Edith Dzieduszycka astratto, 2016
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Tre libri di Edith de Hody Dzieduszycka
nella lettura di Marie Laure Colasson
Edith Dzieduszycka, Un’altra pelle, haiku, Progetto Cultura, Roma, 2022, pp. 86, € 12
La poesia haiku è un genere letterario legato e intimamente connesso alla componente naturalistica: ne consegue, logicamente, che un buon haijin dovrebbe farsi fine osservatore di tutto quello che può essere catalogato come “dato o evento naturalistico”. Questo è ancor più vero se teniamo presente che, nella poesia haiku il riferimento stagionale (kigo/kidai) è veicolo del sentire e dei moti d’animo dello haijin.
Comporre un buon haiku non è tanto scrivere, bensì osservare con attenzione: un vero haijin dovrebbe anzitutto fare propri i valori estetici tipici del genere poetico preso in esame oltre che familiarizzare con le principali tecniche compositive di questa forma di poesia (sottotipi di toriawase, ichibutsujitate, posizione del kireji, uso del chūkangire, ecc).
Nella poesia haiku, al pari di quanto avviene anche in altre arti giapponesi, «less is more» (meno è meglio), uno haijin, che voglia essere riconosciuto tale, deve togliere, sottrarre e, in un certo senso, destrutturare gran parte delle nostre sovrastrutture mentali: tutto quello che un poeta di haiku necessita è «meno». Il registro linguistico che uno haijin adotta nei suoi componimenti, come si sa, è semplice, ma non elementare, privo di fronzoli e retorica; le immagini presenti, variamente combinate fra loro (toriawase), che vengono proposte al fruitore delle poesie haiku devono essere concrete e molto raramente egli dovrebbe ricorrere a immagini astratte. Un poeta di haiku non parla né al passato né al futuro, ma è solo e sempre immerso, così come ogni buon componimento creato dalla sua penna, nel presente, nell’hic et nunc.
È la crisi della poesia del modernismo quello che questa poesia haiku di Edith de Hody Dzieduszycka mette in vetrina, la poetessa segue il principio della libera perifrasi, non più le antichissime e nobili regole dello haiku classico: in Dzieduszycka posta una parola, un oggetto, segue la perifrasi, che dà una analisi di quell’oggetto lontana molto spesso dalla ragione narrante del modo tradizionale di fare haiku. La poetessa franco-italiana mette in opera una de-figurazione delle regole dell’haiku. Con il crollo della coscienza quale luogo privilegiato della riflessività del soggetto, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel luogo, ergo, crisi della rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. La mancanza di un Principio è diventata una petizione di principio, la disseminazione è diventata il luogo dell’erranza; il soggetto è diventato una traccia; la poesia, il romanzo, le arti figurative, il cinema sono diventati i luoghi dove si racconta ciò che ci narra la cronaca: la narrazione giornalistica della crisi. L’arte diventa comunicazione del comunicato, comunicazione della «privacy», delle storie personali, non più dell’incomunicabile, non più di ciò che ci dice l’indicibile, il lato nascosto, in ombra dell’esistenza. Edith Dzieduszycka è sostanzialmente una poetessa dell’esistenza e del modernismo, rimane ancorata ai principi cardine delle poetiche del modernismo, come appare chiaro in questi ultimi suoi tre volumi.
Edith Dzieduszycka, Alghe e fanghiglia, Genesi, Torino, 2021pp. 150, € 15
Nella penombra blu
galleggiano
leggeri
gli ectoplasmi
bene lo sanno
loro
d’essere percepiti da pochi eletti
così da molto tempo
si sono rassegnati ad esser trasparenti
io che non m’illudo di stare tra quei pochi
cerco di capire cosa sono
le forme
informi e ondeggianti
che tutt’intorno a me
luccichio
volteggiano.
