: avanguardia-retroguardia, poesia lirica poesia post-lirica; siamo andati oltre: occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza linguistiche ed extra linguistiche che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, avanguardia-retroguardia; da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione dello spazio poetico. Dopo Fortini, l’ultimo poeta pensante del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta critico in grado di orientare le categorie del pensiero poetico. Quello che oggi occorre fare con urgenza è riprendere a riparametrare e ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico, anche perché dopo Fortini, la resa dei conti stilistica del «poetico» è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione[…]», ho provato a dare una mia risposta con questo tentativo di poetry kitchen con montaggi, interferenze, procedure serendipiche, tentativo ripescato dal fondo del cestino e che avevo dimenticato.
Gino Rago
*
Sulla poesia del sublime
Un biglietto in carta platinata di Marie Laure Colasson.
C’è scritto:
«Egregio Poeta Gino Rago,
mi spiace, nel mio collage che lei cita
non è più possibile entrare nemmeno con una chiave falsa,
nemmeno con una bomba a mano.
Perciò suggerirei, in alternativa,
di farsi paracadutare con la Nanin e il suo cavallo a dondolo
nell’acrilico “Le Muse inquietanti” di De Chirico
e di sostituire “La sedia” di Van Gogh con “La sedia” di Matisse.
Quanto alla poesia del sublime … Voilà,
invio agli autori che ne coltivano le spoglie
i miei più incordiali saluti».
La gallina capisce al volo il rischio di finire in una pentola,
tenta la fuga,
fuoriesce dalla cover della Poetry kitchen
e va a nascondersi
nella cover del libro Critica della ragione sufficiente
(verso una nuova ontologia estetica) di Giorgio Linguaglossa.
A quel punto il poeta Gino Rago scrive un biglietto
alla poetessa di Parigi.
«Madame Colasson, rinuncio al progetto
di cadere al centro del Suo collage
con la gallina e il suo cavallo a dondolo.
Sa, come dice Ennio Flaiano,
faccio progetti solo per il passato».
Risposta della Colasson.
«Gentile poeta Gino Rago,
personalmente non faccio alcun progetto,
né per il passato, né per il futuro.
E se possibile neanche per il presente.
À bientôt».
*
da Il misuratore delle ombre uscì dalla Cadillac nera (di prossima pubblicazione)
Distretto n. 9/A
Il commissario mi ha interrogato
All’improvviso, Eredia mi ha detto:
«Nessuno può scrivere la propria morte»
«Ma io sono morto, un morto sì che lo può»,
ho replicato.
Allora, il commissario mi ha interrogato.
«Chi è Eredia?»
«Eredia è un personaggio inventato, non esiste»
«La tigre, il pianoforte, gli uccelli?»
«Fantasmi, sono solo fantasmi. Loro non sono colpevoli»
«Il Signor K.?»
«Un fantasma»
«Il poeta di via Pietro Giordani?»
«Un fantasma, nient’altro che un fantasma»
«Madame Colasson?»
«Un fantasma»
«Madame Ençeladon?»
«Un altro fantasma»
Mi mostrò una poesia.
«Avete fatto voi questo orrore, maestro?»
«No, l’avete fatto voi», replicai.
«Lei e Gino Rago siete dei terroristi!», esclamò il commissario.
Il letto era incassato alla parete in fondo al corridoio.
Il ventilatore girava a vuoto.
«Il cadavere?»
«Non saprei… c’è sempre un cadavere negli armadi»
«E allora, apra la porta, apra quella porta!
È un ordine!»,
urlò il commissario.
“ma non c’è nessuna porta qui, è solo una mia fantasia…”
– pensai tra me –
Loro ridevano.
Così, ho aperto quella porta.
Non c’era Nessuno.
«Forse ho dimenticato di esser morto tanto tempo fa, il mago Woland mi ha fatto resuscitare in carne ed ossa. E adesso sono qui. Nel presente.
Assente», risposi.
Ho iniziato questa poesia nel 2017.
All’epoca la composizione era molto più breve ed aveva una connotazione di marca fortemente esistenzialistica. Poiché la poesia non mi convinceva, nel corso di questi ultimi due anni ho inserito: digressioni: voci esterne (Loro ridevano), l’interrogatorio del commissario è stato ampliato al limite dell’assurdo e dell’ultroneo, ed ho inserito altre digressioni di interni:
Il letto era incassato alla parete in fondo al corridoio.
