Chi sa perché, mi affiora spesso in mente l’antico giuoco delle somiglianze e delle affinità, che applico a persone sconosciute o celebre in momenti di svago mentale o d’insonnia!
Così, dopo la lettura del suo libro, Les choses de la vie, ora pubblicato da Progetto Cultura con dotti commenti di Giorgio Linguaglossa, mi è venuta in questa notte bianca la voglia di scegliere un animale da abbinare in qualche modo a Milaure! E’ stato fulmineo! En un clin d’oeil mi è subito sbalzata nel pensiero l’immagine della libellula! Creatura sinuosa e danzante, raffinata e rarefatta, leggera e scintillante, dal pallore un po’ evanescente, il cui volo a zigzag veloce e imprevedibile la porta di qua di là sulle acque dello stagno, alla ricerca di un cibo nascosto o semplicemente di un giunco degno della sua attenzione.
Dotata di ali luminescenti e frementi al minimo soffio di vento, è arduo seguire il suo percorso. Tout comme è spesso difficile seguire la poesia di Marie-Laure, che non può e non vuole dimenticare o rinnegare le sue origini. Ci trasporta così, attraverso colte citazioni e rimandi, insieme a personaggi ricorrenti, la blanche geisha, Eredia, Lilith, la comtesse Bellocchio, Eglantine e Sarah e tanti altri, nel mondo cosmopolita e soprattutto francese del ‘900, tra i versi di Rimbaud e Verlaine, sulle musiche di Satie e Ravel, illuminati dal demone verde elettronico (ndr. la sigaretta elettronica che l’autrice fuma). Un mondo in cui n’importe quoi peut arriver à n’importe chi!
Contenitore senza fondo di tutte le meraviglie, vaso di Pandora dalle capacità inesauribili, le sac crocodile si riempie e si svuota al ritmo della danza e d’una coreografia sempre in movimento di clown pailletés e coccinelle.
Un tour de force d’inventiva, d’immaginazione, di reminiscenze a 360°, con gli accostamenti più strambi ed imprevisti che ci trascinano in una ronda infernale in cui vizio e virtù si danno la mano per dipingere le tele più folli ove spadroneggia un Francis Bacon imperioso seduto sul suo trono-poltrona di velluto grenat.
Copertina ispirata a Rotella, con quella gamba rossa e aguichante emergendo dagli strappi a conferma della frammentazione di stile e percorso mentale. Una lettura saltellante e brillante che non ti lascia un attimo di requie, ma ti spinge e trascina in tutte le direzioni sul suo carosello impazzito!
(Edith Dzieduszycka, 1 luglio 2022)
Sedie comuni ridipinte da Marie laure Colasson
.
Qualsiasi ierofania mi è ostile ed estranea.
Penso che la mia poesia sia afanica, drasticamente materica, diafana e diafanica.
L’arte oggi attraversa tutti i suoi momenti senza poter mai giungere a un’opera che esprima il positivo, giacché non può mai identificarsi con alcuno dei momenti del positivo. Nella mia poesia non troverete mai un momento in cui si dice il positivo di un enunciato e né il positivo di una negazione. Affermazione e negazione facevano parte di quella metafisica che intendeva le parole che contenevano una intenzionalità verso […] una direzione verso […]. Non troverete mai le parole che diventano la «potenza» della negazione o la «potenza» della affermazione, che vogliono il reale come Nulla, e sono quindi Nihil, nichilismo. Il termine non è ovviamente hegeliano ma post-heideggeriano, come post-heideggeriana è la conclusione del concetto dell’arte nella surmodernità: Oggi la nuova metafisica che è la Tecnica nuda non dà alcun nichilismo, non ci consegna alcun Nihil ma ci fornisce il Pieno in grandissima quantità: il Pieno dei markettifici, il pieno di benzina, il pieno del negotium che ha sostituito l’otium. Tutto ciò non coincide con nessuna essenza dell’arte nel punto estremo del suo destino (hegelianamente inteso); in entrambe le soluzioni l’essere dell’arte si destina all’uomo come un qualcosa che non può essere pronunciato, chiamato, definito. Probabilmente, finché il nichilismo governerà segretamente il corso della storia dell’occidente, l’arte non uscirà dal suo interminabile crepuscolo, un crepuscolo pieno di «cose piene», ovviamente.
(Marie Laure Colasson)
Le prime sei composizioni di Les choses de la vie
1.
Son petit pain fourré au champagne le matin
des cigarettes en chocolat dans ses poches trouées
Un merle chante au centre du silence
un merle chante faux dans un silence aveuglant
Assis sur une photo de Doisneau séchant dans la baignoire
solitude sans silence
Eglantine boit le champagne suce le chocolat
avale la photo engloutie au fin fond de son lit
Sa photo à côté du lit
è definitivo coup de poignard
Dans la chambre émanation de cadmium red
elle poignarde le temps le merle s’envole
Putride le déclin convulsif le temps
elle tressaille engloutie au fin fond de son lit
La chambre est rouge
*
La sua ciambella farcita allo champagne al mattino
delle sigarette al cioccolato nelle sue tasche bucate
Un merlo canta al centro del silenzio
Un merlo canta falso nel silenzio accecante
Seduto sopra una foto di Doisneau si asciuga nella tinozza
solitudine senza silenzio
Eglantine beve lo champagne succhia il cioccolato
Inghiottisce la foto inabissata al fondo del letto
La sua foto accanto al letto
è definitivo colpo di pugnale
Nella stanza emanazione di cadmium red
Lei pugnala il tempo il merlo s’invola
Putrido il declino convulso il tempo
lei rabbrividisce inabissata in fondo al letto
La stanza è rossa
2.
Les couleurs dansent sur la pointe d’une aiguille
Menaçant le rouge de devenir violet
Rouges violettes les fleurs sur le balcon
dans le cercueil de Paul Cézanne des photos éparpillées
Sarah dans le tunnel s’en empare pour gommer leurs mémoires
Le cercueil furieux s’échappe en Rolls Royce
boit son thé au jasmin se brûlant les entrailles
Sarah prend un chiffon bleu outremer
pour nettoyer ces fragments d’archéologie
Les couleurs les photos se transforment en gélatine
pour construire un incertain devenir
Que de photos éparpillées sur le sol
archéologie du passé
Son rimmel a coulé un autre théâtre
avec un chiffon efface la mémoire
……échappatoire
*
I colori ballano sulla punta d’un ago
minacciano il rosso di diventare viola
Rossi viola i fiori sul balcone
nella bara di Paul Cezanne delle foto sparpagliate
Sarah dentro il tunnel se ne impadronisce per cancellare le loro memorie
La bara furiosa se ne scappa in Rolls Royce
beve il suo tè al gelsomino si brucia le viscere
Sarah prende uno straccio blu oltremare
per pulire questi frammenti d’archeologia
I colori le foto si trasformano in gelatina
per costruire un incerto avvenire
Quante foto sparpagliate sul pavimento
Archeologia del passato
Il suo rimmel si è sciolto un altro teatro
con lo straccio cancella la memoria
….scappatoia
M.L. Colasson, Collage, Notturno, 30×25, 2007
.
3.
Elle fumait assise en équilibre sur une lampe suspendue à une nuage
un démon vert électronique
Visage déformé par la pluie battante sur le trottoir
offre une coupe de champagne à Francis Bacon
Celui-ci obsédé par la violence des couleurs
renverse le champagne lui arrachant le démon vert électronique
D’un optimisme pessimiste elle enfile sa robe moulante
il lui jette un regard méprisant
Pour enregistrer ses instincts Francis Bacon s’installe dans le vent
retourne aux fourneaux téléphone à Eric Hall
Le vent soufflait dans les pins ils frissonnaient
*
Lei fumava seduta in equilibrio su una lampada sospesa a una nuvola
un demone verde elettronico
Viso stravolto dalla pioggia battente sul marciapiede
offre una coppa di champagne a Francis Bacon
Costui ossessionato dalla violenza dei colori
riversa lo champagne strappandole il demone verde elettronico
D’un ottimismo pessimista lei infila il suo vestito attillato
lui getta su di lei uno sguardo sprezzante
Per registrare i suoi istinti Francis Bacon s’installa nel vento
ritorna ai fornelli telefona a Eric Hall
Il vento soffiava tra i pini che rabbrividivano
4.
Vert de l’eucalyptus rose pâle de la rose
dans la transparence d‘un petit verre d‘eau de vie
Sous l‘éclairage d‘une lampe de chevet
Oiseaux noirs des campagnes cris étranglés les corbeaux
mélancolie d‘Erik Satie enfoncé dans un fauteuil de velours grenat
Une bande de rats vêtus de jeans troués
fument des havanes de prolétaires
Retroussant ses pantalons Satie pédale jusqu’à Montrouge
retire son faux col et sur son piano compose “Entracte”
*
Verde di eucalipto rosa pallido della rosa
nella trasparenza d’un bicchierino di acquavite
Sotto la luce d’una lampe de chevet
Uccelli neri delle campagne le loro grida soffocate i corvi
malinconia d’Erik Satie sprofondato in una poltrona di velluto granato
Una banda di ratti vestiti con jeans bucati
fumano degli avana proletari
Rimboccandosi i pantaloni Satie pedala fino a Montrouge
si toglie il falso collo e sul pianoforte compone “Entracte”
M.L. Colasson, 2021
5.
Le miroir jaloux de leurs ébats
Se brise en mille éclatements chante Oscar
“L’écume des jours” au travers des paupières
Un naufrage dans sa bouche restée ouverte
Renato peint sa magie blanche sa magie colorée
sur quatre couches de tulle superposées aérées de plages vides
Les cris stridents des mouettes à ciel ouvert
menacent la ville de putréfaction
“Et moi et moi et moi et des millions de petits chinois”
chante Jacques Dutronc ses yeux d’acier liquide
La suite en devenir.
*
Le specchio geloso dei loro trasporti
s’infrange in mille frammenti canta Oscar
“L’écume des jours” attraverso le palpebre
un naufragio la sua bocca rimasta aperta
Renato dipinge la magia bianca e la magia colorata
su quattro strati di tulle sovrapposti aerati di spiagge vuote
Le strida rauche dei gabbiani a cielo aperto
minacciano la città di putrefazione
“Et moi et moi et moi et des millions de petits chinois”
canta Jacques Dutronc con gli occhi di acciaio liquido
Il seguito è in divenire.
6.
Bleu tablier taché de rouge et blanc
orphelin abandonné mais témoin oculaire
La chatte noire perchée sur un blanc croissant de lune
fige en quatre minutes et vingt seconds sa feline beauté
Reinhard et Grappelli déchirent le mur du son
Debussy s’exclame “Enfin de la musique sauvage avec tout le confort moderne”
Un rivage tourmenté se saoule à la vodka au melon
arrêtant ainsi les incertitudes e les contradictions
Elisa se jette à l’eau avec Barbara Kingsolver
pour un autre monde
Allongée diaphragme focal aux fenêtres sur la nuit
la tigresse diaphane déplie son éventail espagnol
*
Grembiule blu macchiato di rosso e bianco
orfano abbandonato ma testimone oculare
La gatta nera appollaiata su un bianco crescente di luna
fissa in quattro minuti e venti secondi la sua felina bellezza
Reinhard e Grappelli lacerano il muro del suono
esclama Debussy “Ecco della musica selvaggia con tutto il comfort moderno”
Una riva tormentata si ubriaca con della vodka al melone
arrestando così le incertezze e le contraddizioni
Elisa si getta nell’acqua con Barbara Kingsolver
per un altro mondo
Allungata diaframma focale alle finestre sulla notte
la tigre diafana dispiega il suo ventaglio spagnolo
M.L.Colasson Strutture dissipative, abstract, 2020
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Retro di copertina di Les Choses de la Vie
Nella scrittura poetica kitchen di Marie Laure Colasson è scomparso l’io e sono scomparsi i verbi, le parole nuotano nel bianco albume del nulla, fanno a meno dei legami sintattici, del cordone ombelicale e totalitario di quella «istanza» o «funzione» che Lacan chiama «io». La poesia spicca proprio per questa essenzialità di dizione, per la solitudine delle parole slegate dai legami sintattici e significazionisti. È una poesia densamente abitata da fantasmi, avatar, doppi, sosia, icone.
