La perquisizione notturna è uno dei principali poemi di Velimir Chlebnikov. Nei giorni del terrore rosso un drappello di marinai irrompe in una casa, dove viene fucilato un giovane nemico di classe. Il Capo che lo ha ucciso è sconvolto da come quello rideva «incurante davanti al caricatore della morte». Sul luogo dell’omicidio si organizza una gozzoviglia. Sbalordisce la dovizia di termini usati da Chlebnikov. Il poeta si serve degli strati più diversi della lingua russa, tra cui il gergo dei marinai e quello della strada. La costruzione del poema si basa sulle continue ripetizioni del crudele racconto del capo. «Una pallottola in testa, eh?» – dice al marinaio il giovane condannato a morte, e poi aggiunge: «Addio, minchione! Grazie per il tuo sparo». Ubriacandosi, il Capo ripete cinque volte il suo racconto sull’uccisione. Il critico letterario M. Poljakov scrive: «…Il Cristo che guida la marcia dei soldati bolscevichi ne I dodici di Blok, in questo poema di Chlebnikov non c’è, non parteggia né per i bianchi, né per i rossi, ma nella sua ira incenerisce gli assassini. Si può dire che il Capo provoca Dio, attirando il fuoco su di sé. Egli è una figura tragica, a lui Chlebnikov ha dato una parte della sua anima: oggi egli guida una «banda di santi assassini», domani potrebbe benissimo partecipare alla rivolta di Kronstadt dei marinai contro il governo bolscevico. Ma non sarà mai uno degli «acquisitori» – odiati da Chlebnikov – che camminano quatti quatti dietro gli «inventori», e conoscono una sola parola: mangio».
(Paolo Statuti)
La perquisizione notturna
Allerta!
Pronti a sparare.
Sotto, ragazzi:
A destra il 38.
Bussa più forte!
– Agli ordini!
– Allerta!
Dentro!
– Prego, prego,
Benvenuti!
– Mare, alt!
– Poche ciance, madre
Testa grigia,
Il mare non lo freghi.
Apri gli occhi.
E’ qui il 38?
– Sì, benvenuti,
Cari compatrioti! –
Trema la testa d’argento
Viva a stento.
– Madre!
Il nome!
Su, facci strada, mammina!
Rispettabile
Mamma!
Non ti agitare,
Andrà tutto bene.
Dov’è la selvaggina?
– Tu! Mettiti alla porta.
– Fatto – la soffitta.
– Tu, qui!
– Agli ordini!
– Avanti, mare,
Gagliardi!
Si nascondono i codardi…
Hanno trafitto,
Sono arrivati in tanti,
Hanno agguantato i furfanti,
I bianchi non l’hanno fregati.
– E tu, madre, sveglia!
Muoviti!
Anche i vecchi possono sedersi
Sulla punta della baionetta.
E il maritino, ci aspetta?
Tira fuori i furfanti,
Per me, vecchio
Lupo di mare!
Sento col naso –
Ho fiuto, io –
Un fiuto di segugio:
La selvaggina c’è.
La caccia andrà bene.
– Fratello, annusa.
Odore di selvaggina bianca.
Ho fiuto, io.
Segugi-fratelli, fatevi sotto!
– E’ tutto quello che ho –
E anche un po’ di perle.
– Quanti pezzi?
– Quaranta?
– Bastano per la cena!
Non gracchiare!
Prendi, arraffa!
Fratello, agguanta!
Tutto qui?
Non siamo signori!
Prendi
A volontà.
Non siamo zar
Da starcene a sognare.
Prendi, arraffa, prendi, arraffa!
Ehi, mare, agguanta come aquila!
– Agguanta, sotto!
Prendi a volontà!
– Vecchia, suonaci una polca.
– La tristezza non ti aiuterà.
Voce:
Mamma, mamma!
– Madre, madre!
Parla!
Fuori la canaglia bianca!
– Domani si riunisce il soviet.
Io sono vecchia, marinai!
Rosso, bianco,
Ossa bianche.
Non capisco, scusate.
Ho i capelli bianchi.
Sono una madre.
– Pam! Pam!
Sparo, fumo, fuoco!
– Chi ha sparato?
Fermo! L’arma, su le mani!
– Facciamogli la festa!
– Giovane, contro il muro.
Così! E su la testa!
Chioma grano spigato,
Baffetti oro filato.
– Vicino alla stufa, cane,
Togliti le pelli umane!
– Scusami, lupo di mare,
La mira sbagliata:
La mano tremava,
Pallottola pazza.
– Ride, coraggio o arroganza?
Lo facciamo fuori? –
– Una pallottola in testa, eh? Fratelli compagni,
Gente del mare?
Si dice che siete generosi. –
– Proprio così!
Il mare può,
Pietà il mare
Può mostrare!
– Voltati, vecchia.
– Una pallottola in petto
Al signorino bianco?
– Al mio figlio diletto?
– Via la camicia, servirà a un altro,
Nella fossa si può anche nudi.
Niente signorine nella fossa.
Giù i pantaloni
E girati.
Togliti tutto! E non dormire –
Avrai tempo. Ti addormenterai subito,
per non svegliarti più!
– Addio, mamma,
Spegni la candela sul mio tavolo.
– Tu, porta via gli stracci. Puntate! Uno! Due!
– Addio, minchione! Grazie
Per il tuo sparo.
– Ah, è così!… Per il bene del popolo.
Tra-ta-ta!
Tra-ta!
– Grazie, ma per cosa:
Per un ovetto di piccione
O di rondone?
Eccoti un indovinello!
E’ servito il colombello,
Le gambe ha steso.
Era una buona pappa
E un bel furfante.
Ancora due spari:
Uno sul pavimento,
E uno al creatore!
Ecco! Qui!
L’abbiamo spedito all’inferno.
Noi col fuggente mare
Dietro le allegre spalle
Sulla camicia bianca,
Sulla camicia azzurra,
Vedremo – putupum!
I pantaloni ho più larghi,
E il ferro nella mano,
Non un castoro argentato,
Ma il mare turchino
Il forte collo ha cinto
E la bianca camicia
All’inferno!
– Che dici, tirarlo su?
Portarlo via?
Lasciarlo lì non è bello.
– Fregatene! Che c’importa!
– Mamma!
Guarda che gioiello:
Più di venti non può avere,
E i capelli – di neve!
E gli occhi neri,
Così vivi!
– Il mare porta con sé la neve.
In un quarto d’ora sono incanutita.
Se non vi piace guardare una vecchia,
Non guardate, voltatevi!
Vladimir! Volodja! Vladimir!
Mamma! E’ nudo!
– Bellezza!
I cadaveri non hanno freddo!
E i morti non si vergognano.
– Datevi da fare! Basta!
– Vigliacco! Ride dopo la morte!
– Una camicia così
Io non l’ho mai indossata – buona!
E senza macchie di sangue.
Stoffa come si deve.
E’ entrato e la mano sulla spalla.
– Fratello! Ho fatto a pezzi un rettile!
E’ steso in soffitta.
Vicino alla mitragliatrice.
– Eh, eh!
– Dov’è mia madre?
– Bianca bellezza,
Sei così imbiancata
Ancor prima del nostro arrivo?
Il vento del mare non aveva ancora soffiato,
Di mare e di vento non c’era ancora odore,
E qui era già nevicato
Sul solaio e sulle teste.