Il ventilatore girava a vuoto.
per dare maggiore contezza mimetica di ciò che c’è nella cornice del luogo ove si svolge l’interrogatorio; ho inserito anche dei pensieri:
“ma non c’è nessuna porta qui, è solo una mia fantasia…”
– pensai tra me –
fino all’assurdo del finale con l’intervento di un deus ex machina.
La poesia di Gino Rago è una narrazione apparentemente sensata che va a finire dritta nell’ultroneo; invece la poesia di Francesco Intini ha una diversa strategia: impiega e sovrappone enunciati palesemente assurdi e insensati per creare effetti di doppiaggio e di riciclaggio di parole sporche, usurate…
Un tendone di circo credo con le costellazioni nella gabbia dei leoni
E le scimmie a suonare e Marte ad esporre cartelli di funghi velenosi
e mari tempestosi riservati alle raccolte punti di storione
E gli elefanti a rimescolare le bolle, i santi impietositi,
le guerre e battere il tamburo dei sargassi
i treponemi scandalizzati per i nostri pettegolezzi
Un mostrare traiettorie di postriboli vuoti
Nel bel mezzo dell’ Orsa un raduno di pervertiti e menagramo.
alla Terra
Portavo la mia immagine per la città come un retrattile vessillo.
Il tripudio dei miei passi scavava un sentiero di note austere,
non avevo con me una reliquia da barattare con la santità
e nemmeno una nicchia mi era data per un conforto da accattone.
Gli svolazzi della mia mente erano capricci di stiletti spuntati a malincuore,
da una accidia di laguna vedevo un puntino azzurro come tanti da Saturno
– era la Terra che miravo! – e non sapevo il suo millennio quel giorno estivo
di lei che mi sorrise con Cassini. Quale gioia la conoscenza che compresi
dai miei occhi, e come Dio fosse a sua volta una creazione della Rota,
l’emorragia di una clessidra ai tempi della mia innocente trasparenza.
Le contrade come una sinfonia d’infanzia in quel sarcofago: tabernacolo pinto
da epitaffi e necrologi… per fissare, in una partitura, gli anelli della Storia.
antonio sagredo
Roma,
all’ora terza del 29 gennaio 2014
e 3/01
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Zanzotto, riferendosi ai versi delle mie LEGIONI, mi scrisse ( da una lettera degli anni ’80,)
“Sagredo lei talvolta è sopra le righe…”
Offro castagne per cirri alla fonte. Duemila.
Alpini e gengivali. – J.M. Basquiat.
Natura morta con frutta e tabernacolo.
Bitter. Fotografia.
LMT
Leggendo e rileggendo le poesie di Lucio sopra postata e mia, e in generale la poesia kitchen, mi è venuto in mente il pensiero di quanto sia cambiato oggi il linguaggio della poesia e della prosa: frasi brevi e brevissime, immagini brevi e brevissime che si affastellano e si susseguono con effetti di luce e ombre, di suspence, di sorpresa, con effetti retro acting, retroazionari, potremmo dire. Come dire che oggi nessuno più riuscirebbe a vedere una filmografia di piani sequenze di un quarto d’ora come negli splendidi film di Olmi (L’albero degli zoccoli, Giovanni dalle bande nere etc.), ma anche dei primi film di Pasolini, oggi vige l’imperativo dei linguaggi da Tik Tok, scriviamo e pensiamo e vediamo il mondo con i linguaggi di Tik Tok. In confronto, i linguaggi di Facebook sono antichi e non più utilizzabili, vanno ancora bene gli sms e il vocabolario delle parole contratte.
Ho fatto leggere pochissimi giorni fa la mia poesia (insieme ad altre) postata sopra ad un poeta degli anni ottanta che ha pubblicato tutti i suoi libri nella collana “Lo specchio”, e lui ne è rimasto fulminato, forse anche ammirato, ma spaventato (l’ho compreso tra le righe della sua risposta). Lo posso capire, è come se un abitante di Marte venisse a villeggiare ad Amalfi a Ferragosto. La poesia di Zanzotto e di Sanguineti, come anche quella di Bertolucci e di Fortini è irrimediabilmente poesia del passato, quei linguaggi sono diventati per le odierne sensibilità, linguaggi sommersi, catarifratti. La tradizione che si è allontanata irrimediabilmente, ci appare perfino confortevole, era una tradizione di linguaggi rassicuranti. Lo scritto di Fortini (sopra riportato) che fa criticamente le pulci alla poesia di Zanzotto, Dietro il paesaggio (1951), è un documento esemplare di quella dialettica di una civiltà letteraria ormai scomparsa, che è definitivamente affondata, sono linguaggi sommergibili che non verranno più a galla. La storia lascia segni indelebili, la storia non fa sconti.
