Ermeneutica di Letizia Leone
I testi di ‘Lettera morta’ (Mario Lunetta, Lettera morta, Fermenti, Roma, 2000) furono composti più di venti anni fa ma sconcertano alla lettura per l’aderenza quasi cronachistica all’attualità, ai fatti dei nostri giorni, al momento storico che ci coinvolge e travolge. Soprattutto alcuni qui riproposti dalla sezione “Area di contagio”. E ciò è più sorprendente pensando ad un tipo di “poesia critica”, praticata instancabilmente da Lunetta, una sorta di “meditazione sulla vita offesa” a colpi di invettive, polemiche e ironie disarmanti, o per meglio dire umorismo «nero, iroso, sinistro» per usare la definizione di Marcello Carlino. Un pensiero critico che marcando porta a porta fatti e contingenze, si pone in apparente contraddizione con la lucida consapevolezza del poeta di riconoscere il fallimento di ogni estetica dell’impegno.
La Lettera morta è un’attestazione di impotenza della scrittura e della sua devalorizzazione nella babele dei linguaggi mediatici, là dove la poesia, rotolata dal suo scranno, viaggia attraverso il villaggio globale per riduttive ridondanze sentimentali e pubblicitarie. Il disincantamento conseguente, così come la débâcle di classe dell’intellettuale engagé, non limitano e non indeboliscono la posizione forte di responsabilità nei confronti della società e della storia di Mario Lunetta.
In particolare come si legge dalle postille al libro, «area di contagio è stata realizzata, con tetro andamento da danse macabre, tra l’aprile e il luglio del 1999, sulla spinta del rifiuto e dell’ira per l’aggressione NATO alla Serbia, spudoratamente pretestuosa e imperiale.» Sebbene questi chiarimenti dell’autore collochino in una sfera di occasione ideologica i testi, ne risulta quale dato portante la demistificazione dell’io, la sua ridefinizione storica in una dimensione sociale (e umana) che pare non offrire alcuna possibilità di redenzione o riscatto. La mostruosa deriva antropologica della società delle merci e l’ipocrisia del potere politico rendono pura illusione utopistica ogni idea di progresso morale e civile. I testi della prima sezione ‘Per leggerezza’ sono spaziosi, articolati in lasse prosastiche, e convocano sì autorevoli spiriti del passato, ma soprattutto i propri contemporanei, scrittori, poeti, intellettuali, papi o politici come Andreotti. Testimoni, osservatori polemici o protagonisti dell’appiattimento della Storia nella ferrea morsa di un ipercapitalismo mondiale. La poesia “3 gobbi”, ad esempio, fu rifiutata da due prestigiosi quotidiani dell’estrema sinistra italiana, ne scrive Lunetta: «Questa poesia è nata sull’indignazione e la tristezza politica per le vicende connesse all’incredibile Andreotti story, vera e propria allegoria del DNA dell’Italia, che sempre più si conferma parodia di un paese che non c’è mai stato.» Inoltre la potenza dell’occhio sarcastico del poeta rende nettamente visibile il triangolo sbilenco di una «metafisica della prigione» dove si consumano i destini illustri di tre gobbi: Leopardi, Gramsci e Andreotti, legati ad un fato italico irridente e maldestro.
Il libro è sigillato da una nota d’autore che chiarifica quale energia ne alimenti la macchina testuale: «Questo piccolo libro è composto di schegge impazzite. Vorrei solo che vi si leggesse almeno l’ombra dell’invincibile disgusto per la quasi totalità di quello che si usa chiamare, con un’immagine troppo generosa, umano consorzio: per la sua ridicola bassezza, per la sua ridicola violenza: conseguenze di un ibrido mostruoso, derivante dal rifiuto orgoglioso di quanto di meglio è nella natura animale di cui l’uomo, stupida preda dei preti di tutte le religioni, continua da millenni a vergognarsi.»
(Da “Area di contagio”)
Inverosimile secolo
Inverosimile secolo. Anche gli insetti, infimi
Tra gli infimi, hanno difficoltà a sopravvivere.
Viviamo una vita fossile. In me la sola forma di energia
È l’ira. Tutto è radioattivo. Ognuno ha perso
La propria ombra.
Si cammina per le strade come su pareti
glaciali di grattacieli. Qualcuno fuma di nascosto
sigarette che, è risaputo, producono “collateral damage”,
come i bombardamenti degli F15 o la furia degli “Apaches”.
Gli specchi ridono di noi. I pipistrelli
ci disprezzano.
Si continua a fare dei film che –direbbe il vecchio Krauss –
mostrano soltanto la nostra “indicibile infamia”.
Con la malafede cultural-politica si allestiscono
confezzioni “sweet” o “salty”. Il mondo crepa
Tra singhiozzi e ululati: è solo un lupo ubriaco.
Chi mi chiama? Mi sta chiamando qualcuno? Da dove?
Da un secolo fa? Dal prossimo maledetto millennio? Mentre
tento di dormire? Mentre mi chiudo in cantina, invitato
a un party di topi?
Non voglio più deglutire. Il respiro comporta
Una responsabilità schiacciante. La morte è una pretesa
costosissima. Credete che io sia un demonio: mon dieu ragazzi,
ma se non sono che la copia malriuscita
di un angelo sciocco, che una volta cantava nei nights, e
pensava di essere immortale. Il povero idiota
dalle cravatte sprezzanti. Lo scemo del villaggio globale
in mocassini Clark. L’illuso. Il deluso. Che ora
non vede quasi più nulla, nella sua sordità. E nella
sua cecità non sente più niente, o quasi: con qualche ingrata eccezione.
(Aprile 1999)
Nient’altro
Perdo un miliardo di neuroni al giorno:
è un’andata senza ritorno.
Il mio sguardo è sempre più ottuso
Per la lunga attesa, il lungo uso.
Vedo solo questo mondo perduto,
lo vedo desolato, muto.
Ho una discreta voglia di morire:
non ho nient’altro da dire.
(Giugno 1999)
Sogni d’oro
Dopo, solo un po’ dopo, vennero
pattuglie di iene ben inquadrate, guardinghe, con appena
una lieve aria di sospetto. Avevano gli occhi chiusi, come
sigillati di cera. Da sotto le corazze
mimetiche usciva il loro caratteristico fetore.
Leggevano libri di versi, si suppone, ne storpiavano
le parti più imponderabili, i nessi più indigesti
e forse velenosi. Poi, stranite, stridendo,
vi defecavano sopra. Si addormentavano, quindi, facendo
molto probabilmente sogni d’oro.
(7 luglio 1999)
(Da “Per leggerezza”)
3 gobbi
Nella storia moderna di questa nostra Italia, che è
così poco nostra e così profondamente loro (di chi, intendo,
non paga mai dazio e impone gabella, alla faccia
di Gesù bambino infreddolito nella mangiatoia), figurano
3 gobbi di rilevanti proporzioni. Si chiamano
Giacomo Leopardi, Antonio Gramsci e Giulio Andreotti.
I primi due, per tanti versi fraterni, sono assolutamente inapparentabili
con l’altro. Eppure, volendo, su un triangolo tanto sbilenco
si potrebbe costruire una sorta di allegorica Metafisica
della Prigione. L’uomo di Recanati scontò praticamente, senza
battere palpebra, trentanove anni di carcere a vita.
L’uomo di Ales si fece eroicamente undici anni di galera, che
l’aiutarono a crepare come un cane. L’altro, ancora vivo
e vegeto, è stato assolto qualche giorno fa da un tribunale della Repubblica
e gioca a carte con gli amici di sempre. Che Dio lo protegga,
in questo mondo di malandrini. Lunga vita al Senatore. L’Italia
ha ancora bisogno di lui.
(Accademia platonica, ottobre 1999)
L’essenza del riso
Leggo in un’intervista a Günter Grass: “Abbiamo di nuovo bisogno di una letteratura sovversiva”:
(Pro)posizione, invero, seccamente intransitiva, ai limiti della disperazione, mi pare, ancorché
flamboyante. E qualche giorno prima (era bel tempo, faceva un secco freddo aquilano, nei pressi
del castello spagnolo, in compagnia di creature ariose), in un’altra intervista a José Saramago, che
della cecità ha fatto una metafora che non dà scampo: “Le religioni non hanno mai avvicinato gli
uomini, piuttosto li hanno divisi: sono convinto che la vita dell’uomo stia tra un nulla e un altro
nulla, e quando l’ultimo uomo morirà, morirà anche Dio”.