La scrittura della poetry kitchen è sismografia della instabilità nella immobilità. Il fantasma è una maschera che sta di fronte al nulla del soggetto. Il fantasma non genera significato, non genera significanti, non produce senso, produce soltanto il piacere della fruizione. Il «fantasma» è un assioma, dietro di lui, attorno a lui non c’è niente, c’è il vuoto. Sul piano simbolico il fantasma è un significante interrotto e, se procura piacere, lo procura al di là delle intenzioni del soggetto, il quale se cerca di entrare dentro la «maschera», si accorge che è vuota. Dove appare il fantasma il linguaggio significante entra in crisi di significazione. La spaziatura e la temporeggiatura mostrano il divenire spazio del tempo e il divenire tempo dello spazio. Sul piano letterario, il fantasma, si presenta come una istanza cieca che si offre alla fruizione multi dinamica che occupa la zona anestetica dell’esistenza, indica quell’al di là del desiderio e del godimento che si offre alla fruizione come si fruisce una maschera nel carnevale di Venezia, che vuole essere soltanto contemplata. Non è questione di appropriarsi del fantasma, di afferrarlo, di possederlo, perché esso è in sé anestetico e anestetizzato. Il fantasma si può solo attraversare, come si attraversa la scena di un teatro per andare a vedere dietro le quinte, lo si può soltanto vivere di riflesso. È come andare dietro le quinte di un teatro per vedere cosa vi succede e che cosa sostiene il suo funzionamento. L’attraversamento del fantasma è andare a fare un giro per le quinte, per sapere come questo funzioni. Il fantasma è una messa in scena. È la scena. Non c’è Altro dell’Altro. C’è il vuoto.
*
Dice bene Marie Laure Colasson:
«La poesia kitchen è poesia finta, poesia di princisbecco e di pinzellachere che avrebbe fatto la felicità di Breton e di Buster Keaton, di Robbe Grillet e di Palazzeschi».
Un esempio di poesia anticlassica di un nuovo poeta francese.
cit da Gilda Policastro, Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo novecento ad oggi, 2021 Mimesis.
Le cose sono sempre sotto osservazione (poetica), anche senza una particolare (o non dichiarata) cogenza: sentiamo riferire di questo barattolo sul tavolo e il resto è replica, avvoltolamento sull’insignificanza o sostituzione dell’accadere. C’è questo barattolo ma non (gli) succede niente, c’è questo barattolo che sortisce un accidentale effetto comico nella sua (mancata) epifania di oggetto straniato e perturbante.
di Christophe Tarkos morto precocemente nel 2004:
guardiamo sulla tavola e vediamo un barattolo che non esce fuori dalla tavola
[…]
se ne rimane sulla tavola, è tutto vuoto
quello che succede è solo un barattolo sulla tavola
[…]
è un barattolo d’olio che sta sulla tavola appoggiato sulla tavola
[…]
abbiamo un barattolo che se ne sta da solo che è appoggiato sulla tavola che se ne sta tranquillo e che non se ne esce fuori.
*
Quello di Christoph Tarkos può considerarsi un comico anticlassico: non si dà all’interno di una cornice codificata, né a partire dalla rappresentazione di un evento eccezionale (c’è anzi un banalissimo oggetto, a fare da perno concettuale e immaginifico), e neppure scaturisce dal rovesciamento di un topos o dall’applicazione di un automatismo o di un cliché.
caro Lucio,
pongo un interrogativo:
Le parole saranno obbedienti alla «scelta», come tu dici, o alla «non precisa scelta»?
Abbiamo concesso agli azzeccagarbugli la lingua del Principe di Salina e abbiamo dato al Principe di Salina la lingua degli azzeccagarbugli, viviamo
in una zona di reciproca compromissione dove tutte le parole sono dichiarate scambiabili. Un universo da incubo normal. La catastrofe in cui è precipitato il mondo a causa delCovid19 e della guerra in Ucraina ha reso evidente che non soltanto il soggetto è diventato «scabroso» per via delle sue illusioni videologiche, ma anche che il mondo si è rivelato per quello che è:
«scabroso», «osceno», «inabitabile», «vergognoso».
C’è sempre uno scarto tra il mio je e la parola, tra l’intenzione del mio je e il linguaggio in cui cui esso deve transitare. Il linguaggio snatura e tradisce l’istanza da comunicare essendo un generico contenitore di enunciati già pronunciati. Il desiderio, ci dice Lacan, è inconscio, non solo perché è rimosso ma perché primariamente rimossa è la stessa possibilità di dirlo. È l’istanza desiderante che muove la parola. Il desiderio è l’indicibile, così come la verità è indicibile. L’enunciazione è sempre alienata nell’enunciato, non c’è modo di sovrapporre il secondo sulla prima e di farli coincidere, di dire in assoluto l’essere del soggetto. L’essere del soggetto è l’indicibile.
La frase di Lacan: «Io mi identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto»,1 significa che l’inconscio è il luogo del senso ma di un senso plasmato dal significante, siamo plasmati dal significante ma non ci esauriamo del tutto in quel significante, possiamo posizionarci rispetto al significante che ci costituisce, vale a dire, che la posizione del je è fuori del significante, lo tange, lo tocca e lo sfugge. Non conta affatto l’accumulo storiografico di fatti, ma la eco retroattiva dei fatti, l’effetto soggettivo dell’atto analitico più che l’esattezza dell’interpretazione. In questa accezione, la finzione non è affatto servile, anzi risulta più “veritiera” della cosiddetta rappresentazione oggettiva dei fatti. Ciò è in conformità con il funzionamento stesso della psiche: un trauma non è tanto l’evento realmente accaduto, ma la ricostruzione retroattiva del trauma provocato da un evento, che può essere anche prodotto di immaginazione, infatti, il tempo della psiche è il tempo della retroattività immaginaria, retroattività che agisce in un mondo immaginario, la storia del soggetto si compone après coup.2
La funzione simbolica, per eccellenza, il linguaggio, può funzionare soltanto ove vi sia differenza-distanziamento del e dal significante. Il linguaggio è, propriamente, il processo di differenziazione dei significanti, opera attraverso la differenza e la distanza dei e tra i significanti.
1 J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio, cit. p. 293
2 Ivi, p. 250
NELL’ INDIFFERENZA GENERALE
Nell’indifferenza generale il cammello scala l’Everest.
Le pentole hanno sapore di fieno bagnato
al mediatore internazionale è saltata la dentiera
e il mezzobusto sbriciola il gobbo.
Poco importa l’altezza al velociraptor
non suona mai al citofono
cura l’emicrania con il kung-fu
mentre gomme americane al gusto di vodka partoriscono amebe.
Fotoni girovaghi scolpiscono il marmo,
mettono il giorno sottochiave
nelle stanze dei carriarmati,
provvedono a dissetare l’acqua.
Il risveglio è sulle fronde delle scale,
pioppi disseminati di strade
maestri in pantofole dietro la lavagna
e la febbre che scappa dal termometro.
Greggi preparano testamento,
vanno a nozze gli ideogrammi,
allodole sulla collina sbirciano le ciminiere,
mettete al riparo i funghi.
Le barche hanno la pancia piena
non si fermano più al pit-stop,
adesso assaggiano la sabbia
è molto facile che gli dei rìdano.
A me piace pensare che l’essere sia l’osservatore, testimone di quanto sta accadendo o si sta scrivendo. È l’ombra delle cose, segno della loro presenza.
L’essere è de-scritto in quanto presenza non soggetta a volontà di esserci. Appunto, un fantasma. E l’autore non ha da preoccuparsene, non ha alcuna necessità di andarlo a cercare… se stai scrivendo è perché esisti al mondo.
Su l’esistere il pensiero negativo si arresta – potrà sempre arrovellarsi sul non esistere, ma comporta dispendio di tempo e fantasia.
La poesia di Marie Laure Colasson, scritta in forma di reportage, pare informarci di quanto avviene su Andromeda, probabile destinazione di molte anime vaganti. Tutte s-comparse, ma segni del loro passaggio sono nel presente dell’artista, in forma colore e dramma e gioco. Non manca eccentrica convivialità. E noto un, per me, miglioramento nella perdita del passo marziale – A. fa questo, fa quello – . Il laboratorio NOE funziona per tutti, e ne siamo contenti.
Il ricordo
La letteratura, disse Angelo Guglielmi ai microfoni della RAI qualche anno fa, è tra le più efficaci forme di critica alla realtà, le si oppone in modo antagonistico.
Ecco. Dobbiamo liberarci di questa etichetta, di questo luogo comune: «critica della realtà», lo scopo della poiesis non è affatto questo, è semplicemente produrre un’altra realtà, fare della magia, dell’alchimia, del sortilegio, ma con gli elementi che troviamo sul pianeta terra, e, magari, come dice Lucio, anche su Andromeda.
«L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità» (Adorno)
“Le ombre tirano il segnale d’allarme
urlano degli slogan per arrestare rumore e tabagia”
…vorrei non dire il mio pensiero conservarlo come in una tela della Colasson. Stare in un particolare. Sistemarmi tra le sponde di un verso ed un altro: (compostare e basta…)
“Eredia ritrova la sua creolina e il suo busto
Beethoven rifiuta il vuoto del silenzio”
…e ritrovare oggetti!
“Il coccodrillo abbandona allora la sua vecchia pelle
ormai inutile e la corica lungo il Gange”
…e ritrovare quindi fantasmi arazzi di versi distesi per l’interpretazione altrui.
La rappresentazione poetica della Colasson nel
Les choses de la vie è uno studio preciso di figure…Eredia ,la Bianca Geisha, Lilith…
che confliggono con la realtà. È un lavoro di scoperta paleontologica, uno studio pittorico attraverso lo scavo delle parole.
“Eredia e Kantor proseguono la loro strada
contro l’ingerenza mentre costruiscono imballaggi.”
Un terno sicuro: 35 31 28 (leggetele!)
Grazie Colasson, grazie OMBRA.
Colasson,
talentuosissima artista e poetessa per cui difficile non apprezzarla e chi non apprezza non conoscerà mai le direzioni dell’arte, e non solo in generale,
ma specificatamente apprezzo la sua sicumera in tutto ciò che qui ho appreso da Lei, Certo ho pochissimi elementi per dire altro e altrove, ma a me bastano pochissime note per comprendere l’intera sinfonia.
Grazie –
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«La poesia kitchen è poesia finta, poesia di princisbecco e di pinzellachere che avrebbe fatto la felicità di Breton e di Buster Keaton, di Robbe Grillet e di Palazzeschi». Gentile Colasson aggiunga anche A. M. Ripellino.
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Nella scrittura poetica kitchen di Marie Laure Colasson è scomparso l’io e sono scomparsi i verbi, le parole nuotano nel bianco albume del nulla, fanno a meno dei legami sintattici, del cordone ombelicale e totalitario di quella «istanza» o «funzione» che Lacan chiama «io». La poesia spicca proprio per questa essenzialità di dizione, per la solitudine delle parole slegate dai legami sintattici e significazionisti. È una poesia densamente abitata da fantasmi, avatar, doppi, sosia, icone. (Linguaglossa).
Se mai non “scomparsi”, ma riferiti (nel senso di ferire di nuovo) presenti in altra maniera.
…………………………………………………….
“Penso che la mia poesia sia afanica, drasticamente materica, diafana e diafanica.” (Colasson)
Aphanes
a un mito greco e altro
Maschera, succhiami la morte!
Cremato è colui che si lamenta:
stilla odio dalla coppa equina.
Chi si rallegra in una bara di legno
se alle Grazie né musica, né canto sono dati?
La mano destra genera fabbri e magie,
la sinistra l’offesa di Orfei ferrosi.
Nel cerchio della cera perduta
la maschera guida il compasso.
Fuoco, dai denti d’argilla!
Divora il toro il ramo d’ulivo.
Abbaia Canace, la suicida,
sulla cieca tomba del fratello.
Il miele di un morto Aphanes
cola sui ratti.
La risata di bronzo dei frassini
è sogghigno di cervi.
Sulla civetta
ischio di bambole sardoniche.
Pou? Pou? Dove? Dove?
Recisa è la lingua: no-ci! no-ci!
I tuoi occhi d’ambra, bovini!
Leirion! Leirion!
S’impicca al gelo di un tasso: Itu, Itu!
Lo specchio di un coltello è bianca voce,
danza d’amore la zoppa pernice.
Il melo trionfa sulla Collina della Neve,
nel caos dei solstizi di rame.
Maschera, succhiami la Vita!
Madonne turchine dal culo asinino
sposano ratti, pipistrelli…
ma la moneta di un’ombra è sotto la lingua
l’ombra di una moneta.
Lavanda o bara ospita il bianco cipresso.
Vedi, i becchini affilano le dita,
come coltelli,
per vestire il morto!
Equina è la maschera della memoria.
Nome… segno… dono…
È una condanna il cerchio
tra fiaccole e lamenti:
ruota della debita esecuzione.
Cagna, bambolina della Nemesi,
tra cordate di vino e sangue
vomiti paglia all’Anno Nuovo:
prodigio o sentenza sotto la forca.
Il ritorno festeggi, come Tieste.
Bevi incubi e artigli, come idromele.
Rigurgiti fonemi, reclami, acrostici,
carcasse di finzioni e di visioni,
voci di bambini e orecchie di veggenti.
Come ti lamenti – delle ali!