“ma non c’è nessuna porta qui, è solo una mia fantasia…”
– pensai tra me –
Non c’è nessun discorso qui, nessun discorso. L’evento si spiega da sé in quanto già selezionato, ripulito da interpretazioni e servito come sushi su piattini da buffet.
Non penso di esagerare, tra l’altro, confusamente, ci sento della tradizione. Lo sforzo di mantenersi in poesia.
Quindi una linearità si è rotta a livello dell’intellegibile, che per forza di cose è raccontato, autoillustrando la mancanza di linearità. ‘non c’è nessuna porta qui’ e ‘è solo una mia fantasia…’ sono uno il commento dell’altro, e la virgola che li divide si frattura abissalmente tra i due, armata di vuoto. E se le virgolette segnano un parlato che al verso successivo è un pensare (e il pensiero divide a sua volta il ‘me’!), beh allora mentre il testo si dispiega, in realtà rovina nella discarica. E il lettore si trastulla alquanto!, ma non sotto un bombardamento di Intini, o carezzato dal fioretto puntuto di Tosi, o dalle gite in barca sul lago di Milaure, ma mentre prende il sole su un lettino, sole vero quanto artificiale.
Anche se altrove, su altri blog e su altre riviste cartacee di letteratura e di poesai, vedo essere in tanti (per me in troppi…) qui da noi su L’Ombra nessuno di noi ha mai pensato né mai dovrà pensare di essere Tomas Tranströmer o Friedrich Hölderlin o Giacomo Leopardi, siamo dei calzolai della poiesis che abbiamo detto un no secco, definitivo, convinto a tutto l’epigonismo del ‘900 e di questi 20 anni del nuovo secolo e ci siamo messi alla ricerca di un nuovo paradigma della poiesis…
E non basta mai abbastanza riflettere su letteratura e poesia di massa e di consumo…
Propongo tre, delle 15, cartoline illustrate di Roma, come nuovi tentativi di procedimenti serendipici, sulla scia balcanica di Iana Boukova, ma trasferita sull’Isola Tiberina, e dintorni.
Gino Rago
1. Via Appia Antica
Un cinghiale che chiama la primavera + un gabbiano che si abbevera a un nasone – un grattacheccaro che grida:«vonno fà li frosci cor culo de l’artri…»
2. Campo dei Fiori
Ceste di olive al posto della testa + frammenti di fiori al posto dei limoni – spruzzi di vino sulla statua di Giordano Bruno x un hôtel meublé senza stanze
3. Lungotevere dei Cenci
I platani che diventano betulle – le betulle che si fanno immondezzaio x tutte le spezie che parlano tutte le lingue + un’orchestra che suona senza strumenti
“Quindi una linearità si è rotta a livello dell’intellegibile, che per forza di cose è raccontato, autoillustrando la mancanza di linearità.”, scrive Jacopo Ricciardi.
In queste tre ultime “cartoline” di Gino Rago quello che manca è la rottura della linearità, che invece si ritrova nella seconda serie di tentativi postata qui sopra da Gino Rago.
Linearità che negli instant serendipici di Lucio Tosi invece si ritrova ma come traccia perduta, traccia che è passata sotto il ferro da stiro della rottura della linearità…
Poesia n. 8 di una futura raccolta (sempre che ci sarà un futuro per le genti)
8.
“Regardez une pluie de parapluies multicolores dans le ciel”
déclare Madame Green chevauchant un hippogriffe élecronique de dernière génération
“Les parapluies tournent de joie et les ballons éclatent de rire”
Assise sur un pouf d’ignorance Eredia persifleuse intervient
“mais quels ballons quels ballons?”