È una poesia del libro di Edith de Hody Dzieduszycka: c’è la «casa austera dalle persiane verdi», ci sono degli esseri invisibili, gli «ectoplasmi», ci siamo, invisibili, noi i lettori, ci sono gli abitanti della casa, rigorosamente anonimi, c’è tutto ciò che ci deve essere, c’è il padre e la madre dell’autrice, o meglio, l’assenza del padre e della madre deportati dai nazisti nel lager di Auschwitz durante l’ultima guerra, c’è un «muro altissimo», e poi c’è il misterioso mondo dell’infanzia. Sono rimaste delle «alghe» e della «fanghiglia», tutto ciò che sopravvive di quel mondo lontano:
Per i miei cinque anni
regalata mi fu una colomba bianca
bestiolina gentile che nominai Justine.
Aperta la sua gabbia svolazzava felice
andando a posarsi sulla spalla o la testa
di chi la invitava.
Insieme a lei, più conigli e galline nel pollaio
in sette eravamo in quella casa
dalle persiane verdi di fronte alla scuola
un uomo, mio padre e sei donne
chiuse le serrande contro orecchi malvagi
ad ascoltare alla radio messaggi oscuri
a vigilare seri e bisbigliare cose che non capivo.
Verso di me piovevano, severe ed accorate
le raccomandazioni sul come comportarmi:
“Se gente sconosciuta incontrata per strada
ti fa domande strane sulla nostra famiglia
mentre vai nel villaggio a comprare il pane
devi fare la stupida e dire:
Non lo so, io sono piccina”
poi subito di corsa tornare a casa.
Successe una mattina plumbea di novembre
mai più adatto il giorno
– due, quello dei Morti –
che rimarrà per sempre nella mia memoria.
Calzata da stivali
serrata in vert-de-gris
irruppe a mezzogiorno abbaiando
una squadra feroce
che alla vita vera e a noi tre sorelle
strappò all’improvviso madre e padre.
Lasciata fu poi la casa
vuota
spalancata
noi sorelle spaurite
messe al sicuro da persone pietose
nascoste e protette insieme a Justine
minuscolo tesoro nella gabbia rinchiusa
Cupi e angosciosi come gelida nebbia
vennero poi i giorni dell’attesa
le notti afone dei roventi perché
il Tempo del Silenzio.
Tra il prima e il dopo
eretto era stato
un muro, un Muro altissimo
di sospetto e di paura.
In quella casa austera dalle persiane verdi
casa di pietra grigia a prima vista anonima
in quel cortile stretto fra dimore ostili
visitato di notte da ombre fluttuanti
accadevano ora eventi insoliti
che vedevo solo io
nessun altro sapeva.
Porte che sbattevano
quando lontano già era fuggito il vento
finestre spalancate all’improvviso chiuse
come gusci gelosi e silenziose bocche
pareti stropicciate, da ragni
e pipistrelli rammendate agli angoli
scala che scendeva invece di salire
nell’androne budello
bagliori ballerini
e presenze malvagie dalle mosse furtive
un granaio di fronte pieno di meraviglia
corone e perline
perfide trappole.
in quella casa tetra vestita da fantasmi
dal ricordo distorta e mai più disertata
viva ancora, nei miei sogni
e dal respiro caldo
forse ritroverò il filo della storia.
Alghe e fanghiglia è un libro testamentario, all’interno vi scorre il filo rosso della morte che fa da guardiano ai ricordi e li obbliga a stare all’erta, conficcati come chiodi nel panno della memoria. Scrive Sandro Gros-Pietro nella quarta di copertina: «Il libro è scritto in forma di mantra, cioè di un viaggio circolare compiuto in cinque tempi, che sono le altrettante sezioni del libro. La prima sezione, denominata L’affiorare, rappresenta l’apertura e l’ingresso nel mondo creativo della scrittrice. La seconda sezione, denominata L’infanzia, collaziona e riscontra i fatti reali della vita infantile con gli echi confidati e racchiusi nella scrittura. La terza sezione, La nuova vita, racconta l’invasione nell’anima e nel corpo del grande amore e del grande evento di vita vissuta e di vita immaginaria coltivata a due, con l’anima gemella. La quarta sezione, L’ego, racconta il passaggio alla solitudine vissuta nella comunione non più con l’anima gemella, ma condivisa con la moltitudine del mondo intero. La quinta sezione, Le somme, chiude idealmente il giro del mantra e riporta al punto di partenza, in un’ideale reincarnazione e ripresa della vita: è di nuovo un’apertura sulle prospettive del mondo creativo della scrittrice, e sulla vanità di dare loro un marchio predefinito e reimpostato. Edith Dzieduszycka è da annoverare tra le scrittrici italiane più significative e più propositive della nostra letteratura.»
