Paul Klee – Il punto di vista ha perduto rigidità, è diventato anomalo, abnorme, subisce uno scarto e con esso l’oggetto; ovvero, il punto di vista resta fisso, e a spostarsi è l’oggetto. L’anomalia consiste nell’accentuare una visione dell’oggetto a scapito di altre. Per la prima volta nel novecento con la poetry kitchen il movimento degli oggetti e dei soggetti diventa parallattico.
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Marie Laure Colasson
da Nuove Poesie
La blanche geisha cueille un trèfle à quatre feuilles
pour effacer les mirages d’un étang marzien
“Donne le moi!” dit Eredia
“pour prononcer les paroles du silence”
Madame Green intercepte l’ardue conversation
et dans un raptus d’acier hurle
“Vous n’avez rien compris!”
“Ses cris sont pires qu’une bouilloire
qui se trémousse en vacances!”
“Tu as raison un véritable court-circuit
un véritable drone kamikaze
une véritable illusion de la gravité”
Madame Green fume sa cigarette électronique
ses yeux à inventaire
tirent une flèche vers le soleil
Un lion à losanges pourpres
meurt de faim de soif dans sa cage
Les jeux sont faits
rien ne va plus
*
La bianca geisha coglie un quadrifoglio
per cancellare i miraggi di uno stagno marziano
“Dammelo!” dice Eredia
“per pronunciare le parole del silenzio!”
Madame Green intercetta l’ardua conversazione
e in un raptus d’acciaio urla
“Voi non avete capito niente!”
“Le sue strida sono peggio d’un bollitore
che traballa in vacanza”
“Hai ragione un veritiero corto circuito
un veritiero drone kamikaze
una veritiera illusione della gravità”
Madame Green fuma la sigaretta elettronica
gli occhi a inventario
tirano una freccia verso il sole
Un leone a losanghe color porpora
muore di fame di sete nella gabbia
Les jeux sont faits
rien ne va plus
Giorgio Linguaglossa
Christoph Türcke ha di recente introdotto un paradigma interpretativo, che ben si lega alle considerazioni fin qui svolte, il sociologo oppone al paradigma formulato da GuyDebord nel 1967, vale a dire quello della «società dello spettacolo», il nuovo paradigma di una «società eccitata», paradigma poi radicalizzato da Baudrillard nella nozione di «società della simulazione e dei simulacri». La società eccitata va a rimorchio del «sensazionale», vive di «traumi», di shock e di «oblio» che si alternano ripristinando sempre di nuovo il meccanismo della rimozione e dell’oblio. Il mondo del tardo capitalismo macchinizzato ha ormai fagocitato la società dello spettacolo e della simulazione, oggi siamo dinanzi ad una società perennemente «eccitata» dai fantasmi e dai traumi della comunicazione. Ciò che conta, ciò che vale di più, ciò che valutiamo positivamente negli altri e ciò che noi stessi cerchiamo di realizzare, è il produrre sensazioni, shock percettivi, comunicazionali, input. Si tratta di un mondo di sensazioni, di istanti, di affetti momentanei consentanei al nostro modo di vita che richiede continue sollecitazioni, continui zoom e continui scarti, un universo di notizie che si accavalla e implode su se stesso. Il sensazionale non produce esperienze, quanto simulacri di esperienze ed oblio.
Heidegger nel 1924 scrisse: «Quando ci sentiamo spaesati, iniziamo a parlare». Ecco, io penso che la poiesis accada quando ci sentiamo spaesati, quando non riconosciamo più le cose e le parole che ci stanno intorno. In quel frangente, le parole e le cose ci diventano riconoscibili, ed è proprio in quel momento possiamo iniziare a parlare.
È molto importante trovare il luogo nella linguisticità, e questo lo possono fare soltanto i poeti. Marie Laure Colasson ha trovato il suo luogo esclusivo nella linguisticità in una «poesia lunare», dove la forza di gravità è appena un decimo di quella terrestre, dove le parole e i suoi fantasmi sono così leggeri come il volo di una farfalla o di una libellula. È la leggerezza il fascino segreto della sua poesia che oppone allo shock e ai traumi della società della comunicazione l’agilità e la leggerezza delle zampe di una gru o di un cerbiatto. Non per niente la Colasson scrive nella lingua di Apollinaire, di Max Jacob, di Pierre Reverdy, di Anatole France e di Paul Claudel.