Come dai banchetti sputi gemiti – di zolfo!
antonio sagredo
Roma, 27 ottobre 1990
gentile Antonio Sagredo,
il complimento che viene da lei mi onora tantissimo perché proviene da una persona solitamente avara di incensamenti. Devo dire che il contatto e il confronto con i poeti che pubblicano nell’Ombra mi è stato di grande aiuto e mi ha sollecitato a prendere ulteriore coscienza delle problematiche intorno alla poesia.
Grazie. E Complimenti per la sua poesia.
Sul paradigma di Hölderlin
«Tra pensatori molto diversi tra loro come Nietzsche, Heidegger e Derrida concepiscono tutti la loro epoca come quella del punto di svolta critica della metafisica: nel loro (nostro) tempo, la metafisica ha esaurito il suo potenziale, e il dovere del pensatore è quello di preparare il terreno per un nuovo pensiero post-metafisico… Più in generale, l’intera storia giudaico-cristiana, fino alla nostra post-modernità, è determinata da ciò che sarei tentato di chiamare il paradigma di Hölderlin, il quale venne articolato per la prima volta da sant’Agostino ne La città di Dio: “Dove nasce il pericolo maggiore cresce anche ciò che può salvarci” (Wo aber Gefahr ist das Rettende auch)”. Il momento presente appare come il punto più basso nel lungo processo di decadenza storica (la fuga degli dei, l’alienazione…), ma il pericolo della perdita catastrofica della dimensione essenziale dell’esser-umani apre anche alla possibilità di una svolta (Kehre): la rivoluzione proletaria, l’arrivo di nuovi dèi (che, secondo l’ultimo Heidegger, sono i soli che ci possono salvare), e così via. Siamo in grado di immaginare un universo astorico “pagano”, un universo del tutto estraneo a questo paradigma, un universo in cui il tempo (storico) si limita a scorrere, senza alcuna curvatura teleologica in cui l’idea di un pericoloso momento di decisione (il Jetz-Zeit di Benjamin), dal quale può emergere un “futuro luminoso” che redima il passato, sia semplicemente senza senso?
Sebbene questo paradigma di Hölderlin venga solitamente identificato con il cristianesimo, quest’ultimo, nella sua forma più radicale sembra però far prendere ad esso una piega insolita: tutto ciò che deve accadere è già accaduto, non c’è niente per cui attendere, non bisogna aspettare l’evento, l’arrivo del Messia, il Messia è già arrivato; l’evento ha già avuto luogo, noi ne viviamo i postumi. Questo atteggiamento basilare di chiusura storica è anche il messaggio di Hegel, del suo detto che la nottola di Minerva vola al crepuscolo; e l’aspetto difficile (ma cruciale) da cogliere è come questa posizione lungi dal condannarci alla riflessione passiva, dia spazio ad un intervento attivo. Non vale forse lo stesso per Kierkegaard, il quale, nonostante i suoi soliti brontolii contro la società di massa del “tempo presente”, sembra non fare ricorso al paradigma di Hölderlin della storicità… non c’è niente di eccezionale nella nostra epoca, ma al contrario viviamo in tempi ordinari e poco interessanti?»
S. Zizek, The Parallax View, tra. it. La visione di parallasse, il melangolo, 2006. pp. 116, 117
https://wordpress.com/comment/lombradelleparole.wordpress.com/78559
La poesia in modalità kitchen
avviene in un momento storico ben preciso: contrassegnato dalla pandemia dl Covid19, dallo scoppio della feroce guerra di invasione di un paese d’Europa, dell’Ucraina da parte di una temibile autocrazia totalitaria, e dalla conseguente crisi : economica, geopolitica, crisi dell’energia, crisi alimentare, crisi climatica, crisi dell’acqua, inflazione, stagflazione. In una parola, si è in presenza di un tentativo di porre fine all’equilibrio della cd. deterrenza nucleare, fine di un mondo governato da una sola superpotenza: l’Occidente a guida statunitense, il mondo «unipolare», per sostituirlo con il cd mondo «multipolare» costituito dalle maggiori autocrazie totalitarie del mondo a guida russo-cinese.
La Crisi globale e glocale è l’Evento più imponente che sia capitato all’Europa dal 1945.
Non si tratta di un semplice raffreddore, e neanche di un semplice «esaurimento nervoso» come quello che Zanzotto affibbia al Sanguineti autore di Laborintus (1956), e neanche di un «oggettivo esaurimento storico», per dirla con le parole di Sanguineti. Oggi l’Occidente si trova davanti ad un evento che sta sconvolgendo e sconvolgerà in futuro la vita delle centinaia di milioni di persone che vivono sotto il tetto dell’Occidente, che lo si voglia o no, che lo si comprenda o no. E anche di coloro che vivono sotto il tetto dell’Oriente, che lo si voglia o no, che lo si comprenda o no.
Cfr. il gossip contenuto nel numero 11 di «Officina», novembre 1957, pp.458-62 (a p. 458 e a p. 462)
Nella Nota anonima, ma da attribuire a Leonetti (così in ogni caso farà lo stesso Zanzotto nel celebre e polemico saggio su I «Novissimi», uscito su «Comunità», 99, maggio 1962 e ora in Id., Scritti sulla letteratura, vol. II cit., pp.24-9: 26), a commento della famigerata Polemica in prosa di Sanguineti (a sua volta scritta rispondendo al Pasolini della Libertà stilistica, sul precedente numero 9-10), è scritto:
«In una cena romana “da Cencio”, in attesa dei poeti sovietici in ritardo, ai 6 di ottobre, lo Zanzotto (presenti Fortini, Pasolini, Leonetti) si lagnava di aver perso il sonno per colpa di Sanguineti, affermando diabolico il suo Laborintus è degno di punizione se non era “sincera trascrizione di un esaurimento nervoso”: ecco dunque uno, Zanzotto, di cui la buona coscienza, il sonno nelle convenzioni petrarchesche, è rotto da quella illeggibile e furiosa ironizzazione delle forme, e niente, niente affatto, dalle nostre costruzioni ideologiche e critiche; quella può essere, dunque, in un certo ambito, mordente. […] Per Sanguineti continuerà a valere in poesia la situazione immobile, che da alcuni, astrattamente, si è voluta identificare con quella di Leopardi (mentre è angoscia del secolo, che si riduce poi alla sensazione del paesaggio – ora con la modulazione poetizzante, mettiamo, di Zanzotto: “perch’io dispero della primavera”»(nella cit. antologia della rivista, cfr. pp. 334-9: 335 e 338). Alla battuta di Zanzotto replicherà com’è noto Sanguineti (nel brano Poesia informale? accluso nell’antologia I novissimi. Poesie per gli anni ’60 [1961], a cura di A. Giuliani, Torino, Einaudi, 2003, pp. 201-4: 202) accettando la definizione «ma con una non piccola correzione: e cioè che il cosiddetto “esaurimento nervoso” che io tentavo di trascrivere sinceramente era poi un oggettivo “esaurimento” storico».
Scrive Andrea Cortellessa in un saggio dedicato ai rapporto antagonista che ha legato Fortini e Zanzotto:
“Che l’ironia, la gestione ironica del patrimonio letterario tradizionale, sia unica possibile via d’accesso al sublime lo dice proprio la dittologia «sublime» e ridicolo destino attribuita al Barone di Münchhausen e, lui tramite, all’universale condizione. Si tratta di quella che in retorica si dice preterizione e, in psicoanalisi, formazione di compromesso (anche se Zanzotto, come s’è visto, preferisce parlare di sublimazione), ma che Giorgio Agamben ha recentemente ricondotto alla sua valenza religiosa – la più adatta, tutto sommato, a definire l’atteggiamento di Zanzotto.
Se la poesia moderna, secondo il filosofo, è caratterizzata da una dimensione complessivamente parodica è perché essa ha perso il suo legame originario, naturale, con il canto : cioè appunto col carmen, la celebrazione del nume. In un tempo secolarizzato, o come egli preferisce dire profanato – con gli dèi estinti o fuggiti, cioè –, all’artista non resta chela «parodia» come «forma stessa del mistero»: in quanto «essenziale alla parodia è la presupposizione dell’inattingibilità del suo oggetto». In questo senso la «parodia» è «paraontologia»: perché «esprime l’impossibilità della parola di raggiungere la cosa e quella della cosa di trovare il suo nome»1
La poesia in modalità kitchen
Io penso che la poesia «odierna», la poesia con modalità kitchen, reduce della guerra che la poesia moderna ha fatto al «mondo», abbia del tutto abbandonato l’idea della dimensione parodica e/o ironica, che in qualche modo – lo dice anche Agamben – dipendeva dal legame ombelicale che la legava al canto, al carmen. Nell’orientamento della NOe non c’è, se mai c’è stato, più alcun collegamento con il carmen, c’è stato il passaggio del Rubicone, il carmen è alle spalle, come è alle spalle tutto intero lo Zanzotto da Dietro il paesaggio (1951), a Ecloghe (1962) a La Beltà (1968) in quanto erede del «canto» e quindi ancora in qualche misura la poesia zanzottiana dipende da ciò verso cui pende prendendone la misura: dalla impostazione neoermetica.
Nella poesia kitchen siamo fuori del «canto», siamo fuori dal Petrarca e da Zanzotto, e siamo fuori anche dagli anti petrarchisti come Mario Lunetta. Ormai il «canto» è dato per sepolto e morto. Negli autori della poetry kitchen non si dà più alcuna dimensione parodica, questo è un fatto storico. Il derisorio, se c’è, è in re, non sopra la res. Al posto del significante si dà il fuori-significante, al posto del significato si cerca il fuori-significato. Elementi essenziali della NOe kitchen sono il «montaggio» e i salti spaziali e temporali, in mancanza di questi Fattori la poesia rischia di tornare (inconsapevolmente) verso il significato ironico o parodico che dir si voglia. E Amen, si torna indietro. Qui e là io lo vedo questo pericolo. (g.l.)
AA.VV. Andrea Cortellessa in Andrea Zanzotto un poeta nel tempo, p. 118
Abitiamo un universo kitchen
il celebre fisico Richard Feynman osservò, parlando di nuove scoperte:
“Il primo principio è che non devi ingannare te stesso, e tu sei la persona più facile da ingannare“.
Quando fai scienza da solo, impegnandoti nel processo il celebre fisico Richard Feynman osservò, parlando di nuove scoperte: “Il primo principio è che non devi ingannare te stesso, e tu sei la persona più facile da ingannare“. Quando fai scienza da solo, impegnandoti nel processo di ricerca e indagine, ci sono molti modi in cui puoi diventare il tuo peggior nemico. Se sei tu a proporre una nuova idea, devi evitare di cadere nella trappola di innamorartene; se lo fai, corri il rischio di scegliere di enfatizzare solo i risultati che la supportano, scartando le prove che la contraddicono o la confutano”.
Allo stesso modo, se sei uno sperimentatore o un osservatore che si è innamorato di una particolare spiegazione o interpretazione dei dati, devi combattere contro i tuoi pregiudizi riguardo a ciò che ti aspetti (o, peggio, speri) che il risultato del tuo lavoro indicherà. Come recita il ritornello più familiare, “Se l’unico strumento che hai è un martello, tendi a vedere ogni problema come un chiodo“. Fa parte del motivo per cui richiediamo, come parte del processo scientifico, una conferma indipendente e solida di ogni risultato, nonché l’esame accurato di altri ricercatori per garantire che tutti noi stiamo conducendo correttamente le nostre ricerche e interpretando correttamente i nostri risultati.o di ricerca e indagine, ci sono molti modi in cui puoi diventare il tuo peggior nemico. Se sei tu a proporre una nuova idea, devi evitare di cadere nella trappola di innamorartene; se lo fai, corri il rischio di scegliere di enfatizzare solo i risultati che la supportano, scartando le prove che la contraddicono o la confutano.
Cosa c’è al di fuori dell’universo osservabile?
Gli astronomi pensano che lo spazio al di fuori dell’universo osservabile potrebbe essere una distesa infinita di ciò che vediamo nel cosmo che ci circonda, distribuito più o meno come ciò che possiamo osservare.
Questo sembra logico. Dopotutto, non ha senso che una sezione dell’universo sia diversa da ciò che vediamo intorno a noi. E onestamente, chi può immaginare la fine del cosmo, magari con un enorme muro che ne delimita i margini?
Quindi, in un certo senso, l’infinito ha un senso. Ma “infinito” significa che, al di là dei confini del cosmo non troverai solo più pianeti e stelle e altre forme di materiale … Alla fine troverai ogni cosa possibile. Ogni. Possibile. Cosa.
Ciò significa che, se questo è vero e lo seguiamo fino alla sua conclusione logica, da qualche parte là fuori c’è un’altra persona che è identica a te in ogni modo possibile, e c’è anche un te che è solo leggermente diverso da te (uno è più basso; uno è stato investito da un autobus 5 anni fa ed è morto; uno ha un dito mancante, ecc.). In effetti, questo “altro tu” potrebbe leggere questo articolo proprio ora; l’unica differenza è che mentre lo legge si è grattato il naso, cosa che tu non hai fatto (o l’hai fatto?).
