[Marie Laure Colasson, Medusa, Struttura dissipativa, acrilico 30×50, 2020]
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In questo quadro di Marie Laure Colasson siamo in presenza di un rovesciamento di tutti i codici figurali e di tutte le opposizioni distintive che fondano i sistemi dominanti (soggetto/oggetto, significante/significato, maschile/femminile, vita/morte ecc.); un rovesciamento non dialettico, ma parossistico, auto contraddittorio. Viviamo in una società che ha de-realizzato il reale e de-fondamentalizzato il soggetto, che ha sostituito il nome del Padre con il nome della Seduzione, e con ciò ogni opposizione al simulacro e alla simulazione riesce vana.
«Tutta la strategia della seduzione è di portare le cose all’apparenza pura, di farle irradiare e consumarsi nel gioco dell’apparenza».1 L’apparenza apparisce in virtù di un esorcismo, come un atto magico, come la testa di una medusa iridescente che appare nel quadro e che irradia il suo mana, veicola il farmaco inebriante del sortilegio, della albagia, dello stordimento. L’apparenza è illusione, l’illusione è apparenza e la superficie è l’illusione suprema dell’apparenza e il suo esorcismo. Nel quadro di Marie Laure Colasson il sortilegio ha il suo esorcismo, la sua formula magica, la sua vittoria tragica e il suo telos. Cessata la ragione della figuralità, resta la irragione del sortilegio. Se l’illusione muore per eccesso di realtà, resta la sua ambigua vertigine, il potere illusorio della vertigine. Gran parte della nostra cultura (scientifica, sociologica, filosofica, psicoanalitica), così impregnata del soggettivismo prospettico e così sensibile alle costruzioni e alle decostruzioni ermeneutiche, si affanna ancora a cercare sistemi di senso e di consenso tendenti ad una comprensione razionale e oggettiva del reale; tuttavia, ciò che sfugge è l’oggetto della sua stessa visione, la quale non è più figurabile in alcuna figuralità.
Il tutto diventa ambiguo, reversibile e paradossale. L’escalation esponenziale dei codici che riproducono incessantemente se stessi come simulacri di simulacri, si risolve nell’auto annientamento. Chi vive nella convinzione del reale è destinato a morire di reale, l’assenza del falso e del similoro condanna l’originale ad essere il falso e il similoro. In questa dépense, in questo gioco della reversibilità dei codici, si annuncia la trasparenza del reale.
L’esorcismo, dunque, si fa più pressante, in esso la fascinazione dell’osceno divora la scena, il suo spettacolo e la sua illusione contagiano tutte le forme trasparenti di informazione; la reversibilità e la contiguità non sono più soltanto i principi che regolano il simbolico, ma diventa l’ironia dell’Oggetto, il suo scaltro genio, la sua superpotenza maligna, il suo trionfo sul soggetto, il suo non lasciarsi imprigionare da nessuno specchio e da nessuna ermeneutica. Tutto è contiguo, ergo, tutto è reversibile nel suo opposto e nell’adiacente. L’eccesso del disordine simbolico è lo specchio delle nostre brame. Ma lo specchio avrà la sua vendetta e, con esso, la fascinazione che ne promana si riversa sul soggetto che ne frattempo è scomparso. La verità del reale si sottrae al reale. E quel che resta è il sortilegio.
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J. Baudrillard, L’altro visto da sé, Costa & Nolan, p. 61.
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(Giorgio Linguaglossa)
Monumento a Mosca al missile dell’era sovietica. Nel 2016 all’uscita della stazione Metro Kuzmin è stato allestito il Viale degli Eroi della Seconda guerra mondiale composto oltre che da emblemi della tecnica militare sovietica anche da 15 lapidi commemorative. Il parco è dedicato a Feodor Aleksandrovic Poletaev (Riazan 1909- Cantalupo Ligure 1945) che combattè in Italia al fianco dei partigiani italiani. Il parco si completa con strade pedonali, parchi giochi per bambini e piste ciclabili.
L’illusione muore per eccesso di realtà o è la realtà che muore per eccesso di illusione?
Una mano impugna una pistola. Una porta si sta chiudendo, una figura esce di scena, il revolver è puntato verso la porta che si chiude. Un interno riguarda sempre una scena di delitto, perché nella società borghese c’è sempre un delitto da nascondere e un delitto da allestire come in una scenografia di palcoscenico. Anche in una poesia che non voglia essere oleografica e decorativa c’è sempre un delitto manifesto o latente che bussa alle porte dell’inconscio per venire alla luce… Lo sguardo poliziesco tipico della nostra forma di civiltà è lo sguardo distratto fatto con la coda dell’occhio… Il segreto viene svelato ogni volta dalla mano che fa un gesto, dalla coda dell’occhio che legge una immagine, un testo. Se non ci fosse un segreto da svelare non ci sarebbe uno sguardo. «Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…». (Adorno)».
(Giorgio Linguaglossa)
Intervista a Roberto Bertoldo sul libro: Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), Mimesis 2022
caro Roberto Bertoldo,
il tuo libro [Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), Mimesis, Milano, 2022] è un dialogo con una misteriosa interlocutrice che si dipana lungo 143 pagine fitte al centro del quale c’è la ricerca e la individuazione di un «sistema transitorio» che riesca ad agevolarci nella scoperta di transitorie certezze, le quali, in quanto transitorie non sarebbero più certezze, o sbaglio?
Risposta: Innanzi tutto questo libro è la conclusione del mio personale sistema di pensiero che riconosce la propria transitorietà. Di esso, essendo composto di una decina di volumi, presento qui solo una sintesi e una giustificazione. Cerco insomma di giustificare la sua transitorietà e, al contempo, la necessità del pensiero sistematico se si vuole che il confronto dialettico sia proficuo e tollerante. Il dialogo in questo libro è principalmente con me stesso, tra dubbi e concessioni. Noi infatti non possediamo verità, ma tutt’al più idee fondate su certezze ovvero accertamenti, la cui transitorietà è dovuta al continuo progredire delle esperienze, personali e collettive, contingenti e scientifiche.
Domanda: L’interlocutrice del tuo colloquio ti chiede: «[Lei] mi sembra tanto uno che dice: io scrivo le mie opere, esprimo le mie idee, denuncio le ingiustizie e poi se qualcuno vuole usa tutto in battaglia». E tu rispondi: «È così. E non può fare altrimenti, se non prendere la pistola. Però la pistola è contro i suoi sentimenti e le sue idee, perché sa bene che dopo una rivoluzione si ristabilisce la gerarchia» (p. 93). Ma questo scetticismo giustifica la rinuncia all’azione, non credi?