Mauro Pierno
Compostaggio
Dalla trincea del Meno si spara contro un eroico Più. (F.P. Intini)
Stasera passeggiava con il padre di Amleto torcia in mano e passo incerto. (M. Pierno)
L’illusione di un attore che non fugge da nessuno
e da nessuna cosa è il destino del numero infinito (A. Sagredo)
Che dire?, in questa jouissance c’è spazio per le anime nobili, per le parole assennate, per le anime belle.(G. Linguaglossa)
Poi ciascuno è libero di inventare una propria strategia di pescaggio degli escrementi.(M.L. Colasson)
Voglio dire, alla domanda “Cosa ti dà pena?” (Lucio M. Tosy)
o almeno tentare di farlo senza ipocrisia e postura di struzzo. (F.P. Intini)
i missili russi muniti di testate nucleari per attingere e annichilire Parigi, Berlino, Londra, Torino etc.
La morte è un congedo illimitato siglato dal Signor Dio (Gino Rago)
quanto accade normalmente nella poetry kitchen della pagina odierna (Marie laure Colasson)
Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
(Lucio Tosi)
Tre frammenti di uguale misura, da ripetere con attenzione e intenzione. (Lucio Tosi)
Siamo entrati in un mondo parallattico (Slavoj Zizek)
*Merda d’artista (Manzoni)
Le tendine sporche alle pareti lasciavano trasparire un mesto umidore.(Linguaglossa)
Ameremo forse meno, per questo, “Anna Karenina” o “I fratelli Karamazov” (Tiliacos)
…tolgo gli orpelli…
Mauro Pierno
Dalla trincea del Meno si spara contro un eroico Più.
Stasera passeggiava con il padre di Amleto torcia in mano e passo incerto.
L’illusione di un attore che non fugge da nessuno
e da nessuna cosa è il destino del numero infinito.
Che dire?, in questa jouissance c’è spazio per le anime nobili, per le parole assennate, per le anime belle.
Poi ciascuno è libero di inventare una propria strategia di pescaggio degli escrementi.
Voglio dire, alla domanda “Cosa ti dà pena?”
O almeno tentare di farlo senza ipocrisia e postura di struzzo.
I missili russi muniti di testate nucleari per attingere e annichilire Parigi, Berlino, Londra, Torino etc.
La morte è un congedo illimitato siglato dal Signor Dio
quanto accade normalmente nella poetry kitchen della pagina odierna
Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
Tre frammenti di uguale misura, da ripetere con attenzione e intenzione.
Siamo entrati in un mondo parallattico
*Merda d’artista
Le tendine sporche alle pareti lasciavano trasparire un mesto umidore.
Ameremo forse meno, per questo, “Anna Karenina” o “I fratelli Karamazov”
Giorgio Linguaglossa
Sul «compostaggio di frammenti» di Mauro Pierno
Quando Salman Rushdie inizia a scrivere il suo primo romanzo, Midnight’s children nel 1981, aveva già raccolto una sterminata miriade di «frammenti» dei cartelloni pubblicitari affissi in India negli anni Cinquanta, e il romanzo fu una ricostruzione minuziosa della storia indiana a partire da quei frammenti raccolti. Così anche il celebre romanzo di Orhan Pamuk, Museo dell’innocenza, ha nel suo centro il racconto della raccolta di una sterminata miriade di «frammenti», di biglietti dell’autobus, di spille, di oggetti femminili che erano appartenuti alla amatissima Fusun da parte del protagonista, poi morta in un incidente stradale. Il protagonista ricostruisce il passato a partire da quei frammenti. O meglio: crede, si illude di ricostruire il passato, ma il passato è passato e il più grande amore della sua vita, la bellissima Fusun è morta. L’unico modo per farla rivivere è, appunto, la raccolta dei frammenti, anche insignificanti di cose che avevano avuto un rapporto con la sua amata Fusun.