Dans le régne des ombres la blanche geisha
coiffée d’un nid d’oiseaux sussure
“Ils sont accrochés au porte-manteau de
La cérémonie des adieux à Harlem
pour fêter la santé de la maladie”
Madame Green excitée esplose
“C’est un vrai collage dadaiste avec les germes de la trahison
d’un dandy au visage soutinien armé d’une pitoyable tenaille”
Toujours persifleuse Eredia machant son Monkey-Burger
s’écrie “Laissez moi les fantômes et le vide
pour combattre la synergie du Sphinx”
*
“Osservate una pioggia di ombrelli multicolori nel cielo”
dichiara Madame Green cavalcando un ippogrifo elettronico di ultima generazione
“I parapioggia girano di gioia e i palloni scoppiano dalle risate
Assisa su un sellino d’ignoranza Eredia sussiegosa interviene
“ma quali palloni quali palloni?”
Nel regno delle ombre la bianca geisha
pettinata con in testa un nido di uccelli sussurra
“Sono appesi all’appendiabiti de
La cérémonie des adieux à Harlem
per festeggiare la salute della malattia!
Madame Green eccitata esplode
“È un vero collage dadaista con i germi del tradimento
di un dandy dal viso soutiniano armato con una pietosa tenaglia”
Sempre sussiegosa Eredia masticando il suo Monkey-Burger
esclama “Lasciatemi i fantasmi e il vuoto
per combattere la sinergia della Sfinge!
Cara Milaure Colasson,
se da un lato fai bene a pensare a un tuo futuro libro (lo fanno quasi tutti/tutte coloro che della scrittura non possono fare a meno, scrittura cioè come necessità), dall’altro ti inviterei a sostenere quanto merita il tuo recentissimo volume Le choses de la vie, il quale, per me, è un grande libro poetico, rivelatore, se non altro, di quella «nuda vita delle parole» che è la cifra fondamentale della tua ricerca in stile poetry kitchen.
Le tigne della ricerca introspettiva, e dell’esistenzialismo, qui sono superate. La parola va lasciata ai fantasmi, c’è nuova consapevolezza. Lo stato dell’essere.
Non si trovano risposte quando te le aspetteresti, ma fuori senso. Il fuori senso è sempre un accavallarsi di immagini in troppo rapida sequenza; l’affacciarsi dell’intorno, l’estraneo, in forma appena un poco terrestre. Capita, è capitato. Non male davvero, complimenti, Marie Laure.
il Grande Altro può collassare, collassa, sta collassando, il suo vero volto è il collasso Simbolico; ciò appare evidente nelle strategie di discorso adottate da Marie Laure Colasson. Come sappiamo, Lacan individua nella dimensione linguistica il campo in cui il collasso si rende evidente, altrimenti resta invisibile, e ciò accade per lacerti, piccoli accenni, faglie, tagli del discorso, inciampi delle pratiche discorsive. Lacan pone la domanda: cos’è il reale? La risposta è che il reale è ciò che ri-torna sempre allo stesso posto. Ma che cosa vuol dire esattamente? Vuole dire semplicemente che il linguaggio, dopo ogni collasso Simbolico, ritorna sempre allo stesso posto di prima. Le cicatrici di questo collasso sono i fantasmi che abitano l’Immaginario: i fantasmi, gli avatar, i sosia, i doppi che pullulano nella poesia della Colasson sono la prova evidente che siamo appena nelle retrovie del collasso Simbolico, appena dietro la prima linea dove avviene lo scontro sanguinoso. È la deterritorializzazione della soggettività che qui ha luogo.
«I parapioggia girano di gioia e i palloni scoppiano dalle risate» scrive la Colasson.
Ma è una allegria di naufragi ciò di cui si tratta, una allegria ben poco allegra. Siamo all’interno del fading della deterritorializzazione del soggetto. Siamo all’interno della inversione degli assi inconscio/conscio. Qualcosa è avvenuto, sta avvenendo senza che ce ne siamo resi conto, ma il linguaggio lo rende evidente, lo mostra.
LA LUNGA ESTATE DEI LINGUAGGI COTTI SENZA L’OLFATTO A CONSOLARE.
Ci perdemmo dietro trafiletti di corvi.
I litigi per l’ora di pranzo chiusi nel fazzoletto a pois
e tutti sulla stessa cannuccia a succhiare
La bibita del Re cattivo.