Risposta: Non nel mio caso. Bisogna considerare lo scetticismo che io abbraccio, anzi che rifondo nel libretto Rifondazione dello scetticismo, uscito nel 2017. In esso cerco di dimostrare una mia vecchia considerazione secondo cui il dubbio riguarda la fondatezza delle certezze, la loro verità, non le certezze in sé. Che io, attraversando la strada, veda un’auto che sopraggiunge è indubbio, e quindi cerco di evitare di essere investito, il dubbio concerne piuttosto l’essenza della visione. Magari l’automobile è un miraggio. Ti cito, su questo punto, un passaggio del libro: «in effetti lo scetticismo è stato bollato avventatamente come inattuabile e destinato all’impraticabilità. Non è così, perché lo scettico ha certezze, ossia gli esiti degli accertamenti che attua quotidianamente, e anche se non le considera nel loro valore assoluto, ossia anche se esse non rappresentano per lui delle verità, se non ipotetiche, sono però fondamenti fenomenici e quindi dell’azione quotidiana. Per di più, alla base di questa alacrità dello scetticismo c’è una verità non accertabile che viene assunta come certezza e addirittura come verità ontologica, e quindi ipotetica, in virtù del suo carattere apriorico: il possibile. È questo possibile a validare, ben più della ontologica verità cartesiana, l’azione scettica. Il possibile è certo anche senza poter essere accertato, non si può negare che tutto possa accadere, quindi l’accadimento del possibile è vero fin quando non si accerta una verità assoluta che lo invalidi, cioè mai – perché il possibile non è invalidabile neppure dalla sua realizzazione –, o non si determina una condizione che lo falsifichi, fatto improponibile in quanto il Possibile ontologico concede possibilità anche all’impossibile. Inoltre tutto ciò che è possibile è ipotizzabile, quindi la verità sull’Essere, essendo ipotetica, conferma l’Essere come Possibile. Conseguenza di questo è che possediamo un’altra verità indiscutibile all’interno della logica estensionale: il possibile. Il quale, tuttavia, non essendo “falsificabile” (Popper) non rappresenta una verità scientifica ma metafisica, direi logico-metafisica. In ogni caso lo scetticismo si installa tra il regresso finito del dubbio cartesiano e il progresso infinito della Possibilità» (Rifondazione dello scetticismo, Mimesis, 2017, pp. 12-13).
Domanda: Tu scrivi: «Resistere [al Potere] non è difficile, è sufficiente non ascoltare le sirene della notorietà. Nella nostra attuale società, in cui l’intellettuale scomodo non rischia più di essere eliminato fisicamente ma viene solo esautorato, è possibile ritagliarsi uno spazio di manovra, per quanto limitato» (p. 91)
Risposta: Sí, chi mira al successo viene giocoforza cooptato dal Potere, anche solo, indirettamente, con il consenso popolare. L’intellettuale sedotto dalle ideologie dogmatiche perde ogni consistenza e la sua stessa creatività.
Domanda: il titolo del tuo libro è chiaro: Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), infatti scrivi: «ritengo che un sistema filosofico totalizzante possa essere al contempo transitorio, come piacerebbe a Popper, e che anzi svilupparlo sia il necessario compito di un pensatore che non voglia arrendersi alla frammentarietà» (p. 117).
Risposta: Certamente, la visione sistematica non dogmatica è fondamentale alla chiarezza e alla modificabilità della propria posizione critica. Non si può avere un dialogo costruttivo e riattante con chi ha una visione ristretta o frammentaria del mondo che lo circonda.
Domanda: Ma, se come dice Adorno «non c’è più vita alcuna», a che scopo edificare una filosofia dello scetticismo se ciò che manca è la «vita»?
Risposta: Adorno, nel saggio che citi nella presentazione, considera la vita attuale ridotta ad essere una “manifestazione effimera” della produzione, “senza autonomia e senza sostanza propria”. La vera vita per lui è quella che contrasta la produzione capitalistica, che esce dal privato e dall’orientamento consumistico. È proprio la sistemazione scettica del reale che propongo, l’accettazione della relatività ma necessità della propria visione, l’affidamento a certezze fallibili il segno principale di vitalità.
Domanda: Alla fin fine tu parteggi per lo scetticismo, il fallibilismo e il relativismo, ma così non condanni il pensiero alla rinuncia ad una epistemologia critica? Il nostro linguaggio è la nostra prigione?
Risposta: Invece è proprio questa visione antidogmatica a rendere critica l’epistemologia; il limite della conoscenza scientifica, la quale è tuttavia sempre in elaborazione, apre allo sviluppo critico. Tu sostieni che il linguaggio è una prigione. Dal punto di vista della comunicazione sí, lo è, ma dal punto di vista dell’espressione no, perché il linguaggio è malleabile e non solo morfologicamente, anche paradigmaticamente. Nel linguaggio, pure solo in quello verbale, abbiamo una libertà di espressione infinita, purtroppo proprio questa libertà espressiva finisce per generare, a livello comunicativo, quel carcere linguistico di cui parli.
Domanda: Il tuo scetticismo integrale mette in discussione l’amicizia, la bellezza, l’onestà, l’arte… tutti i valori sulla base dei quali è stata edificata la società; uno scetticismo integrale ci porta necessariamente verso l’inazione e la rinuncia, non credi?
Risposta: Ho trattato diffusamente dei valori di cui parli in altri libri, in effetti lo scetticismo, anche nell’originale versione che formulo, li mette tutti in discussione, in genere li considera delle semplici parole, dei concetti che ‘esistono’, perché ci condizionano, ma che forse sono solo dei flatus vocis, come per esempio la bellezza e l’amore. L’onestà, poi, non la considero un valore ma un principio dialogico e comportamentale basilare. Ci sono però dei valori ineludibili, come la vita; in più «credo che ci siano comunque delle verità inoppugnabili. Che io come generatore di pensieri e atti ci sia e che tutto sia possibile» (Sistema transitorio, p. 80). Il mio scetticismo integrale non coincide con lo scetticismo assoluto.
Domanda: Tu scrivi: «l’arte è opera di un malato cronico» (p. 73). In una certa misura ripeti l’anatema platonico contro i poeti: insania contro la sanità del corpo sociale. Vuoi chiarire meglio il tuo pensiero?
Risposta: Non sono d’accordo con Platone, semplicemente io intendo dire che sono le mancanze che abbiamo a determinare le nostre ossessioni e le arti le si praticano sempre in modo ossessivo. Ma la malattia di cui parlo è ascrivibile a quella degli inetti di Robert Musil o di Italo Svevo ed è contro la sedicente sanità sociale. Ulrich, Nitti, Brentani, Zeno al cospetto della sanità di Augusta. L’artista, se non è una di quelle “appendici del processo materiale di produzione” di cui parla Adorno, è giudicato inetto in quanto inadeguato ma in verità l’inettitudine è la sua protesta contro la vita inautentica rappresentata dalla cosiddetta “sanità”.
Domanda: Tu scrivi: «le nostre conoscenze sono per natura limitate e imprecise e tuttavia l’impostazione cognitiva alla base del nostro mondo occidentale è la scienza»; e ti chiedo: Che cos’è l’arte e che rapporto c’è tra l’arte e la scienza?
Risposta: «La scienza, come l’arte, non è oggettiva ma tende all’oggettività mediante la ragione, laddove l’arte può tendere certo alla purezza rappresentativa mediante l’immanenzione, ma non accerta, piuttosto fa uso di accertamenti. E poi la sua rappresentazione non richiede giustificazione, tutt’al più subisce giudizi precipuamente estetici» (Sistema transitorio, p. 15). L’arte è insomma lo strumento privilegiato della comprensione e la scienza, che produce certezze oggettive, sebbene la stessa oggettività sia dativamente limitata, rappresenta la base gnoseologica essenziale all’immanenzione – ossia alla fase attuativa della comprensione del dato attraverso la sensazione – propria delle varie forme d’arte.
Domanda: È finita l’epoca della metafisica?
Risposta: No, tutto è metafisica. Come scrivo nel mio Dizionario di fenomenognomica in appendice a Dio in progress (Mimesis 2020) «sono metafisici tanto il mondo ontologico, dell’infinito, quanto quello fenomenico, del tutto, e quello trascendente, della totalità. La metafisicità del mondo ontologico è determinata dalla sua attingibilità meramente protocollare, il mondo fenomenico dal proprio livello esistenziale, quello trascendente dalla propria natura concettuale». Solo il mondo dativo non lo è, ma è attingibile unicamente mediante strumenti metafisici e quindi la metafisica permane sia come oggetto sia come scienza.