Il «frammento», dunque, è una cosa ben strana, la postmodernità lo ha scoperto da molti decenni; Derrida, Levinas, Barthes, Lyotard, Baudrillard e altri pensatori hanno investigato le straordinarie facoltà di questo «talismano magico»; la poesia, il romanzo, la pittura, la scultura, il cinema, ma anche la pubblicità ne fanno larghissimo uso da molti decenni, soltanto la poesia italiana non se ne è accorta, che continua a fare poesia scolastica, di accademia.
L’atto kitchen di Pierno è un atto rivoluzionario, utilizza il frammento come un «effetto di superficie», un «talismano magico», come immagini di caleidoscopio, come «cartellonistica»; impiega il «frammento», il polittico e il compostaggio di frammenti come principio guida della composizione poetica; ma non solo, l’atto kitchen è anche un perlustratore e un mistificatore dell’Enigma superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente della soggettività proprio della civiltà cibernetica-tecnologica.
È una poetica del «vuoto», una poesia del «vuoto». E il «vuoto» è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti compostati» fa esplodere. L’atto kitchen ha l’aspetto di un fuoco d’artificio di superficie; si ha l’impressione che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un algebrico gioco di simulacri e di simulazioni, una agopuntura, una scherma, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo, reperti dell’Antropocene. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket globale, ed è simile al telemarket, una danza apotropaica di scheletri viventi…
Lucio Mayoor Tosi
La parola che da inizio duemila apre le danze è “interattività”. Grazie all’interattività chiunque può “produrre sensazioni, shock percettivi, comunicazionali, input”. Performance, installazioni, arte concettuale, ecc. mirano al coinvolgimento dell’osservatore, che si suppone o lo si vorrebbe partecipativo; o assente, nei grandi numeri, se il parametro è meramente commerciale. Nella poesia kitchen la partecipazione attiva del lettore è fondamentale, troppe le parti mancanti del discorso (del discorso lineare). Tutto sta a capire se il linguaggio di risulta corrisponde o intercetta nelle modalità il farsi del pensiero odierno; il quale non sempre è rintracciabile nelle forme preferite dalle élite letterarie ma, al contrario, è rinvenibile nelle titolazioni di libri, giornali, notiziari e pubblicità. Mia sensazione è che il linguaggio comune, condiviso, abbia abbandonato l’uso di locuzioni appropriate ma si preferisca il modo di dire; il quale si aggiorna in ogni momento perché capace di integrare terminologie di linguaggio internazionale; purché sempre nella forma dei “modo di dire”. Parte della produzione kitchen sembra volta a creare inediti modi di dire.
La poesia di Marie Laure Colasson è all’insegna della leggerezza, è vero e lo si capisce sempre, fin dal primo verso. Eredia e Bianca geisha inaugurano la forma “sequel” (come già il Signor K e Cogito nelle poesie di Linguaglossa). Va però considerato che la forma distico tende ad irreggimentare il discorso, il che non giova alla leggerezza; tant’è che Marie Laure si trova a non poter uscire dalla forma soggetto verbo predicato. C’è anche la questione del bilinguismo. Ma certo è un passo avanti rispetto all’esistenzialismo, di cui si avvertono le tracce.
Giorgio Linguaglossa
Ho letto su ‘Il Giornale’ che Putin durante i suoi viaggi all’estero negli anni scorsi era accompagnato da un segugio del FSB il quale aveva il compito di raccogliere le sue risultanze fisiologiche in una borsetta per trasferire poi il conglomerato in una valigia e riportarla in Russia, questo per timore di lasciare in giro gli escrementi dello Czar che avrebbero potuto essere intercettati dai servizi segreti occidentali per appurare lo stato di salute dello Czar.
Straordinario, no? Chiediamoci: dove sta il significato?
Lucio Mayoor Tosi
Davvero straordinario. Pensare che qui da noi le Scatolette di merda di Manzoni (*Merda d’artista) vengono ancora riprodotte e vendute sul mercato.
Giorgio Linguaglossa
caro Lucio,
c’è più verità negli escrementi che nell’Empireo, anzi, l’empireo è fatto di escrementi, lo sanno bene tutti i dittatori i quali commerciano con gli escrementi e lo sanno bene anche gli schiavi i quali hanno da sempre le mani in pasta negli escrementi.