Anni luce fa, durante l’adolescenza, lessi l’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII.
Più di qualcosa non mi convinse, in quel celebre testo; per es., questo passo: “I socialisti
spingono all’odio i poveri contro i ricchi, e sostengono che la proprietà privata deve essere abolita
e i beni di ciascuno debbono essere comuni a tutti (…); ma questa teoria, oltre a non risolvere la
questione, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché
contro i diritti dei legittimi proprietari snatura le funzioni dello stato e scompagina tutto
l’ordine sociale.” Divina ipocrisia. Uso dell’aggettivo “legittimi” da sublime escamoteur.
Oggi (giornata di grasso scirocco romano), press’a poco cento anni dopo, leggo nell’enciclica
Centesimus annus di come papa Giovanni Paolo II, parlando molto vagamente (e con qualche
distrazione di troppo) della “mondializzazione dell’economia”, risolva la questione con un guizzo
di majorette: “Perché, dunque, si attui la giustizia e abbiano successo i tentativi degli uomini
per realizzarla è necessario il dono della grazia, che viene da Dio. Per mezzo di essa, in
collaborazione con la libertà degli uomini, si ottiene quella misteriosa presenza di Dio nella storia
che è la provvidenza”. A parte il discutibile italiano, peraltro perdonabile in un polacco, sento
in queste battute l’eco involontaria di certe irresistibili gags di Petrolini, buttate là da un pulpito
un po’ più elevato di un palcoscenico di varieté con settant’anni di ritardo.
In uno dei suoi famigerati (ma mica sempre folli) radiodiscorsi 1941-43 per il programma
“American Hour” di Radio Roma, Ezra Pound ricorda un antico proverbio cinese: “Quando
la gallina canta è vicina la disgrazia”. È stato buon profeta, bisogna riconoscere: e magari
certe sue profezie (o certi antichi proverbi d’Oriente) valgono anche per l’oggi, in tempi
(fuzzy logic) così tremendamente gallinacei. Quanto a me sottoscritto, poi, mi tengo in tasca
per ogni evenienza un paio di detti buoni. Luis Buñuel: “Grazie a Dio, sono ateo”. E Michelangelo
Merisi, più noto come Caravaggio assassino: “Nessuna speranza. Nessuna paura”.
(Da “Omaggi e memorie”)
Gli eredi
Omaggio a Jorge Luis Borges
Credo che ormai, in questo deserto inenarrabile
Di sprechi programmati, imposture obese e malandre: in questo,
insomma, devastante sisma dell’utopia
che già qualcuno, in un bieco passato italiano, chiamò
strage delle illusioni, ogni scrittore
degno del nome debba contare tutti i granelli di sabbia
(nessuno escluso) – al lume definitivo
di qualche stella remota.
Credo che ogni scrittore, semplicemente, non possa che
dedicarsi alla continuazione ossessiva
della storia universale dell’infamia – nelle caverne
platoniche dove ballano le ombre, nelle campagne, nelle
metropoli mefitiche, davanti agli ultimi frammenti
di specchi opachi, mentre
si apre la voragine: ancora, ancora. Sempre, forse.
Credo che la parola, finzione di un’unica
finzione infinita e definitiva, non spetti oggi ai pallidi eredi
di Pierre Menard, ma soltanto a chi
ne abbia cancellato, con la polvere delle proprie ossa,
l’alone misterioso intriso di complicità
– e l’abbia immersa nello stupore del proprio sangue,
ragionando in silenzio (duramente), sorridendo
(duramente) col coltello alla gola, salutando
cerimonioso Colui che disse di Shakespeare:
“Somigliava a tutti gli uomini, tranne nel fatto
che somigliava a tutti gli uomini”. Chapeau.
(Accademia Platonica, giugno 1999)
Mario Lunetta
(poesia di Mario Lunetta compresa nel volume: Luigi Amendola, Lettera a Telemaco, 2022)
Favola Faina
Chi è mendace commèndasi, poi – ahimé, si stende lungo sul letto o sull’amaca, poi:
càspita, che grugno! – stante che la pioggia, acida di tutti gli spurghi paradisiaci,
niente pulisce più, niente di niente: ma il mendace rammendasi le scuciture della sua
elastica morale: – mentre paventa il vero, e castiga la verità di tutte le sue mende.
Peripezie da cocchiere. Indugi da faina presciolosa: e altro, o altro, altro ancora: in
questa pace invernalissima, di vetri appannati, di languori, di abbandoni carnali
abbacinati in una parvenza di neve. Ma il mendace ora tace, e si avvita la lingua alla
cappa del palato, la disperde nel gorgòzzule a mo’ di stringa o di serpente anzichenò:
e invece, siamo sinceri, a imitazione di coriandolo, sbirciando lividori della luna, e
tastandosi il polso. Ma lì tuona. Qui svaria un’aria bruciata, che sa di carne umana, e
viene chissà da dove.
Chi è mendace commèndasi, in una stretta di mandibola. E lo specchio arrossisce,
contro l’ombra del suo grugno, indecifrabile. Poi: càspita! e Caspio! e caspiterina! –
lì, dentro il gorgo alcoolico che chiamano storia – e gli idranti fanno il loro mestiere,
come le carceri, i dobermann, i fili spinati. Di quanta furbizia ha bisogno il tuo ben
lucidato paradigma? di quanti spocchiosi libercoli? e bavagli? e canne di fucile? –
Ma poi: rivédansi gli ultimi tratti di questa bella favola. Le battutine finali. I puntini
di sospensione definitivi. Il silenzio che segue. nella gora che ribolle di sangue.
Ma su che menti, ormai? Se non ci sono reliquie, e il cifrario s’è oscurato. Se – se- se- se:
semmai, a forza di memoria e di fame di futuro. Quello è il ventilatore, questo il poker. Il match è chiuso. Come gioca l’encefalo, come sventolano le mutandine.
Come il mendace tace. Quindi: arràngiati e muori.
Di famiglia piccolo borghese, Mario Lunetta (1934-2017) nasce e cresce a Roma. Sperimentatore nei più diversi generi letterari e artistici, ha collaborato ai programmi culturali della RAI, a giornali, a riviste italiane e straniere (L’Unità, Corriere della Sera, Il Messaggero, Rinascita, Il manifesto, Liberazione); ha curato importanti antologie (Il surrealismo, Roma, Editori Riuniti, 1976; Poesia italiana oggi, 1981, e, in collaborazione con Franco Cavallo, Poesia italiana della contraddizione, 1989, entrambe edite a Roma, Newton Compton). Ha introdotto e curato opere, tra gli altri, di Italo Svevo, Emily Brönte, Émile Zola, Federico De Roberto, Gustave Flaubert, Dino Campana, Velso Mucci. Sullo stato di salute di certa poesia contemporanea Mario Lunetta scrive:
«La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore. La ideologia attualmente diffusa in gloria di quella recentissima specie zoo(il)logica che sarebbe il poeta da spiaggia o da stadio […] che ‘canta’ al grado zero le sue passioni le sue frustrazioni le sue esaltazioni in versi intrisi di ‘incantevole’ primitivismo semianalfabetico, è l’ultima invenzione del mercato delle lettere (insomma, del mercato) perfettamente omologa al presente del gusto medio radiotelevisivo/rotocalchesco. È l’ultima mistificazione in letteratura, in poesia». E così parla della nuora perché suocera intenda».
Nel marzo del 2013 Mario Lunetta perde Maria Pia, sua compagna per oltre mezzo secolo, e vede la sua luce il Canzoniere della scomparsa, per Robin Editore. Nei 31 componimenti del libro, nello sgomento quotidiano della perdita della compagna, fa i conti, per dirla con il Roland Barthes del Diario di lutto tradotto in Italia come Dove lei non è, con una nuova poetica, la poetica della «presenza dell’assenza»:
Sotto i portici dell’esedra, il refrigerio dell’ombra:
e subito, dipoi, quell’incredibile avvertire accanto a sé,
al suo fianco, un alito di freschezza, un respiro leggero
che era niente e era tutto, nella pace silenziosa
cui finalmente sembrava approdata la Scomparsa
che nel momento in cui il sospetto immortale, ormai morto anche lui,
le rivolse la parola, svanì dissolta nell’aria umida,
come un volo di farfalla – e il defunto supposto immortale si sta
chiedendo da tre giorni dove sia cominciato il sogno, quando
sia finita la realtà, in questa scacchiera di caselle vuote
dove tutto è trasformato nel suo contrario e la via
è soltanto un accumulo di surrogati e succedanei finti.