Questa nozione sembra inconcepibile. Ma, in fondo, l’infinito è piuttosto inconcepibile.
La teoria del“flusso oscuro“.
(da https://www.reccom.org/ce-qualcosa-al-di-la-delluniverso/)
Nel 2008, gli astronomi hanno scoperto qualcosa di molto strano e inaspettato: gli ammassi galattici fluiscono tutti nella stessa direzione a velocità immensa, oltre tre milioni e mezzo di chilometri all’ora. Una possibile causa: strutture massicce al di fuori dell’universo osservabile che esercitano un’influenza gravitazionale.
Per quanto riguarda le strutture stesse, potrebbero essere letteralmente qualsiasi cosa: accumuli incredibilmente enormi di materia ed energia (su scale che difficilmente possiamo immaginare) o anche bizzarre deformazioni nello spazio-tempo che stanno incanalando forze gravitazionali da altri universi.
Semplicemente non sappiamo quali potrebbero essere questi enormi oggetti. In particolare, recenti analisi sembrano sconfessare il modello del flusso oscuro, ma la questione è ancora oggetto di controversia.
Un’altra opzione prevede un universo di universi. Alcuni credono che l’intero nostro universo potrebbe esistere in una piccola “bolla” in mezzo a una vasta gamma di altre bolle. I teorici lo chiamano “multiverso“.
È interessante notare che questa idea afferma che questi universi a bolla possono entrare in contatto l’uno con l’altro: la gravità può fluire tra questi universi paralleli e, quando si connettono, potrebbe verificarsi un nuovo Big Bang.
Per i praticanti della via esperienziale (secondo me, tutti) l’universo è anche dove ti trovi in questo momento; per semplice continuum spazio temporale, lo respiri, lo abiti, ci vivi e ci muori. Ma osservo che l’esperienza sensoriale non va oltre, diciamo, un raggio di 50 metri; meno di quanto è dato dalla vista, la quale può contenere, nell’occhio, la distanza tra noi e le più lontane stelle (se la vista fosse un filo, quanto potrebbe essere lungo?).
La domanda in merito a cosa vi sia oltre l’universo (la qualsiasi cosa), diventa: di cosa è fatto l’universo? cosa rende uguale la materia qui e sulle più lontane stelle?
La ricerca introspettiva può dare risposte al misterioso esserci, condizione precaria ma permanente dell’essere qui e ora. La particolare coincidenza tra spazio e tempo, il loro punto di intersezione… per cui, se idealmente ci potessimo spostare anche di un solo secondo, al di fuori del tempo, nulla di ciò che conosciamo potrebbe esistere. Questo mi fa pensare che esistono infiniti universi, ognuno invisibile agli altri.
Gino Rago
Un contributo di lettura o di ri-lettura del ‘900 poetico italiano.
*
Giorgio Linguaglossa
Il paradigma della conservazione della poesia italiana del novecento
Dalle interviste immaginarie di Gino Rago ad Eugenio Montale apparse su lombradelleparole.wordpress.com e ad altri critici sulla poesia italiana del novecento, quello che emerge è la straordinaria rettilineità dello sviluppo della poesia italiana del primo e secondo novecento (sembrano due secoli diversi), nel senso che ad una azione segue una reazione violenta ed oppositrice, che poi rifluisce naturalmente nell’alveo della tradizione. Il «nuovo» rifluisce tranquillamente nell’«antico». Questa è la vera damnatio memoriae della poesia italiana del novecento. Anche Sanguineti dopo il rivoluzionario libro d’esordio, Laborintus (1956), ritorna al paradigma della poesia del Pascoli, in un certo senso dimidiando e nullificando lo sforzo dell’opera d’esordio. Così anche Cesare Pavere dopo Lavorare stanca (1936) perde il bandolo della matassa, non sa più in che direzione proseguire e ritorna alla poesia lirica di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951). Francamente, poteva farne a meno, un’opera lirica inutile che sconfessava l’opera d’esordio e segna il ritorno all’antico petrarchismo della poesia italiana.
Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda –
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
– anemone o nube –
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore.
Il Futurismo, dopo lo scoppio improvviso e deflagrane del Manifesto del 1907, finisce subito dopo per rientrare nei ranghi della tradizione, ed ecco che spuntano fuori i crepuscolari e, in seguito, negli anni trenta il ritorno all’ordine de La Ronda con Cardarelli come capofila…
Come dire, c’è una linea di continuità della poesia italiana del novecento (primo e secondo) che si può spiegare con l’incapacità di trovare il percorso per un rinnovamento profondo e duraturo della poesia e delle sue istituzioni stilistiche. Una linea di continuità che si sviluppa attraverso segmenti di discontinuità che approdano alla fin fine nella continuazione della continuità conservatrice. Una continuità assicurata dalle discontinuità. C’è una sorta di paradigma della conservazione della poesia italiana del novecento, in linea con il conservatorismo della comunità nazionale e dei suoi esiti politici pur nella rottura avutasi con il fascismo, anzi, il fascismo con quel ventennio di stasi del libero dibattito e della libera ricerca intellettuale ha finito per aggravare certe caratteristiche conservatrici della poesia italiana del Novecento.
Se aggiungiamo i trasformismi e i minimalismi di questi ultimi decenni, il quadro è completo. Il trionfo del conservatorismo elegiaco e minimalista ne è il necessario (storicamente) complemento. La fioritura del postruismo poetico epigonico di questi ultimi decenni e dei giorni nostri ne è la riprova più evidente.
(Giorgio Linguaglossa)
*
GINO RAGO
Ho desiderato e inteso organizzare i miei colloqui (immaginari), le mie conversazioni (immaginarie), le mie interviste (immaginarie) di cui generosamente parla Giorgio Linguaglossa, e che ringrazio anche per questo sentitamente, per tentare di contribuire a una ‘lettura’ consapevole del nostro Novecento poetico, partendo proprio dal saggio:
Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14
(che ho affiancato a certi studi davvero acuti sul nostro Novecento di Alfonso Berardinelli)
E dal saggio linguaglossiano sul Dopo il Novecento estrapolo un passaggio che nel mio lavoro ricordato dall’amico Linguaglossa nella sua dotta e lucida meditazione sul ‘900 poetico ho estratto un passaggio decisivo che riporto.
Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.
“«[…]
Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia.
[…]
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini.
[…]
In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica.
Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo
[…]
Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione. »
Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114)
Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto [ «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definirlo]..”
Propongo, con il desiderio di con-dividerlo, questo rapido colloquio (immaginario), il I° riguardante il Novecento poetico italiano, sulla questione centrale della “leggibilità” del ‘900 in poesia,
Gino Rago
Il Novecento poetico italiano
È leggibile la poesia italiana del Novecento?
Un rapido colloquio con uno studioso di poesia italiana
(Gozzano e Saba)
Domanda:
A questo punto preciso in cui siamo, cioè prossimi ai quasi 20 anni del Duemila, potremmo forse chiederci senza pudori né remore scolastiche: è leggibile, e in che misura è leggibile, la poesia del Novecento?
Risposta:
La domanda, il dubbio sembrano fatti apposta per parlare di Guido Gozzano. Non solo di lui, ma soprattutto di lui, che con Saba è stato il più “ottocentesco” dei primi poeti del Novecento.
Domanda:
In che senso ?
Risposta:
Nel senso che in loro la modernità, per quanto si annunciasse con chiari segni (culturali, sociali, politici) non è stata un programma. Dietro i loro versi non c’è un’idea nuova di poesia.
Domanda:
Perché, si spieghi meglio…
Risposta:
La loro è anzitutto una situazione personale, che come tale viene descritta in dettaglio e con il minimo di censure letterarie. Dietro la loro poesia c’è un diario, ci sono confessioni, descrizioni dal vero e racconti da mettere in versi che abbiano una riconoscibile musica di versi, anche a costo di sembrare una nostalgica o umoristica parodia della poesia.
Domanda:
Saba e Gozzano, sono tante le analogie fra i due?
Risposta:
Le analogie fra Gozzano e Saba tuttavia finiscono presto: si limitano al loro istinto di trascinare l’Ottocento nel Novecento, ripeto l’Ottocento nel Novecento, un Ottocento piuttosto innocente, visto in una luce di crepuscolo benché evocato con un nitore da riproduzione fotografica.
Con queste ultime parole mi riferisco più a Gozzano che a Saba. E’ Gozzano che parla di pirografie, di cartoline, di dagherrotipi.
Domanda:
Volendo soffermarci su Gozzano, in tanti hanno parlato di alto grado di leggibilità della sua poesia.
Risposta:
L’alto grado di leggibilità di Gozzano è dovuto a procedimenti visivi minuziosamente descrittivi, da novella versificata.
L’intero repertorio stilistico della narrativa viene trasferito in un genere di poesia che tende irresistibilmente al poemetto: c’è una scenografia, è in corso una scena, ci sono personaggi, incontri, dialoghi, episodi e aneddoti.
Domanda:
Forse anche con un pizzico di psicologia.
Risposta:
Sì, ma c’è quella psicologia che è necessaria sia al ritratto sia alla introspezione del personaggio-poeta.
Domanda:
Si riferisce a La signorina Felicita.
Risposta:
E’ proprio quella psicologia sulla introspezione del personaggio-poeta che fa della composizione più famosa di Gozzano, La signorina Felicita, ovvero la Felicità, una novella in versi romantica “fuori tempo”, con la perfetta, forse troppo perfetta, tipizzazione della ragazza semplice e dell’avvocato sognatore, sentimentale sì ma incapace di sentimenti.
Domanda:
D’Annunzio e Pascoli sullo sfondo…
Risposta:
Appena un passo più in là rispetto al voracissimo esteta D’Annunzio, e a Pascoli, quasi un sismografo letterario iperpercettivo e insieme ossessivo.
Domanda:
Quindi Gozzano è con loro…
Risposta:
Gozzano è lì con loro ed è altrove. È meno letterato e più borghese. Non è né un malato professore di lettere né un avventuriero a caccia di piaceri inimitabili. Metricamente è meno curato, esibisce una certa nonchalance o inabilità formale.
Domanda:
Gozzano rispetto a Pascoli.
Risposta:
Il principe dei critici stilistici italiani, Gianfranco Contini, nota che le capacità tecniche di Gozzano, che a qualcuno sono sembrate o possono sembrare virtuosistiche, risultano abbastanza approssimative se confrontate con quelle eccezionalmente colte di Pascoli.
Domanda:
Vale soltanto per Gozzano verso Pascoli?
Risposta:
I poeti del Novecento italiano, che hanno spesso voluto presentarsi formalisticamente sofisticati, mostrano di aver perso competenza metrica, anche se cercano a volte di ottenere effetti di sorpresa violando regole che non erano più capaci di padroneggiare (la stessa cosa si può dire per la musica e soprattutto per le arti visive).
Domanda:
Tanta critica riconosce ancora a Gozzano un forte patrimonio di risorse comunicative.
Risposta:
Le risorse comunicative di Gozzano sono dovute a un esperimento riuscito nell’accostare, magari con qualche intenzionale goffaggine, il prosastico e il poetico, il parlato borghese e un’ostentata vocalità metrica. È come se scrivesse recitando da letterato, ma per essere letto anche, se non soprattutto, da non letterati.
La sua poesia, i suoi versi allestiscono una perfetta messa in scena, un teatro al quale il lettore-spettatore non può resistere.
Basta citare poche strofe e si entra subito nel gioco, in medias res, davvero in mezzo alle cose, ai fatti, letteralmente, secondo la regola che Orazio prescrive al poeta epico.
Domanda:
E infatti: “Signorina Felicita a quest’ora scende la sera nel giardino antico della tua casa…”
Risposta:
E così per stare al suo gioco scende il ricordo nel cuore amico e poi la cerulea Dora, e Ivrea… E il dolce paese che non dico.
Domanda:
E su Saba?
Risposta:
Se Lei vuole, di Saba parleremo in qualche altra occasione.
Oggi preferisco andare a Nemi alla sagra delle fragole.
(Gino Rago)
ORA COME GIA’ ACCADUTO TRA LE MURA DEL CREMLINO NEI SECOLI PASSATI SI COMPIRA’ LA NEMESI, E COME GIA’ ACCADUTO SARANNO LE TRAME DI UNA DONNA A PORRE FINE ALLA ESISTENZA DELL’AUTOCRATE,
MAGARI NON SARA’ NECESSARIAMENTE UNA DONNA DI CUI SI FIDA,
MA DI CUI NON PUO’ FARE A MENO DEL SUO OPERATO.