La poesia finale della penultima sezione è particolarmente toccante, è un chiedere scusa al lettore per quel che si voleva dire e che non si è riusciti a dire:
Scusatemi vi prego
ho perso in quest’istante
ho perso e non so
se lo ritroverò
ho perso – vi dicevo –
il filo del discorso
è veramente strano
avevo tante
ma tante cose ancora
da raccontarvi
Povera testa mia
sta perdendo i colpi
ora mi ritrovo qui davanti a voi
come una stupida
che non sa cosa dire
Scusatemi ancora
è meglio che mi ritiri
confusa e vergognosa
e vi avvisi quando
– semmai riuscirò – a riannodare
di quel discorso monco
il filo difettoso.
*
Certo lo vedevo
il cielo
ogni mattina
alzando un occhio appena
sull’angolo sinistro
in alto della finestra
certo lo vedevo
il cielo
andando per le vie della città frenetica
però non lo guardavo
ormai abituata alla sua presenza
vuota indifferente
invece mi ha colpita
non so perché stasera
la tela fitta
groviglio inestricabile contro il suo schermo
dei rami dell’inverno
tibie nude sul Lungotevere
deserto.
Edith Dzieduszycka, Frattaglie, AltrEdizioni, Roma, 2022 pp. 76, € 10
Frattaglie, cioè, cose da poco, cose da nulla, pensieri d’occasione, che improvvisamente si accendono di un qualche significato e poi subito si spengono, pensieri barlume, che singhiozzano, smozzicati, provvisori, aleatori; la Treccani ci dice: «frattaglie» sono « le interiora degli animali macellati (soprattutto bovini, ovini e suini, non invece del pollame e dei volatili, per i quali si usa rigaglie): fegato, cuore, milza, polmoni, ecc.». Dunque «frattaglie» di pensieri dis-connessi, connessi e di nuovo dis-connessi; parole «infilzate» come «spade e pugnali», parole malate e malandate, stuprate. Il libretto si presenta come contrassegnato da una triplice «assenza»: assenza sistematica della interpunzione, assenza di progettualità, assenza di senso univoco; inoltre, la scrittrice si diverte a disseminare il testo di quesiti trappola, di seminare delle mine semantiche: perché le cose non significano più quello che noi ci attendevamo, le parole non sono più quello che appaiono, perché le parole hanno dimenticato le parole:
«Capita che trabocchi e straripi a volte la raccolta fuori dal suo letto o almeno che ci provi… Vorrebbe saltellare selvaggia libera di qua e poi di là ed essere sciolta dal banale buon senso e verosimiglianza. Se così si comporta occorre accerchiarla e rinchiuderla stretta in una angusta gabbia dalle pareti rigide con tetto e camino per lasciarla sfogare e smaltire nel cielo tossine emanazioni fumi nocivi alla salute Si difenderà lei anzi attaccherà sicura del suo diritto ad una libertà sempre rivendicata. I suoi tentacoli bisognerà piegare per farli rientrare in un perimetro decente e accettabile Priva del suo potere di contaminazione impedita di nuocere in una più ampia cerchia potrà nel suo recinto anche molto ristretto di libertà godere e sguazzare a suo agio nella palude oscena delle sue nevrosi.
Questa non è censura solo avvertimento per chi avrà la voglia curiosi avventati di varcare la soglia entrate con cautela nell’arena addobbata di stracci sanguinanti corde catene mazze impalpabili virus ogni tanto fermando i vostri cauti passi per chiedervi dubbiosi: è prosa poesia è sogno pandemia?»