Domanda: Che rapporto c’è tra la metafisica e la scienza?
Risposta: La scienza, anche se non studia l’essere in quanto essere ma si avvale della conoscenza sensibile, trascende quest’ultima, anzi già la conoscenza sensibile eccede la datità. Se nella concezione di Andronico di Rodi la “Fisica” è l’opera di Aristotele e non il mondo dativo, la mia concezione si richiama a “phusikós”, “naturale”. Dunque la scienza trascende la natura, il mondo dativo, la trascende nei concetti, nei linguaggi, già solo nell’osservazione.
Domanda: Il generale prussiano Carl von Clausewitz nel 1808 ha scritto: «la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi»; quindi, siamo sempre in guerra?
Risposta: Se con “politica” intende ciò che ha come oggetto l’organizzazione e il governo dello Stato allora sí, siamo sempre in guerra. E la principale responsabilità di ciò è ascrivibile proprio alla mancanza di dialogo radicata nelle ideologie dogmatiche e nei loro intolleranti sistemi di pensiero, di norma eretti a sostegno degli interessi delle varie holding.
Lo spavento e il congelamento del pensiero
a cura di Gino Rago
Caro Giorgio Linguaglossa, cara Milaure Colasson,
torno a Todorov, al congelamento del pensiero e allo spavento, lo spavento come causa, il pensiero congelato come effetto, e aggiungo questa mia meditazione alle vostre riflessioni recenti, in particolare al tema di Brodskij e la guerra, nel tentativo di pro-vocare una dilatazione del dibattito in corso.
Ormai è nella coscienza comune che la lotta tra totalitarismi e democrazia ha segnato il ‘900, che ha provocato milioni di vittime la cui memoria però, nonostante lo spavento rischi sempre di congelare il pensiero, ma che non è successo in tutti e in tutte, non è andata dispersa proprio per uomini e donne il cui pensiero nonostante lo “spavento” ha evitato il congelamento (Primo Levi, Vassilij Grossman, Margarete Buber-Neumann, David Rousset, Romain Gary, Germaine Tillion). Secondo Todorov questi scrittori che non hanno subito il congelamento del pensiero nonostante lo “spavento” sono tutti accomunati da quello che lo stesso Todorov ha definito «umanesimo critico».
La poetry kitchen, che a sua volta proviene da quella lunga esperienza che,con Giorgio Linguaglossa in testa, definimmo su L’ombra delle parole Nuova Ontologia Estetica, proprio sull’«umanesimo critico» todoroviano. ha trovato un suo pilastro portante.
Grazie a questo umanesimo moderno la poetry kitchen è in grado di riconoscere l’orrore di cui sono capaci gli esseri umani (come ad esempio, oggi, Putin, e tutta la banda criminale all’ombra del Cremlino).
E tutta la poetry kitchen è una forma di resistenza quotidiana alle tre derive in grado di minacciare la nostra democrazia:
– la deriva identitaria;
– la deriva moralizzatrice;
– la deriva strumentale.
L’illusione è attiva, nella mente di tutti, 24 ore al giorno. Abitudini e normalità ne fanno parte. È il nostro sonno quotidiano; il che fa pensare (da sempre condizionati da pensiero dualistico) che potrebbe realizzarsi una sorta di risveglio (rivoluzione, idealismo, ecc.). Mi sembra però che in questa intervista Roberto Bertoldo voglia spezzare una lancia a favore della utopia, senza per altro mai nominarla (il tema già ampiamente dibattuto), quando tratta del possibile, “Il possibile è certo anche senza poter essere accertato, non si può negare che tutto possa accadere”. E curiosamente tratta lo scetticismo non come effetto ma, se ho ben capito, come sano contributo alla epistemologia critica. Ma, c’è un ma: se il possibile apre la porta a Dio (esempio estremo ma calzante) come può allo stesso tempo accompagnarsi con lo scetticismo?
“La verità del reale si sottrae al reale. E quel che resta è il sortilegio.” (Linguaglossa)
Nella mia immaginazione, non concettuale ma figurativa o, volendo, simbolica, nell’atto creativo mi ritrovo in uno spazio indefinito circondato da immagini “vive”. Di queste solo una piccola parte riguarda la memoria, il vissuto personale, in massima parte sono immagini che non mi riguardano, storie di persone mai incontrate, pure fantasie (?). Vero o falso, non è questo il punto; il punto sta nel cedere alla storia, nell’entrarci: ci entri e subito l’immagine si anima, diventa “viva”.
A questo punto però va ricordato che la poesia noe è totalmente arresa alla frammentarietà… Sortilegio, simulacro, doppio: sì, altrimenti non si scrive nulla. Cedo per benevolenza alle immagini “vive”, ci entro e si animano per il tempo concesso dalla forma, che non è più quella definitiva a cui eravamo abituati. Se di definitivo non c’è nulla, allora anche l’essere sistematici è campato in aria, o quanto meno approdare a una sorta di sistematicità dinamica…
caro Gino Rago,
il fatto è che stiamo passando dal «fatto» di un mondo diviso da una cortina di ferro (vedi il video qui sotto) ad un altro «fatto»: un mondo diviso da una cortina di acciaio. Il fatto è che in quello che può essere considerato un «fatto», in realtà è una Cosa attraversata da altri fatti, incroci di fatti contraddittori, di narrazioni contraddittorie e conflittuali prodotto di interessi di parte. E allora non resta che retrocedere da ogni «fatto» all’indietro: alla lettura di altri «fatti» che hanno determinato QUEL «fatto» terminale (oggi). È il feticismo dei «fatti» ciò con cui abbiamo a che fare nel corso della nostra vita di ogni giorno e nel corso delle vicende politiche. I «fatti» sono già in sé feticizzati, e soltanto una lettura critica del feticismo dei fatti ci può portare a riconoscere un «fatto» per quello che è, e non per quello che non è (una illusione, una narrazione tra le altre narrazioni).
Leggiamo con attenzione il celebre inizio del primo capitolo del Capitale:
«A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici».
«Kjin Karatani ha ragione nel collegare questo passo al punto di partenza della critica marxiana, le famose righe del 1843 sul fatto che “la critica della religione è il presupposto di ogni critica”: con essa, in qualche modo il cerchio si chiude, nel senso che al fondo della critica della vita reale (dei processi economici) si scopre ancora una volta la dimensione teologica inscritta nella realtà sociale… il capitalismo si fonda sul Reale di una certa “pulsione” impersonale quasi-teologica, la pulsione di riprodursi e di crescere, di espandersi e di accumulare profitto»2
Dinanzi a questi «fatti» solo una critica del feticismo delle merci ci può aiutare a capire il feticismo dei «fatti».
Cit. in Slavoi Zizek, La visione di parallasse, il melangolo, 2013 p. 255
Adoro i Vs. articoli e me ne nutro!!! Grazie!!! Giovanna
Il giorno ven 3 giu 2022 alle ore 08:20 L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internaziona
da http://www.psychiatryonline.it/node/9547
Stalin avrebbe fatto meglio ad arrendersi subito alla Wehrmacht?