Sporgeva la canna della mitragliatrice
Da sotto il piumino?
Non fa niente, non fa niente.
All’inizio di primavera
Un fiore di ciliegio
Ti è caduto sulla testa come neve.
Scuotila, i petali cadranno,
Cara signorina.
Una bella coltre
Di fiori per la bara.
– Ecco tutto!
– Fratello!
Perché la tormenti?
– E adesso,
Cara signorina in bianco,
Al muro!
– Questo? Quello?
Quale?
So-no pron-ta!
– E allora, al diavolo!
– Fermo!
Basta col sangue!
Vattene bambola!
– Sangue? Oggi non c’è sangue!
C’è broda, broda, solo broda.
Nella stalla umana
Il sangue è annerito.
E’ di suo fratello
O del marito.
– Vladimir!
– Mamma!
– Se avessi detto “papà”,
Sarebbe stato più spassoso!
E’ alle corse? Di’ un po’,
Fra i trottatori di Orёl?
Al trotto e poi al galoppo!
O forse ama gli ostacoli?
E supera tutti nei salti?
Bambola, va’ via,
Vattene, presto!
Levati di torno!
Qui ci sarà baldoria.
Non piangere, sorellina,
Questo non è posto per i liberi.
Anche noi abbiamo sorelle.
Nei villaggi e nei boschi,
E non nelle grandi città.
Vattene tranquilla, donna,
Per la tua strada.
– Oh, c’è uno specchio, mi raderò!
Tempo ce n’è.
Specchio deformante,
Ceffo truce.
Dalla finestra, ragazzi,
Tutti questi stracci –
Qui non gli servono più.
E qui un mare faremo,
Con le onde spazieremo.
Manca solo un gabbiano.
Al diavolo lo specchio –
Un pugno e s’è spezzato!
– Ah, mi sanguina la mano.
Lo specchio è un calamaio di rosso inchiostro.
– Con una scheggia di specchio che soldato!
A volte gli specchi sono crudeli. Essi
Ostinatamente guardano,
E i giudici qui non servono –
Più buio!
– Ehi, amico!
Dammi un fazzoletto!
– Vladimir!
Volodja!
– E’ morto! E’ morto
Oggi!
E’ morto e basta!
Non ti sentirà!
Piegato sul pavimento
Riposa in pace.
E non respira.
– E questo cos’è? Una bella tastiera
Per la gioia della signorina bianca?
Siede qui la sera
E pensa al marito,
Strimpella sottovoce.
E il nero tasto
Dietro al bianco risuona
E lo segue, come la notte
Il giorno con ostinazione.
Chi di voi sa sonare?
– Ma si può…
Accarezzarlo un po’
Con la canna o con il calcio…
Guardate, fratelli, ha, ha
Correte qua,
Ci sarà un rombo, un tuono e un canto…
E un lamento.
Come se in sordina
Guaisse presso il recinto un cucciolo.
Un cucciolo dimenticato da tutti.
E di cannoni il terribile schianto si leverà,
E un ghigno, una risata subacquea e di rusalka.
Sono accorsi. Brusio di corde,
Ghigno di corde, un riso sommesso.
– Con il calcio bam!
Bam con il calcio! – Ridi, mare!
Mare, ridi! Grosso pugno della bufera
Oggi va’ sui tasti…
Sulle trincee del nemico i proiettili… Fuoco!
Nelle cantine la serena festa della Madonna,
Che i connazionali trascorrono in silenzio.
Dapprima la miseria nutrono
Con il bianco corpo,
E poi i vermi.
Due cambi, due camicie:
Una più stretta dell’altra.
Un solo piatto per due bocche.
Ascolta, hanno risonato le corde!
Volano incontro alla morte.
A lungo risonerà
Della corda il rame.
– Ancora un colpo,
Dai!
Ronza come api,
Quando l’apicoltore prende il miele.
Bam! Bam!
– Ben fatto, marinai.
La nostra opera marina:
Spezza e abbatti!
Spezza e annienta!
Rompete, schiantate.
Senza tregua saccheggiate,
Selvaggi del mare!
Coraggio! Animo!
Non invano siamo ingrossati,
Qualcuno aggiusterà,
Ma questo ciarpame,
Questa cassa dove ulula un cucciolo,
Sul lastrico,
Dalla finestra!
Così,
Spaventiamo le vicine!
– E’ l’opera dell’avanzante,
Burrascoso mare.
A modo nostro avanti,
Non come mendicanti.
A pezzetti
Bbaam-ppuum!
– Oggi il mare è scatenato,
Il mare infuriava,
Il mare s’è infuriato.
Una tale forza.
– Non ha schiacciato nessuno?
– Ma no!
Soltanto tre formiche,
Uscite in ricognizione.
Un polverone. Che forza!
– Dove hai il fucile, amico?
Ragazzo, lo prendi quel corvo?
– Subito!
Pam!
Servito.
Colpito?
– Caduto.
Crepato.
– Dov’è la vecchia?
Madre, ci sei?
Qualcosa da pappare!
Vino e salmone!
E una tovaglia bianca.
Fiori. Bicchieri.
Sarà un banchetto coi fiocchi.
E perché sia più ricco
Anche carne e arrosto,
O ti piegheremo a ferro di cavallo!
– Ragazzi, papperemo,
Mangeremo, fratellini, berremo.
Ci abbotteremo.
Adesso comincia il lavoro-mamma!
Scricchioleranno le mascelle.
Eppure odora.
Dai morti lo spirito esala.
– Vladimir!
– Le serve Vladimir – geme!
E a noi non pensa, non ci vuole!
Dai, prendiamola un po’ in giro:
– Siamo qui!
– Sono qui, Olja!
– Sono qui, Nina!
– Sono qui, Veročka!
– Miao!
– Che spasso!
Con la voce sottile,
Dai, grida come una befana.
– Ragazzi, non scherzate
Con la bara, con la morte.
– Hai colpito bene
Col fucile.
Che canto,
Che tintinnio, che suono e come un uccello,
morendo, è piombato giù.
Come il mare in burrasca.
Guarda, sulla porta una targhetta:
“Si prega bussare”.
Qualcuno ha messo un “r” – è diventato:
“Si prega russare”
Sulla porta della fresca bara,
Dove sono le sorelle del morto e le vedove.
Ha-ha-ha!
Bella trovata.
– Però, ha chi
Rimpiangere la vedovella
Dai capelli grigi.
Noi, vento, le abbiamo portato la neve.
Vento del mare.
Il mare è il mare!
Proprio così, ragazzi,
Noi passiamo come la morte
E la sventura.
Il mare è con noi!
Il mare è con noi!
Cadaveri a bizzeffe.
Mare dilagato,
Mare – narici strappate,
Brigantesco,
Sfrenato.
Rosso di bufera,
Mare sfrenato,
Mare di Pugačёv.
– Col mio fiuto di segugio
La preda bianca ho sentito.
Un cervo! Lo sento,
Puzza di bianco!
E ha sparato!
Dietro la tenda stava,
Era in agguato il cocco di mamma.
Ha sbagliato la mira
E ride.
Io a lui: – “Fermo là, ragazzino!”
E lui:
“Una pallottola in testa, eh?”
“Proprio così”, dico.
– Tra-ta-ta!
Così allegramente
Ha scosso i capelli,
Ride.
Quasi chiedesse il prezzo,
Mercanteggia.