(da Canzoniere della Scomparsa, Robin Edizioni, Roma, )
Come in questo, anche negli altri 30 componimenti Mario Lunetta non cede mai alla autocommiserazione, al verso intriso di lirismo piagnucoloso e disarmato e un critico letterario per questo atteggiamento di Lunetta di fronte alla morte segnala l’epitaffio di Samuel Beckett: «è finita, continua a finire e io in questa fine continuo» come modello della postura lunettiana di resilienza dopo l’evento morte che da noi stratta la persona amata, e si conferma come scrittore loico, laico, materialista, razionalista, incapace di cedere alla retorica del sentimentalismo e del lirismo strappa-anima o strappa-cuore, scansando tutte le forme di petrarchismo, alzando barriere verso ogni tentazione di “umbertosabismo”, evitando «gli abissi melodrammatici dell’Ego interiore».
Anzi, nei 31 componimenti del suo Canzoniere della scomparsa Lunetta fa di più, fa sparire totalmente l’Io poetante inventando l’espediente estetico dell’« i.s.» che il poeta romano intende e usa in tutto il libro come «immortale sottoscritto». Fa retrocedere l’io alla terza persona e come “ i. s.” il poeta si rivolge a Maria Pia, alla Scomparsa.
Come ad esempio Mario Lunetta fa in questi altri versi del suo Canzoniere della scomparsa:
Pare accertato che di frequente, nella sua corsa immobile
sul binario dell’angoscia come un carrello senza guida
che giri intorno a se stesso in una miniera abbandonata, l’i.s.
si rivolga alla sua ragazza a voce alta, chiedendole assenso
& complicità, annaspando nel vuoto del suo delirio in una
pratica ventriloqua di cui pure comprende l’insensatezza ma
di cui può tuttavia apprezzare il povero succedaneo della realtà,
ormai per sempre perduta nel suo nulla senza conforto.
(da Canzoniere della scomparsa, Robin Edizioni, Roma)
Anche per questi aspetti, della vasta esperienza poetica lunettiana, Giorgio Linguaglossa parla di «forma informe» e a tal proposito scrive: «La realtà è diventata muta, impresentabile, e la forma-poesia che le corrisponde risulta dissonante; la forma informe è diventata qualcosa di ultroneo sia al concetto di rappresentazione sia a quello di testimonianza. Lunetta capisce subito, fin dai primissimi anni settanta, che la poesia non deve testimoniare nulla a nessuno, non obbedisce alle regole dell’economia monetaria dello stile e dell’ economia culinaria della bellezza sostenute dai poeti interessati al mantenimento dell’ordo rerum».
(Gino Rago)
Letizia Leone è nata a Roma dove si è laureata in lettere con una tesi sulla memorialistica trecentesca e conseguito il perfezionamento in Linguistica. Ha conseguito studi musicali nella stessa città. Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (Roma, 2000); L’ora minerale, (Perrone Editore, Roma, 2004); Carte Sanitarie (Perrone Editore, Roma, 2008); La disgrazia elementare (Perrone Editore, Roma, 2011); Confetti sporchi (Lepisma Edizioni, Roma, 2013); Rose e detriti (FusibiliaLibri, 2015); Viola norimberga (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018) Premio L’albero di Rose, Regione Basilicata, 2019; Notazioni sui fastidi del sonno (Ensemble Edizioni, 2020). Tra le numerose antologie: Antologia del Grande Dizionario della Lingua Italiana, UTET, Torino, 1998; La fisica delle cose, a cura di G. Alfano, Perrone Editore, Roma, 2011; Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, Giulio Perrone Editore, Roma 2007, dalla quale è stato messo in scena lo spettacolo Le invisibili, Teatro Valle, 2009; “Come è finita la guerra di Troia non ricordo” a cura di G. Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016; Sorridi sei a Nettuno, Fusibilia edizioni, 2018; l’antologia americana How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Edition, 2019, New York. Redattrice della Rivista Internazionale L’Ombra delle parole e della rivista di poesia e contemporaneistica Il Mangiaparole (Edizioni Progetto Cultura), è presente nella Storia della poesia italiana-Dalla lirica al discorso poetico, Roma (2011) e in Dopo il Novecento, a cura di G. Linguaglossa, Società Editrice Fiorentina (2013). Organizza laboratori di lettura e scrittura poetica a Roma.
La poesia di Mario Lunetta aiuta a mitridatizzarci avverso la poesia elegiaca che ha imperversato e imperversa in Italia e in Occidente.
«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità»1 di cui ci parla Maurizio Ferraris corrispondono a quel dispositivo ontoteologico governamental provvidenziale che ha guidato e guida le de-politicizzate democrazie occidentali, il dispositivo del consenso volontario e del soggiogamento spontaneo delle masse alla invisibile Autorità democratica. Quello che lega con un cordone memorial-ombelicale la poesia della contraddizione, targa Mario Lunetta e la mia (nostra), targa poetry kitchen o poesia buffet, è la presa d’atto della liquidazione della tradizione poetica italiana considerata alla stregua di una simil-tradizione e dello psudo stile del lirismo e dell’anti lirismo elegiaci soggiacenti della poesia italiana di questi ultimi decenni che si nutre omeopaticamente di un linguaggio poetico a vocazione maggioritaria.
Penso che valga la pena di riflettere sulla mappa alternativa a quella maggioritaria della poesia italiana di questi ultimi decenni, Mario Lunetta è stato un fiero oppositore delle officine poetiche posiziocentriche di Roma e di Milano, ed è stato messo in sordina e nel dimenticatoio perché poeta scomodo e riottoso ai compromessi con le élites letterarie, il nostro scopo invece è quello di restituire alla storia culturale del nostro Paese il profilo di una poesia di lotta e di opposizione che, in quanto scomoda e ostile alle transazioni, è stata oggetto di silenziazioni e di censure tribali.
Mario Lunetta pensa l’arte come espressione della falsa coscienza dell’arte e dei suoi adepti benpensanti ammaestrati al culto della dea della bellezza e riconduce il problema dell’estetica all’interno di una lettura del conflitto tra le classi e tra i singoli intellettuali i quali prendono posto, consapevolmente e/o inconsapevolmente, presso una delle due parti in lotta. Il poeta romano pensa l’arte materialisticamente come praxis entro le strutture ideologiche postmoderne portatrici del destino storico della crisi della cultura occidentale come crisi della tradizione. La bellezza estetica, teorizzata nella modernità come epifania mistica e inafferrabile, fa sorridere di scherno il poeta romano il quale capovolge il piano di lettura della crisi dell’arte ammaestrata investendo con scherno derisorio i suoi rappresentanti, insulsi salariati al soldo della borghesia finanziaria e immateriale che detiene i quattro quinti della ricchezza del capitalismo globale.
Agamben ha scritto nel 1970: «Ogni grande opera contiene una parte d’ombra e di veleno,contro la quale non sempre fornisce l’antidoto». In un certo senso, l’opera poetica di Mario Lunetta, nel suo insieme, fornisce un formidabile antidoto contro la poesia ammaestrata degli ultimi decenni. Aiuta a mitridatizzarci avverso la poesia elegiaca che ha imperversato e imperversa in Italia e in Occidente.
1 M. Ferraris op. cit.
Questo di Lavrov è un magnifico esempio di ragionamento kitchen!
sketch poetry in onore di Mario Lunetta
Prima di papparsi la marmellata del poeta Mario Lunetta di via Accademia Platonica 37
il pipistrello aprì la porta d’ingresso
C’era il poeta Gino Rago
con una torta ai mirtilli, lamponi e shrapnel al fosforo bianco
Dopo finito di ingurgitare anche il gorgonzola di entrambi i poeti
il pipistrello si guardò allo specchio:
Vide il pappagallo Gazprom che si lavava i denti con il dentifricio Pepsodent plus antiplacca
e diceva:
«This is the best product in the world!»