Ecco una mia poesia sull’argomento (g.l.):
Distretto n. 15
«Ecco gli appuntamenti che mi procurano benessere: Hotwitzer da 155 mm. Tank Terminator, Machine gun, Rocket launcher e fragole al polonio, di tutto di più».
Il Presidente del Globo Terrestre stava massaggiando un sorbetto al limone quando mi rivolse queste parole nella hall dell’Excelsior a Venezia:
«Dov’è la verità? Portate qui la verità!»
«Senza indugio!»,
urlò il Presidente completamente fuori di sesto.
Il cappotto di Astrachan pendeva dall’appendiabiti.
Il filamento elettrico in tungsteno della lampadina tossì e si frantumò.
«La verità è negli escrementi!», replicò Cogito mentre metteva sul fuoco la macchinetta del caffè e masticava una brioche.
«Tutta l’infelicità degli uomini proviene dal non saper starsene tranquilli in una stanza»,
aggiunse il filosofo
Le tendine sporche alle pareti lasciavano trasparire un mesto umidore.
Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma. Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.
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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York. Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.
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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È in corso di stampa la sua prima raccolta di poesia, Les choses de la vie
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Stiamo entrando in un mondo nuovo cui i cui contorni nessuno è a conoscenza, come afferma Marcello Spagnulo?
EHI! CHE SONO QUESTE GRIDA? (2010)
Ehi! Che sono queste grida?
Portano via i granchi che sono vivi incatenati
altri li han lasciati a macerare in una grotta
trafitti da forchette appena nati
e nel fondo di uno scoglio si dibatte
lo sciancato mezza chela.
Nacchere si sentono e risa d’alabarde in latino
di shamani sulle cozze insaponate
divorate nella schiuma di un polpo riccio.
Il Regno è distrutto. Dai gabbiani nessun respiro
E bivacco se ne fanno gli alemanni.
Oh! al nodo scorsoio del vento
il piumaggio ristretto alla vita
ora scorre da un angolo all’altro nel palazzo d’inverno
e la regia altura dove in rosa nacque malva
triste morde una foresta di semi cotti.
Questo il prezzo che paga la bottiglia!
Sacra la faceva l’essere sola e senza fondo
e più non beve il PVC nel sorso d’acqua
che l’Oceano portava ai derelitti.
Una sedia sbilenca resiste!
E mi piango la deriva
di una spiaggia
che dal Mare frattura Gentili
e da terra
s’accende di bronzi nel sole.
-Se ti chiedono dov’è lo scoglio?
digli il verso che gira la lingua
di fuoco rivolta la terra alla fonte.
(F.P.Intini)
I trucchi della messa in scena letteraria
La «nuova ontologia estetica» sostenuta da alcuni poeti riuniti sotto l’egida dell’Ombra delle Parole, intende il polittico di immagini e la poesia-polittico come un work in progress della fortune-telling book, un coacervo di bisbidis di quisquilie, di banalismi, patchwork di filosofemi e blablaismi, di post-it, di appunti sul recto di cartoline postali, di poscritti su attaches, di appunti persi e poi ritrovati. Sembra pleonastico dirlo ma è bene ricordarlo: ad ogni nuovo concetto di immagine corrisponde un nuovo concetto di poiesis.1
Il racconto letterario è un’elaborazione secondaria e, perciò, una Einkleidung. Si tratta della sua parola, una veste formale, un rivestimento, il travestimento di un sogno tipico, del suo contenuto originario, infantile. Il racconto dissimula o maschera la nudità dello Stoff. Come tutti i racconti, come tutte le elaborazioni secondarie, esso vela una nudità.
Ora qual è la natura della nudità che in tal modo ricopre? È la natura della nudità: lo stesso sogno di nudità ed il suo affetto essenziale, il pudore. Poiché la natura della nudità così velata/disvelata è che la nudità non appartiene alla natura e che possiede la propria verità nel pudore.