La storia non si fa con i “se”, ma potremmo chiederci: se l’URSS si fosse arresa subito, a parte l’oppressione nazista, avrebbe avuto meno morti? Probabilmente no. I nazisti avrebbero sterminato gli ebrei, che erano allora 3.200.000 in URSS (ne riuscì ad ammazzare un milione e 800.000). E siccome per Hitler gli slavi erano una razza inferiore, tanti russi sarebbero stati massacrati lo stesso. Volere la pace può fare più morti di una guerra, oltre ovviamente alla perdita della libertà e dell’autonomia, all’umiliazione della resa codarda.
Museo di Archeologia del Sud Tirolo. Qui è esposta la mummia di Ötzi, un uomo morto circa 5300 anni fa. Fu trovato nel 1991 ai piedi del ghiacciaio di Similaun, è la mummia europea più antica. Grazie ai paleontologi sappiamo tante cose di quest’uomo di 45 anni, persino che cosa avesse mangiato prima di morire: una purea o del pane di farro, carne di stambecco e cervo, e verdure.
5.300 anni fa Ötzi è morto ucciso da una freccia. Chi e perché ha ucciso quell’uomo? Come è scritto nel museo: “è il thriller più antico della storia”. E se Ötzi si chiamasse Abele?
La mummia più antica ci ricorda che l’omicidio e la guerra risalgono ai primordi dell’umanità. Del resto lascia davvero perplessi il fatto che, nel Genesi, dopo aver commesso un delitto orrendo, Caino non venga affatto punito da Dio, tutt’altro… (“nessuno tocchi Caino!”)
“Volere la pace può fare più morti di una guerra, oltre ovviamente alla perdita della libertà e dell’autonomia, all’umiliazione della resa codarda.”
Quindi molto meglio una guerra vera e rapida? Perché no, se
“La mummia più antica ci ricorda che l’omicidio e la guerra risalgono ai primordi dell’umanità”.
Perdona, ma sembra tratto dal Pianeta delle scimmie. In tempo di regressione evolutiva. Una guerra rapida, una guerretta ma con tutti i crismi. Come al Wembley Stadium…
Ho presente il dialogo, sotto forma di intervista, tra Giorgio Linguaglossa e
Roberto Bertoldo. Vorrei domandare all’intervistato, Roberto Bertoldo:
quando una pallottola o una scheggia di bomba al fosforo ti coglie in fronte, o colpisce un tuo compagno di trincea che vedi stramazzare al suolo, come ti poni di fronte a questo fenomeno, come ti poni di fronte alla datità e al dato di questo fenomeno?
Ciao Gino Rago, ho tenuto sempre conto nelle mie risposte dirette a Linguaglossa anche del tuo quesito che è fondamentale. Grazie per averlo posto e scusa, mi accorgo ora, se non ho specificato che rispondevo anche a te. Un caro saluto.
l’eccesso è nella realtà e nella illusoione, e sono indistinguibili.
ma la più grande illusione è nella finzione della creazione
che è distinguibile.
1971
(a.s.)
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L’illusione di un attore che non fugge da nessuno
e da nessuna cosa è il destino del numero infinito –
è l’azzardo del carnefice l’orfanezza di una quinta!
Lo zero non sarà rubato da un corvo o una colomba,
ma dalle quattro labbra da cui nasciamo!
Il Verbo non è necessario ai morti, né alla risurrezione
poi che la carne è da tempo una seduzione in prescrizione.
Il convivio è approntato: danzano dei e demoni nel bordello,
e non sai se i loro sessi sono ancora i cardini del nostro avvento.
Vermicino, 12 ottobre 2005
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Non ci saranno altre terre dove gli stermini come amorini
saranno il nostro pane quotidiano su sarcofagi imbiancati.
E il canto del gallo è un’illusione circense nella notte
di patiboli e capestri – per le gioie dei bambini!
Non ho che una immortalità decente da calpestare sopra i ponti,
e come Keplero contare le pietre del selciato e delle stelle.
Nemmeno un nido di corvi sarà concesso ai beati angelici,
ma io quella sete nutrirò di ossa e di cenere – negli anfiteatri!
Roma, 1-8 nov. 2013
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caro Gino Rago,
Lo scetticismo, a mio avviso, è il lusso dei ricchi. Dinanzi ad una pallottola che colpisce in fronte il tuo vicino di trincea non posso che arrestare il mio scetticismo e reagire ad un fatto (la pallottola) con una nuova interpretazione e con una nuova azione.
L’assassinio di Ötzi avvenuto 5.300 anni or sono, è un fatto, da cui discendono le interpretazioni, ma le interpretazioni sono parte integrante del fatto. Ma dopo il fatto il mondo cambia.
Il mio lavoro sullo scetticismo tende a dimostrare che lo scetticismo è un problema metafisico, quindi ci riguarda solo perché infligge un colpo mortale ai dogmatismi. E se qualcuno ritiene che anche lo scetticismo sia dogmatico deve considerare che proprio quel “forse” che l’accompagna continuamente è la prova del nove della sua consistenza anapodittica. Se non si contraddicesse non avrebbe credenziali sufficienti. E ben venga dunque questo colpo mortale ai dogmatismi non intuitivi laddove la verbalizzazione del male mira ad imporsi sul male, ben venga la messa in discussione della verità delle teorie che si impongono sulla realtà fenomenica. Il dubbio non può agire sui fatti diretti ma agisce sulla loro interpretazione e presentazione. Se mi sparano addosso mi nascondo anche se forse sparano a salve o anche se forse in verità non mi sparano. Questo “forse” c’è, ma non agisce durante il fatto. E non scordiamo che questo scetticismo nella sua concreta funzione non è solo ma trova nel fallibilismo, nel relativismo e nello psicologismo i suoi fedeli compagni.
Leggete qui le 5 possibili vie di uscita dalla crisi innescata dalla guerra di invasione della Ucraina:
https://www.bbc.com/news/world-europe-61674469
caro Roberto Bertoldo,
è che ci troviamo in Occidente, in un mondo pienamente de-politicizzato e in via di ulteriore de-politicizzazione (vedi il fenomeno Trump, e il fenomeno Salvini e Berlusconi qui da noi). Ad Oriente, la Rus’ di Putin, un paese che è sempre stato de-politicizzato (ma con segno – negativo) ha sferrato un colpo mortale all’Europa con l’invasione di uno stato libero. Così, due mondi de-politicizzati (Est ed Ovest) si confrontano in una guerra di attrito (leggi sopra) che potrebbe avere conseguenze nefaste. In questo orizzonte di eventi io non penso, non vedo degli spiragli per un pensiero che non metta al centro del proprio periscopio la crisi di identità e di de-politicizzazione dellì’Occidente (della Rus’ non è affar mio parlarne).
Le trasmissioni Tv che si interessavano del conflitto in Ucraina perdono progressivamente share (anche i pomeriggi di Mentana sulla 7 tra poco chiuderanno i battenti), questo significa che la «gente» (dizione di Berlusconi) se ne frega di quello che succede fuori dei confini della propria abitazione, si mostra scettica su tutto, crede nelle fake news propalate dalla Rus’ e dai sovranisti di casa nostra, si rifiuta di capire perché capisce benissimo quali sono gli affari propri: il conto in banca, l’evasione delle tasse, il sommerso, una politica balneare, lo status quo etc.; in Italia escono decine di migliaia di libri di poesie e di romanzi di autori men che dilettanti senza che alcuno di loro abbia una competenza specifica, abbia fatto ricerca letteraria, e i risultati si vedono dai loro scritti. La situazione è particolarmente ardua in Italia, un paese che ama da sempre l’orbace e il gabardine. L’Italia è come un vaso di coccio in un mondo diviso e conteso tra vasi di ferro (Rus’ Cina, U.S.), più andrà avanti il conflitto in Ucraina più gli effetti della de-politicizzazione in atto in Italia si faranno sempre più gravi. Ammetto di essere pessimista, sono propenso a pensare che lo scetticismo integrale che tu proponi può essere una risorsa per un intellettuale che voglia starsene in disparte ad osservare e criticare gli eventi, può essere una soluzione individuale ad una crisi che ormai è diventata sistemica, si è mondializzata, una crisi geopolitica che sta investendo l’intero pianeta.