Dalla francese Marie Laure Colasson alla francese (e italiana) Edith Dzieduszycka il passo è breve, anzi no, brevissimo, e lunghissimo. Come si sa, ogni poeta è prigioniero all’interno della prigione del proprio linguaggio; il linguaggio poetico è una prigione che, prima o poi, strozza qualsiasi poeta che non tenti almeno di evadere da quella prigione. Può sembrare bizzarro, ma il diritto penale italiano riconosce, in modo silenzioso, il diritto di un detenuto ad evadere dal carcere dove è recluso; se l’evasione avviene, la sanzione è lieve, molto lieve. e allora perché non riconoscere anche ad un poeta il diritto di evadere dal proprio linguaggio?, (apriti cielo: evadere dal proprio linguaggio santificato e andare verso l’ignoto?), dal linguaggio costituito e costruito dalle istituzioni del, diciamo, «poetico»? –
E quindi non resta che riconoscere anche al poeta (lirico o meno) il diritto ad evadere dal proprio linguaggio. Questo è il primo punto. Secondo punto sta nella Storia, la Storia è trasformazione, cambiamento, catastrofe continui e i linguaggi anch’essi sono in cambiamento costante, nulla di ciò che si vede resta fermo al suo posto, tutto, tutti gli oggetti dell’universo sono in continua traslazione, l’intero universo viaggia in una direzione ben precisa (ma non sappiamo il perché né il per come) di tre milioni e mezzo di chilometri all’ora, una bella velocità, non c’è che dire! Andiamo tutti a spiaccicarci verso il Grande Attrattore! E noi ci stiamo dentro senza neanche sapere se questo moto di traslazione ci porterà dritti contro un «muro» e ci farà collidere e sfracellare… La situazione non è affatto facile da digerire, se restiamo in stand by, andiamo a sbattere, se ci muoviamo, andiamo a sbattere egualmente contro un «muro», e allora: Che fare? Draghi si dimetterà, o no?, Conte vincerà o no? e Salvini (con il Cavaliere in sordina) aspetta di vedere il cadavere politico di Draghi che va alla deriva? Tutti contro tutti, verso le elezioni (che non risolveranno un bel niente perché ci troveremo nella prossima legislatura senza un vincitore netto: né il centrodestra né il campo largo).
In politica ci sono le elezioni, in poesia non ci sono elezioni, ciascuno è una molecola, anzi, un atomo che non rappresenta che se stesso e non ha alcuna responsabilità che verso se stesso, nei riguardi della propria autoconservazione…
Nella penombra blu
galleggiano
leggeri
gli ectoplasmi
bene lo sanno
loro
d’essere percepiti da pochi eletti
così da molto tempo
si sono rassegnati ad esser trasparenti
io della poesia di Edith Dzieduszycka preferisco quelle volte che l’autrice si smarrisce tra gli oggetti à fond perdu, quando Edith perde la cognizione del luogo, dei luoghi, dei tempi e degli spazi… Edith riesce magistralmente quando entra da subito nelle situazioni di vertigine, quando si smarrisce tra le altezze e le profondità… e rischia sempre di cadere, sempre in bilico tra un abisso e l’altro. Edith è figlia di Sartre e dell’esistenzialismo francese. E’ difficile trovare una poetessa italiana che le corrisponde, in Italia l’esistenzialismo non ha trovato poeti di valore. Chissà perché.
Ricevo e pubblico:
Martedì 19 luglio 2022
Visto stamattina sull’Ombra delle parole le tre prefazioni di Milaure e l’ampio spazio che mi hai dedicato, caro Giorgio, e per il quale ti sono come sempre molto riconoscente.
Avevo il vago sentore che stava preparando qualcosa riguardante il mio recente lavoro – come anche io avevo letto e scritto le mie impressioni sulle sue notevoli Les choses de la vie –, ma non immaginavo che si sarebbe attaccata addirittura ai miei tre ultimi libri! E sono rimasta esterrefatta dall’ampiezza della sua ricerca e dall’approfondimento di ognuno dei suoi testi. Grazie di nuovo di cuore, cara Milaure. Da Francese a Francese!
Ha analizzato ognuno in profondità e nella sua diversità.
Infatti – è stato da me cercato e voluto – sono assolutamente cosciente del fatto che Alghe e fanghiglia faccia parte di un filone introspettivo e “testamentario” (esatta parola), quasi un fine corsa, che può giustificare la qualifica di modernismo attardato. Si potrebbe dire che si è trattato del moto di un’antiquaria! E al rogo la privacy!