Il tema nascosto de I vestiti nuovi dell’imperatore [fiaba di Andersen] è il tema nascosto. Ciò che l’Einkleidung formale, letterario, secondario vela e disvela, è il sogno di velamento/disvelamento, l’unità del velo (velamento/disvelamento), del travestimento e della messa a nudo. Tale unità si trova, in una struttura indemagliabile, messa in scena sotto la forma di una nudità e di una veste invisibili, di un tessuto visibili per gli uni, invisibile per gli altri, nudità allo stesso tempo apparente ed esibita. La medesima stoffa nasconde e mostra lo Stoff onirico, vale a dire anche la verità di ciò che è presente senza velo.»1
La poiesis è sempre in qualche modo servente, asservita e assolutoria. Come diceva Marx: l’arte è sovrastruttura. La poiesis rappresenta sempre il volto invisibile del potere: ne è la maschera, la maschera “estetica”, la “maschera di bellezza”, trattamento del viso.
L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte
A questa tautologica definizione sfugge un dettaglio per essere perfetta: è arte quello che un gruppo definisce essere arte (da una parte i vincenti, Cucchi, Paladino, Rotella, Chia, Pistoletto, Kounellis, Clemente, Cattelan, Beecroft; dall’altra i perdenti che alla fine non contano nulla – e ci sono tanti artisti sommi sconosciuti, oggi, come ieri).
Quindi l’arte è l’effetto di un modo sapiente messo a profitto da parte di coloro che sfruttano le opportunità offerte dal loro tempo, e comunicano, impongono la loro concezione della poiesis esprimendo la verità delle maschere o le maschere della verità… Questo modo di fare «arte» mostra lo sfruttamento, la strumentalità presente nelle democrazie rappresentative. L’arte è il modo di gustare questo piacere, che consiste nel creare sensazionalismi e personalismi e un «mondo estetico» che io preferirei definire falso, pacchiano, patinato, in una parola kitsch inconsapevole…
[…]
Per Guy Debord, l’arte, nella nuova epoca dei musei, appassisce perché la comunicazione artistica è impossibile, l’oggetto d’arte essendo divenuto un fossile da contemplare dietro una vetrina. Senonché, il gesto di un solo artista (Graziano Cecchini) che getta vernice rossa nella fontana di piazza Navona, fa il giro del mondo e ottiene quello che ormai da più di trent’anni la nostra classe politica non riesce ad attuare: il rilancio pubblicitario dei beni culturali del Belpaese. La poiesis kitchen è tutta nel gesto, in sé rivoluzionario, compiuto da un artigiano, arte anonima, sottratta alla mercificazione, alla galleria, al museo alle accademie, che perciò diventa di nuovo comunicativa. A dispetto di Debord…
Debord ci ha pure insegnato che la nostra è la società dello spettacolo, in cui l’arte diventa “evento”… l’opera è espressione del mo(n)do della comunicazione.
L’arte non fa notizia, è notizia? No, io sono del parere che l’arte non fa notizia, suo telos è restare nell’anonimato.
Rappresentazione o Metarappresentazione?
Se penso a certe figure della poesia kitchen di Marie laure Colasson: la bianca geisha, Eredia etc. a certi ritorni delle figurazioni dissestate e terremotate come nelle poesie di Francesco Paolo Intini, a certi compostaggi di varie voci della poesia di Mauro Pierno o alle figure pseudo storiche di Giuseppe Talìa (ad esempio le poesie di “Germanico”) etc. non posso non pensare che tutte queste figure non siano altro che Einkleidung, travisamenti, travestimenti, maschere di una nudità preesistente, di una nudità primaria indicibile, della scena primaria, della scena secondaria che richiama inconsciamente la scena primaria che non può essere descritta o rappresentata se non mediante sempre nuovi travestimenti, travisamenti, maschere, sostituzioni. Si ha qui una vera e propria ipotiposi della messa in scena della nudità primaria, secondaria, terziaria, quaternaria etc. fatta con i trucchi di scena propri della messa in scena letteraria. E se questo aspetto è centrale in tutta la nuova ontologia estetica, una ragione dovrà pur esserci. E torniamo alla domanda iniziale: siamo nella rappresentazione o nella meta-rappresentazione?
Che cos’è il «poetico»? Si può affermare che la verità del testo è il «poetico»? E che il «poetico» sia il contenuto di verità di un testo?
La verità del testo o il testo della verità?