Caro Giorgio, lo scetticismo vecchia maniera può senz’altro inficiare l’impegno civile di certi intellettuali ma la tua supposizione non è generalizzabile, in ogni caso l’aver posto con la sua rifondazione la filosofia scettica in un campo metamondano toglie ogni giustificazione all’intellettuale appartato mentalmente. Ogni intellettuale va valutato primariamente dai libri che ha scritto, dal loro contenuto, dalla loro partecipazione alla realtà storico-sociale, ovviamente nei limiti delle sue possibilità e capacità analitiche, e, sia pure in secondo ordine, dai suoi atti vitali. Lo scetticismo, diciamo ammorbidito, restituisce dignità fenomenica alle certezze e nello stesso tempo mette in discussione la loro “veritazione” che spesso, lo stiamo osservando quotidianamente, porta a generare giudizi dottrinari e intolleranti.
Sono d’accordo su quanto dici riguardo la depoliticizzazione e che essa, almeno negli scrittori, è di vecchia data. Però essere politicizzati non significa abbracciare pedissequamente la cosiddetta causa giusta, come vedo accadere in molti. Anche questo atteggiamento è un quieto vivere. Le interpretazioni sono sempre fallibili, i dati di fatto sono ciò che veramente angoscia. Per rispetto di questi dati drammatici occorre appunto formarsi quella “competenza specifica” di cui parli prima di entrare nel loro merito. Molti di noi, io per primo, riguardo gli attuali accadimenti posseggono solo, almeno per ora, una competenza umanitaria.
caro Roberto,
concordo con te, le «interpretazioni sono sempre fallibili», è proprio questo il punto: il soggetto dell’inconscio freudiano-lacaniano affiora quando il fondo centrale dell’esperienza del Sé del soggetto (il suo fantasma fondamentale) risulta a lui inaccessibile, ovvero, quando viene originariamente rimosso. L’Inconscio risulta sempre inaccessibile, non è un dato o una esperienza fenomenica che decide della mia (del Conscio) esperienza fenomenica, ma si tratta di una esperienza non-fenomenica, abbiamo a che fare con un soggetto dell’Inconscio che non coincide affatto con il soggetto del Conscio (per così dire); questo scarto che separa i due soggetti, il fatto che il fantasma sia inaccessibile al soggetto del Conscio, è quello che decide. Ovvero, la mia «vita interiore» è qualcosa che il soggetto del Conscio non può mai afferrare. Il soggetto del Conscio risulta «vuoto». In questa condizione, il soggetto del Conscio che fa esperienza del Sé e degli altri non può fare esperienza dei suoi «stati interni» ma solo dei suoi «stati esterni», il soggetto si rivela essere «vuoto», si tratta di un soggetto «evanescente», non fenomenico, lo sappiamo: i fenomeni in quanto tali restano inaccessibili al soggetto del Conscio.
Il soggetto del Conscio è un fantoccio destinato ad esser manovrato dal soggetto dell’Inconscio, che ha luogo nell’altra scena, nella scena non-fenomenica.
Il soggetto scopre che non è più padrone in casa propria.
Così la nozione di Evento: non è Evento un evento che è tale solo per coloro che rispondono alla sua chiamata, ma è tale soprattutto per coloro che non corrispondono alla sua chiamata e non lo riconoscono affatto. L’evento non può nominare se stesso ma ha bisogno degli uomini della storia che lo nominino. L’evento è indecidibile nel senso che, quando appare, gli uomini non hanno ancora a disposizione un nome per chiamarlo, per nominarlo.
Caino e Abele?
La verità è nel diverso lavoro che facevano.
Il primo : agricoltore e non avezzo alle armi: soltanto un aratro!
Il secondo: il pastore e avezzo alle armi: uccide gli agnelli e il sangue scorre, si dice, degli innocenti!.
Eppure succede il contrario.
Il rovesciamento cela la Storia e la si trasmette alle generazioni.
Che vengono già plagiate dall’antichità primordiale.
Caino era stanco di veder scorrere il sangue, ma Abeke continuava ad uccidere.
Abele si macchiò el sangue delle bestiole!.
Caino si macchiò di sangue umano!
Abele contro la Natura.
Caino contro l’Uomo.
ecc.
la guerra è quella dimensione dove il Reale buca il Simbolico
caro Roberto,
mi è venuto in mente il sospetto che quello che tu chiami «scetticismo integrale» non sia molto lontano dal concetto di «indecidibilità» di un Evento per il tramite di una interpretazione neutra, oggettiva, valevole per tutti. In questa accezione, nessuno ha in tasca le regole della «decidibilità» di un Evento né prima né dopo che esso appaia. Detto in altri termini: tra l’ordine dell’essere e l’ordine dell’evento c’è frattura, inconoscibilità (a-priori), illeggibilità. Quando come e perché sorga un nuovo movimento artistico o politico, una guerra, una rivoluzione, la disintegrazione paratattica dell’unità narrativa della poetry kitchen nessuno di noi ha in tasca una leggibilità assoluta valida erga omnes prima che l’evento sorga.
Caro Giorgio,
si, è esatto, ma una “indecidibilità” paradossale perché è tale riguardo la verità o la falsità di un fatto, dunque degli enunciati che ne derivano, non del suo accertamento, non delle certezze che ne abbiamo e che ci portano comunque ad agire. Lo scetticismo integrale ammorbidito è come avesse introiettato il procedimento caro a Tarski, è solo che in luogo del linguaggio metafisicizza, mediante la differenza tra verità e certezza, i dati. Noi siamo esseri fenomenici e di questa metafisica fenomenica ci nutriamo e in essa viviamo, il mondo dativo è per noi esclusivamente il campo applicativo del mentale. Impedire che le effusioni filosofiche della mente generino ideologie dogmatiche è un compito incessante, lo è stato ieri lo è oggi.
Ecco perché la grande maggioranza degli italiani non riesce proprio a concepire come si possa combattere un invasore che entra in casa mia e mi dà del nazista, violenta mia moglie e mia figlia e mi spara alle spalle quando c’è la via del pacifismo…
«A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio».
Lo scriveva Piero Gobetti nel saggio “Elogio della ghigliottina”. Il testo si anima di una critica sferzante al fascismo, letto dal Gobetti come «l’autobiografia della nazione». Il problema non è tanto Mussolini, bensì un popolo che rinuncia alla lotta politica per pigrizia; un popolo che ha smesso di annoverare «minoranze eroiche»; un popolo che non conosce più «eresia» (capacità di scegliere). Scriverà ancora Gobetti: «Né Mussolini né Vittorio Emanuele Savoia hanno virtù di padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi».
In questo senso, l’uomo Mussolini, può essere colto come «fatto d’ordinaria amministrazione», non nuovo. Il fascismo, viceversa, è qualcosa di ben diverso, più profondo, in quanto incarna gli antichi vizi italiani (estetismo, retorica, demagogia, cortigianeria): «una catastrofe», ammonisce Gobetti, «un’indicazione di infanzia decisiva, perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo».