Questione di commercio,
Questione nota,
Per tutti una fine sola,
Due non ci sono.
All’inferno!
E fregatene.
“Proprio così”, dico,
“E’ possibile,
Pietà il mare
può mostrare”.
– Tra-ta-ta!
– E’ andata così:
Fa il ragazzino:
– “Una pallottola in testa, eh?”
“Proprio così” –
Rispondo.
Tra-ta-ta! Fumo! E l’aria s’è infocata.
Adesso giace l’orochiomato,
Perché la sorella, piangendo, lo baci.
“Micetto, micetto mio,
Micetto d’oro”.
– Ragazzina, dove vai?
Lasciapassare per vedere il micetto!
Alt!
– Ehi, aspetta,
Non c’è il lasciapassare per vedere il micetto.
Dalla finestra!
– Come ti chiami?
– Nataša.
– Noi pensavamo bagascia,
Suona meglio.
– A tavola, gente.
– Dritta come un fuso
La vecchia si regge.
Vladimir era davvero suo parente.
Il figlio. E’ cupa e funesta.
“Sotto la quercia, quercia, quercia!”
Sono quasi le sei.
Versiamoci da bere, compagni,
Per sollevarci un po’!
Sciaborda!
Rumoreggi il mare,
Mare dilagato!
“Nuove nozze celebra
Egli è allegro e ubriaco… e ubriaco”…
Che giorni!
– Seduti, fratelli, bagniamoci la gola!
Alla tavola che si apparecchia da sola.
“Sotto la quercia, quercia, quercia!”
Seduti, fratelli!
– Fumiamo?
– Fuoco!
– Oh, dio, dio!
Dammi da fumare.
La mia s’è spenta.
S’è consumata a poco a poco.
Vecchio, tu non fumi – là in cielo?
– Tace.
Il vecchio non s’è mostrato.
Non è uscito dalla trincea.
Si nasconde nelle nuvole.
Non importa. A noi la vodka mare dilagato.
A dio – le nuvole. Non litigheremo.
Ecco dio nell’angolo –
E sul petto un altro
Con la corona di spine,
Inchiodato alla tavola, fatto,
Inciso
Con polvere turchina sulla pelle –
Usanza dei mari.
Egli fuma una candela…
Meglio della nostra – di cera!
Sì, egli nell’angolo guarda
E fuma.
E spia.
Potesse ridursi
In trucioli per il samovar!
Sminuzzarsi in piccole schegge.
Carbone di prima qualità!
Non gli servono a niente
Quegli scuri occhi turchini,
Di cui si ha voglia d’innamorarsi,
Come di una fanciulla.
E di fanciulla dio ha il volto,
Solo che è barbuto.
In due parti
Fluisce la barba,
Come scuro intreccio
Di greggi presso il lago,
Come di notte la pioggia,
Occhi come prealba cèruli,
Profetici e sereni,
Severi e bellissimi,
Teneri come parole inespresse,
E serenamente rivolti
Con segreto rimprovero,
A noi, all’intero stuolo
Di santi assassini,
Alla nostra gozzoviglia
Di santi assassini.
– Attenti, verrà giù
E ne farà una delle sue.
Lo incontreremo, sbatterà le ciglia,
E ti accenderai come bomba incendiaria,
Occhi scuri come i cieli,
E c’è un segreto profetico in essi
E intorno tanta pace.
Laghi di azzurro pensiero!
– Una pallottola in testa, eh?
Me la pianti in testa, dio verginella,
Anche tu hai sette colpi.
Con i grandi occhi azzurri?
E io dirò grazie
Per le lettere e i saluti.
– Mare! Mare!
Egli è d’accordo!
Ha sbattuto le ciglia,
Come un uccello le ali.
Gli occhi mi volano dritti nell’anima,
Volano e incalzano, frullano e frusciano.
E severo come il supplizio
Egli mi fissa in un freddo ostinato!
Da spaventosi racconti sbarrati,
Come uccelli m’incalzano
Gli occhi azzurri dritti nell’anima.
Come due grandi uccelli marini, azzurri e cupi,
Nella burrasca, due procellarie, messaggere di tempesta.
E frullano e frusciano con le ali! Volano! Si affrettano.
Da parte a parte! Da parte a parte! Si tuffano in fondo
All’anima.
– Sì… sono ubriaco… Anche questo è vero…
Ma voglio che egli mi uccida
Subito e qui sulla tovaglia
Macchiata di vino, piena di vetro.
– Brigata-masnada!
Santi assassini!
Voi con le camicie bianche,
Azzurreggiando di mare rigato,
E i pantaloni larghi, mozzi e neri,
E le azzurre ali spiegate, dietro il fiero indomito collo,
Simili ai flutti del mare e alla risacca,
Al vento turchino del mare,
E come il volo della nera rondine sulla nuca,
Sulla scritta nota, della nave il nome.
Oh, idioma della patria marina, fortezza galleggiante,
E nome della libertà dello stato!
Brigata-masnada,
Vagabondi del mare!
Tu batti i sordi i piedi
Sulla nave e sulla terra,
E nell’ora della sventura non conosci il rollio,
Anche se non lo temi in mare.
Oggi esaudisci la mia preghiera:
Voglio cadere ucciso sul posto,
Voglio che cada il fuoco mortale
Dall’angolo dell’icona. –
Da lì nereggi la bocca del fucile
Per dirgli – minchione!
Al cospetto della fine.
Come quel ragazzo mi ha gridato,
Ridendo incurante
Davanti al caricatore della morte.
Nella sua vita ho fatto irruzione e l’ho ucciso,
Come fosco nume della notte.
Ma egli ha vinto con una squillante risata,
In cui i vetri della giovinezza tintinnavano.
Adesso io voglio vincere dio
Con un’allegra risata della stessa forza,
Benché tutto mi sia cupo
E penoso. E difficile.
– Dio! sono ubriaco… “S’è sbronzato…il nonnino”…
“E’ ora di tornare a bordo”. – Andiamo!
– Sono ubriaco, ma ascolta…
Dai, fumiamo!
E parliamoci un po’ a cuore aperto.
Molti miracoli hai fatto,
Solo che non sei stato un padre.
Macché! Io lo so!
Tu sei una ragazza, ma con la barba.
Tu cammini nel campo e cogli i fiori.
Intrecci ghirlande
E nelle onde poi ti specchi.
Tu occhicèrulo di campagne,
Di campi e villaggi,
Con la barbetta ricciuta –
Ecco chi sei.
Fanciulla! Vuoi
Che ti regali un profumo?
Fisserai tu
Il giorno dell’incontro,
Ed io verrò coi fiori
Elegante e rasato,
Sognante.
Poi sul lungomare,
Sul litorale passeggeremo.
A braccetto,
Come si fa?
Su, baciamoci.
Ci abbracceremo e ci daremo del tu.
Tu che sei nei cieli.
– Amico, aspetta,
Non andartene, non arrabbiarti!
– Rusalka
Dai vaghi occhi possenti,
Bevi un po’ di vodka!
Così.
– Amico!
Dove ci vedremo?
Nella fossa comune?
Io porterò da bere,
A dio offrirò l’aràk
E inviteremo là le puttane.
Nell’altro mondo
Ricevo dalle tre alle sei.
Va’ senza paura:
I bambini temono,
E noi ormai giovinezza addio.