È questo è il problema? Qual è lo statuto di verità che si propone la poiesis?, che la poesia vada verso un tipo di scrittura ipoveritativa?. La posta in gioco qui è molto alta: nientemeno che lo statuto di verità del discorso poetico non più fondato su una epifania e sulla semanticità del linguaggio, ma sul suo fondo veritativo, sul fondo veritativo che, ad esempio, la psicanalisi freudiana chiama la «scena primaria».2
:
IN UN ALTRO GIUGNO
Sciamani a torso nudo si connettono alla geometria variabile
la marea restituisce il naso greco al sagittario
Nel triclinio si imbalsàmano scudi
hanno talloni di cicuta le astronavi
Un cannone rientra nel mosaico
icone pencolanti guadano granai
Sulla fame galleggiano finestre
l’estate si attorciglia sugli stinchi dei soldati
La striscia continua acceca i radar
l’arbitro ha l’umore delle cispi
Bandiere di pietra divorano i banchi dell’accusa
lingue di limoni scuotono detriti
Simulacri alla stazione estraggono collirio
accorrono in massa finti barbieri
Pullula di fanali il nido delle lumache
il dentifricio afferra i polsi del pescespada
Perdura il convegno sui chiodi di garofano
la lavatrice strozza le eliche dell’elicottero
La notte sbatte sui dinosauri
tra un secolo avrai i baffi
CON / SENSO
Casa / casaro
Ossi / ossigeno
Pasto / pastore
Zelo / zelota
Legge / leggero
Quadro / quadrupede
Usufrutto / usucapione
Tram / trambusto
Notte / nottambula
Inno / innocuo
Basto / bastone
Vespa / vespasiano
Gol / golgota
Radio / radiografia
Haw / hawaii
Epico / epicureo
Soda / sodalizio
Mimo / mimosa
Fune / funesto
Destro / destriero
Alba / albatros
Non sappiamo più chi siamo, come possiamo sapere quale poiesis fare?
E’ questo il problema che Mimmo Pugliese definisce “geometria variabile”. Abitiamo un mondo di geometrie variabili e di parole variabili tra informazia e disinformazia; ci muoviamo tra enunciati ipoveritativi e iperveritativi. La Meloni dichiara: “Dio Patria e Famiglia” Quale scegliere? Tutti e tre? Uno alla volta? La Meloni parla di istituire un Ministero del Mare, e perché non un Ministero della Terra? E magari un Ministero di Marte? – Siamo alla follia di cazzate e di parole in libertà, parole frullate con il ventilatore… E allora va bene fare con le parole dei giochi come quello postato: la filastrocca che ha fatto Mimmo Pugliese con l’aiuto di sua figlia Caterina, il «gioco» vuole significare questo svuotamento del linguaggio avvenuto in queste utime decadi in europa occidentale e, in particolare, nella fragile democrazia in vigore in Italia.
Giorgio si chiede:
“Qual è lo statuto di verità che si propone la poiesis?, che la poesia vada verso un tipo di scrittura ipoveritativa?. La posta in gioco qui è molto alta: nientemeno che lo statuto di verità del discorso poetico non più fondato su una epifania e sulla semanticità del linguaggio, ma sul suo fondo veritativo, sul fondo veritativo”.
Lettera alla redazione n. 7 de “Il Mangiaparole”
gentile Luigi da Pontremoli,
di recente abbiamo proposto sulla rivista on line lombradelleparole.wordpress.com agli autori di versi questa domanda:
– Quale poesia scrivere dopo la fine della metafisica?
Alla questione posta nessuno ha risposto. La mancata risposta è dovuta, io penso, al fatto che nessun autore di oggi si è rivolto questa domanda. Ciascuno si limita a fare quello che può: poesia corporale, poesia dell’io, poesia da talkshow, chatpoetry, poesia da rubinetto aperto, performance etc. È ovvio che tutta questa roba non ha niente a che vedere con la poesia, ed è altrettanto ovvio che oggi si scrive una «poesia» sproblematizzata, tutt’al più si fa descrizione di un oggetto senza che si siano poste le questioni fondamentali della nostra esistenza, si tende a scrivere per bisogno corporale, fisiologico. Ma scrivere poesia non è affatto un bisogno fisiologico come il mangiare, il bere, il gioco. È un’altra cosa, penso.
Si è fatta e si fa poesia per linee esterne delle cose, come ad esempio in questa poesia di Roberto Carifi, da Amore d’autunno, Guanda Editore, 1998. Leggiamo.