Caro Giorgio,
il pacifismo non è necessariamente la via di chi è scettico e soprattutto non lo è di chi è scettico solo riguardo la verità di un fatto, non del suo accadimento fenomenico. E Gobetti aveva terribilmente ragione ma la resistenza sulla carta è troppo facile se essa non brucia lo stesso autore. In quel caso è lì che si annida la demagogia, l’estetismo, finanche la cortigianeria di cui giustamente parli. Eppure penso a molti poeti e intellettuali che sono riusciti a criticare e anche a destabilizzare gli autoritarismi minando i loro atti e i loro fondamenti ideologici, per esempio Hernandez, Feyerabend, Gödel. Un popolo ortodosso non è mai scettico.
Tosy si sindut a Graziosi?
(Senza gamba tesa…)
Come si chiama? Casimiro? Il personaggio di Beckett?
Stasera passeggiava con il padre di Amleto torcia in mano e passo incerto.
Non erano sui bastioni ma su un balcone al quarto piano.
La storia ha un passo double. Una perifrasi della notte. Dici a me? Eccoli ripassano.
L’impegno si è pisciato addosso.
Guardali hanno lo scheletro del giorno.
Grazie OMBRA.
(Com’è u fatt Tosy, che faccio le poesie disimpegnate?)
Ti sbagli, ho solo detto che pur capendone l’architettura, averto nei compostaggi della goliardia; più qualcosa sulla gettatezza, parole come frangiflutti (ne faccio uso anch’io).
… speriamo che il concertone per l’invio di armi affinché tutti muoiano, e noi il caffè a tre euro, finisca presto.
caro Lucio,
quando assume una posizione rispetto al mondo, il senso comune ragiona così: considero il mondo dal punto di vista della mia esperienza soggettiva, cioè considero l’oggetto dal punto di vista del soggetto, dal punto di vista dell’esperienza soggettiva che il soggetto ha di se stesso.
Ad esempio, se cade una tegola e rompe la testa ad un passante, posso scegliere una posizione di «distanza», posso dire che sono scettico sulla circostanza che ha portato proprio quella tegola proprio sulla testa del passante X; posso anche assumere una posizione di «indecidibilità», posso sempre dire che non posso decidere circa la caduta della tegola perché non ho tutti i riferimenti e le evidenze che mi portano ad assumere una tesi definitiva; posso anche assumere una posizione di epoché, cioè, sospendo il giudizio in attesa di avere più informazioni al riguardo. Posso però anche negare il fatto che quella tegola sia caduta proprio lì, posso arguire che quella tegola sia caduta perché un malavitoso l’ha fatta cadere proprio sulla testa del passante X per punirlo del fatto che il Signor X gli ha messo le corna con sua moglie, posso assumere una infinità di ragioni circa la caduta della tegola, posso anche affermare che la tegola ha sbagliato persona: voleva colpire il Signor Y e invece ha colpito, per errore, il Signor X. E così via all’infinito.
Poi c’è anche una soluzione radicale: per evitare che una tegola del tetto cada e colpisca un Signor Passante qualunque, posso togliere tutte le tegole dal tetto in modo che nessuna tegola colpisca nessuno. Anche questa è una soluzione.
Posso anche adoperarmi affinché vengano tolte dal mercato tutte le tegole in modo da rendere impossibile che una tegola colpisca qualcuno che passa per il marciapiede. Anche questa è una soluzione.
In modo analogo, posso togliere dal commercio internazionale non solo tutte le tegole ma anche tutte le armi in modo che non scoppi più alcuna guerra, ma otterrei semplicemente il fatto che gli uomini continuerebbero a farsi la guerra con gli archi e le frecce. Potrei togliere dalla circolazione tutti gli archi e tutte le frecce, ma otterrei che gli esseri umani si prenderebbero a bastonate gli uni contro gli altri Non risolverei il problema alla radice ma lo sposterei soltanto di lato.
L’argomento secondo cui se tolgo le armi ad uno dei due contendenti finisce la guerra, è vero, così finirebbe la guerra ma significherebbe soltanto che il manigoldo armato sottometterebbe il manigoldo non armato e ne farebbe brodo per i tortellini. Il mio scetticismo mi suggerisce che non è una buona soluzione.
E allora? Che fare?
Con metodo scientifico, dati e circostanze alla mano, andrebbero analizzate le ragioni che hanno portato al conflitto, solo a quel punto cercare di dirimere la partita. Ma qui l’analisi è ferma alla questione di principio “aggressore/aggredito”. Dire che l’Unione Europea abbia stipulato “vantaggiosi contratti di fornitura di petrolio e gas russi in cambio di moneta sonante purché l’Orso russo rinunciasse alla conquista di territori della Unione” mi sembra una interpretazione viziata da pre-giudizio; tipicamente americana o atlantista. Nel PD sembra ormai predominante il pensiero democristiano, appunto americanista. Da qui la soluzione delle armi quale unica via.
Le guerre marcomanniche sono state una serie di conflitti e di guerre durate dal 166 d.C fino al 189 d.C che hanno visto contrapporsi l’impero romano guidato dell’imperatore Marco Aurelio e una coalizione di tribù germaniche formate principalmente da Marcomanni, Quadi e Iazigi Sarmati.
Dopo alterne vicende (guerra di attrito), Commodo, successore di Marco Aurelio, ritenne vantaggioso pagare un tributo in sesterzi sonanti alle tribù germaniche affinché se ne stessero al di là del Reno e del Danubio. Commodo decise quindi di pagare i barbari affinché rinunciassero a conquistare fette del territorio dell’Impero romano.
Che è la politica che ha fatto la Unione Europea stipulando vantaggiosi contratti di fornitura di petrolio e gas russi in cambio di moneta sonante purché l’Orso russo rinunciasse alla conquista di territori della Unione. Questa politica è risultata vantaggiosa fino a quando l’Orso russo non ha pensato che la Unione Europea era talmente degenerata, indebolita e imbelle da continuare a pagare il tributo alla Rus’ anche in presenza di una invasione di uno stato limitrofo alla UE, e comunque candidato ad entrare nella UE.
E siamo giunti ai giorni nostri.
Siamo davvero fortunati a vivere in un paese come l’Italia.
La rappresentazione che esce fuori dalla guerra di invasione dell’Ucraina vista dall’Italia risponde ad una ontologia dei cartoni animati, un magnifico esempio di una giungla abitata da tigri di carta e da tigri vere, leoni i impagliati e leoni veri, una giungla fitta di ombre e di retroscene, di lunghi coltelli, agguati, finte smarcanti, nomi dati in pasto ai leones, peones, retroscena, lividori, backstages, burattini e burattinai che vanno al passo dell’oca, veti incrociati, pupazzi e pupari, lupi che pensano da pecore, pecorelle che pensano da lupi, pecorelle smarrite, lupi in trappola, draghi e mattarelli, cialtroni, smargiassi e cialtronerie, refrainerie, furfanterie, accalappiacani e aquiloni, pentole e scolapasta, castronerie battezzate da aforismi filosofici, mezze misure e mezze maniche, mezzi busti, volponi e peperoni, grilli parlanti e coccodrilli… adesso sta per nascere anche il partito dei filoputiniani, un guardaroba di cialtroni, di fasulloidi e di millantatori…
Viviamo in una «ontologia dei cartoni animati… [che] si svolgono in un universo di plasticità radicale, in cui le entità sono prive di sostanza e ridotte a pura superficie: non possiedono letteralmente alcuna profondità, non c’è niente sotto la pelle superficiale, niente carne, niente ossa né sangue all’interno…».1
1 S. Zizek, op. cit. p. 251
“Cosí rispondo anche a lei, caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti, essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi.”