Come lo sottolinea perfettamente Milaure – altro discorso – gli haiku di Un’altra pelle escono invece dai sentieri battuti con una “de-figurazione dello haiku classico”, quasi dissacratoria, “seguendo il principio della libera perifrasi”. Diventano così un gioco molto divertente, almeno per me!
In quanto a Frattaglie, mi sembra di essere “evasa dal linguaggio santificato” come lo ha ben percepito Luciana Gravina nella sua prefazione. Questi ultimi tre libri sono probabilmente l’illustrazione più chiara della varietà del mio lavoro. Infatti non voglio sentirmi ingabbiata da nessuna etichetta.
(Edith Dzieduszycka)
Scrive Marie Laure Colasson:
«Con il crollo della coscienza quale luogo privilegiato della riflessività del soggetto, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel luogo, ergo, crisi della rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. La mancanza di un Principio è diventata una petizione di principio, la disseminazione è diventata il luogo dell’erranza; il soggetto è diventato una traccia; la poesia, il romanzo, le arti figurative, il cinema sono diventati i luoghi dove si racconta ciò che ci narra la cronaca: la narrazione giornalistica della crisi. L’arte diventa comunicazione del comunicato, comunicazione della «privacy», delle storie personali, non più dell’incomunicabile, non più di ciò che ci dice l’indicibile, il lato nascosto, in ombra dell’esistenza.»
Con il che il soggetto post-edipico è diventato il soggetto serendipico, aggiungo io.
Il soggetto serendipico non sa quello che vuole, non sa quello che cerca, ciò che trova per lo più non lo soddisfa, e passa ad altro, sempre ad altro, anche contro i propri interessi di auto conservazione. È che viviamo in società serendipiche, il sovranismo è un derivato della soggettività serendipica. Il Totem viene abbattuto per il gusto di abbatterlo, non altro. Indicativa è la crisi del governo Draghi, ciò che stava a cuore ai soggetti post-edipici e serendipici di oggi era azzoppare e abbattere il Totem, il Draghi rispettato a livello internazionale, la ribellione dei nani che abbattono Golia è compiuta. I nani adesso gozzovigliano. I nani vogliono una sola cosa: il nanismo, che è l’altra faccia, quella segreta e impresentabile, del sovranismo. Si vive tutti all’ombra del sicomoro, del Grande Altro. Il Grande Altro sono io, il nano, che abbatte nella polvere Golia, il Totem e il Tabù.
LITHIUM AND OTHER
Centodiciotto sono le rose e forse serviranno altre per gioire.
Crescono a misura del muro, non come il fico che fa figli in trincea
E non gl’importa di chi sta in fila al posto suo.
Ma la guerra è il più artificioso dei sonetti
Con a capo un endecasillabo che grida Augh!
Un raggio gamma dà il fischio d’inizio ed è strage alla curva Sud.
L’incidente si chiude con una nota di spesa per ogni grado sopra lo zero kelvin
Alle rovine del perché arriva la bolletta di pinoli e intestini secchi.
-Signore c’è da firmare una raccomandata!
Cento dei suoi figli sono stati macerati sputando 2022 denti.
Lorca cedette i suoi elettroni al torero anarchico
Senza lasciare tracce del milione di donne grasse.
Un proiettile racconta i suoi segreti
come si allearono negli orbitali tori e crotali.
Peccato che la squadra dei protoni non si sia disunita.
In uno scatolo gli consegnammo pustole di vaiolo
Perché vedesse l’ultima volta la classe operaia
E noi a ridere di lui.
I neutroni ce la mettono tutta ma esce un creme caramel e un grattino omaggio
Ogni volta che si preme un pulsante per un seme di tritolo.
Nessuno sogna più di un neutrone.
Se diverrà anguilla si aprirà un varco nell’occidente e potremo festeggiare
sul pianeta Dio.
Sul Manifesto cresce erba cipollina della signora Jenni.
Soltanto un ponte aereo ci salverà dai versi baresi e una crema
Per le ragadi di Marx.
Chi tra voi ha un elettrone da prestarmi?