Poi il santo faremo ubriacare,
Odessa-mamma intoneremo.
O dei, dei, fateci fumare!
Che altro c’è da dire.
Bevi, nonnino, là nell’angolo!
Ah!
Egli muove le labbra
E una parola ha pronunciato…nel linguaggio dei pesci.
Egli ha detto una parola, terribile parola,
Egli ha detto una parola,
E questa parola, oh, fratelli,
E’: “Incendio!”
– Sei ubriaco? – No, ubriachi siamo noi.
– Arrivederci all’altro mondo.
– Una pallottola in testa, eh?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
– Vecchia! Scaltra megera!
– Tu hai appiccato il fuoco.
Bruciamo! Aiuto! Fumo!
Ma io sono contento e tranquillo.
Sto qui, mi arriccio i baffi e tutto è a posto.
Salvatore! Sei in minchione.
– Presto! Capo, presto!
Col calcio dei fucili.
La porta è di ferro!
Spararci?
Soffocarci?
La vecchia (mostrandosi):
Come volete!
7-11 novembre 192, Pjatigorsk
(apparso su “Poesia” nel 2014 e su “Rassegna Sovietica” nel 1990)
Velimir Chlebnikov (1885-1922) a cura di Antonio Sagredo
Per il centenario della nascita di Chlebnikov (1885-1922) presentiamo nella traduzione di Paolo Statuti Nočnoj obysk (La perquisizione notturna) che Chlebnikov scrive a Pjatigorsk dal 7 novembre all’11 novembre 1921 e pubblicato a Leningrad nel 1928-1933.
Scrive Evelina Schatz che il poeta
“rimane più leggendario che conosciuto: conosciuto soprattutto ai poeti, agli scrittori, a tutti quelli che resistono alla tragica immobilità della cultura. Fu Angelo Maria Ripellino – estroso, mobile e fervido slavista e poeta delle “Slavie” – a scrivere una saggio davvero chlebnikoviano. A tradurre l’intraducibile. Come un Livinstone che risale il corso d’uno Zambesi, Ripellino si addentra nella fitta foresta del “nominare il senza nome, di misurare il senza misura, di vedere il senza volto”*
Poeta per poeti, così fu definito, e per questo sono inimmaginabili i grandi poeti russi dell’inizio del secolo scorso: tutti quanti – Pasternak fu uno dei tanti poeti che invano cercò di affrancarsi: invano, sono lì i suoi versi a testimoniare quanto devono a quelli di Chlebnikov. Ha anticipato l’architettura del futuro, p.e. coi suoi palazzi di cristallo; “ha previsto – dice la Schatz – la televisione e l’informatica, e il dominio crescente dello Stato, “l’erario costruttore”. Ed è un monito a tutti i poeti futuri per cui ha scritto in versi, (e vale specie in questi terribili primi tempi dell’anno 2022), affinché mai possano schierarsi col Potere:
Velimir Chlèbnikov
Mosca, chi sei?
Incanti o sei incantata?
Scateni libertà,
o sei incatenata?
Quale pensiero corruga la tua fronte,
cospiratrice mondiale?
Sei forse una chiara finestra,
che dà su altri tempi,
o piuttosto una gatta esperta…
1921-22
(trad. di A. M.Ripellino)
*
Poco, mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo
e queste nuvole.
*
Rifiuto
Per me è molto più piacevole
Guardare le stelle
Che firmare una condanna a morte.
Per me è molto più piacevole
Ascoltare la voce dei fiori,
Che sussurrano «È lui»
Chinando la testolina,
Quando attraversano il giardino,
Che vedere gli scuri fucili della guardia
Uccidere quelli
Che vogliono uccidere me.
Ecco perché io non sarò mai,
E poi mai, un Governante.
1921
(Traduzione di Paolo Nori)
da 47 poesie facili e una difficile, Quodlibet, 2009
Recentemente al Festival di Vilnius è successo che indirettamente Chlebnikov è stato rifiutato perché la regista Kristina Paustian è di nazionalità russa, ma “ il suo film- il cui titolo è Timekeeper– non è direttamente su Chlebnkov, ma sul viaggio della regista che visita vari luoghi dove il poeta è vissuto scrivendo appunti su come lavorare a una sceneggiatura». E’ qualcosa di più di una semplice intolleranza culturale, mentre a Salonicco il film è stato accettato.
Velimir Vladimirovic Chlebnikov nasce nel 1885 nei pressi di Astrachan’. Il padre è agricoltore e ornitologo. Viaggia a lungo tra la Russia e l’Oriente e studia matematica all’università di Kazan’. Nel 1908, a Pietroburgo, frequenta l’ambiente letterario e conosce Ivanov, Gorodeckij, Kuzmin. Nel 1912 pubblica Gioco all’inferno, scritto a quattro mani con il poeta transmentale Alexej Krucenych. Nel 1913 pubblica I tre, in memoria di Elena Guro, con testi dello stesso Krucenych e della Guro. Nel settembre dello stesso anno, ancora in coppia con Krucenych, pubblica La parola come tale, delle note di poetica in cui sostiene che «la lingua, se deve somigliare a qualcosa, più di tutto deve assomigliare alla freccia avvelenata del selvaggio». Nel 1916 è arruolato nell’esercito zarista nel 1919. Durante la guerra civile è in Ucraina. Arrestato, è rinchiuso in un ospedale psichiatrico di Char’kov. Gli anni 1918-1922 sono i più fecondi e felici per il poeta. Vagabonda per il paese, messo sottosopra dalla rivoluzione. Assorbe gli umori delle masse e della rivoluzione. Vaga vestito di cenci per le steppe del Caspio. Bighellona nella calca dei bazar di Char’kov. E’ ricoverato per scabbia a Tsaritsyn. Ascolta interminabili discussioni letterarie nella stanza di Maiakovskij a Mosca. Lavora incessantemente ai suoi «prodotti semi compiuti», alle sue «poesie per poeti». Si porta con sé – unica ricchezza – la bisaccia con i fogli, a volte solo i frammenti, dei suoi manoscritti, che regolarmente smarrisce nelle case degli amici o nei luoghi dove si trova fortunosamente a dormire, a volte in stalle o vagoni ferroviari, a volte sul duro pavimento o nel muschio dei boschi. In quegli anni scrive la maggior parte delle sue opere, fra cui almeno tredici lunghi poemi (Notte in trincea, Ladomir, Razin, La notte prima dei Soviet, Perquisizione notturna, Zangezi, etc..) e decine di poesie, articoli, note. Quasi nessuno dei suoi scritti viene pubblicato. Chlebnikov esiste come leggenda per i poeti. Majakovskij lo chiama «Colombo dei continenti poetici» e scrive: «Chlebnikov ha creato un intero sistema periodico delle parole: prendendo una parola con forme non sviluppate, non note, e confrontandola con una parola sviluppata, dimostra l’ineluttabile necessità della comparsa di parole nuove». Definito il Lomonosov della poesia moderna russa e «l’unico poeta epico del XX secolo», espone agli occhi dei contemporanei una personalità suggestiva, bislacca, innocente e folle, che attrae ancora di più dei suoi versi. Visionario monomane, medita sui destini della poesia e dell’universo. Le sue fantasie poetiche si intrecciano a ragionamenti mistico-matematici che mescolano la Cabala, la ricerca di un linguaggio «stellare» universale, l’utopia dell’Eterno Femminino, il mito della «parola autonoma». Per lui non esistono limiti alla forza plasmante delle parole. Nei suoi Decreti sui pianeti scrive che «il sole obbedisce alla sua sintassi». Chlebnikov appare sempre più come un santo e un veggente, esempio del più alto «disinteresse» verso la propria esistenza quotidiana. In anni in cui la vita di ogni giorno acuisce in tutti l’istinto di conservazione, il poeta traversa l’orlo della miseria e del disastro con la naturalezza di un fanciullo, leskoviano «viaggiatore incantato». In una lettera che risale agli anni ‘20 scrive: «Sono un dervis, un joga, un marziano, tutto, ma non un fante di un reggimento di complemento».