Dal Gattopardo, di Tomasi di Lampedusa
https://www.bbc.com/news/av/world-europe-60615752
LAMENTO DEL CRATERE COPERNICO
Tacciono gli ulivi e le lavatrici sono al risciacquo.
E dunque, cari miei, si sale in cattedra con lavori sulle spighe di grano.
Emergono dubbi sulla coltivazione a segale cornuta.
Tutto il massacro si riduce ad una conta di yogurt alla pesca.
Dove troveremo la fragolina di bosco
e la vibrazione del creme caramel?
In questo continente e nell’altro il cuore di merluzzo danza il flamenco
Non si avrà pace se non cedono gli scaffali al grano saraceno.
Ecco il cobra dietro il bancone con la doppietta tra i denti:
Faremo una pista ciclabile per i tank
Anche i numeri ci raggiungono sui pullman.
Le astronavi affondano al largo dei vocabolari
e le slitte di Mc Donald ghiacciano nella zuppa.
Sconvolti dalle potenze, si sanguina per una moltiplicazione.
Dalla trincea del Meno si spara contro un eroico Più.
Al raggiungimento del risultato il Vesuvio si fa matte risate:
La pallottoliera è confusa tra addizioni e sottrazioni
E il lapillo va su e giù.
Le armate bruciano armi di gelso.
Via interrotta –dicono-per uno zero intraducibile in logaritmo.
Ma intanto occorre piangere sulle spalle del distributore di benzina.
E l’afflizione si rinfresca con un tuffo a Polignano
Il Lumen è decapitato sulla via Appia. Nessun testimone.
Solo un regolamento di conti tra unità di misura.
La prevaricazione del Metro sulla Candela.
(F.P. Intini)
Questa identificazione escrementizia tra la materia divina e la materia carnale nella poesia kitchen di Intini è l’aspetto dominante e pienamente visibile. Come affermò Martin Lutero: l’uomo è merda divina, è caduto dall’ano di Dio e si è moltiplicato. La superteologia di Lutero era una rivoluzione: le buone azioni erano impure, egoiste, calcolo del letamaio; Dio ne era atterrito, ne provocavano l’ira e lo spingevano alla vendetta divina. La salvezza per Lutero veniva dalla fede in Gesù salvatore. La pseudo teologia di Lutero costituisce il segreto profondo su cui è stato edificato il capitalismo (con le sue varianti autocratiche), al fondo del quale c’è la sua natura escrementizia. La merda divina costituisce il sostrato ideologico non-detto della rivoluzione scientifico-tecnologica del capitalismo dei giorni nostri: la elevazione del godimento a categoria del politico è la aleteia del nostro odierno modo di vivere: il superiore (l’arte, il bello, l’anima etc.) comunica direttamente con l’inferiore (la merda, la polluzione, i rifiuti), l’Innominabile viene così oscurato, viene detto che è l’indicibile e così viene tranquillizzata la coscienza infelice.
È il nostro universo post-ideologico ciò di cui tratta la poesia kitchen in cui la jouissanse desublimata viene eretta a deità mondana del soggetto post-edipico.
Che dire?, in questa jouissance c’è spazio per le anime nobili, per le parole assennate, per le anime belle. Ebbene, la poesia di Intini è la più radicale sconfessione di tutte queste ipotiposi dei buoni sentimenti e delle buone maniere, il più radicale scoperchiamento dei discorsi post-ideologici. Il soggetto post-edipico castrato e impotente è il soggetto limite delle democrazie neoliberali, il soggetto libero di sottomettersi al totem di turno in quanto, appunto, libero di sottomettersi mediante una azione prodotta da quello che considera il libero arbitrio. Castrazione e impotenza del discorso poetico che non può fare altro che inneggiare, innalzare inni alla castrazione e all’impotenza.
Tutto il massacro si riduce ad una conta di yogurt alla pesca.
(F.P. Intini)
Composizione magistrale di forza dirompente, scritta interamente con materiali escrementizi… in tempi di massacri e di buoni sentimenti…
Il linguaggio poetico di Intini sbatte all’interno dei gradienti della castrazione simbolica e della impotenza simbolica. È il modo peculiare di Intini di giungere al Reale, il suo personale. Nella NOe ciascuno si può ritagliare il proprio percorso, il proprio album delle figurine dei materiali escrementizi. La NOe non dà regole valide per tutti, se non una: la regola aurea è il materiale di risulta, i rifiuti. Poi ciascuno è libero di inventare una propria strategia di pescaggio degli escrementi. Intini per esempio fa a meno degli Avatar, dei sosia, dei Doppi, come avviene nella poesia di Linguaglossa, di Gino Rago e mia, lui fa compostaggio di materiali inerti e ipoveritativi, li fa scontrare come nell’auto scontro e ci fa le scintille. penso che sia la poesia del nostro tempo, tempo di populismi reazionari e guerre di conquista. Una poesia iconoclasta per un tempo iconoclasta. Una poesia di una singolarità paranoica in un tempo di masse paranoiche.
Della poesia F.P. Intini io ho capito altre cose, forse perché non amo tristezze da terra desolata. Ad esempio che Intini si affida a una giustizia “naturale”, sottoposta a leggi di fisica e chimica… e naturalmente potrei sbagliarmi, ma parole chiare non se ne leggono; infatti ho chiesto più volte nei commenti ma si è detto vagamente che al fondo ci sarebbe una delusione ideologica, dovuta anche a marginalità culturale (prezzo che si paga uguale in Sicilia come in Valle D’Aosta). Voglio dire, alla domanda “Cosa ti dà pena?”, perché pena e delusione stanno alla base del tono rivendicativo, in parte derisorio, presente ovunque nelle poesie di Intini. Ma ho desistito, in fondo non è questo l’aspetto più importante, qualcuno in sintonia si trova sempre.
Ho quindi posto attenzione al processo creativo, perché è indubbio che Intini straborda in creatività; la quale è posta in gioco ad ogni verso, o meglio ad ogni distico. Ogni distico ha la sua “trovata”, senza tregua, verso dopo verso. E ogni verso è conclusivo, chiuso in sé. Così è il distico, almeno nella forma coniata inizialmente dalla NOE; poi disattesa perché, penso, non corrispondente alle esigenze espressive di tutti, il che è assai naturale e comprensibile. Ma sfido chiunque a scrivere agilmente chiudendo con un imprevisto tutti gli incipit…
L’esercizio è estenuante ( ho provato, nelle mie, ma puntare sulle gag in qualche modo costringe il metodo a replicarsi all’infinito) . Io per questo l’ho definita poesia pubblicistica (cioè del procedimento creativo che punta a creare head-line). Se ho ragione, che questa poesia scaturisca dal linguaggio pubblicitario, allora non fa sorpresa che il lettore abituato a percorsi più tradizionali, non possa riconosce nei versi di Intini alcunché di familiare, neppure una virgola sembra scaturire dalle belle lettere.
Da quanto detto, può sembrare che io non sia d’accordo con la poiesis di Intini, invece ne ammiro la creatività e per certi aspetti la prova muscolare. Ma l’idea che la poesia si trasferisca su binari, morti o morenti, non mi entusiasma. Il mondo non è in disfacimento, non più di quanto lo sia stato nei secoli scorsi.