Acuto e divertente quando si fa argomentativo. A volte picchia sui tasti, ma è la sua misura. Si portava appresso un bagaglio che alla NOE abbiamo accantonato, lo si ritrova anche in versi qui riportati. Come poeta, non eccelso (infatti, quel picchiare sui tasti…). Ma è l’ultima consegna di un’epoca di gente accorta e preparata, oltre che di coraggiosi. Sono gli strumenti, sembrava impossibile che si potessero dismettere.
caro Lucio,
Mario Lunetta fa poesia nell’età del soggetto postedipico e della caduta delle ideologie «forti», in lui c’è ancora una tensione frastica e ideologica, una ideologia impregnata da una visione marxista classica, noi facciamo parte di un nuovo corso storico che ha dismesso (o crede di aver dismesso) le ideologie (forti e deboli) e siamo approdati ad un post-soggetto serendipico, che è una cosa ancora tutta da vivere e da scrivere, inoltre ci stiamo affacciando proprio in questi giorni ad un nuovo mondo, un nuovo equilibrio dei poteri delle superpotenze per la spartizione del pianeta: Cina e Russia che vogliono defenestrare la «vecchia» superpotenza degli Stati Uniti e dei suoi alleati…
L’objet petit a si configura come un puro vuoto che funziona da significante
dell’oggetto-causa del desiderio, come ciò che inizialmente fa azionare il desiderio senza fondamentalmente rappresentare nulla. Accade che il soggetto vada alla ricerca dell’oggetto piccolo a, ma, invece di trovare l’oggetto che cercava ne trova un altro, diverso, inaspettato. È questa la caratteristica della procedura serendipica: si cerca un oggetto e se ne trova un altro che non ci aspettavamo. Una mia amica che impazziva per Marlon Brando una volta è andata a vedere gli western all’italiana di Sergio Leone e si è innamorata di Clint Eastwood. La vita quotidiana e le attività umane tutte rispondono al medesimo concetto: l’inaspettato conferisce un nuovo significato al vecchio, e il vecchio si presenta con un nuovo volto (irriconoscibile)
Problema serio è come rasserenare poeti giunti a fine mandato di un’epoca, risolvergli il problema di svolta metafisica.
Il vuoto in loro presenza sa di sconfitta… non viene inteso come opportunità. Sospetto che le teorie su vuoto e nulla siano proprie del fine percorso, al punto che la questione sembra farsi esistenziale.
Per la NOE il vuoto è nella prassi, se ne può fare convintamente l’esperienza e appartiene al metodo. Così che sia visibile… e a volte non bastano disfanie, se affastellate con l’angoscia di riempire, riempire…
Detto questo però la poesia di Lunetta mi piace perché mossa da grande intenzione, quindi induce a scrivere. Non accade tanto di frequente.
Caro Giorgio Linguaglossa, condivido la tua scelta di riproposizione dell’opera lunettiana, con l’acuta ermeneutica di Letizia Leone.
Io arruolerei Mario Lunetta nella ricerca poetica della poetry kitchen sia perr le sue idee di spazio e di tempo, sia per i procedimenti serendipici che caratterizzano certi suoi testi: anche Mario Lunetta entra in un laboratorio alla ricerca di qualcosa e ne trova invece un’altra.
Ripropongo un mio contributo sul mondo lunettiano estraendo un mio lavoro dal numero della rivista Il Mangiaparole che di Mario Lunetta si occupò nella rubrica “Ritratto d’autore”.
Gino Rago
Mario Lunetta, una poesia da “Canzoniere della scomparsa”, Robin Edizioni, Roma – 2014,
Mario Lunetta, Roma, 1934 – Roma 2017
Partiamo da questo inedito (da lombradelleparole.wordpress.com, dicembre 2019) per noi scelto e proposto da Giorgio Linguaglossa per entrare nella poesia pensante di Mario Lunetta per poi approdare alla lettura delle poesie In mortem di Maria Pia Liti, scomparsa nel marzo 2013.
Cartapesta
Continuando ad abitare la sua casa di cartapesta
di via Accademia Platonica come una parodia
della pompeiana Villa dei Misteri, aggredito alle spalle
da un fastidioso nùgolo di alfabeti remoti
grezzamente affastellato sotto la pioggia o sotto l’urto
glorioso della luce contro l’azzurro del cielo o il deserto
ingiallito di un foglio di papiro, il respiro di un’aquila
o la fuga precipitosa di una formica, il supposto
immortale esce dal suo torpore per cercare
ingenuamente il vessillo lacerato di quella che si chiama
scrittura Lineare B
imbattendosi invece alquanto oziosamente
nella futile notizia secondo cui il cobra reale, lungo
intorno ai 5 mt, ha una lingua biforcuta sensibilissima
all’odore molecolare delle prede e una vista telescopica
capace di individuare a 100 mt con estrema precisione
uno scoiattolo che tenta di mimetizzarsi a ridosso
del tronco di un olmo americano, ecc. ecc.
Alquanto frastornato, il supposto immortale
non sa allora trovare altro conforto che pronunciare
a voce alta, specchiandosi in un olio di Cagli
tanto simile a un oscuro geroglifico gremito
di spazi inenarrabili, questo SOS che ha tutta l’aria
di un help pronunciato un attimo prima del naufragio:
Via, tenera amica, guarda ancora l’immortale
che conosci così bene: sì, proprio lui che a stento
ricorda il suo nome.
Se lo fissi un istante coi tuoi grandi occhi di ragazza
pieni di stupore cinematografico, quest’uomo strano
e incomprensibile forse potrà guarire ancora un poco
– o ritardare di un istante la sua fine.
(Roma, 15 aprile 2017)
Recensendo di recente le Poesie di Carlo Michelstaedter per la Piccola Biblioteca Adelphi, a un certo punto della recensione meditavo cosi:
«Quali fenomeni linguistici possono proporsi o semplicemente affacciarsi nel far poesia allorché una più o meno lunga tradizione letteraria e anche un intero sistema stilistico cadono d’un tratto in frantumi determinando un vuoto? Tale vuoto nasce da un qualcosa dentro la letteratura o al di fuori di essa? Questo vuoto può dar luogo all’avvento di nuovi linguaggi? Al mutamento della società cambia anche la vita stessa delle persone, la conseguenza inevitabile è la rottura di quello che viene indicato come “patto comunicativo” fra poeta e pubblico, allo sgretolarsi di questo patto si assiste alla rottura di quella sorta di comunicazione fra autore e pubblico. Ciò è quanto si è verificato anche nel Novecento letterario europeo e anche italiano dopo la scomparsa di coloro che vengono definiti Autori-Evento, Autori cioè che con la loro opera (per esempio Baudelaire, Whitman, Dostoevskij, Rimbaud, Nietzsche, Freud) spezzano l’accordo preesistente letteratura-pubblico e niente più, romanzo, estetica, filosofia, poesia, rimane come prima. Per esempio, in Italia, Dino Campana (morto in manicomio) è il poeta che segna l’interruzione della continuità del “patto comunicativo” cui si è fatto cenno. Con Carlo Michelstaedter, morto suicida ad appena 23 anni, questa interruzione si rafforza e diviene definitiva […]».
Con le parole di Linguaglossa, Lunetta era acutamente consapevole della «non presentabilità né rappresentabilità del mondo in poesia»; basta leggere i suoi versi:
il supposto immortale
non sa allora trovare altro conforto che pronunciare
a voce alta, specchiandosi in un olio di Cagli
tanto simile a un oscuro geroglifico gremito
di spazi inenarrabili, questo SOS che ha tutta l’aria
di un help pronunciato un attimo prima del naufragio:
Via, tenera amica, guarda ancora l’immortale
che conosci così bene: sì, proprio lui che a stento
ricorda il suo nome…
Penso che Mario Lunetta aveva tutte le carte in regola per essere un autore in grado di spezzare il patto comunicativo preesistente fra poesia e pubblico, in modo che nulla fosse più come prima, nella filosofia, nella estetica, nella poesia, ma anche nella narrativa, nella saggistica e nel teatro, da quell’autore poliedrico che dimostrò d’essere in tutta la sua parabola terrena umana e letteraria, attraversando da protagonista tutti i linguaggi della creatività, compresa la critica d’arte. Tutti sappiamo invece com’è finita: le superpotenze delle massonerie editoriali meneghine, anche sabaudo-torinesi e anche in parte dello stato pontificio glielo hanno impedito, a favore dell’esangue minimalismo…
Giuseppe Talia traccia un ritratto di Lunetta in questi pochi versi:
(Mario Lunetta)
“Muoiono anche i grandi poeti.”
C’è una lunetta perfetta stanotte.