Benché Chlebnikov venga considerato un poeta epico, il suo epos è fantastico e non trova echi profondi e riconoscibili nel movimento storico dei suoi anni. L’unico elemento epico è l’ansia di trasformazione della parola in quanto tale, la metamorfosi dei segni e delle lettere. La sua creazione, in un certo senso, è un poema discontinuo e ininterrotto – materiale inesauribile per l’immaginazione dei poeti. La sua protesta contro le vecchie forme, nella letteratura come nella vita, si esprime da un lato nei neologismi verbali, nella «fusione» delle parole, nella «foresta arcaica» della lingua, e dall’altro negli intriganti sogni utopici (le «città di vetro», i paradisi agricoli, la fratellanza tra i popoli). La sua poesia guarda a un futuro che affonda le sue radici nel passato, come spesso si augurerà Mandel’stam parlando della poesia russa contemporanea. L’autore dei Quaderni di Voronez scrive di lui: «Chlebnikov è cittadino di tutta la storia, di tutto il sistema del linguaggio e della poesia. Una specie di Einstein idiota, il quale non sappia distinguere se sia più vicino un ponte ferroviario o il Canto della schiera di Igor’. La poesia di Chlebnikov è idiota nel senso autentico, greco, non offensivo della parola». Ripellino commenta a sua volta: «L’arte di Chlebnikov oscilla tra gli accorgimenti di un primitivismo allusivo e le macchinose visioni dell’avvenire, quasi sempre enunciate al passato. Già la sua posa di mago e profeta e astrologo è connessa con questo sentimento del primordiale. In versi che hanno una gaia pastoralità da balletto egli inventa una Russia pagana, un’arcadia slava». Racconta di lui Kornelij Zelinskij: «Una volta (si era nel 1920) incontrai Velimir Chlebnikov a una serata di poesia che era stata organizzata con lui da Esenin e Mariengof, giunti a Charkov. Quella sera Velimir, con la barba e i capelli incolti, vestito da una goffa palandrana, lento nei movimenti come una sonnambula, fu consacrato Presidente del Globo terrestre».
Nei primi anni ’20 Chlebnikov è nel Caucaso. Lavora a Baku, presso un’Agenzia Telegrafica. Nel 1921 è in Persia per tenere corsi di cultura politica. Tornato in patria, lavora come guardiano notturno a Pjatigorsk. Quindi si trasferisce a Mosca, dove vive in estrema miseria. Per abitudine, infila i suoi versi nelle federe dei guanciali dei letti dove si trova avventurosamente a dormire, e come un sonnambulo, nel suo vagare nomadico, spesso li dimentica. Durante uno dei suoi viaggi da vagabondo in un vagone ferroviario, è colpito da setticemia e muore, nel 1922. Se è vero, come suggerisce un suo verso, che «vi sono scritture-vendetta», la scrittura poetica di Chlebnikov è, ai giorni nostri, un inesausto atto di vendetta contro l’arcadia delle forme e l’annuncio di un poema discontinuo e interminabile, tuttora da scrivere per ogni poeta.
Chlebnikov è utopia. O piuttosto un “uccello” dell’utopia. Disse una volta: “Gli artisti hanno gli occhi acuti, come gli affamati”. Egli era diverso. “Aveva gli occhi come il paesaggio di Turner” (D.Burljuk). L’hanno dipinto e disegnato in tanti: V.Burljuk, B.Grigor’ev, M.Filonov, V.Tatlin, M.Mituric, questo concentrato, attraversante come direbbe Roland Barthes, non vendente e veggente insieme. Lo sguardo del poeta meglio di tutti esprime l’autoritratto. E’ forse il disegno più bello della grafica chlebnikoviana. La somiglianza non è solamente locale, ma intercontinentale: ci sta l’immenso stellare visto dal Poeta. Attraverso questa immagine del poeta ci si apre un particolare atteggiamento della sua poesia. Si potrebbe chiamarlo autoritratto della parola poetica.
Il legame tra immagine e parola era dell’epoca. I diari disegnati di Remizov, i paesoquadri di Kamenskij, i manifesti ideografici di Majakovskij. Chlebnikov chiamava questo fenomeno “la vittoria dell’occhio sull’udito”. Mai arte e poesia erano state più vicine. Scriveva il poeta:
“Vogliamo che la parola segua, coraggiosa, la pittura”. “Cercava le analogie tra le ricerche formali della nuova pittura francese e le proprie. Una ricerca unica su questo tema fu fatta da P. Duganov. Si interroga sulla corrispondenza del suono/colore della poesia fantapittorica Bobeobi. (Lico, il volto, non sappiamo se era un ritratto oppure il volto della natura stessa, quella “grandiosa molteplicità” che era oggetto costante delle sue riflessioni – “esso ha alzato la testa leonina e ci guarda ma la bocca è chiusa”. Forse non avremo mai risposta a certi quesiti. L’alchimia non è più o non è ancora una scienza.
La maggior parte della sua vita Chlebnikov la passa con gli artisti. Gli erano più congeniali dei letterati stessi. Amava l’atmosfera dello studio, della bottega. Non le serate letterarie, né le dispute poetiche. Ovunque si sentiva altrove. Vicina era solo la natura. E forse le botteghe degli artisti gli sembravano le riserve d’oro della natura, ancora selvaggia, in mezzo alla città violenta, estranea, e strana. La creatività, in genere, è per lui un evento della natura. Nel suo dramma “Marchesa Desez” (1909) tutto comincia con una vernice dove i quadri e le statue ritornano a vivere, mentre le persone diventano pietre o esseri scolpiti in un aldilà sconosciuto. La metamorfosi o più precisamente il rovesciamento, il voltarsi, la perifrasi, il tergo, il retro è la chiave, è l’essenza del suo verbo poetico. Abitava una microscopica stanzetta. Che ci ricorda Josif Brodskij e la sua “Una stanza e mezzo”: destino dei poeti russi, quando la Russia si prepara ad uccidere stringe verso il centro, prendendo la mira. La stanza assomigliava a quella di Tatlin degli ultimi anni, quando dipingeva le tele da ambedue i lati per povertà. Ma lo faceva anche Depero. Chlebnikov, per sdraiarsi, ripiegava le sue gambe da gru. Il tavolo in cucina si piegava sotto i manoscritti. Strabordavano fino a coprire il davanzale. Un’unica poltrona, in stile pseudo-russo o neo-russo, fabbricata dai sordomuti.