Come sopperire al cri cri sul ponte Morandi
col cra cra di rana
Ci sorprese un cul de sac
In cui restavano linguaggi oscuri del Far West
scheletri di cavalieri erranti e Sancho Panza
in incognito sul carrello dell’ultimo volo da Kabul
Sai che farà il mulino bianco?
E il Monte Rosa all’ora del tramonto?
Lolli chi?
Un crotalo ingoia i morti d’agosto
E in quanto a zingari
Anche loro sono felici su poltrona sofà
Con due o tre lame che viaggiano da un cuscino all’altro
La lasagna ci mette il cuore a comparire
Frutto di due millenni di platonismo
Con un pizzico di sale iodato
Deus ex machina: una postilla di pecorino
E il fiore di zucchina che emerge dalla via lattea
un verso nella scatoletta di tonno
A volte, dopo le piogge estive si affacciano i volti dall’egalitè
Saint-Just e porcini secchi per la teglia della sera
E tutti da sotto il cappello sventolano un mutuo in protesto
(F.P.Intini)
Parlavo ieri sera con un amico che scrive poesie, lui mi diceva che siamo una bella banda di «ribelli» che fa del «ribellismo» una insegna sotto la quale radunarsi a vociferare frasi piene di vento e di ribellione, insomma, in parole povere l’amico ci accusa di essere dei sobillatori di ribelli se non di ribelli allo stato puro…
Io ho replicato che personalmente mi ritengo un conservatore, infatti voglio conservare la forma-poesia (kitchen) per le generazioni future, ho ribadito che sono tutt’altro che un ribelle, le ribellioni non mi interessano se sono foriere di ribellismo, di luddismo e di barricate, mi interessano invece, e molto, i progetti, i grandi progetti.
Allo stato attuale della poesia in Italia e in Europa mi sento di dire che costruire una idea di poesia inedita è un dovere, un impegno politico e intellettuale. La rottura della linearità in poesia e nella narrativa oltre che nelle arti figurative e nella musica non l’abbiamo inventata noi, è un dato storico, un dato di fatto, noi ci limitiamo a prenderne atto e a tirarne le conseguenze. Se questo è ribellismo, ebbene chiamateci come volete, chiamateci «ribelli».
Caro Giorgio Linguaglossa,
qui non si tratta né di ribellissmo né di inclinazione a essere ribelli.
Qui si tratta di prendere coscienza di un fatto preciso, innegabile:
la poetry kitchen, nella sua accezione più ampia, non è la poesia della crisi delle idee, ma è la crisi delle idee che è entrata in poesia.
Poetry ktchen
Crisi delle idee nella poesia
Il collasso del Simbolico implica un confronto serrato con l’erranza dei saperi e delle pratiche linguistiche, implica saper operare il taglio nei linguaggi falsificati e plastificati dalla reificazione linguistica, poiché il luogo del grande Altro è il luogo della reificazione dei linguaggi, e questo assunto implica fare i conti con la logica del significante, con i giochi cruenti che la «verità» instaura col desiderio, implica accedere al mondo dell’oggetto a, l’universo dei sostituti originato dalla alienazione strutturale del soggetto (… i prodotti, dice Lacan, alla cui qualità, nella prospettiva marxista del plusvalore, i produttori potrebbero chiedere conto, invece che al padrone, dello sfruttamento che subiscono…). Il collasso del Simbolico implica dover fare i conti con l’universo dell’io, a sua volta preda di una alienazione seconda, di un ordine simbolico dominante che lo costituisce a Dominus, che legifera su ciò che è giusto e ciò che non lo è, legifera cioè nell’ordine del Politico, dell’universo relativo all’oggetto a e ai quattro discorsi lacaniani. Ciò che soltanto può costituire lo spazio critico di una «economia politica dell’immaginario» (Lacan) di cui è necessario individuare segmenti, percorsi, tracce, osmosi, trackle.
La Legge del Padre coincide con la legge del Significante padrone, legge invisibile per eccellenza, legge non scritta. Abbiamo che il fallo torna al Padre che viene a rappresentarne il detentore ma anche un ordine: l’ordine di linguaggio, ordine simbolico, simbolismo che marca l’immaginario, castrazione, come dire, istituzionale, alienazione strutturante e quindi soggettivizzazione che definisce ormai il soggetto come terzo nella struttura familiare. A livello linguistico si tratta di rapporti tra significanti in cui emerge un Significante padrone (il fallo, il Logos), che definisce l’ordine di priorità siglato nelle formule della sintassi nell’ambito delle strutture metaforica e metonimica che fanno capo al Nome del Padre, simbolo marcante l’identificazione secondaria, Significante padrone che ordina il Simbolico e definisce il Reale.