Una lunetta comunista, anti-arrivista
Che non baratta la contraddizione
Col ghigno marxiano degli accalappiacani
Con la lingua funginosa di villi&villani.”
(Giuseppe Talìa, La Musa Last Minute, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2017)
La sestina condensa felicemente il sentimento di Mario Lunetta, con quella rasoiata «lunetta comunista-anti-arrivista…».
Di famiglia piccolo borghese, Mario Lunetta nasce e cresce a Roma. Sperimentatore nei più diversi generi letterari e artistici, ha collaborato ai programmi culturali della RAI, a giornali, a riviste italiane e straniere (L’Unità, Corriere della Sera, Il Messaggero, Rinascita, Il manifesto, Liberazione); ha curato importanti antologie (Il surrealismo, Roma, Editori Riuniti, 1976; Poesia italiana oggi, 1981, e, in collaborazione con Franco Cavallo, Poesia italiana della contraddizione, 1989, entrambe edite a Roma, Newton Compton). Ha introdotto e curato opere, tra gli altri, di Italo Svevo, Emily Brönte, Émile Zola, Federico De Roberto, Gustave Flaubert, Dino Campana, Velso Mucci. Sullo stato di salute di certa poesia contemporanea Mario Lunetta scrive:
«La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore. La ideologia attualmente diffusa in gloria di quella recentissima specie zoo(il)logica che sarebbe il poeta da spiaggia o da stadio […] che ‘canta’ al grado zero le sue passioni le sue frustrazioni le sue esaltazioni in versi intrisi di ‘incantevole’ primitivismo semianalfabetico, è l’ultima invenzione del mercato delle lettere (insomma, del mercato) perfettamente omologa al presente del gusto medio radiotelevisivo/rotocalchesco. È l’ultima mistificazione in letteratura, in poesia». E così parla della nuora perché suocera intenda».
Nel marzo del 2013 Mario Lunetta perde Maria Pia, sua compagna per oltre mezzo secolo, e vede la sua luce il Canzoniere della scomparsa, per Robin Editore. Nei 31 componimenti del libro, nello sgomento quotidiano della perdita della compagna, fa i conti, per dirla con il Roland Barthes del diario di lutto tradotto in Italia come Dove lei non è, con una nuova poetica, la poetica della «presenza dell’assenza»:
“Sotto i portici dell’esedra, il refrigerio dell’ombra:
e subito, dipoi, quell’incredibile avvertire accanto a sé,
al suo fianco, un alito di freschezza, un respiro leggero
che era niente e era tutto, nella pace silenziosa
cui finalmente sembrava approdata la Scomparsa
che nel momento in cui il sospetto immortale, ormai morto anche lui,
le rivolse la parola, svanì dissolta nell’aria umida,
come un volo di farfalla – e il defunto supposto immortale si sta
chiedendo da tre giorni dove sia cominciato il sogno, quando
sia finita la realtà, in questa scacchiera di caselle vuote
dove tutto è trasformato nel suo contrario e la via
è soltanto un accumulo di surrogati e succedanei finti.”
Come in questo, anche negli altri 30 componimenti Mario Lunetta non cede mai alla autocommiserazione, al verso intriso di lirismo piagnucoloso e disarmato e un critico letterario per questo atteggiamento di Lunetta di fronte alla morte segnala l’epitaffio di Samuel Beckett: «è finita, continua a finire e io in questa fine continuo» come modello della postura lunettiana di resilienza dopo l’evento morte che da noi stratta la persona amata, e si conferma come scrittore loico, laico, materialista, razionalista, incapace di cedere alla retorica del sentimentalismo e del lirismo strappa-anima o strappa-cuore, scansando tutte le forme di petrarchismo, alzando barriere verso ogni tentazione di “umbertosabismo”, evitando «gli abissi melodrammatici dell’Ego interiore».
Anzi, nei 31 componimenti del suo Canzoniere della scomparsa Lunetta fa di più, fa sparire totalmente l’Io poetante inventando l’espediente estetico dell’« i.s.» che il poeta romano intende e usa in tutto il libro come «immortale sottoscritto». Fa retrocedere l’io alla terza persona e come “ i. s.” il poeta si rivolge a Maria Pia, alla Scomparsa.
Come ad esempio Mario Lunetta fa in questi altri versi del suo Canzoniere della scomparsa:
“Pare accertato che di frequente, nella sua corsa immobile
sul binario dell’angoscia come un carrello senza guida
che giri intorno a se stesso in una miniera abbandonata, l’i.s.
si rivolga alla sua ragazza a voce alta, chiedendole assenso
& complicità, annaspando nel vuoto del suo delirio in una
pratica ventriloqua di cui pure comprende l’insensatezza ma
di cui può tuttavia apprezzare il povero succedaneo della realtà,
ormai per sempre perduta nel suo nulla senza conforto”.
Anche per questi aspetti della esperienza poetica lunettiana Giorgio Linguaglossa parla di «forma informe» e precisa:
«La realtà è diventata «muta», impresentabile, e la forma-poesia che le corrisponde risulta dissonante; la forma informe«» è diventata qualcosa di ultroneo sia al concetto di rappresentazione che a quello di testimonianza. Lunetta capisce subito, fin dai primissimi anni settanta, che la poesia non deve testimoniare nulla a nessuno, non obbedisce alla regola dell’economia monetaria dello stile e alla economia culinaria della «bellezza» sostenuta dai poeti interessati al mantenimento dell’ordo rerum».
Gino Rago
Mario Lunetta (Roma, 23 novembre 1934 – Roma, 6 luglio 2017) nasce a Roma. Sperimentatore nei più diversi generi letterari e artistici, ha collaborato ai programmi culturali della RAI e a decine di giornali e riviste italiane e straniere, tra cui L’Unità, Corriere della Sera, Il Messaggero, Rinascita, Il manifesto e Liberazione. Curatore di importanti antologie (Il surrealismo, Roma, Editori Riuniti, 1976; Poesia italiana oggi, 1981, e, in collaborazione con Franco Cavallo,Poesia italiana della contraddizione, 1989, entrambe edite a Roma, Newton Compton), ha introdotto e curato opere, tra gli altri, di Italo Svevo, Emily Bronte, Émile Zola,Federico De Roberto,Gustave Flaubert, Dino Campana e Velso Mucci. Nel2004 ha vinto il Premio Nazionale Letterario Pisanella sezione Poesia e nel 2006 il Premio Alessandro Tassoni alla carriera.
In volume ha pubblicato in poesia:
Tredici falchi (1970); Lo stuzzicadenti di Jarry (1972); Chez Giacometti (1979); La presa di Palermo (1979); Flea market (1983- Premio Pisa); Cadavre exquis (1985 – Premio Adelfia); Autoritratto con acrostici (1987); In abisso (1989); Panopticon (1990), con disegno e lito di C. Cattaneo; Pianosequenza (1990), con acqueforti e acquetinte di S. Paladino; Sorella acqua (1991), con serigrafie di C. Budetta; Antartide (1993); Catastrofette (1997), con un acquerello di E. Masci; Cunnichiglie (1997), con un acquerello di E. Masci; Roulette occidentale (2000), con un disegno di B. Caruso; Doppio fantasma – 91 poesie per 91 artisti (2003); Magazzino dei monatti (2005); Bacheca delle apparizioni, con quattro litografie di L. Boille (2005); Mappamondo & altri luoghi infrequentabili (2006); Nitroglicerina per ermellini, con cinque acqueforti-acquetinte e un rilievo di Bruno Aller (2007); Videoclip, con tre acquerelli e un rilievo di C. Budetta (2007), La forma dell’Italia (2008), Cartastraccia (2008).
Per la Narrativa: Comikaze (1972); Dell’elmo di Scipio Marsilio 1974 – Premio Pisa); I ratti d’Europa (Editori Riuniti, 1977 – finalista al Premio Strega); Mano di fragola (Editori Riuniti, 1979); Guerriero Cheyenne (Manni, 1987); Puzzle d’autunno (Camunia, 1989 – finalista al Premio Strega); L’ubicazione di Lhasa (Camunia, 1993); Mercato delle anime Manni, 1998) – Premio Bergamo); Penalty (Le Impronte degli Uccelli, Roma 1998); Montefolle (Manni-Quasar, 1999); Soltanto insonnia (Odradek, 2000); Cani abbandonati (Odradek, 2003); Figure lunari (Robin, 2004); I nomi della polvere (Manni, 2005); La notte gioca a dadi (Newton Compton, 2008).