Io l’ho vista la stanza-e-mezzo di Brodskij. E, quella di Chlebnikov, la immagino simile. Non per l’aspetto, ma per quell’aria da cattedrale così densa che si può tagliare con un coltello. Cella da eremita, laboratorio per esperimenti alchemici/poetici. Aria di libertà. Di ricchezza interiore. Pensiero libero dalle stratificazioni di tutta la cultura preesistente, o meglio capace di sbarazzarsi del fardello di questa cultura. E cominciare da capo. Questo è il colore delle “stanze” dei poeti. Perché anche Brodskij, dalla sua stanza-e-mezzo e a modo suo, solitario e ribelle, visionario ma assolutamente secolare e mondano, ha costruito per la poesia russa negli anni 60-70 quel gradino che Malevic considera tipico solo degli artisti che provocano i veri mutamenti storici.
(Evelina Schatz “Contro gli standard del futuro” Tratto dalla cartella “Come illegittima cometa” Edizioni El Bagatt in Bergamo di Claudio Granaroli 1996 )
Scrive Osip Mandel’štam sulla lingua russa:
«Una lingua altamente organizzata, organica come il russo non rappresenta soltanto una porta verso la storia: è storia essa stessa. Una separazione dalla lingua significherebbe per la Russia una esclusione dalla Storia”. Con le parole Chlebnikov-la talpa scavò una serie di canali sotterranei verso la storia del futuro. Spettacolo maestoso: la lingua di un giusto, dantesco volgo. Nulla esiste prima: né monaci di Bisanzio, né letteratura della intelligencija. Si comincia da capo: un nuovo corso di destino linguistico. Una nave di grande cabotaggio. Gli altri fanno le valigie per scendere a terra dai decenni, o forse sono stati destinati da quella tavola dei destini a essere spazzati via come carta straccia».
La lingua del Potere non è la lingua russa: è soltanto la lingua del Cremlino e della Lubjanka, la lingua del Popolo russo è la unica e vera lingua russa, ed è questa lingua che i poeti russi hanno sempre difeso, da prima di Puškin e dopo Puškin, e per essa hanno patito e sono morti. Sono due lingue diverse, diametralmente opposte. La presunzione e la crudele arroganza della lingua del Potere giunge ad affermare che parla la stessa lingua del Popolo. La Menzogna è Potere e il Potere ha lunga memoria: difatti sono secoli che spadroneggia. Talmente crede di essere nella\la verità unica che ha perso il senso della Storia: si è esclusa da sola da se stessa: è il destino di tutti i linguaggi dispotici. Oggi la lingua del Potere è uscita allo scoperto, non agisce più dietro le quinte, è psicoticamente ancora più pericolosa: sa di non poter più mentire e si di\mostra al mondo per quella che è realmente. Crede questa lingua che con la sua morte – la morte del Potere – perirà tutta la Russia, ma non è vero: la Russia sopravviverà e forse siamo all’inizio del trionfo, finalmente, della lingua del Popolo. Non bastò allora una Rivoluzione e aveva ragione il poeta A. Blok ad affermarlo nei suoi Taccuini, che non era affatto una rivoluzione, ma l’inizio dell’ascesa di un Potere nefasto.
di Velimir Chlebnikov
ESORCISMO COL RISO
Oh, mettetevi a ridere, ridoni!
Oh, sorridete ridoni!
Che ridono di risa,
Che ridacchiano ridevoli,
Oh, sorridete ridellescamente!
Oh, dell’irriditrici surrusorie
– il riso di riduli ridoni.
Oh, rideggia, ridicolo
Riso di ridanciani surridevoli!
Risibile, risibile!
Ridifica, deridi, riduncoli, riduncoli,
Ridaccoli, ridaccoli!
Oh, mettetevi a ridere, ridoni!
Oh, sorridete, ridoni!
(tra. A.M. Ripellino)
Per chi voglia approfondire la conoscenza di questo poeta e della sua posizione antimilitaristica sulla guerra consiglio:
https://www.academia.edu/44242102/Velimir_Chlebnikov_due_brevi_prose_del_periodo_tardo_Ottobre_sulla_Neva_Oktjabr_na_Neve_e_Nessuno_negher%C3%A0_Nikto_ne_budet_otricat_1918_
Incantato dai versi di Velimir Chlebnikov, lo struggente racconto della sua vita. Festeggio il centenario e ringrazio.
*
Al corso di pittura la gente verrà
perché attratta da sei colori: il vero sportivo,
l’importo netto, il chiaro, lo scuro,
ci metti del tuo, tutti ti ameranno.
Viva la sincerità.
Ora occupiamoci delle scope. Qualcuno
per sognare. Dipingere con gli occhi. Giù giù
nelle ferite. Alberi americani.
Il mondo rinviene, non fa che rinvenire
ovunque, nelle pietre, nell’erba, eccetera.
Ha detto così.
Vedremo chi di voi è un po’ giapponese,
misto cow-boy, oppure tutto cow-boy.
Là, in mezzo alle nuvole.
[…]
Signorine al vento. Ambasciatori, ballerine.
Giallo, nero. Nero.
LMT
Putin finirà come Krusciov, rivolta dell’Armata rossa contro lo Zar
Paolo Guzzanti — 5 Maggio 2022 – ilriformista.it
Putin finirà come Krusciov, rivolta dell’Armata rossa contro lo Zar
La guerra ha tre fronti: quello sul terreno di combattimento, quello dei rapporti internazionali e quello della propaganda che è prevalentemente russa. A questo proposito non si capisce bene perché e sulla base di quali elementi e solo sui media italiani fiorisce il mantra secondo cui “si sa che poi c’è la guerra di propaganda e dunque chi può dire che cosa sia vero o falso visto che entrambe le parti mentono”. Il che è parzialmente vero. Esempio: fino a ieri l’altro il Cremlino ha sostenuto – anche per bocca dell’ineffabile ministro degli Esteri per il quale Hitler era ebreo e gli ebrei sono la vera causa della rovina degli ebrei – che i civili che hanno vissuto nella città sotterranea dell’acciaieria di Mariupol erano ostaggi e scudi umani del battaglione “nazista”, ma quando sono usciti fuori e sono stati portati in salvo, a nessuno di questi poveri profughi che hanno vissuto nelle catacombe è saltato in mente di confermare una tale versione semplicemente perché è falsa.
C’è poi un quarto fronte di cui si parla poco e con prudenza perché si tratta del fronte russo: uno dei modi in cui questa guerra potrebbe finire è con l’allontanamento di Putin, una sua sostituzione e quindi con l’inizio di una credibile diplomazia di pace. Su questo terreno le leggende, i pettegolezzi e le fake news si sprecano. Ma alcuni fatti emergono con prepotenza. Primo: per la prima volta nella storia una grande potenza annuncia al mondo di voler fare una operazione militare nell’orto di casa – come ne fecero gli americani a Granada e a Panama – usando una dizione giuridicamente inesistente ma politicamente chiara: operazione militare speciale. Questa dizione significa: non allarmatevi, è una questione interna di breve durata. Ma non era mai stata usata pubblicamente prima, salvo in via informale e a livello di intelligence: tutte le agenzie sapevano dell’invasione perché erano stati i russi a comunicarla.