Caro Lucio
Premetto che non è mia abitudine parlare di me stesso ma mi ha molto colpito la tua perplessità sulla mia ultima composizione e un tuo verso che mi riguardava direttamente poiché vedermi spezzato in due è quello che mi capita alla lettera:
Monna Lisa sorridente al telefono. Frange di luce.
Dal cielo visigoti e cagnolini in fila. Il poeta Francesco P. Intini
spezzato in due.
Non so di preciso cosa tu intendessi ma lo stato a cui faccio riferimento è quello di un uomo per lo più diviso tra razionalità scientifica, a cui ha dedicato gran parte della propria attività vita e la passione per la poesia, a cui si sta dedicando solo da qualche anno. Ciò che accomuna il prima e il dopo e li compatta è l’immaginazione. Lo scienziato è innamorato del bello quanto il poeta. Lo ricerca in tutte le cose che fa, come regolarità negli avvenimenti, come il volto della natura pensante che dialoga in linguaggio matematico. Nel perseguire questo scopo s’imbatte in mille problemi, deve scartare questa o quella via. A volte i rifiuti e gli insuccessi sono consistenti e si accatastano ai lati della strada, altre volte basta un lampo per risolvere un’annosa questione. C’è un marasma di idee e di circostanze che rimangono incompiute o emarginate, di strade già percorse e di nuove da intraprendere su cui alla titubanza spesso non succede l’intraprendenza. Ci sono traguardi destinati a rimanere non raggiunti o a cui perverranno altri che nemmeno conosci e che si troveranno tra le mani quello che tu hai creato per loro. Questo uno scienziato lo mette in conto anche perché il tempo a disposizione è limitato.
Per anni ho ignorato l’altro tipo di bellezza. Quando mi sono avvicinato ad essa è stato per una specie di urgenza che sentivo nascere dentro ma già dalle prime uscite avvertivo addosso un senso di ridicolo e sentirmi chiamare “poeta” mi procurava un estremo disagio.
Cos’è un poeta? Cosa la poesia?
Devo dire che grazie a poeti come Lorca, Majakovskij e Levi-quest’ultimo, pur nella sua estrema e drammatica esperienza di vita, mi tranquillizzava nel trasferimento da un campo all’altro-ho capito che esiste la possibilità di prendere in mano gli attrezzi del fabbro e forgiare versi densi di bellezza e che attraverso essi si poteva veicolare una qualsivoglia emozione. Il risultato poteva essere paragonabile a ciò che in un laboratorio chiamiamo “CRISTALLO”, vale a dire la più pura manifestazione di una sostanza, un balletto di simmetrie, angoli e distanze precise, risplendente come l’uccello del paradiso?
Alla fine anche il risultato poetico è questo indietreggiare del disordine a ordine, come se tutto il lavoro consista nel costruire una gabbia di suoni e ritmi capace di intrappolare il sentire e renderlo fraterno e disponibile alla fruizione altrui. Passare attraverso l’esperienza di Sylvia Plath ed Esenin mi è servito per assaporare la potenza di questo tipo di poesia. Tutto ciò corrisponde a rappresentare un mondo parziale catalizzato da un Io che nel creare bellezza lascia dietro di sé le rovine del resto di cui fa parte. Ma fino a che punto è possibile macerare l’intorno in cui si è immersi e non dargli rappresentanza? Ciò che non torna è proprio questo abbandonare i contesti al loro sfasciarsi e lasciarsi succhiare dalla vita che continua, forte e potente.
Ecco, inserirsi in questo meccanismo, comporta leggere la realtà che ci circonda come se fosse l’onda che sbatte su scogli di cartapesta e si porta via giorno dopo giorno brandelli di noi stessi. D’altro canto quale miglior rappresentazione della rovina se non quella che abbiamo sotto i nostri occhi? Come è possibile costruire un verso in questi tempi? Da dove nasce questa necessità ? E’ la storia stessa e quella frattura che chiamiamo guerra a darci una risposta come il lapillo che va su e giù nel cono del Vesuvio, un po’ verso la salvezza dell’umanità e un po’ verso la distruzione totale. Capisci bene che la poesia non può che riflettere tutto questo non senso universale e sostituirsi alle testate giornalistiche, ai blog, ai talk show e alla violenza degli Stati l’uno contro l’altro armato o almeno tentare di farlo senza ipocrisia e postura di struzzo.
Un caro saluto
Il quadro di Malevitch Quadrato nero su fondo bianco (1915) è il primo tentativo di inscrivere il Significato (quadrato nero) sulla Assenza del significato (fondo bianco). La iscrizione si presenta come la rappresentazione del fallimento di QUELLA iscrizione, la negazione della Rappresentazione, il fallimento da parte della poiesis che voglia tentare una qualsiasi iscrizione di UN significato sulla base della Assenza-di-significato dello sfondo.
@ Francesco Paolo Intini
Non hai idea di quanto mi renda felice la tua risposta. Ti spezzo in due, a me sembrava un buon verso. C’entra con “visigoti”, nel verso precedente; di sfuggita i barbari di M.R.Madonna, ma i miei con cagnolini al seguito. Siamo burattinai, secondo me, quando trattiamo di politica.
L.
… “e quindi”
da Maria Rosaria ecco i poeti. Lì ti ci ho messo.
«l’Er-Orterung (spiegazione, ma letteralmente: collocazione nel luogo originario) di una poesia è al tempo stesso la sua Ab-Orterung (gettarla nel gabinetto)».1
«Un poeta che costruisce le sue poesie in maniera ‘razionale’ è, per esempio, un fist-fucker poetico).»2
1 S. Zizek, op. cit. p. 22
2 Ivi, p. 23
Antologia Poetry Kitchen
a cura di Giorgio Linguaglossa
Brevi riflessioni
Gino Rago
E’ arrivato allo stadio della correzione delle bozze l’Antologia Poetry kitchen curata da Giorgio Linguaglossa, che è autore anche del saggio introduttivo dell’antologia.
E’ un progetto poetico che viene da lontano, è un progetto che ha alle spalle almeno sette anni di ricerche linguistico-stilistico-estetiche le quali ricerche hanno mosso i loro primi passi da ciò che chiamammo, aggregati come fummo attorno al nucleo centrale de L’Ombra delle parole, Nuova Ontologia Estetica (NOE) la quale del ripudio dell’ “io” autoreferenziale e narcisistico e della poetica del frammento , della metafora cinetica e della meditazione attiva di Tranströmer, della poesia degli immondezzai e dei rifiuti d’ogni tipo, delle plastiche, degli stracci, del metodo mitico secondo Eliot, ecc., fece una delle linee-guida della ricerca poetica, la quale oggi approda alla poesia in stile kitchen, le cui colonne portanti sono acutamente esplorate e indagate nella Prefazione dallo stesso Giorgio Linguaglossa, curatore dell’Antologia che è in procinto di vedere la luce per le Edizioni romane Progetto Cultura.
E’ un evento editoriale che si propone, all’interno, o di lato, della stagnazione
morale, ideale, stilistica, linguistica e soprattutto estetica, di leggere la realtà, il dato reale dei fenomeni socio-economici, antropologico-culturali, ecc., così come nuda e cruda la realtà si presenta, nel rapporto “dato”/ “datità” che ogni fenomeno in sé presente.
Chi non condivide questo progetto poetico della poetry kitchen può benissimo dissociarsene liberamente.
E amici come o più di prima…