Per la saggistica: La scrittura precaria (1972); Invito alla lettura di Italo Svevo (1972); Il Surrealismo (1976); Sintassi dell’altrove (1978); L’aringa nel salotto (1984); Da Lemberg a Cracovia (1984); Et dona ferentes: sindromi del moderno nella poesia italiana da Leopardi a Pagliarani (1996); Le dimore di Narciso (1997); Invasione di campo: progetti, rifiuti, utopie (2002); Liber Veritatis (2007).
Per il teatro: La visitatrice della sera (Radiodramma – Radio Frankfurt); Galateo (Teatro delle Voci); Città proibita (Teatro del Palazzo delle Esposizioni di Roma); Antartide (Teatro Belli di Roma); Gigantografia (Festival Internazionale di Ferentino), Coca-Cola di Rienzo Story (Teatro dell’Orologio); Altorilievo, Poema drammatico (Museo Archeologico di Formia); Arkadia nonsense e Smash (Giugno al Casaletto – Villa Zingone); La forma dell’Italia (Atelier Metateatro); Lunapark (Chiostro di San Pietro in Vincoli).
In volume: Coca-Cola di Rienzo Story, (Book Editore); La mela avvelenata (Cinque dialoghetti blasfemi); Prigioniero politico! (Le Impronte degli Uccelli Editrice).
E’ difficile aggiungere qualcosa all’analisi di Letizia Leone. ‘ Inverosimile secolo ‘ è un testo spietato, possiamo specchiarci nella sua lucidità nonostante i venti anni trascorsi. Uno dei ‘ 3 gobbi ‘ parlava di pessimismo della ragione, alla domanda : e l’ottimismo della volontà? già conosciamo la risposta di Lunetta , ‘ strage delle illusioni ‘. Bene ha fatto l’ombra a riproporre i testi di un grande come Mario Lunetta.
Lo “sketch poetry in onore di Mario Lunetta” allestito da Giorgio Linguaglossa potrà benissimamente adottato come esemplare per l’apertura di un nuovo sentiero nel bosco variegato e complesso della poetry kitchen. Oserei dire che in questo sketch poetry, con pochissime strofe irregolari e ciascuna di esse compiuta, completa, finita, Giorgio Linguaglossa tracciato un solco profondo tra la “chiacchiera” e la “parola”.
caro Gino Rago
Lo “sketch poetry in onore di Mario Lunetta” fa parte di alcune mie composizioni dove faccio uso di un mix di frammenti di linguaggi diversi appartenenti al demanio del mediatico… un po’ quello che tutti noi facciamo da tempo, chi più chi meno. Lo sketch poetry rientra nella poesia kitchen e ne esce da una sua finestra; non c’è nulla di prestabiito nella poetry kitchen, nulla di normativo… ma è proprio questa libertà estrema ciò che mette in subbuglio e atterrisce i poeti normativi e tradizionali che preferiscono la salda positura dei significati, ma è che ci restano ormai soltanto dei frammenti, il mondo si è frammentato così tanto in questi ultimi lustri, ma non è il Male assoluto tutto ciò, è la collisione dei significati glocali e delle narrazioni glocali che generano frammenti glocali, raffreddamenti di parole, non dobbiamo guardare a tutto ciò con nostalgia per il mondo favoloso conchiuso che se ne è andato a farsi friggere… lo sketch poetry è parente stretto del gesto linguistico, un po’ quello che fanno Intini, Mauro Pierno, la Colasson e che fai anche tu, e che fa anche Lucio Tosi partendo da altri presupposti e giungendo ad altri lidi.
Ma la poetry kitchen non è un epifenomeno della antipolitica, piuttosto è la fase finale di un mondo senza più metafisica alcuna.
«Una difficoltà in filosofia è che manchiamo di una visione d’insieme. Ci imbattiamo nello stesso tipo di difficoltà che avremmo con la geografia di un territorio del quale non possediamo mappe, o solo una mappa di singoli posti. Il territorio del quale stiamo parlando è il linguaggio e la geografia è la grammatica. Possiamo percorrere il territorio senza grosse difficoltà, ma quando ne dobbiamo fare una mappa, ci sbagliamo. Una mappa mostrerà percorsi diversi che attraversano gli stessi luoghi; ne possiamo prendere uno alla volta, ma non due contemporaneamente, proprio come in filosofia dobbiamo occuparci dei problemi uno alla volta, sebbene in effetti ogni problema rimandi a molti altri. Dobbiamo attendere sino a che non siamo tornati al punto di partenza prima di poter discutere il problema che abbiamo affrontato in precedenza o procedere verso un altro. In filosofia le questioni non sono abbastanza semplici da poter dire “ne abbiamo un’idea sommaria”, perché non conosciamo il territorio se non attraverso la conoscenza delle connessioni fra i percorsi. Così consiglio la ripetizione come un modo di indagare le connessioni».1
«Si tratta − spiegava Adorno nel 1947, concludendo i suoi Minima moralia − di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica».
Tuttavia, pur prediligendo il frammento, non lo si riduce a esercizio di stile, disinteressato o impropriamente assolutizzato e chiuso, a «fortezza costruita con gli stuzzicadenti», una bella frase di Leonardo Sinisgalli, il poeta delle ‘due culture’ (quella scientifica e quella umanistica, ovviamente)».
L. Wittgenstein, [dichiarazione sul proprio metodo filosofico, rilasciata nel 1933], in Wittgenstein. Una biografia per immagini [2012], a cura di M. Nedo, trad. di A. Bernardi e M. Jacobsson, Roma, Carocci, 2013, p. 11.
Condivido tutto del tuo commento con il quale rispondi al mio.
Comunque, caro Giorgio Linguaglossa, (anche se a questo punto della Antologia Kitchen da te curata possiamo dire d’essere giunti al punto del non ritorno per la sua pubblicazione) avrei preso il coraggio a due mani e avrei inserito anche qualche testo dello stesso Mario Lunetta, di Anonimo Romano e di Ennio Flaiano, proprio per quella loro libertà estrema che mise in subbuglio e atterrì quelli che tu chiami “i poeti normativi e tradizionali” in cerca di significati…
caro Gino,
sono dell’opinione che inserire poeti come Mario Lunetta, Anonimo Romano e Ennio Flaiano nella Antologia delle Poetry kitchen sarebbe potuto suonare stonato e anche fuorviante rispetto agli assunti nella NOe e della poesia kitchen, i tre poeti da te citati fanno parte integrante di una temperie culturale che si è dissolta con l’esaurimento del post-moderno, delle sue tecniche e dei suoi retorismi, sia per le loro caratteristiche che afferiscono al citazionismo e all’iperrealismo («che sembrava un ritorno alla rappresentazione e al figurativo dopo la lunga egemonia dell’estetica dell’astrazione, finché non fu chiaro che i suoi oggetti non andavano cercati nel “mondo reale”, ma erano a loro volta fotografie di quel mondo reale trasformato in immagini, di cui il “realismo” della pittura iperrealista è il simulacro»).1
Scrive Jameson: «la nostra critica recente … si è preoccupata di sottolineare l’eterogeneità e le profonde discontinuità dell’opera d’arte, non più unitaria o organica, ma potenziale bazar o ripostiglio di sottoinsiemi disarticolati, disparati materiali grezzi e impulsi di ogni genere. le opere d’arte di una volta, in altre parole, ora risultano essere testi, la cui lettura procede più per differenziazione che per unificazione. Le teorie della differenza hanno però cercato di sottolineare la disarticolazione e le frasi tendono a essere estromessi come elementi di passività inerti e casuali, separati gli uni dagli altri in modo puramente esterno».2
Il post-moderno giunge a compimento con la pandemia e la guerra di invasione dell’Ucraina: la logica culturale del tardo Capitalismo è venuta a modificarsi a velocità inaudita. Penso che siamo ancora ai primi barlumi di una nuova epoca, agli inizi… per la quale non abbiamo disponibili le chiavi ermeneutiche ed epistemiche, camminiamo barcollando in un nuovo mondo, a tastoni… e questo è un procedere tipico della NOe e della poetry kitchen una volta che risultano inaffidabili i vecchi corrimano cui tenerci.