Grazie per la parola
che ancora accendi nel mio cuore,
per quel raggio che dal bene
hai ricevuto in dono
e che nel mio abbandono
lasci che nasca
come fosse grano in un deserto,
per quella tua bellezza,
per l’orma divina del tuo sguardo,
per quella tua dolcezza che vorrei baciare
come si bacia l’innocenza,
inginocchiato davanti alla tua anima
quando una lieve ombra
la lascia affiorare sulla carne,
per quello che chiami il tuo peccato,
per il tremore che turba la tua voce
quando mi dici l’indicibile
e lasci l’impronta dell’amore
in questo cuore arato.
Ecco, questa è una poesia tutta pensata e vissuta lungo le linee esterne delle cose. Innanzitutto, la positura del poeta che ringrazia: «Grazie per la parola», dando per scontato ciò che scontato non è, cioè che la «parola» sia realmente avvenuta; e poi il tono da salmodia, di preghiera, con quel tanto di sottofondo di compiacimento dell’autore per essere stato visitato dalla Musa. Si tratta di una descrizione per linee esterne delle cose: la «parola» ricevuta per grazia et amore dei, il piano fonosimbolico che è quello della preghiera più vicina alla liturgia religiosa che alla forma-poesia del novecento. Infine, tutto quel parlare a vanvera tanto per colpire il lettore con parole altolocate: «bellezza», «anima», «peccato», «indicibile», «dolcezza», «innocenza», «abbandono», «baciare», «bene», «dono», «amore»… Tutto un repertorio di luoghi comuni del poeta buono che ha avuto in «dono» la «parola».
È chiaro che qui siamo davanti all’ego dell’autore che deborda dagli argini dell’io «inginocchiato davanti alla tua anima» e invade il mondo con il proprio « cuore arato»
(Gino Rago)
Conclusione.
La poiesis della «dimensione privata» che fa (faceva) Roberto Carifi in quantità industriale è semplicemente Kitsch bene educato, discarica di enunciati apologetici bene educati quale è diventata la vita privata nella «dimensione privata».
Giusto mettere un po’ d’ordine, come fa Mimmo Pugliese coi suoi esperimenti. Penso che i poeti NOE siano coscienti di scrivere a diretto contatto, non con l’inconscio, per il quale servirebbero ipnosi e psicanalisi, ma con quanto ci viene servito dal pre-conscio… perché, penso, in poesia ogni parola è domanda. Allo stesso tempo, l’esercizio di scrivere traendo spazio dal vuoto rende evidente l’azione sotterranea di accostamenti sonori e associazioni libere. Per cui, primo pensiero: Ah! non ci casco, troppo facile. Un secondo pensiero va rivolto alle unità di senso/non-senso; questo perché le parole appropriate suggerite dal linguaggio accademico, in questa scrittura sembrano meccaniche, non fluide, come si direbbe oggi. Ma Pugliese indica una via, tutt’altro che trascurabile.
Le filosofie orientali hanno coltivato il vuoto avendone capito la potenza, basti pensare al vuoto mentale zen. Nello stato di vuoto mentale, come in una poesia kitchen, le immagini sgorgano vivide, nude, potenti e senza filo logico .Oppure il filo c’è, ma altrove, sono frammenti del passato. Nessuna immagine aspetta che l’altra arretri per ‘detonare’, come dice Giorgio .
Sul linguaggio critico
Un linguaggio critico non lo si incontra per strada, non lo si trova tra le dispense delle università, non lo si trova perché non c’è. Un linguaggio critico te lo devi creare con grandissimo sforzo da solo; questo vuoto che avverto nella mia scrittura critica, lo si può discernere, centuplicato, negli scritti professionalmente ben educati delle schedine editoriali, non occorre una lente di ingrandimento per leggervi il vuoto; si tratta di scritti cerimoniali, augurali, biglietti da visita il più delle volte deliziosamente superflui.