Gli dò in cambio un refrigerante di vetro per cuscino.
Montale non è qui. Perché bussi?
(F.P.Intini)
RICORDATE : IL PRIMO A PUBBLICARE I PROPRI VERSI SU QUESTO BLOG SONO STATO IO……
SI SOLLEVARONO PROTESTE E MI PRESERO PER UN ERETICO…
UNA COSA PER NATURALE SCONTATA…
POI GLI STESSI CHE SI SOLLEVARONO, FURONO E SONO QUELLI CHE PIU. DI ME HANNO PUBBLICATO I POVERI RESTI DEI LOROVERSI !
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UN CARISSIMO SALUTO E ABBRACCIO A EDITH
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POESIA COME ARABA FENICE.
RISORGIMENTO, RINASCIMENTO, O ALTRO?
SI TRATTA INVECE DI SOTTRARSI AL TUTTO E AL NULLA, DI COMPRENDERE COME IL TEMPO NON ESISTE, MA SOLTANTO LO SPAZIO CHE E’ COSA TANGIBILE, ED E’ LA NOSTRA TANGENTE NATURALE, DIREI BIOLOGICA.
COS’ COME NON ESISTONO FUORI DEL SISTEMA SOLARE (PICCOLISSIMA COSA, PER NIENTE AVVERTIBILE APPENA CE LO SIAMO LASCIATI INDIETRO)… NON ESISTONO NE’ IL GIORNO E NE’ LA NOTTE.
E TUTTE LE POESIE DEDICATE ALLA NOTTE NON HANNO PIU’ VALORE.
DI QUESTA IMMENSITA’ – NON SOLTANTO LEOPARDIANA – L’UOMO NON AVRA’ MAI UNA IDEA CONCLUSIVA, E NON CI RESTA – COME FACCIO SPESSO – CHE TRASFERICI IN ALTRI CORTILI…
COME DIRE:
La soglia del duende
Mi giunsero notizie come varianti mostruose da ogni luogo terrestre: l’orrore
non era più una novità per me, gli eventi sugli occhi battevano i ritmi delle visioni
recidive: catastrofi, apocalissi il nostro pane quotidiano… i tasti del duende scellerati:
Sono rose nere queste quotidianità, ma non sono le mie rose!
Voi forse credete le croci meno mostruose delle scimitarre? I candelabri meno
mostruosi di quelle? Caroselli, giostre, morgue, obitori, mattatoi ad uso comune… tutto o nulla fluisce dalla pianta dei piedi al midollo… meno cantavo più la canzone
mi era sonoramente insensata: fuoco del sangue! sangue del fuoco!
Ho spremuto la Morte come un limone di primavera quel giorno romano che il silenzio oscillava al canto del gallo come una banderuola gitana. Eloisa, meretrice di Siviglia, batteva i quattro boulevards dell’arena, lei che era gobba come una prefica medievale cantava Santa Teresa barocca dal volto più affilato di una falce!
Sugli altari delle lagrime scrisse con dita di cera un epitaffio muliebre con gli stiletti
delle sue unghie arcuate … era famosa come la bambina dei pettini e gareggiava
con le ballerine di Cadice, e danzava al canto di Silverio l’emorragia dei gesti dai balconi
giudei dei fiori di sale… mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.
La soglia e la ferita mi contesero il poeta sulle scale delle lagrime: era la squillante voce piombata degli zoccoli sul nero suono muschiato… un’aria con odore di saliva di bimbo, di erba pestata e velo di medusa sotto nuovi portali di scoperta. Ma contro la geometria del pianto mi truccavo con gesso di Ruidera!
Antonio Sagredo
Roma, 10 ottobre 2015
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E ALLORA?
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Ricordo le bende che m’insanguinarono gli occhi penduli e le mie ossa mutate in reliquie… la processione in mio onore non poteva partire e non volli che i resti della mia amica incoronata fossero di nuovo reincarnati!
Spesso mi sono scordato d’essere il (mio) difensore degli Orrori soltanto perché non permisi a nessuno di oltrepassare la (mia) soglia, altrimenti avrebbero visto oltre la mia Visione chi sa cosa che non sapevo, e questo non potevo permetterlo!
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