NON SARANNO DIFFERENTI PASSIONI A COMPIERE IL MASSACRO INTERNO, MA UN COLPO BASTERA’, BEN ASSESTATO LA’ DOVE NESSUNO PUO’ ASPETTARSELO: ESSI STESSI, QUELLI STESSI CHE HANNO POSTO IL SERVIZIO SEGRETO AL SERVIZIO DI SE STESSO – REALIZZANDO NON SOLO NELLE FORMA MA PURE NEL CONTENUTO – IL PIU’ SPIETATO DEI POTERI ASSOLUTI IN RUSSIA- QUELLO CIOE’ CHE DEVE DAR CONTO SOLTANTO A SE STESSO –
E ALLORA….
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(da mia nota n.65, p. 24)
“Ma già, come riferisce Nadežda Mandel’štam, nel 1919 la Čeka, a Kiev era impegnata a far sparire il sangue delle vittime che scorreva a fiumi negli scantinati dei suoi palazzi.
(da mia nota 149, p.55)
“È l’ežovismo (l’ežovščina): in quegli anni la tecnica della eliminazione fisica era divenuta raffinata. Ma già dal 1919 a Kiev: “Mi dissero che nell’edificio della Cekà avevano scavato un piccolo canale per far defluire il sangue: la tecnica a quel tempo era ancora primitiva”. Così scrive Nadežda Mandel’štam in Le mie memorie con poesie e altri scritti di O.M., Garzanti 1972, p.58. Un anno prima, nel 1918, la Cekà ”aveva costituito dei suoi tribunali speciali, in cui la corte era composta da tre membri (trojka; non necessariamente tutti appartenenti agli “organi”, in Nadežda Mandel’štam, L’epoca e i lupi, Mondadori 1971, p. 426. (vedi nota 65, p.24).”
(dal Corso monografico su Mandel’stam di AM Ripellino dell’anno 1974\75)
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Quel sangue è il medesimo che scorre in questi tempi, come quello di una celebre artista:
“l’attrice è Zinàida Rajch (1894-1939) che poi diverrà la moglie di Vsévolod Mejercchol’ (1874-1940); costei sarà sgozzata dagli sgherri di Stalin, poco prima della fucilazione del marito. Majakovskij più volte difese dai critici-pettegoli l’operato teatrale di Mejerchol’d. (vedi A.M. Ripellino Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Einaudi 1978, p. 240).
(da mia nota 340, p. 161)
(dal Corso monografico su Pasternàk di AM Ripellino 1972\73)——————-
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E ALLORA CHE COSA C’E’ TANTO DI NUOVO E INASPETTATO NELLA RUSSIA DI OGGI?
LO SLAVISTA CONOSCE BENE QUESTI EVENTI “RUSSI” E NON SCRIVE E NON PARLA (NEI E SUI MEDIA) COME TANTI NOSTRANI ESPERTI : SIANO ESSI PRESUNTI SPECIALISTI O SIANO SEDICENTI GIORNALISTI.
NOI SLAVISTI SENZA ESSERE VEGGENTI O PROFETI SAPEVAMO GIA’ CHE PRIMA O DOPO SAREBBE ACCADUTO E COME IN TANTI DRAMMI O TRAGEDIE LETTERARI RUSSI ERA GIA’ TUTTO SCRITTO.
L’AUTOCRATE E IL SUO AVVENTO E’ FRUTTO O RISULTATO CRONICO DI STATI DI FOLLIA CHE SI RINNOVANO.
MA POTREBBE ACCADERE L’IMPENSABILE, COME HO SCRITO IN PASSATI INTERVENTI.
MA PERCHE’ NON LEGGETE I “DEMONI ” DI DOSTOEVSKIJ ???
PER GIUNTA L’AUTOCRATE FU RI-CREATO DALL’ETILISTA SIBERIANO… DUNQUE FRUTTO DI UN UBRIACO O DI UNA UBRIACATURA GENERALE, O COMUNQUE IL SIBERIANO FU COSTRETTO AD ACCETTARE LA CANDITATURA DI P., ALTRIMENTI SAREBBE STATO UCCISO.L’ASCESA DI P. PARTE DA QUANDO ERA A BERLINO – E’ IN QUESTA CITTA’ CHE SI DECISE IL DESTINO DELLA EUROPA DA SCOSCIARE!.
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ESISTE UN LIBRO MASTRO DOVE E’ SCRITTO E DOVE NON E’ SCRITTO ALLO STESSO TEMPO COME SI DEVE COMPORTARE L’AGENTE DAGLI STIVALI NERI…
NULLA E’ SCRITTO MA TUTTO E’ DETTO E PIù CHE LA PAROLA SONO GLI OCCHI DELL’AUTOCRATE CHE DETTANO.
E I POETI? QUANTI NE SONO STATI AMMAZZATI IN QUESTI 30 ANNI !
E QUANTI SONO STATI INGANNATI DA P. E A CUI ELARGIVA PREMI E MEDAGLIE E TANTO PIù ERANO QUESTI RICONOSCIMENTI PUBBLICI TANTO PIù INGANNATI – E’ VERO: I POETI SONO CIECHI, MA NON SONO DEGLI OMERI!
SPESSO MI DOMANDO COSA AVREBBERO DETTO ETTORE LO GATTO E TUTTI GLI ALTRI GRANDI SLAVISTI . SPECIE LO GATTO CHE VISITO’ PIù VOLTE LA RUSSIA DI STALIN, E CHE SAPEVA BENISSIMO COME STAVANO LE COSE (FU TESTIMONE NON OCULARE – FU COSTRETTO AD ESSERE PASSIVO – DI DECINE E DECINE DI UCCISIONI E DI SCOMPARSE, E PERCHE’ STUDIOSO PROFONDO CONOSCEVA LA VOLUBILE E SPIETATA NATURA RUSSA CHE ESALTAVA I POETI E POI LI AMMAZZAVA… (E IN SPAGNA, CON FRANCO?),
Il fatto è che l’uomo sapiens è addestrato da sempre a riconoscere l’Io. Come una mosca addestrata da anni a fare il passo dell’oca.
Che cos’è l’Io?
La frase di Lacan: l’io non sarebbe altro che «un sintomo privilegiato all’interno del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo».1
Sono o non sono la forma che ammiro allo specchio?
È l’interrogativo remoto che contorna la faglia simbolica in cui il soggetto è avviluppato. L’io viene al mondo sotto forma di immagine dell’altro.
Ecco perché Lacan insiste sul legame tra la cattura narcisistica dell’immagine e l’insieme dei processi psichici che vanno sotto il nome di identificazione.
Processi di identificazione che sottostanno al ventaglio delle dinamiche intersoggettive che impregnano la nostra esistenza: così gli oggetti diventano desiderati e riconosciuti in base al presupposto che ciò che è perduto sia recuperabile, ma, appunto deve essere a monte, nel passato, nel passato insondabile in quanto passato perduto.
Analogamente: fare poesia lirica sottosta al medesimo luogo communis: che vi sia nel passato perduto qualcosa che, sebbene perduto, possa però in qualche modo essere recuperato dall’io.
1 J. Lacan, Seminario I, cit. p. 20
Jean-Paul Sartre
La trascendenza dell’Ego, sulla critica lacaniana dell’Io.
La tesi avanzata da La trascendenza dell’Ego di Sartre alla fenomenologia possiamo riassumerla così: l’ego non è il punto di scaturigine dell’intenzionalità della coscienza, ma un prodotto della coscienza stessa nel momento in cui questa entra in modalità riflessiva. La torsione della coscienza nell’istante in cui cerca di afferrare la propria stessa attività finisce con l’imbattersi nella opacità artificiosa e impenetrabile di qualcosa che a torto viene scambiato per l’agente e la sorgente dell’intenzionalità. Questo scacco della riflessione rivela il destino fallimentare di ogni suo sforzo: la coscienza è inafferrabile, semplicemente perché non ha sostanza. L’ego che la coscienza trova nell’atto di cercarsi ha il carattere di un oggetto trascendente, non diversamente da qualsivoglia oggetto essa incontri in modalità irriflessiva. La coscienza è in verità un «campo trascendentale» impersonale, costantemente misconosciuto in favore dell’opacità dell’io, nel suo carattere assoluto e originario, pena l’insorgere dell’angoscia.
Essa non fa capo ad alcun ego, non può contrarsi in nessuna coincidenza con sé stessa, non contiene alcuno statuto sostanziale, «è un nulla»
In quanto campo trascendentale, essa è pura attività, esteriorità irrappresentabile, nella misura in cui l’operazione sartriana consiste nel toglierle qualsivoglia residuo di consistenza, l’ego (così come lo psichico in generale), in quanto oggetto, è semmai un nulla.
Sembra inequivocabile una influenza decisiva del saggio di Sartre sulla teorizzazione di Lacan, peraltro non mancano in Lacan espliciti riferimenti al saggio del giovane Sartre. Per Sartre l’io è agli antipodi di ciò che la coscienza (non) è, essendo un’unità artificiosa e falsata degli stati di coscienza, l’ego è un miraggio, è inconoscibile, sempre sfuggente alla riflessione, che pure lo coglie come limite, come scacco, deviazione virtuale del proprio sforzo scrutatore:
«“Conoscersi bene” è perciò fatalmente assumere su di sé il punto di vista dell’altro, vale a dire un punto di vista inevitabilmente falso. E converranno tutti coloro che hanno tentato di conoscersi, questo tentativo di introspezione si presenta, fin dall’inizio, come uno sforzo per ricostituire con delle parti
staccate, con dei frammenti isolati, ciò che è dato originariamente d’un sol colpo, digetto».1
E se, in modo irriflesso, riferiamo le nostre azioni all’io, per esempio parlando (usando l’io come soggetto di un enunciato), è comunque di un concetto vuoto ciò di cui si tratta, che vale solo come titolo di sostegno formale delle azioni.
Del resto, se l’io è un oggetto non può compiere effettivamente alcunché, non può essere agente di niente, può solo essere accostato ad altre entità. E in cosa questo io astratto trova, per Sartre, un supporto illusorio che lo giustifichi?, nell’immagine del corpo: «Dico “Io” spezzo la legna e vedo e sento l’oggetto “corpo” nell’atto di spezzare la legna. Il corpo funziona allora da simbolo visibile e tangibile per l’Io».2
Sartre attribuisce all’ego la funzione di mascheramento della reale spontaneità della coscienza, che, senza questo punto di arresto, esporrebbe al vertiginoso sentimento di essere già da sempre costantemente anticipati e attraversati dai propri pensieri e dai propri atti, anziché esserne fautori (vale a dire anziché essere protagonisti). In effetti la «vertigine» è un’allusione efficace, perché essa non consiste, a ben vedere, nella paura di cadere da un dislivello, ma di gettarsi nel vuoto. Avere “paura delle altezze” significa avere paura della pura possibilità che io stesso ho di gettarmi nel vuoto, perché questo gesto ipotetico è proprio nelle mie facoltà, potrei compierlo, da un istante all’altro, è un’eventualità a portata di mano.
La paura, ad esempio, la paura di cadere, avrebbe a che fare con una evenienza indipendente da me, per esempio che qualcosa mi faccia
perdere l’equilibrio o a causa di qualcuno che mi spinga.
1 ivi pp. 78.79
2 ivi p. 72
«Per fortuna il meglio è passato».
«La situazione è grave, ma non seria»
(Ennio Flaiano)
La nostra epoca è contrassegnata da una «ontologia della caducità» o «ontologia meta stabile», la nostra ontologia è diventata «debole», è stata infermizzata e posta in terapia intensiva. Ci sono rimaste le «parole deboli», «inferme», «precarie» e con quelle, volenti o nolenti, dobbiamo accostumarci a convivere. Chi usa le parole «forti», o le parole dell’elegia, le parole del panlogismo del secondo novecento, le parole frantumate del discorso poetico post-zanzottiano, le parole «fortificate», le parole polifrastiche, toponomastiche e paesaggistiche della poesia di accademia di oggi, è finito fuori strada. Quelle parole sono finite nel buco di ozono della afasia dell’ultimo Zanzotto, e non poteva andare diversamente perché quelle parole corrispondevano ad una visione panlogistica e plenipotenziaria del discorso poetico legiferante (di cosa poi un poeta oggi può legiferare, a ragion veduta, non si sa). A noi di quel mondo non ci sono rimasti che frammenti (membra disiecta) mummificati, non ci resta altro da fare che impegnarci nella loro raccolta e catalogazione in un discorso poetico che sarà necessariamente frammentato, dissestato, lateralizzato, multi prospettico, compodinamico. Di quell’«armadio delle meraviglie» della poesia del novecento sono rimasti i quadretti eufonici post-edipici insieme alle cornici discrostate delle post-avanguardie del secondo novecento attraversate dalle macchine diserbanti dell’epigonismo che riverberano ancora i lucidi medaglioni della poesia post-penniana. Non si tratta tanto di «resistenza» alle avversità e alla avverse contumelie della civiltà di massa e mediatica, come ammoniva Mario Lunetta negli scorsi decenni, quanto di presentare un altro modo della poiesis, un’altra idea della poiesis, un altro modo di vivere fuori e dentro la poiesis, un’altra idea del Politico e del Poietico.