1 Fredric Jameson, Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism, Il postmoderno o la logica culturale del tardo Capitalismo, trad. it. 1989 Garzanti, p. 61
2 ivi p.62
A rileggere le poesie di Mario Lunetta a distanza di 22 anni, non c’è dubbio che si tratta di una scrittura poetica che si situa alla altezza delle stelle di contro alla poesia italiana degli ultimi due decenni. Anzi, direi che più passa il tempo più la poesia lunettiana acquista in gigantografia, sembra un gigante a fronte della poesia da salotto che si è scritta in Italia in questi ultimi ventidue anni.
Mario Lunetta, che ho avuto l’onore di conoscere di persona, era un poeta consapevole della fine della metafisica e delle retoriche fantocce di cui quella metafisica si nutriva
“i testi di un grande come Mario Lunetta.”… Grande?
Poiché il termine “grande” ha perduto il senso originario, possiamo donarlo a tutti i poeti modesti: la modestia è altra cosa : una sorta di discrezione.
Lunetta è uno delle centinaia di nipotini di Montale, ecc. come pure Patrizia Cavalli ieri scomparsa. Da loro nessuna aggiunta alla Poesia.
Che la morte dei poeti, qualunque sia stato il loro valore, non deve deformare il loro ruolo oggettivo: si è stato quiel che si è stato!
Sulla poesia di Patrizia Cavalli morta ieri ripropongo questo interessante articolo:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/02/07/antologia-delle-poesie-di-patrizia-cavalli-da-la-maesta-barbarica-e-stanche-divinita-le-poesie-di-patrizia-cavalli-come-i-tableaux-parisiens-di-baudelaire-il-fascino-delle-rime-anarchiche/
Occorre avere un pessimo rapporto con la lingua.
La lingua è un’estranea, ci impone il suo lessico, la sua sintassi, la sua grammatica i suoi modi di pensare e di immaginare, la sua liturgia… Io ad esempio sbaglio spesso le parole parlando (in italiano), sbaglio il plurale, il genere delle parole, sbaglio le parole e ne invento di nuove e inesistenti… E poi c’è la questione del linguaggio, questo sì è un atto di apprendimento culturale, compiuto con sforzo prolungato nel tempo della vita e impegno ingente… Tutto ciò che ci viene dal linguaggio ci è estraneo, non siamo noi che decidiamo, ci viene imposto dalla sua autorità con la sua tradizione letteraria, i suoi tono simbolismi, le sue idiosincrasie fonologiche.
Per fare una poesia dell’istante (Instant poetry) come quella che fa Lucio Tosi, è ancora più problematico: occorre liberarsi di tutte queste zavorre che appesantiscono il linguaggio poetico. Innanzitutto: se voi avete un rapporto bello e pacifico con il linguaggio, allora non potrete mai scrivere una poetry kitchen, farete una poesia in linea di continuità con la tradizione letteraria, o meglio, con la tradizione dei linguaggi di plastica come si usa oggi; i linguaggi di nicchia sono linguaggi metallici, metallici in quanto resistenti, inossidabili perché telecollaudati dalla generalità. La poesia di Patrizia Cavalli è un esempio formidabile di normologia. Diciamo che se una poesia viene con facilità, allora sarà falsa perché parlerà il linguaggio eterologo; la poesia deve venire con difficoltà massima, allora sarà il prodotto di una posizione individuale. Ma una posizione individuale la devi conquistare dopo un lunghissimo assedio e grandissimo dispendio di forze e di ingenti perdite. Meglio fare la poesia che fanno tutti, quella narrativa e narrativeggiante, magari con finte rime e finte anti-rime o senza rime affatto, quella telecollaudata e telecomandata…
Non so se Patrizia Cavalli avesse in mente Valentina Rosselli, la “Valentina” disegnata da Guido Crepax. Qualcosa del genere. MI piace immaginare che la poeta ne sia stata consapevole, che scrivendo facesse sceneggiatura di sé e della propria esistenza. Scrivere poesia ci rende belli. Su questo non ho dubbi. E Lei scrive bene; ogni tanto, per un’idea che trovo discutibile del reale, inserisce parole come “cesso”, o simili, ma per abbruttire – il reale è sempre peggiorativo (perché?) – . Il minimalismo, in quel parlare di sé, è certo rivolto ad alieni, come per informarli che sul balcone abbiamo salvia e basilico; sì, noi, quelli che scrivono in italiano, dopo Dante e Leopardi.
Per le mie capacità critiche è più di quanto mi posso permettere; forse certa continuità con l’ultimo Montale, ma dopo lo sperimentalismo e molta letteratura americana. Berardinelli mette in evidenza l’ottima scrittura di Patrizia Cavalli, qui si potrebbe aprire un altro discorso… su metrica e variazioni della stessa, ma già Linguaglossa (il quale ancora non sa di esser alieno!) ha avanzato ipotesi interessantissime.
Gli specchi ridono di noi. I pipistrelli
ci disprezzano. (M.Lunetta)
PAROLA AL MICROSCOPIO
Pensate che un cardellino sano di mente
spezzerebbe il suo canto?
Se non sapesse di sillogismi farebbe versi di giaguaro.
Un microscopio dall’occhio critico, capitano di viaggi estremi
Disse che esisteva un tal dei tali simile alla cornacchia
e dunque fu chiaro a tutti che al vecchio mondo
Se ne doveva aggiungere un altro.
La logica si aggrappa alle parole: bisogna ordinarle su internet
Arriveranno di sicuro. Pacco con sette sigilli e la pantera nera.
Se inverti l’ordine il corriere fa marcia indietro
e tutto scorre lo stesso. Dal consumatore all’Amazzonia.
Crepi per una volta anche il buon senso
Se sapesse calcolare farebbe a meno dei versi.
In fondo a un elettrone vive il poeta. Gira o non gira?
È qui o altrove?
E dunque il pizzino del miele è scritto dal fiore. Una merda
che la regina legge come uno sgarro degli stami.
(F.P. Intini)
Esercizi di Stile
Sketch Poetry in onore di Mario Lunetta, di Giorgio Linguaglossa del 19/06/2022
Il pipistrello apre la porta d’ingresso e si pappa la marmellata
del poeta Mario Lunetta di via Accademia Platonica 37
C’era pure il poeta Gino Rago
con la torta di mirtilli, lamponi e shrapnel al fosforo bianco
Ingurgitato anche il gorgonzola dei due poeti
il pipistrello si guarda nello specchio
appare il pappagallo Gazprom che dice mentre si lava i denti
col dentifricio Pepsodent plus antiplacca:
Patrizia Cavalli e Mario Lunetta erano contemporanei, quasi coetanei, vivevano a Roma entrambi, poetavano da decine di anni in contemporanea e si ignoravano garbatamente in contemporanea. Non ci sono stati dagli anni settanta ad oggi due poeti più lontani e più incomunicabili, la prima ha ottenuto gli allori dell’uditorio del circo mediatico e del circo letterario, il secondo è stato snobbato e ignorato da quel medesimo circo che ha decretato la vittoria della poesia consuetudinaria e abitudinaria: finte rime, rime alterne, vezzose e gradevoli, ma anche anti rime e pseudo rime, un rimario ed un erbario disdicevoli: Che bei tempi quelli dell’Italia letteraria: pane, pasta e fantasia! con un bel vino frizzante dell’OltrePo pavese. E’ la disgrazia delle persone intelligenti che ancora esistono, anche se in via di estinzione, in questo paese.
In confronto le poesie kitchen postate da Francesco Intini e Raffaele Ciccarone sono oro colato! Poesie giubilatorie, sgarbate e diseducate…
Gli specchi ridono di noi. I pipistrelli
ci disprezzano.
(M.Lunetta)
Sketch Poetry in onore di Mario Lunetta.
Variazione sulla sketch poetry di Giorgio Linguaglossa del 19/06/2022
È accaduto che il pipistrello Pastrengo ha aperto la porta d’ingresso della abitazione del critico Linguaglossa,
si è introdotto nella cucina e si è pappato tutta la marmellata
che il poeta Mario Lunetta di via Accademia Platonica 37 aveva portato dall’aldilà in una valigetta frigorifero.
C’era pure il poeta Gino Rago
con la torta di mirtilli, lamponi e shrapnel al fosforo bianco.
Così, è accaduto che il Signor Pastrengo ha ingurgitato di nascosto il gorgonzola al peperoncino dei due poeti citati e si è scolato anche una bottiglia di Bourbon.