Il bambino che gioca con un rocchetto e ripete “fort-da” all’infinito, lascia trasparire il desiderio ma soprattutto l’apertura al linguaggio, linguaggio che ha la stessa struttura dell’inconscio, che sottende una barra di separazione, una barra che barra il soggetto, che taglia la significazione. Il rapporto Significante/significato è la legge saussuriana che Lacan assume come fondamentale nel linguaggio: due reti con una barratura . A predominare è quella superiore del significante, elemento primordiale il fallo che viene poi a rappresentare il significante fondamentale dell’inconscio: simbolo per eccellenza, senza realtà d’oggetto, indicatore della mancanza-a-essere. Slittare è il termine che si addice al significato, colpito da un movimento incessante rispetto alla supremazia del significante.
Il soggetto è sempre scisso, diviso tra l’io della maschera e ciò che si pone sull’altra scena, il luogo costituente del rimosso. Il parlare del soggetto rimanda ad un altro soggetto: il soggetto dell’inconscio, soggetto che è un effetto, effetto di linguaggio, effetto di un ordine e dunque di una struttura. Questa struttura è generatrice, crea nella misura in cui è originata da una mancanza, un difetto centrale che dà il moto all’inconscio, alle sue rappresentazioni, ai suoi ritorni continui sulla stessa jouissance la quale, più che riguardare un oggetto ben definito, riguarda sempre e solo il ritrovamento di sé, in tal modo l’oggetto è sempre perduto, così come il significante è sempre perduto in una lontananza slontanante e in una vicinanza sviante.
Il soggetto parla. Il suo discorso è un testo che lascia trasparire un pre-testonelle sue lacunosità, nelle sue forzature, nelle sue cadute logiche. Il testo che opera al di sotto rimanda all’inconscio, alle sue formazioni: produzione ineliminabile, giocata tra visioni, desideri, domande. Come il fantasma, formazione che si produce tra conscio e inconscio, schermo e scena mediante cui la realtà acquista sostegno. Formazione decisiva quella del fantasma sia perché ha in sé la propria abitazione nella soggettività, sia perché le sue modalità di articolazione sono direttamente connesse con l’erranza del desiderio rispetto all’oggetto verso cui è diretto. E, mentre nella parola la mancanza-a-essere (mancanza come privazione, frustrazione, castrazione) viene ad essere rappresentata da un significante, nel fantasma vi è un eccesso non risolvibile nella logica Significante/significato, un eccesso che buca il linguaggio.
Propongo un Esercizio:
Enunciati brevi che si accavallano senza nessun ordine di priorità
Il libro inizierà a scriversi tra un minuto. Jingle. Petit bisou.
I perfettissimi.
Ancora niente. Presidio di pace.
Carrozze sul Gange.
LMT
Caro Jacopo Ricciardi,
le pagine de L’ombra in un passato recente hanno già ospitato uno scambio di opinioni, al quale ho partecipato, riguardante il rapporto tra le avanguardie artistiche e il ‘ritardo’ della poesia nell’inventarsi nuovi linguaggi., Ovviamente Duchamp venne ampiamente trattato.. Si scrisse anche che nessuno definirebbe mai ‘ senza senso’ le canzoni d Rino Gaetano e dii Battiato. Il problema è, a mio avviso, che la poesia è sempre stata circondata da un senso di sacralità che ne hanno ingabbiato il linguaggio, fatta eccezione per esperimenti rimasti circoscritti. Penso che una parte di responsabilità vada attribuita anche alle case editrici. In questo concordo con Giorgio che ne ha sempre scritto.
Nel collasso del Simbolico ci stanno dentro tutti, ciascuno ci sta con le proprie psicopatologie, le proprie ansie le proprie fobie… ci sta Xi Jnping, Giuseppi Conte, Johnson, Biden, Salman Rushdie, ci sta Linguaglossa con il suo piviale, ci stanno i poeti della collana bianca e anche la balena bianca… il dramma è che ci stiamo dentro tutti, così 1 vale 1…