Estate 2050. La tecnologia ci ha reso silenziosi.
Gli animali non ci prestano attenzione. Il governo
ha nazionalizzato la gran parte delle spiagge,
che da oggi sono libere e ben servite.
Oggi sola, a Helsinki e in Nigeria.
Alle prime armi con voli-nel-passato.
Ma la voce è chiara.
Je, il mio nome. Da Jenny.
Con meno parole.
LMT
caro Lucio,
in questa tua poesia l’io è la fuori, sta passeggiando nei dintorni ma è sempre presente, anche se in incognito e travestito da mendicante o da borghese… anche se poi tu nel penultimo verso tenti una diversione quando scrivi: “Je, il mio nome. Da Jenny”.
Concordo, le Instant poetry hanno una marcia in più.
Occorre porsi una domanda molto semplice:
Che correlazione c’è tra l’Ego plenipotenziario, l’Ego come piccola nazione in guerra con tutte le altre piccole nazioni e l’Ego degli Altri? – L’Io come entità ontologica è emanazione della Volontà di Potenza e/o di Potenza delle Volontà. Senza la Potenza dell’Ego non ci sarebbe la Potenza delle nazioni, la Potenza delle Superpotenze. C’è una correlazione diretta tra l’Ego dell’Io e l’Ego dei popoli e delle Nazioni.
Chiediamoci:
Perché è così difficile sbarazzarsi da questa credenza miserabile dell’Io quale epicentro di tutte le nostre azioni e convinzioni? –
È oltremodo difficile sradicare questa credenza perché essa è una credenza teologica che sta al fondo di ogni nostro atto di pensiero e di volizione.
È sì possibile esprimere una volontà che non sia figlia della credenza illusoria dell’Ego, dell’Io, bisogna imparare a disaddestrarsi, siamo tutti delle mosche addestrate da anni a fare il passo dell’oca – inconsapevolmente l’Io cammina al passo dell’oca, esprime pensieri marziali, belligeranti in ogni suo atto o volizione.
Io per tanti anni ho fatto il direttore di carcere. Ebbene, nel segreto della mia coscienza io mi sdoppiavo in due entità: l’Io che assumeva delle determinazioni e l’Io che osservava dal di fuori la scena. È stato un formidabile allenamento che consiglierei a tutti di fare. Ma non è facile. Non è facile disaddestrarsi a vivere per eseguire un disaddestramento dalla prigione dell’Io. L’Io è un miserabile e basta, bisogna scacciarlo via a pedate.
Questo mio disaddestramento all’Io mi ha reso più semplice scacciare l’Io dalla mia poiesis. Tutte quelle poesie con l’io di qua e l’io di là mi appare oltremodo ridicolo e miserabile.
La nuova ontologia estetica forse è nata in tutti quegli anni del mio disaddestramento all’ego durante il mio servizio nelle istituzioni della repubblica.
Susanna Tamaro,l’autrice del libro “la dove mi porta il c,,zo” critica negativamente il vincitore del Premio Strega con il racconto (o romanzo ?) “SPATRIATI” , Mario Desiati.
Afferma Tamaro temerariamente che non vale la pena di leggere il libro vincitore e si lamenta invano – da parte mia -e non sono un temerario -confesso senza dubbio che non lessi il suo romanzo perché mi faceva schifo il titolo! Mi faceva pensare a E, De Amicis.
Almeno SPATRIATI è UN TITOLO ORIGINALE e questo termine per me non è nuovo affatto perchè fin da bambino mi dicevano che ero uno “spatriato”, come dire mezzo folle, indisciplinato, senza regole, sempre in moto come “uno zuzzu vivo” una sorta di grillo o di cavalletta.).
Leggerò invece, appena mi incontra, questo libro “desiatico”, sperando che mi piaccia il suo stile, e se ci sarà dentro uno stile sarà detto appunto “desiatico”- e ne dirò in un intervento…
Vedremo.
https://www.huffingtonpost.it/esteri/2022/07/14/news/putin_si_ispira_alla_cina_loccidente_piu_che_ingenuo_e_ignorante_conversazione_con_radka_denemarkova-9838711/?ref=HHLF-BH-I9816194-P1-S1-T1
“Putin si ispira alla Cina. L’Occidente più che ingenuo, è ignorante”. Conversazione con Radka Denemarková
La storia vista dal punto di vista delle vittime: “Odio l’espressione ‘dobbiamo guardare alla situazione dal punto di vista geopolitico’ e replico sempre che invece la situazione va osservata dal punto di vista umano”
14 Luglio 2022 alle 09:42
(di Alessandro Catalano, professore di Letteratura ceca presso l’Università di Padova e socio di Memorial Italia)
Ogni volta che esce un suo libro, nel mondo succede quello che in qualche modo i suoi romanzi avevano anticipato, come se la sua scrittura riuscisse a cogliere qualcosa che si avverte nell’aria. Secondo lei da che cosa dipende?
Io credo che dipenda dal fatto che cerco di indagare, sempre dal punto di vista delle vittime, le forme del male, cerco di comprendere da dove proviene, per individuare una possibile strategia per combatterlo, in questo forse sono anche un po’ ingenua. A suo tempo I soldi di Hitler ha sollevato reazioni molto controverse, ad esempio, ma poi l’espulsione dei tedeschi dalla Cecoslovacchia nel dopoguerra è stata oggetto di una vera e propria ondata di romanzi sul tema, al punto che mi è quasi venuta voglia di mostrare l’altra faccia della medaglia.
Anche nel romanzo Contributo alla storia della gioia ha affrontato un tema purtroppo nuovamente attuale, come quello della violenza a sfondo sessuale sulle donne.
Questo è un altro esempio dello stesso problema, sembra che il tema sia divenuto attuale solo sulla scia del movimento MeToo. E anche questo mi dà un certo fastidio perché queste questioni sono sempre esistite, senza mai essere considerate, o meglio senza mai essere comprese nel giusto contesto. Nel mio modo di scrivere cerco invece di trovare una sintesi, di mostrarle come parte di interrogativi molto più complessi, che cos’è l’uomo, l’umanità. Il tema della violenza sulle donne ora è naturalmente di nuovo attuale in tutta la sua brutalità, siamo circondati dalla violenza sessuale messa in atto dai soldati, da questo punto di vista il corpo è un’arma a tutti gli effetti.
E in fondo anche il caso della Cina è molto simile.
Proprio così. Quando ho scritto il romanzo Ore di piombo nessuno ne capiva il senso. Perché una scrittrice ceca dovrebbe scrivere un romanzo sulla Cina? Poi piano piano se ne è iniziato a parlare, ora sono temi più discussi, non solo a proposito del Tibet e questioni del genere; detto questo, però, ne sappiamo ancora troppo poco. Alcuni casi in particolare hanno attirato l’attenzione, ad esempio quello della tennista scomparsa, ma quante persone in Cina scompaiono senza che se ne sappia più nulla? È una punizione normale per chiunque si opponga alla politica del governo, molti però se ne rendono conto solo quando vengono mostrate le fotografie dei campi di concentramento. E invece di campi di lavoro ce ne sono molti e di tipo diverso.
Per tornare alla domanda iniziale sui miei romanzi, sento il bisogno di analizzare la situazione e allo stesso tempo di provare a mettere in guardia dal pericolo. Ovviamente spesso mi rendo conto che non è possibile, ma non fa niente, io continuerò a farlo. Nell’ultimo romanzo ho sentito l’esigenza di richiamare l’attenzione su questi nuovi totalitarismi, sulle caratteristiche profonde di questi nuovi sistemi. Nuovi nel senso che hanno a disposizione una tecnologia molto più raffinata, oggi la propaganda ha un potere enorme, la disinformazione è molto più efficace, il lavaggio del cervello e la sorveglianza delle persone sono molto più pervasivi… È interessante quanto poco ci si renda conto di tutto questo.
Nel suo ultimo romanzo, lei ha dedicato passaggi importanti alla propaganda: “La propaganda non è che una bugia collettiva e le calunnie collettive non c’è modo di estirparle. La bugia è un camaleonte rieducabile; le bugie collettive non si estinguono”. E riferendosi all’invasione della Cecoslovacchia: “i cervelli lavati credevano e ancora credono di essere intervenuti in difesa della Città di Praga contro l’aggressione dei soldati revanscisti della Germania occidentale. Credevano e ancora credono di aver evitato all’umanità la terza guerra mondiale”. Ma perché siamo così indifesi di fronte a questa minaccia, anche quando la propaganda è così trasparente?
Ho l’impressione che il problema sia sempre lo stesso, la verità è una cosa scomoda, che può anche far male. Per raggiungere la verità bisogna sempre dubitare e chiedersi il perché, cercare nuove informazioni e correggere le proprie convinzioni. Mentre le agenzie che oggi sono pagate per diffondere la disinformazione nel mondo hanno anche ottimi psicologi e sanno bene come creare una storia comprensibile, facilmente giudicabile da chi, come noi, non ne è parte. È una cosa che mi ha colpito già nel periodo della pandemia e ancora più evidente è nel caso di tutta la fabulazione legata a Donald Trump: quante persone ci hanno creduto anche nella Repubblica ceca! Allora mi sono detta che molti di noi hanno davvero bisogno di storie semplici, ambientate in paesi lontani, storie molto trasparenti, come le favole. Anche ora, nel XXI secolo, sono tanti quelli che non vogliono sentir parlare di guerra, di sepolture di massa, violenza sulle donne, cambiano subito tema e iniziano “ma l’America…”, “ma la Nato…”. È come se in molti sopravviva quest’istinto, che forse risale a milioni di anni fa, di credere sempre a chi è più forte. E più forte è chi detiene il potere, chi prende le decisioni, chi sopravvive. Basti pensare che le serie televisive che parlano delle vittime dei serial killer non hanno grande successo, mentre tutti sono affascinati dagli assassini, leggono libri su Hitler, Göring etc. Si tratta purtroppo di qualcosa di molto più profondo, nella storia il principio della colpa collettiva ha sempre funzionato. Le informazioni sono sempre state diffuse e replicate senza controllo. E oggi tutto questo è semplicissimo, vengono prodotte con grande professionalità storie comprensibili, che iniziano sempre con una mezza verità.
L’ultima volta che ci siamo visti online, nel giugno del 2020, la situazione sembrava molto complessa, ma non immaginavamo che si sarebbe aggravata fino a questo punto con lo scoppio della guerra in Ucraina. Ma è del tutto vero che nessuno lo avesse intuito?
Io ho un atteggiamento molto radicale e, per quanto mi riguarda, posso dire che senz’altro appartengo a coloro che sapevano bene quello che sarebbe successo. Ora mi ha piacevolmente sorpreso che dalla Germania mi abbiano chiesto i brani riguardanti l’Ucraina contenuti nel romanzo Ore di piombo, ma già in un’intervista del 2014 avevo parlato in modo molto esplicito dei pericoli legati a questa mentalità. Chi voleva vedere, ha senz’altro capito da tempo che Putin non si sarebbe fermato e che la guerra era alle porte.
Nel suo ultimo romanzo Ore di piombo mi ha colpito la frase: “La Russia cova ancora sopita nel suo inconscio l’enorme superpotenza dell’Unione Sovietica, e tratta gli ex stati dell’Unione e i paesi che erano sotto la sua influenza ideologica con lo stesso rapporto di forza che un’azienda madre riserva alle sue filiali”.
Non era certo un segreto che l’ambizione di Putin fosse da tempo quella di riportare i confini a quelli dell’Unione sovietica. Sembra essere convinto che tutti i paesi un tempo satelliti, ancora gli appartengano. Basti pensare all’atteggiamento aggressivo in politica interna, ma lo stesso vale anche per la politica estera. E l’Occidente ha sempre chiuso gli occhi, pensando che bastasse inglobare la Russia nei propri meccanismi economici per mitigarne l’aggressività, ma questo non succederà mai. La politica estera russa è sempre la stessa, in Georgia, Siria, così come oggi nel caso dell’Ucraina. Io sono molto contenta di capire il russo e poter così seguire i media russi, è in atto un lavaggio del cervello che ormai dura da parecchio tempo. Putin si è evidentemente ispirato alla Cina, dove il controllo non è limitato solo ai media, ma si espande anche a internet, e piano piano, un anno dopo l’altro, sono stati erosi ampi spazi di libertà, prima di tutto i media, ma è emblematico anche il caso di Memorial, un’associazione che definiva molto chiaramente cosa fosse la libertà e per questo è stata proibita. Il parallelismo con la Cina è del tutto evidente, si tratta di un paese che osservo attentamente e Putin ha più volte fatto accenno a un’unione euroasiatica incentrata su Mosca, che piano piano sembra espandersi a tutta l’Europa, un insieme di valori che evidentemente dà molto fastidio a Putin. E la Cina ha un piano molto simile, un’unione asiatica incentrata su Pechino. Tutti i dittatori del mondo si comportano allo stesso modo, viene sempre lasciato loro il tempo di prepararsi con calma, e si fermano solo di fronte alla forza. La reazione di alcuni paesi europei, penso ad esempio alla Germania, è stata per me scioccante. Il modo in cui si cerca di negare, di non reagire, e mi trovo spesso nella condizione di dover ripetere che la realtà è che uno stato ne ha aggredito un altro. Un’altra narrazione dominante è che Putin si sia radicalizzato solo negli ultimi anni, ma non è vero. Di recente, ad esempio, in Lussemburgo ne ho discusso con Jean-Claude Junker, che mi ha detto che nel corso delle discussioni Putin era una persona affabile. Io ho ribattuto che quando c’è bisogno di trattare, lo sono tutti. Da questo punto di vista l’Unione Europea deve ricominciare da capo, mostrare chiaramente che cos’è l’Europa, quali sono i suoi valori.