Quando Joe Biden, anziché prendere atto dichiarò al mondo di sapere dell’imminente operazione, scelse questa risposta per dire ai russi che gli Stati Uniti non avrebbero avallato il carattere limitato e speciale di una operazione militare in Ucraina. Tutto ciò era noto, ma ciò che non sapevamo era che la formula della “operazione speciale” scelta da Putin comportava limiti che due mesi fa non conoscevamo e che adesso invece siamo in grado di valutare: prima ancora che l’esercito ucraino fosse bene armato dagli occidentali tutto il mondo ha visto che l’operazione speciale di Putin era fallita perché gli ucraini si erano stretti come un sol uomo intorno al loro presidente dimostrando di avere un morale altissimo, cosa che ha dimostrato l’inconsistenza servile dei servizi d’informazione putiniani.
La furbata di Putin: mascherarsi da soccorritore per invadere l’Ucraina
Oggi gli analisti militari scoprono che dopo due mesi e rotti di guerra, l’esercito russo – benché responsabile di atrocità perpetrate per diffondere il terrore come arma di distruzione di massa – non ha attaccato gli obiettivi militari che avrebbero potuto mettere l’Ucraina in ginocchio, o almeno danneggiarla molto seriamente, omettendo di distruggere punti ed autostrade, di colpire in modo distruttivo tutte le infrastrutture intorno a Kiev e rendere impossibile ai leader occidentali di recarsi nella capitale ucraina per incontrare Volodymyr Zelensky che ha potuto mostrarsi televisivamente a tutto il mondo mentre accoglieva i grandi della Terra. Inoltre, contro tutte le previsioni, non c’è stata alcuna guerra cibernetica che avrebbe potuto danneggiare gli Stati europei che sostengono l’Ucraina, e in particolare mettere in difficoltà le loro forniture energetiche.
E poi la guerra sul terremo è stata combattuta con armi inadeguate e vecchie con truppe inesperte nel combattimento ma occasionalmente capaci di mostrare una ferocia disumana con esecuzioni, torture, stupri e l’uso di forni crematori semoventi con cui eliminare i cadaveri e ridurre le prove di crimini contro la popolazione civile.
Tutti gli esperti di questioni militari si sono chiesti se l’esercito, la gloriosa Armata Rossa avesse davvero voglia di combattere questa “operazione militare speciale”. L’altissimo numero di giovani generali russi mandati a morire in prima linea dimostra che questi alti ufficiali sono stati mandati a occupare non dei posti di comando ma fronti in cui la morte fosse più o meno certa. Ecco un sicuro elemento di frattura fra Putin e i servizi militari e di intelligence in questa “operazione speciale”.
Veniamo alle novità. Il 9 maggio, anniversario della vittoria sulla Germania nel 1945, la parata militare si annuncia striminzita. L’idea che era stata ventilata di esporre cinquecento ucraini prigionieri come Cesare faceva esibendo i galli catturati prima di farli trucidare è stata abbandonata. Ma c’è un’altra novità in attesa di conferma. Il Cremlino ha lasciato trapelare voci secondo cui proprio in quel giorno, o forse una settimana più tardi, se la situazione in Ucraina fosse ancora precaria, Putin potrebbe formalmente dichiarare guerra al Paese di cui ha ordinato l’invasione il 24 febbraio scorso. Dichiarare guerra, come non è di moda dalla fine della Seconda guerra mondiale. Se ricordiamo bene, l’ultima volta che uno Strato sovrano ha dichiarato guerra fu quando Hitler dichiarò guerra agli Stati Uniti subito dopo l’attacco giapponese contro la base navale americana all’ancora a Pearl Harbor. Roosevelt dichiarò allora guerra al Giappone ma evitò di farlo con la Germania e fu Berlino a dichiarare formalmente aperte le ostilità. La dichiarazione di guerra costituisce l’unico stato giuridico per cui uno scontro armato si può chiamare guerra, e non attacco o aggressione o invasione. Quando la nostra Costituzione afferma che l’Italia si impegna a non fare la guerra, intendeva (ai tempi in cui fu scritta) a non usare mai la guerra come prosecuzione della politica in tempo di pace.
Ma come mai Vladimir Putin sarebbe costretto a dichiarare guerra a quell’Ucraina in cui sta già combattendo con un corpo di spedizione ridotto molto male e che ha già imbarazzato gli alti comandi militari perché espone la Russia a una umiliazione? I russi sono particolarmente sensibili alle umiliazioni e al prestigio militare. Quando il presidente americano John F. Kennedy vinse il suo duello con Nikita Krusciov ingiungendogli lo smantellamento e il ritiro delle basi missilistiche segretamente allestire a Cuba (accettando di smantellare basi missilistiche americane in Turchia) l’effetto di quella vittoria fu che Nikita Krusciov venne di lì a poco rimosso e le foto lo mostrarono pensionato ai giardini pubblici, mentre dava da mangiare ai piccioni. Le analisi dei think-tank di una tale sequenza dovrebbe essere questa: la classe militare russa che costituisce una delle basi fondamentali del potere politico effettivo di Putin (che ne ha già fatto uso in Cecenia, in Ossezia, in Crimea e in Donbass con reparti speciali senza insegne) e poi in Siria ad Aleppo, non essendo affatto convinta della bontà e della fattibilità dell’intervento in Ucraina, impose a Putin di annunciare pubblicamente i confini di quella operazione: niente guerra distruttiva industriale, no a scontri militari su vasta scala con l’esercito ucraino e un tempo limitato per valutare i risultati e decidere se e come continuare.
Poiché Putin ha usato quell’espressione e ha evitato di far compiere al suo corpo di spedizione operazioni industrialmente distruttive e strategicamente significative come accade quando esiste uno stato di guerra, fatti i dovuti bilanci e di fronte al costante progresso delle capacità del nemico rifornito dagli occidentali, stanno imponendo a Putin di sciogliere la riserva fin qui mantenuta e dichiarare guerra. Lo stato formale di guerra consentirebbe per prima cosa di attaccare con giustificazione formale e valida secondo le leggi internazionali, le linee di rifornimento di quello che a questo punto sarebbe diventato “il nemico” e dunque gli occidentali in Ucraina e le loro linee di rifornimento. Questo passo non implicherebbe alcun rischio ulteriore con la Nato che ha sempre dichiarato di considerare casus belli soltanto il superamento del “filo rosso” che segue la linea dei confini dei Paesi che partecipano all’Alleanza. Ma non potrebbe obiettare in alcun modo a una risposta russa su suolo ucraino contro trasporti di armi e rifornimenti. I russi acquisterebbero anche il diritto giuridico di passare per le armi tutti gli stranieri che combattono a fianco degli ucraini.
Se queste novità trovassero conferma, assisteremmo ad una formalizzazione della guerra che imporrebbe ai russi uno stato di legge marziale di fatto, con restrizioni ulteriori dei filiformi margini di libertà e la legalizzazione della censura. E poi dovrebbero vincere una guerra molto costosa e tecnologica per la quale i russi non sembrano affatto attrezzati, salvo l’esibizione di armi di distruzione di massa di apocalittica potenza, il cui uso richiederebbe decisioni non più individuali ma a collettive.
La previsione secondo cui Putin userebbe la parata della vittoria del 9 maggio per pronunciare un discorso contenente anche la dichiarazione ufficiale di guerra viene dal topo dell’intelligence militare britannica e cioè dallo stesso ministro della Difesa del Regno Unito Ben Wallace. Questo quadro dovrebbe far presumere un incremento della militarizzazione russa in Ucraina, che però non si vede. Tutte le operazioni in corso sono definite in occidente come “estremamente prudenti e tiepide”.