A quel punto è apparso il pappagallo Gazprom che ne diceva di cotte e di crude sul poeta Montale mentre si lavava i denti col dentifricio Pepsodent plus antiplacca
il quale così ha perorato:
“ça va, ça va, e se non va, ça va. bien…”
La nozione di «paradigma ortolinguistico».1
Un discorso in poesia è tale quando, mediante un a capo tipografico (découpage), la continuità del testo viene frammentata in serie di unità versali che afferiscono ad discorso articolato (discorso narrativo o poetico) mediante il quale il lettore corrisponde con le intenzioni dell’autore. La metrica, ossia l’insieme dei criteri di versificazione, non corrisponde a un vero e proprio «paradigma ortolinguistico», perché le sue regole per Bachtin mutano col tempo e non possono considerarsi oggettive sul piano diacronico. Assumono invece rilevanza paradigmatica le caratteristiche prosodiche e semantiche del singolo verso, i cui fattori di metricità indicano sempre il grado di cerimonialità del discorso (poetico o narrativo). Il discorso poetico corrisponde per tradizione culturale con la tradizione poetica, ma esistono altre tipologie di enunciati, come gli enunciati della pubblicità, non riconducibili agli enunciati del genere poesia in quanto obbediscono ad un paradigma ortolinguistico del tutto diverso. Il discorso poetico corrisponde ad un paradigma ortolinguistico in quanto corrisponde ad una certa connotazione assicurata da una certa tradizione letteraria.
In un testo kitchen il paradigma della enunciazione, la legalità morfologica del discorso poetico e la giuridicità versale non sono più assicurate dalla legalità della tradizione del poetico, qui è in vigore una auto investitura che il testo si aggiudica in base alle esigenze organizzative e celebrative proprie del testo kitchen, alle proprie garanzie di cerimonialità, ovverossia, la predisposizione di un discorso cerimoniale nel quale le caratteristiche prosodiche e semantiche del testo non possono più essere recepite dall’aspettativa del lettore né organizzate dall’autore in base alla ascendenza ad una certa tradizione letteraria ma sorgono dal paradigma ortolinguistico che presiede alla formazione del nuovo tipo di testualità dove la metricità viene assicurata dalla motricità performativa dei singoli enunciati e gli enunciati tutti corrispondono alla giuridicità di un nuovo paradigma ortolinguistico. Ad esempio, in un testo sketch kitchen la cerimonialità celebrativa del testo richiede che vi siano degli attori che pronunciano enunciati o pongano in essere circostanze palesemente incongrue e ultronee che non corrispondono più ad alcun paradigma ricettivo del lettore ma che invece lo indirizzano verso un nuovo paradigma di ricezione dove gli attori e gli attanti sono slegati tra di loro e non corrispondono più ad alcuna logica del senso e del significato, né ad alcuna regola morfo-sintattica convalidata.
Michail Bachtin intende con «genere discorsivo» una tipologia di enunciazione «relativamente stabile» che organizza le strutture di un dato linguaggio in modo funzionale alla comunicazione: tutti i membri che condividono un medesimo codice linguistico possono impiegarlo ai fini della comunicazione. Ogni forma di discorso può essere detta «primaria» o «semplice» se riguarda la comunicazione orale immediata, oppure «secondaria» o «complessa» se invece l’interazione tra parlanti avviene mediante forme di enunciazione scritta più sviluppate e articolate. Stefano Ghidinelli,2 afferma che tale distinzione dipende soprattutto dal contesto sociale in cui l’enunciazione è inserita, cioè da un «grado di cerimonialità» proporzionale alla capacità del discorso di strutturarsi sulla base di modelli convenzionali chiamati «discorsi ben formati»: le caratteristiche formali del discorso semplice e del discorso complesso derivano rispettivamente dalla loro minore e maggiore identificabilità con i relativi «discorsi ben formati». Ogni genere discorsivo è caratterizzato, quindi, sia da un «paradigma compositivo» che regola la struttura dell’enunciazione, sia da un «paradigma ricezionale» riguardante lo specifico ambito comunicativo in cui la società configura l’esecuzione (performance) del discorso. L’insieme di questi due fattori costituisce infine un «paradigma ortolinguistico» che riunisce le esigenze organizzative e rappresentative di una data tipologia discorsiva e quindi i requisiti necessari per la sua stessa legalità morfosintattica. Le due tipologie più note di discorso complesso scritto sono il discorso in prosa e il discorso in versi, le cui definizioni devono essere ora precisate attraverso l’individuazione dei rispettivi «paradigmi ortolinguistici».
Un discorso viene identificato come prosastico se dotato di una struttura logico-razionale organizzata in modo lineare, coeso e coerente dal punto di vista sintattico, corrispondente a una dimensione comunicativa sospesa fra il tempo reale della scrittura e il tempo reale della lettura: il suo «paradigma ortolinguistico» equivale quindi al discorso ben formato tipico della enunciazione scritta percepita come marcata.
1 Bachtin M., Il problema dei generi del discorso, in Bachtin M., L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane (1979), a cura di Clara Strada Janovič, Torino, Einaudi, 1988.
2 Ghidinelli S., Verso e discorso, in “Poetiche”, I, 2004, p. 3.
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Nella poesia di Mario Lunetta l’istanza ideologica di opposizione permanente mette in moto la libertà metrica che viene utilizzata come cuneo di interdizione del paradigma compositivo della poesia versoliberista coeva.
L’anisosillabismo e la dislocazione metonimica del discorso poetico è senza dubbio il tratto dominante della dismetria lunettiana, che fa un enorme impiego dell’anisosillabismo e di una dispendiosissima motricità versale come costante intersoggettiva, anello di congiunzione tra l’autore e il lettore inteso a capovolgere e infrangere le aspettative liriche del lettore per dirigerlo verso un tipo di elocuzione del discorso poetico che consiste in un mix di istanze parodiche e istanze espressive.
Esercizi di Stile
Sketch Poetry in onore di Mario Lunetta, di Giorgio Linguaglossa del 19/06/2022
Il pipistrello entra dalla porta d’ingresso, in via Accademia Platonica 37
del poeta Mario Lunetta, si pappa la marmellata
mangia anche la torta di mirtilli, lamponi e shrapnel al fosforo bianco
del poeta Gino Rago, poi ingoia persino il gorgonzola dolce
si guarda allo specchio, vede il pappagallo Gazprom
che si lava i denti con Pepsodent plus antiplacca, e beato si addormenta
Buonasera amici cari. Ritrovando le pagine dell’Ombra di queste ultime settimane, sono rimasto letteralmente rapito da quest’articolo sul grande Mario Lunetta. Ho affrontato in modo un po’ irregolare finora la lettura della sua produzione poetica, ma mi è sempre risultato chiaramente essere una delle voci più alte della e più autenticamente poetiche della letteratura italiana del secondo ‘900 e probabilmente di tutto il secolo.
Personalmente sono sempre stato affascinato, oltre che dalla sua capacità di destrutturare gli stilemi dominanti in una poesia sempre più “industrializzata” come appunto quella italiana del secondo dopoguerra (come solo pochi altri suoi contemporanei sono riusciti a fare, come ad esempio, seppur con un’impostazione stilistica completamente differente il nostro caro ed altrettanto compianto Alfredo De Palchi: in entrambi i casi si tratta ovviamente di voci estromesse dal “mainstream” delle produzioni da salotto o dell’industria editoriale sulla falsariga della famigerata “collana bianca”), dalla sua qualità di ricostruzione storica dell’Italia contemporanea, attitudine totalmente scomparsa dal panorama della poesia consolatoria ed egocentrica dilagante gradualmente con l’affermazione dell’edonismo pervadente la società italiana dagli anni ’60 in poi; Lunetta restituisce così alla poesia anche la sua componente epica e dunque la sua “totalità” letteraria.
Fatti salvi i mutamenti interventui inesorabilmente nel corso degli anni successivi alla composizione dei brani presentatici, condivido appieno l’analisi di Letizia Leone e di Giorgio Linguaglossa nell’evidenziare l’assoluta freschezza e qualità ancora immutatamente innovative della scrittura di Lunetta e la sua attualità, caratteristiche che indubbiamente ne fanno senz’altro un punto di riferimento valido anche per la composizione Kitchen.
Ringrazio Giorgio per averci riproposto la lettura delle poesie di Lunetta nell’intepretazione ermeneutica di Letizia Leone.
Buona serata a tutti.