La casa editrice Miraggi sta traducendo in italiano il suo ultimo romanzo, Ore di piombo, che riflette l’attuale situazione della Cina ed è caratterizzato da uno sguardo molto preoccupato nei confronti del nuovo imperialismo russo.
Il piano di dividere l’Europa è, nel caso di Putin, molto evidente, lo dimostra tutto il lavoro della propaganda, che ha ricevuto un aiuto molto consistente dalla pandemia. Ingenuamente molti hanno pensato che peggio di così sarebbe stato impossibile. Uno dei problemi principali è rappresentato dall’incapacità assoluta di comprendere che cos’è il totalitarismo, una situazione che sono contenta di aver vissuto sulla mia pelle. A questo proposito mi viene sempre in mente un episodio che riguarda mio padre. Una persona gentile e tollerante, ma ricordo di averlo visto fuori di sé, nel 1986, in occasione di una visita arrivata dalla Germania ovest. I suoi conoscenti erano entusiasti di quello che vedevano, Praga magica, la birra che costava poco, tutto costava poco, e non riuscivano assolutamente a comprendere che cosa fosse il totalitarismo e mio padre non era riuscito a spiegarglielo. E ho l’impressione che sia esattamente quello che accade adesso, quando uno va in vacanza in Cina o in Russia non capisce che il totalitarismo non è un qualcosa che si vede a prima vista, che si trova in mezzo alla strada. Anche gli intellettuali hanno fallito, pensiamo solo a quanti giornalisti sono morti in Russia negli ultimi anni, non si tratta certo di una novità. Odio l’espressione “dobbiamo guardare alla situazione dal punto di vista geopolitico” e replico sempre che invece la situazione va osservata dal punto di vista umano, cosa è concesso e cosa è proibito alle persone nei singoli paesi. All’inizio credevo che l’Occidente fosse ingenuo, noi in fondo abbiamo fatto l’esperienza sulla nostra pelle e altri no, e alla fine noi dell’Est sappiamo molto più dell’Ovest di quanto all’Ovest sappiano di noi, ma poi ho capito che non si tratta di ingenuità, dovremmo usare la parola: ignoranza. La maggior parte delle persone vuole solo mantenere il proprio benessere, il proprio modo di vivere consumista.
C’è stata una reazione molto differente nei confronti dell’invasione dell’Ucraina in Italia e nella Repubblica ceca, dove chiaramente già nel 2014 si era riattivato il ricordo dell’analoga invasione della Cecoslovacchia nel 1968. Negli ultimi anni la politica ceca non aveva dato il meglio di sé, secondo lei qual è la causa di questo cambiamento?
Lei sa bene che sono temi di cui ho parlato più volte. Certo, questo è tutto vero, il cambiamento è iniziato l’anno scorso, la prima reazione forte c’è stata nei confronti della palude politica in cui ci avevano gettato esponenti di primo piano, dal presidente Miloš Zeman all’ex presidente del consiglio, un oligarca che aveva forti legami con i servizi segreti prima del 1989, Andrej Babiš. Evidentemente avevano superato il limite perché non hanno vinto le elezioni, questo significa che abbiamo un governo diverso. Poi naturalmente l’Ucraina è molto vicina. Comunque non mi farei troppe illusioni. Di ucraini qui ce ne sono stati moltissimi anche in passato, purtroppo spesso brutalmente sfruttati. La solidarietà è quindi legata, oltre alla loro presenza qui, soprattutto al fatto che è un pericolo che riguarda anche noi, perché è una situazione che abbiamo già vissuto con l’occupazione del 1968. Ed eccoci di nuovo al discorso della lingua, ora si parla di “operazione speciale”, da noi si parlava di “aiuto fraterno”. E poi l’esercito russo è rimasto qui per tutto il tempo. Questo significa che il nostro spazio geografico ha sperimentato il pericolo rappresentato dalla Russia o dall’Unione sovietica, la mentalità ci è purtroppo ben nota. Ogni volta che hanno l’impressione che uno di questi piccoli paesi si comporti in modo anomalo, intervengono militarmente. È il tipico modo di fare delle grandi potenze. Come ha detto una volta Putin, l’Unione europea è composta da nani, il che dimostra che non ci prende troppo sul serio. Poi giocano un ruolo importante molti altri fattori, basti pensare alla crisi migratoria, quando non abbiamo accolto praticamente nessuno. Stavolta ho invece l’impressione che le persone capiscano la situazione, mentre allora nessuno capiva perché fosse giusto dare asilo ai siriani, che scappavano anche loro da una guerra. Ora il governo comunica in modo chiaro, analoga è del resto la situazione anche in Polonia, un altro paese che un tempo ha rifiutato i migranti e oggi è a capo di questa ondata di solidarietà.
La situazione si è in parte rovesciata, ora si tratta di una storia molto meno comprensibile in Italia, paesi lontani, dalla storia troppo complessa, che parlano lingua insolite e simili tra loro…
Penso che lei abbia ragione, per noi qui è molto forte la sensazione che anche noi potremmo andare a finire così, lo sentiamo come un serio pericolo. Io faccio sempre esempi forti, la Germania che invade l’Austria o Putin che invade l’Italia, per verificare se anche in questo caso avrebbero luogo le stesse discussioni. Spesso invece sembra che molti, invece di voler prima di tutto fermare Putin, lo vogliano quasi aiutare, comprendere, se non addirittura scusare. Molti potrebbero semplicemente dire: abbiamo sbagliato, ci scusiamo. E invece è come se volessero togliersi ogni colpa. Ma ormai è comunque tardi, non c’è altro modo di fermare Putin che quello militare. E sarebbe davvero importante che l’Occidente ascoltasse quello che ha da dire chi ha fatto esperienza dell’enorme quantità di menzogne, manipolazione e brutalità che sta accompagnando ora anche la guerra in Ucraina.
…Un merlo canta al centro del silenzio
Un merlo canta falso nel silenzio accecante
(M.L.Colasson)
SFUMANDO ORIGANO ADATTARONO GLI ALLUCI A CELLULE PIRAMIDALI
Ci fu una sommossa al largo del pomodoro.
Uno di quei merli lasciò il brodo vegetale
E venne a dirci il lato oscuro dello Chef.
Noi credemmo fermamente di rivoltare l’asse della terra
ma non ci riuscì di girare quello da stiro
e i pantaloni se ne andarono sgualciti per le ciabatte.
Scomparve l’io come lo zar di Russia
Su lui scivolò il Logos e lo stagno germinò zanzare
Al Ragù il comando del microonde
e finalmente il sapore della storia servita al dente.
E’ così grasso il Donbass che si scioglie sotto i colpi del vapore.
A picconate credo, di sale e pepe.
Senza lo SPID l’alveare divenne inaccessibile.
La regina morì con un colpo di rivoltella
a cui preferì l’impiccagione sull’uscio di casa.
Tramortite dall’ aglio le principesse cedettero al pesto.
Bastò un pestello che l’universo girasse in un mortaio.
Non toccò le sacre vie dell’incenso
Ma segni inequivocabili di piacere.
Eugualemmecidue è scritto nei Mcdonald
Ma si sfuma a vodka e recidiva yersinia.
Uno scorrere di spaghetti nel Grand Canyon
Accompagnò lamenti di pizza al crematorio.
(F.P.Intini)
La frase di Lacan: «Io mi identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto»,1 Francesco Paolo Intini la volge nel modo seguente: «io mi dentrifico nel linguaggio, ma solo perdendomici». L’Io di Intini è veramente perduto nel linguaggio, l’io c’è ma dentrificato in un inestricabile labirinto di parole incomunicabili dove tutte le parole e tutte le connessioni tra le parole sono possibili in quanto perfettamente dentrificate (e non identificate). Ne risulta il caos delle parole finalmente liberate dall’io plenipotenziario. Ma nel caos c’è un ordine ci dice Lacan ed è l’ordine del linguaggio. E ricadiamo sempre nel medesimo punto: il linguaggio è inconscio nel momento in cui il processo di dentrificazione si è completato. L’inconscio parla, parlerà ma obbedendo alla sua struttura che è inconscia. A differenza del surrealismo che intendeva pescare nell’inconscio con un atto di volontà delle parole in libertà, qui è l’inconscio che, una volta dentrificato, produce le parole e le connessioni tra le parole in modo simultaneo e permanente, qui non c’è nessun atto di libertà, ovviamente si tratta di una permanenza impermanente, aleatoria, una permanenza sottratta alle parole ma che le parole inseguono seguendo le misteriose leggi della struttura linguistica inconscia: una lalangue che procede sempre per la sua dritta via.
Dentrificare le parole significa questo: qui c’è un vuoto, lo devo riempire a tutti i costi; allora prendo le parole di qua e di là, le acciuffo e le ficco in quel buco che contiene il vuoto, e ne metto sempre di nuove; ma il buco rimane, riesce sempre di nuovo con il vuoto al centro del buco che richiede di essere riempito, e allora ne metto altre di parole, le ficco dentro, così costipate da non lasciare nessun varco tra di esse, le stipo e le costipo in modo da turare il buco, da riempire il vuoto che balugina, che riesce sempre di fuori. Ma invano. Allora scatta la pulsione compulsiva: metto sempre di nuovo nuove parole nel buco nel tentativo disperato di riempirlo…
J. Lacan op. cit.
POESIA QUANTISTICA O RELATIVISTICA?
POESIA EXTRA-QUANTISTICA O EXTRA-RELATIVISTICA?
POESIA MECCANICA O EXTRA-MECCANICA?
POESIA ECC. ECC..
Risposta: Poésie Diaphanique!
Le choses de la vie di Marie Laure Colasson è un libro poetico in stile kitchen nel quale, accanto a un impiego diffuso e sapiente della forma-poesia in distici, (con tutto ciò che per lungo tempo si disse, sul distico, su svariate pagine de L’Ombra delle Parole), un decisivo ruolo giocano due categorie fondamentali della poery kitchen: l’interferenza e la procedura serendipica.
Lucida è la nota di lettura di Edith Dzieduszycka, avvantaggiata dall’avere anche lei, Edith, come Milaure Colasson, come lingua madre la lingua francese. Eredia farà a lungo parlare di sé, non soltanto negli ambienti della poesia. Gli avatar, i simulacri, i sosia, gli oggetti parlanti, Lilith che si getta nel Gange sapranno fare il resto, con “l’uovo in camicia e farfallina” (pag. 103) che “si altera con il poeta Gino Rago e con il critico Linguaglossa/ a proposito della poetry kitchen…”. E qui la peritropè della Colasson ( segnalata nella nota critica in retrocopertina del libro da Giorgio Linguaglossa ) tocca il suo acme.
Come Picasso, “Io non cerco, trovo”. È così anche per tanta pittura astratta; magari una idea di partenza c’è, ma poi è il caso, o la volontà di continuare, perché il risultato lo scopri alla fine… Procedere senza troppa immaginazione preserva dalle delusioni, specie in poesia. Tra l’altro è estremamente faticoso inseguire immaginazioni, obbligare le parole a servire l’immagine… mi sembra innaturale per un/a poeta. Voglio dire, quando càpita, e l’immagine è bella intrigante, ecco, è il momento per farne a meno. Questo se si vuole abitare il vuoto, senza alcun appiglio.
a proposito della POTENZA
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La terra bruciata della mia ragione fu insolente col cielo,
esiliai in un altrove la potenza della mia immaginazione.
1976
Allontanate da me ogni diniego di potenza,
quel calice che penetra la mia carne.
1994
Mi vietate una ferita naturale e una nudità mortale!
Un corteo volevo solo di sommesse ali, non rosari velenosi,
non preghiere servili come forzate istanze a quel Dio estremo.
Non ho più bisogno della tua onnipotenza priva di vertigine
1999
Temo il ritorno di una notte eretica
e ascolto solo l’impotenza della mia visione.
L’attacco a un cuore amato non è un’istanza,
né un compenso se piombato da merletti.
2003
fattura che si disfà e a se stessa s’abbandona…
ma la soglia vigila un sangue di potenza
contro il finto specchio d’una fantesca in lacrime.