La crisi del Covid19 e della guerra di invasione dell’Ucraina
Tra l’Australopithecus (oltre 3 milioni di anni fa) e l’Homo sapiens (circa 150 mila anni fa) da cui deriviamo, si situa la storia dell’animale bipede dotato di linguaggio. «Homo» è il nome del genere, «homo sapiens» è il nome della specie dove «sapiens» è l’aggettivo specifico. Nel 2020, un organismo non vivente, un insieme di molecole, un cosiddetto, «decompositore», il Covid19, si è insediato nel suo habitat. «Dalla fine della seconda guerra mondiale sono accaduti in Occidente quattro fatti imprevedibili che hanno colto di sorpresa anche il pubblico più informato: il Maggio francese del ’68, la Rivoluzione iraniana del febbraio 1979, la caduta del muro di Berlino nel novembre 1979, l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2011»,1 a cui aggiungerei la pandemia del Covid19 e la guerra di invasione dell’Ucraina.
Il «mondo di domani» non sarà più come il «mondo di ieri», la Unione Europea tenta di emergere dalla crisi. In Italia, cosa hanno da dire i poeti in Italia? Non v’è chi non veda l’anacronismo tra la gravità della crisi e la risposta della poesia. Nessuno aveva avvertito la gravità degli eventi, si continua a pubblicare libri implausibili. La nuova ontologia estetica aveva acceso i suoi riflettori sulla gravità della Crisi. Il fatto è che se si accetta un certo tipo di poesia che prende lo spunto dalla «superficie» del reale mediatico, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», cioè che assume come incontrovertibile che le parole siano libere rispetto alle cose. Partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».2
Questa impostazione finisce necessariamente in quella che Maurizio Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo si finisce dritti nell’«addio alla verità».3 La poesia del post-minimalismo, comprendendo in questa categoria tutti gli epigoni e gli imitatori del loro capostipite Magrelli, soccombe ad una visione apologetica del discorso poetico, non ci si pone più il problema del discorso sullo statuto di verità del discorso poetico, si continua a fare un discorso autoreferenziale in nome di una liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una epistemologia personalizzata. La poesia del post-minimalismo riassume questo percorso della cultura poetica del secondo novecento che approda ad una pratica della poesia come discorso personalizzato.
Scrive Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».4
Il principio fondamentale di questo «realismo post-veritativo» è: la forma-poesia come produzione di ipoverità, di iperverità, di post-verità.
1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009, p. 5.
2 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 122.
3 Ibidem p. 122.
4 Ibidem p. 115, 116.
Sull’esperienza
Quando si parla di poesia abbiamo in mente un «modello». «I giochi di parole non mi hanno mai interessato», afferma Derrida, «piuttosto, sono dei fuochi di parole». Occorre consumare i segni fino alla cenere e con maggior violenza slogare l’unità verbale, l’integrità della voce, «frangere o affrangere» [frayer ou effrayer] la superficie delle parole. Il «fuoco di parole», come lo intende Derrida, è appunto un avvenimento, non una semplice prestazione agonistica di scrittura: qualcosa avviene grazie al discorso e nel discorso. È proprio questo, per Derrida, l’intento ultimo della decostruzione è lasciare traccia. Il filosofo francese ha definito la traccia come ciò che resta di un’origine che si perde «originariamente» (ma non assolutamente), e quindi come l’esperienza stessa della différance, del venire meno dell’origine. In questo senso, la traccia lasciataci dalla decostruzione sarebbe costituita da varchi che essa apre in luoghi in cui la tradizione sembrerebbe andare in crisi e che invece ce la riconsegnano, lasciandola accadere e rilanciandola.
In un certo senso la «nuova poesia» porta alle conseguenze ultime ciò che la tradizione ci ha lasciato in eredità, e così facendo prosegue la tradizione attraverso la rottura della stessa e attraversando i varchi e le fessure che la costituiscono, riappropriandosi delle tracce, ombre di orme un tempo definite. Si può lasciare alle spalle una traccia soltanto se la si è attraversata nella sua invisibilità. Soltanto quando diventano invisibili le tracce possono essere rintracciate.
Qualcuno ha argomentato che la nuova ontologia estetica sia una poesia della crisi, tipicamente postmoderna e che il suo decostruzionismo si risolve in un gesto nichilistico e irresponsabile. Io invece penso che la NOE sia a tutti gli effetti una poesia politica, una tipica espressione della polis di oggi, dell’economia globale che ha posto fine alla antica poesia da economia curtense della pre-polis.