C’è dunque qualcosa che non torna e non è affatto chiara nelle alte sfere del Cremlino. Putin ha persino affermato negli ultimi due giorni di essere disposto ad aprire delle trattative “Se gli occidentali smetteranno di rifornire di armi l’Ucraina”. Dichiarazione che potrebbe preludere a una trattativa che permetta alla Russia di uscire dall’ingranaggio in cui si è cacciata attraverso l’uso di tutte le vie diplomatiche che finora non avevano alcun margine di probabilità a causa del carattere totalmente illegale e sospetto di crimini gravissimi, un collo di bottiglia da cui sarebbe possibile uscire salvando il salvabile senza insistere sulle minacce nucleari e senza far perdere la faccia all’Armata Rossa i cui vertici sono costantemente descritti al limite di una crisi di nervi. I ricorrenti pettegolezzi sulla salute di Putin potrebbero preludere ad una soluzione “sanitaria” con un ricovero per gravi motivi di salute, di un presidente che seguita ad accumulare disfatte diplomatiche militari ed economiche, compresa la sciagurata intervista di Lavrov che ha provocato con i suoi inaccettabili giudizi sugli ebrei il ritiro di Israele da una posizione intermedia fra le parti e che adesso minaccia di mettersi a disposizione dell’Ucraina.
Ieri Mosca ha fatto sapere di guardare “con favore” alle iniziative del Vaticano per porre fine alla guerra. L’apertura però sembra riguardare più i soccorsi umanitari che una soluzione del conflitto.
“La dirigenza vaticana ha dichiarato la propria disponibilità a fornire ogni possibile assistenza per raggiungere la pace e porre fine alle ostilità in Ucraina”.
“Manteniamo un dialogo aperto e riservato su una serie di questioni, principalmente legate alla situazione umanitaria in Ucraina”, le parole del direttore del Primo dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo, Alexey Paramonov.
Giovedì 16 giugno il cancelliere tedesco Scholz, il presidente francese Macron e il premier italiano Draghi saranno a Kiev. I tre leader europei incontreranno il presidente ucraino Zelensky.
Il segretario della Nato Jens Stoltenberg ha affermato: “Se Kiev ritira le sue forze e smette di combattere, l’Ucraina cesserà di esistere come nazione indipendente e sovrana in Europa”.
Secondo l’intelligence britannica il conflitto si deciderà nella battaglia del fiume Siverskiy Donetsk.
Negli anni ho interrotto qualsiasi rapporto con alcuni “poeti”, tra di noi c’era da sempre una belligeranza non detta, una conflittualità, una sorta di ostilità che con il tempo è diventata avversità assoluta, assoluta inimicizia fino a quando non è esploso il conflitto plateale. Questo è normale nei rapporti umani e nei rapporti tra gli stati, noi tutti viviamo in un regime di concorrenzialità e inimicizia belligerante con tutti i nostri simili. È la condizione umana. Io sono pacifista ma se uno mi dà uno schiaffo spero di restituirglielo prima o poi con gli interessi. Se non fosse così, il manigoldo sarebbe tentato di darmi un altro schiaffo nell’altra guancia fino a quando, esaurite le guance, passerebbe a percuotermi altre parti del corpo. Quindi che il manigoldo si aspetti una mia reazione è un sano freno alla sua belligeranza e alla sua arroganza. Il minimo che posso fare è approvvigionarmi per restituirgli lo schiaffo che il manigoldo mi ha impresso sulla guancia. Questa regola aurea il manigoldo la conosce.
Lamento i pochissimi interventi in questo blog per un Poeta senza eguali nel secolo trascorso. Il fatto è che è indiggesto sotto tanti profili e elenco quelli noti: il matematico, il geometra (come intendevano gli antichi greci), l’ingegnere (come si intendeva nel nostro Rinascimento) e così l’architetto,
il visionario (senza limiti),il geologo e minearologo, astronomo e astrologo,
conioscenza delle lingue antiche (per cui l’inventore del sistema periodico delle parole), storico, linguista (raro come attesta Roman Jakobson), insomma etc. —- con questa presentazione non esaustiva si comprende che mette paura e sconforto, come Dante per tutti i lettori e amatori e conoscitori
dei secoli successivi,
…ripeto l’invito a leggere il saggio magistrale di A. M. Ripellino sul sommo Poeta russo (e si scusa ancora adesso dalla tomba per le difficoltà di lettura che il suo saggio comporta!).
a. s.
Chlebnikov è uno dei primissimi poeti del novecento che fa una poesia dialogica, dove il dialogo occupa il 100% del testo. E questa è una grandissima novità per la poesia europea e occidentale, peccato che nel prosieguo della poesia europea questo risultato non abbia avuto seguito. Il dialogo è importantissimo anche per la poesia della NOe e della poetry kitchen, infatti le mie ultimissime prove poetiche riadottano la forma dialogica. Se non sbaglio anche il “misuratore dei bidet” di Linguaglossa adotta il dialogo…
… e si esprime per frammenti, uno di seguito all’altro. Molto attento.
UN VOLO DI TORTORE NELL’ ATRIO SINISTRO E
La risposta si fece domanda e dunque i carri tornarono stami.
Il polline si staccò dai caseggiati.
Ci fu un putiferio tra vespe e farfalle. Un ronzare di accuse fino all’anticristo.
Giugno rinunciò alle messi rimettendo tutto nelle mani di Maggio.
Uscirono dalle finestre ciliegi festanti. Petali e proiettili sugli sposi.
Ormai è fatta. Il Tempo ci ha ascoltati.
Gli orologi tornano feriti. A uno che aveva perso una lancetta
Amputarono il braccio.
-Dov’è il bilanciere che portavi al collo?
L’ho barattato per una stampella di cicala.
Ma venne Aprile e nascose i gigli.
A qualcuno spetta Marzo, come rinfrescare i bulbi
Cacciare le metastasi di Luglio, recuperare l’inverno.
La domanda riprese fiato. Alfieri sciolti,
pedine al limone e babeli sottosopra.
Finalmente un salto dai quattro cereali.
Per la truppa di fette biscottate?
Il latte di mucca farà causa ai cinghiali.
Eh no cari voi. Adesso provate a tornare indietro.
(F.P.Intini)
Parla il misuratore dei bidet
Il Presidente del Globo Terrestre alzò la cornetta del telefono
Gridò:
«Il misuratore delle ombre è andato a prendere un caffè,
però torna subito
Non dimenticate di prendere un’aspirina, la sera, e una la mattina dopo i pasti toglie il mal di gola
È vietato fornicare con la vicina di casa
È vietato fornicare con un GBT
Chiudere i rubinetti del gas prima di uscire
Chiudere i flow cash dei Bancomat
È consentito indossare la canottiera solo d’inverno
Non è permesso immergere i savoiardi nel caffelatte
Ricordatevi di ricordare
Ricordatevi di dimenticare
Ad ogni cosa il suo contrario
Il periplo è analogo al peplo
Il contraddittorio è in allestimento
Anche il colluttorio è in allestimento
Il governo ha votato l’ordine del giorno
I canarini hanno intonato il “Requiem” di Mozart.»
Detto questo
Il misuratore dei bidet parlò in questi termini:
«We’re not going to tell the russians how to negotiate, what to negotiate and when to negotiate,”
he added.
“They’re going to set those terms for themselves.»