2005
Amo la parola che nel mio cervello
non abbia nulla di divino
e nemmeno il sangue infetto delle loro fedi!
Non un simulacro visibile o invisibile
e nemmeno la potenza infame delle loro infallibilità!
2006
Mai ho ammesso una differenza tra essenza ed esistenza,
ho sempre simulato e dissimulato l’atto e la potenza.
2006
La mia forma se ne va, sono stato atto, resta la mia potenza!
2006
Hai avuto tanto tempo per odiarmi, prima…
e tu scambiasti per vera fede l’assalto della mia potenza!
2007
Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati
e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata
con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,
la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.
2008
Finzione matematica, disincanto del numero,
gioia dell’Ordine barbarico…Zero Cardinale,
la Poesia è vera e non si dimostra: è furore dello sguardo!
È fantasia di una potenza che ha numeri reali,
2011
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GRAZIE PER AVER LETTO E AVUTO TANTA PAZIENZA
Ricevo e pubblico il commento di Lidia Popa:
《les choses de la vie/le cose della vita》di Marie Laure Colasson – corto approfondimento di lettura
di Lidia Popa
L’impatto con la poesia francese contemporanea di Marie Laure Colasson, non è una sorpresa per me come lettore, la scioltezza del linguaggio espressivo è molto distaccato dall’io presente nella poesia italiana ed europea. Come struttura espressiva appartiene molto all’ontologia estetica contemporanea specifica nella poetica canadese e americana. Un’impronta strettamente legata all’educazione letteraria francese soprattutto dal punto di vista della storia della letteratura, che non lascia le ombre volteggiare in anonimato, anche se dal punto di vista storico abbiamo ben altri esempi oscuri.
Se avessi letto senza incontrare la signora Colasson l’intuizione mi portava di fronte un’autore di elevata formazione culturale universale senza alcun dubbio sull’onestà intellettuale. Non è una poesia studiata al tavolino da un poeta esperto, si vede invece lo sguardo dell’artista – pittore che inquadra il soggetto prima di tracciare i contorni, ti invita con leggerezza studiare e ritornare per approfondire la tecnica ed il mixaggio della raffinatezza della raffigurazione.
La polvere lunare invade l’atelier di Francis Bacon
si spande sui pennelli i tubi da pittura
rimasti aperti la poltrona malferma le tele
appena iniziate poi penetra nella sala da bagno
per farsi una doccia incipriarsi il naso
Eredia e la bianca geisha salgono su Sophie
Sophie sale sull’aereo per osservare
la luna i suoi crateri la sua acqua liquida
la sua delirante vegetazione installano le loro sdraie
prendono il sole senza abbronzarsi
ascoltano l’alto sax
di Cannonball Adderley il quale suona
“Arriving soon”》
Riporto anche un secondo frammento per esemplificare il fatto che la poetessa Marie Laure Colasson è impeccabile nelle sue tracciate sulla tavolozza di una chiarezza senza insinuazioni superflue della visione che spazia il mondo culturale in ogni punto cardinale.
《I cavalli di legno del Parc Montsouris
un volo sotterraneo con Mistinguette
cavalcano con due ippogrifi
Eredia litiga con lo Star Bus
prende un aereo a Trafalgar Square
e atterra a Sorrento sotto la pioggia
Tzara non ha la sifilide
delle teste di spillo per i poeti che mangiano fragole
Le pale eoliche della Basilicata
sono la digestione della carta da lettere di Proust
Per uccidere l’aria marina degli oceani
vale di più un revolver
che la croce di guerra di Louis Aragon
La bianca geisha in Rolls Royce
un ragno trasparente le tiene la mano
per attraversare la rue Mouffetard a tutta velocità
Le correnti d’aria sono del tutto utili
per la diversità del colore degli occhi
Due elefanti velati pipa in bocca
s’installano sui cumuli in cielo》
Nel libro di poesia bilingue fracese/ italiano di Marie Laure Colasson 《les choses de la vie/le cose della vita》il lettore troverà cento pagine di autentica poesia francese contemporanea da contemplare, analizzare e ricomporre al proprio piacimento sfogliando i veli e scoprirne un’autentica MUSA. Consiglio di leggere agli esperti letterari, e studiosi del linguaggio espressivo semplificato come una fonte di nutrimento veritiero senza nulla di artificioso.
Lidia Popa
Stoke-on-Trent
Inghilterra
20 luglio 2022
ringrazio Lidia Popa che ha saputo leggere la mia srittura con impegno e consapevolezza .Il suo commento ha saputo vedere la negazione del io e la mia scelta di leggerezza per profondità come diceva Nietzsche .
Sto leggendo proprio in questi giorni Les Choses de la vie e mi ritrovo perfettamente allineato con i commenti degli amici che mi hanno preceduto.
Senza ombra di dubbio, la poetica di Marie Laure Colassom è un esempio di straordinaria incisività di poetry kitchen e di un possibile paradigma di una nuova ontologia estetica in poesia.
Marie Laure riesce a licenziare definitivamente non solo l’Io, con tutte le sue gibbosità espressive e le sue contorsioni ipostatiche, ma con esso l’intero mondo del significato convenzionale, per lasciare spazio al vuoto, a quel contorno indefinito della realtà circostante in cui rinvenire la sua autentica cifra ontologica.
La sua capacità – come già evidenziato – di saper coniugare elementi surrealistici portandoli al di là di qualsiasi componente di sperimentazione intenzionale per spingerli in quel terreno quasi pre-analitico, pre-conscio che è il laboratorio Noe (Nuova Ontologia Estetica), è un valore aggiunto non indifferente che caratterizza la costruzione poetica di Marie Laure Colasson, al tempo stesso senza smarrire il gusto per la narrazione.
Mi piace però evidenziare anche il senso di urgenza del “dire” di Marie Laure, di ribadire come le lancette dell’orologio della storia siano ormai posizionate su di un’ora senza ritorno per la nostra civiltà e per la definizione della giusta dotazione di strumenti culturali per la sua decifrazione.
La declinazione storica che ha accompagnato la visione del mondo occidentale lungo tutto il XX sec. è definitivamente defunta, con un capitalismo sempre più finanziarizzato da un lato e dall’altro non più una dottrina che metta al centro i reali bisogni dell’uomo (che a sua volta ha generato delle storture, ma che nella sua formulazione prettamente filosofica ed antropologica fungeva comunque da possibile chiave di interpretazione della realtà storica), bensì un succedaneo rappresentato da un populismo che alimenta gli istinti popolari, ben lungi dal soddisfare le istanze popolari, per alimentare a sua volta gli interessi degli oligarchi detentori del potere finanziario, in una miscela esplosiva i cui esiti non possono evidentemente che essere i Putin o gli Orbán di turno, conducendoci così alla deflagrazione.
In questo contesto è fondamentale – riprendo, modificandola, un’immagine cara a Jacques Le Goff, grande storico della scuola francese delle “Annales”, che sta alla storia esattamente come la Noe alla poesia – che il poeta si trasformi in uno straccivendolo, andando a scovare nei sottoscala della storia, alla ricerca dei reperti, dei frantumi dispersi per poterne ricostruire il senso profondo, sovvertendo le convenzioni semantiche imbarocchite dalla polvere del potere.
La musica ha già fornito degli esempi importanti in questo senso: pensiamo per rimanere solo all’Italia, all’opera musicale di Battiato, Cacciapaglia, Ferretti o di Berio e Nono nella musica sinfonica, solo per fare dei nomi; è giunto il momento che anche la musa poetica fornisca il suo contributo in questo senso e la poetry kitchen della Noe è senz’altro il modello di punta che la poesia italiana possa vantare, grazie all’opera innovativa dei suoi poeti, tra i quali senz’altro Marie Laure Colasson.
Buon ferragosto a tutti, cari amici dell’Ombra.
La ringrazio per il suo commento a proposito “des choses de la vie” e della mia scrittura della Poetry Kitchen , di grande intelligenza .Sarò molto contenta di fare la sua conoscenza a San Basile .
In Brave New World (1932), Aldous Huxley descrive descrive una società umana sottoposta ad un controllo totalitario estetico, emotivo e politico, attraverso tecniche di esaltazione delle emozioni e degli affetti da cui, tuttavia, sono banditi quelli negativi come ansia, sindromi depressive, rabbia, tristezza, angoscia. Gli strumenti di tale controllo psicopolitico sono essenzialmente due: il continuo ricorso al soma – una droga sicura a piccole dosi che consente il mantenimento dell’equilibrio emotivo e la partecipazione a riti «estetico-artistici» come la fruizione di film sensorio-emozionali o la partecipazione a raduni collettivi para orgiastici in cui la droga somatica, la danza, la musica e il sesso si confondono e si fondono. Al di là del suo valore letterario, il romanzo di Huxley cartografa, nelle modalità del genere della distopia, una forma di vita umana quasi completamente ridotta alla sua dimensione estetico-emozionale o, per parlare con categorie più attuali, alla dimensione della «nuda vita», della vita biologica e vegetativa del genere. Oggi viviamo in una dimensione dis-topica e trans-topica, un ibrido mix tra pseudo metafisica (occultismo, pseudo scientismo, movimenti no-vax, no-tax, fake news, verità fai-da-te, verità personali, religiosità regionali, ontologie regionali e provinciali, conflitti regionali, psicopatologie profilattiche, etc.), youporn, yoga e disinformazia. È con questa dimensione ibrida e transgenica che la poiesis oggi deve fare i conti.
Cara Milaure,
ho ricevuto Les choses de la vie, e ti ringrazio.
Comincio dalla tua nota introduttiva sull’identità di genere della poetry kitchen, che ho apprezzato nell’esposizione dei principi basilari della corrente kitchen, “ibrida, fluida, mutevole, instabile, né poesia né prosa”, un genere altamente democratico, idealmente democratico e per questo contagioso e rivoluzionario. Ben detto, cara Milaure.
La poetry kitchen non ha alcuna identità di genere in quanto le medesime si sono confuse, attanti in dinamiche combinatorie, identità aleatorie, avatar, specchìi del vuoto e del nulla, luminescenze effimere.
La poesia di apertura della raccolta e quelle seguenti fino all’apparizione di Eredia, a pag. 33, mi sembrano appartenere ad un arco temporale precedente all’irrompere del kitchen, vi sono tracce del simbolismo come scarti dell’espressionismo, “Lei pugnala il tempo il merlo s’invola”; La stessa Eglantine appare evocativa, la rosa canina, il merlo che canta, sono filacciamenti che ancora resistono alla consapevolezza di dover abitare il luogo non luogo, un luogo non più luogo.
La scelta di non usare la punteggiatura induce alla versificazione per blocchi semantici, “Putrido il declino convulso il tempo” e per aforismi epigrammatici.
In questo contesto, la poesia di pag. 17 mi piace perché trovo in essa un quadro espressionista, melodico fin dal primo verso, “d’une aiguille”, “un autre théâtre”, in modalità kitchen.
Alla radice del verbo citare troviamo i significati di muovere, porre in movimento, chiamare, evocare. Evocare fantasmi. Non sono i fantasmi ad essere fra noi, ma noi ad essere fra loro. Siamo tutti dei fantasmi, degli smart-ghost. Noi siamo la generazione umana che si confronta con il disumano del nuovo millennio, noi siamo stati un tempo umani.
Giorgio Linguaglossa nel saggio L’elefante sta bene in salotto, individua, tra gli altri, uno spazio indicativo dove si colloca la poiesis kitchen, il luogo dove l’origine pulsionale, i desideri, gli auto-inganni, i fantasmi identitari trovano una abitazione comune, per quanto precaria e autocontradditoria, perché non c’è un luogo dove le linee di forza della extimità possano convivere contradditoriamente se non in quel luogo eminentemente autocontradditorio qual è la poiesis.
Le avatar della tua ricerca, Eredia e bianca geisha, hanno il merito di amplificare il livello metaforico facendo leva sulla nomenclatura dislocata, appaiono a intervalli e in luoghi non luoghi diversi, si caricano di simboli, diventano fantasmi nel senso lacaniano del termine, la parte sommersa resa impossibile dal discorso dell’inconscio. La poesia n. 15 di pag. 43 è un ottimo esempio di come la parte sommersa che si cela in qualche non luogo del nostro inconscio, si manifesta in discorso conscio. La simbologia sessuale, l’incontro tra i due, Eredia e Scipione, fanno da pre-altare all’uscita dal quadro di Vermeer, le antinomie sono a cascata, “cappello rosso, amazzone, stallone”, corre un sottile filone seduttivo, i salti temporali sono in questo caso introdotti da un élixir artigianale e se ne vanno propriamente per conto proprio: “Senza potere le parole galleggiano”.
Sembra che Milaure dica, guarda un po’ che le cose della vita possono andare anche diversamente da come te l’aspettavi.”
Ferruzzano, 22 agosto 2022
Giuseppe Talia