Esercito russo usa armi termobariche in Ucraina, l’onda d’urto provocata dallo scoppio delle testate: “Ci bruciano vivi” Il filmato, diffuso dal Ministero della Difesa ucraino, mostra l’impiego di lanciarazzi pesanti multipli TOS-1A (noti anche come Buratino) vicino a Novomykhailivka, nella regione del Donetsk, in Ucraina. I missili lanciati dal TOS-1A hanno una testata termobarica. L’esplosione dei missili termobarici avviene in due fasi: la prima a detonare è la testata, formata da due sostanze diverse, che crea una nuvola di aerosol. Quando questa nuvola esplode, la palla di fuoco che si forma sviluppa temperature elevatissime che bruciano l’ossigeno che hanno intorno producendo un’onda d’urto potentissima – che si vede distintamente nel filmato – distruttiva per qualsiasi cosa si trovi nella sua traiettoria. “Le forze armate russe utilizzano le armi non nucleari più pesanti contro gli ucraini, bruciando vive le persone”; ha twittato il consigliere di Zelensky, Podolyak, pubblicando il video sui social. Non è la prima volta che all’esercito russo viene imputato di utilizzare TOS-1A e testate termobariche: anche durante l’assedio di Mariupol erano state raccolte numerose prove a supporto.
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Compostaggio di reperti, cruciverba e stracci verbali
a cura di Giorgio Linguaglossa
Il dove siamo ha poca importanza, tanto la realtà ci riporta sempre a galla.
L’immedesimazione comporta straniamenti emotivi… (Mauro Pierno)
All’apertura del casello segue la caduta di Bisanzio.
Solo perché un ratto s’è messo in testa l’elmo di Nerone
Si apre il ventre di Agrippina. (F.P. Intini)
Ma la risposta non c’è. Kukident, 7 secondi. (L.M. Tosi)
Ascoltare, dove non so e quando – da chi e da cosa? (Antonio Sagredo)
Droni e coccodrilli -stelle sconosciute fino a ieri-
Scendono da Trinità dei monti. (F.P. Intini)
Le poesie sono finestre. Il resto è quel che sappiamo, volgiamo credere, Punto. La vita ricomincia da punto. (L.M. Tosi)
La portulaca fa il filo alle onde gravitazionali
ha zampe di riccio il nuovo soffitto. (Mimmo Pugliese)
È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, Fondamento del terrore è l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato. (G. Linguaglossa)
«Ho idea che il passo più difficile, in questa nostra ricerca, sia quello del saper tornare – da un verso metafisico, da un’astrazione – al linguaggio condiviso.» (L.M. Tosi)
Ma il fatto è che quel «linguaggio condiviso» (il linguaggio di relazione e il linguaggio poetico), è la macchina principe della omologazione. (G. Linguaglossa)
Rileggo. Non sono poesie sulla guerra, sono poesie scritte in tempo di guerra. (L.M. Tosi)
Le potenze, gli stati-potenze sono universi semantici, si muovono nell’ordine di UN discorso (del soggetto); gli stati-colonie (come l’Europa) sono universi semiotici (cioè senza soggetto). (G. Linguaglossa)
Marie Laure Colasson
dalla mia raccolta in corso di stampa: Les choses de la vie, un’anticipazione della guerra in Ukraina (sono sempre in guerra!), poesia scritta nel 2021 –
[Le Maschere: il clown pailleté, la blanche geisha, Eredia, Edith sono le personificazioni dell’Altro, indicano (al contrario dell’impiegato Bartleby che dice sempre “Preferirei di no”), l’atto affermativo, il dire “Sì” ad una esistenza voluttuosa, fatta di lusso, di «lux, calme et volupté» di baudelairiana memoria); il dire “Sì”, è ben più reattivo e rivoluzionario del dire “No”. “Sì” alla vita sensuosa e sensibile, “Sì” al principio di Piacere, “Sì” al principio della jouissance, respingimento del principio di Realtà e della Guerra sua consorte fedifraga. In una parola “Sì” al rovesciamento della realtà. (m.l.c.)]
33.
Un clown pailleté d’un cirque en déroute
ignore le monde qui s’écroule autour de lui
Eredia tient sa tristesse à distance
met un masque pour déguiser son angoisse
Les yeux émerveillés Edith regarde une plume blanche
suspendue entre ciel et terre
La blanche geisha à fleur de rêve
écarte les ombres qui dansent sur le sol
Un fou sanguinaire en quête de mort
fait jouer les ressorts cachés de son triomphe
Tourbillon entrechoquement d’objects isolés
un violon luisant un ventilateur argenté
Un vase d’excrément un archet des cordes des poignards
tout conspire aux raffinements de la cruauté
Eredia la blanche geisha Edith entrainent le clown
loins du terrificant fracas métallique
ne laissant à terre que fragments décousus
*
Un clown con le paillette d’un circo in rovina
ignora il mondo che crolla attorno a lui
Eredia tiene la tristezza a distanza
indossa una maschera per dissimulare l’angoscia
Gli occhi stupefatti Edith guarda una piuma bianca
sospesa tra cielo e terra
La bianca geisha ai fiori di sogno
scarta le ombre che danzano sulla strada
Un folle sanguinario cerca la morte
fa giocare le molle nascoste dal suo trionfo
Vortici intersezioni di oggetti isolati
un violino lucido un ventilatore argentato
Un vaso d’escrementi un archetto delle corde dei pugnali
tutto cospira alla raffinatezza della crudeltà
Eredia la bianca geisha Edith trascinano il clown
lontano dal terrificante fracasso metallico
non lasciando a terra che frammenti scuciti
Pensieri compostati e rifritti
Ecco un pensiero di Derrida estrapolato dal contesto filosofico e psicanalitico in cui è nato ma che noi possiamo applicare tranquillamente al nostro progetto per una nuova fenomenologia del poetico, per la poetry kitchen, per la «poesia-polittico» o la «poesia compostata» nella quale non solo il «pensato» trovi posto ma anche e soprattutto il «non-pensato», il «de-negato», l’«impensato», il «non-tematizzato», il «punto di vista scentrato», l’«incorporazione», la «parallasse», il «compostaggio», l’«esproprio» citazionale, il «montaggio».
Questi pensieri compostati e rifritti sono possibili soltanto in un contesto di democrazia liberale. Ve lo figurate voi un tale armamentario concettuale in un movimento poietico nella Russia di Putin? o in qualsiasi altra zona del mondo a autocrazia illimitata, come nella Bielorussia di Lukashenko, nella Cina o nella Corea del Nord o in Afghanistan? Lì la poesia non può allignare se non nella forma forbita ed educata del discorso suasorio di un io magari post-lirico. Qui da noi almeno si ha un certo spazio di libertà per la ricerca.
Il semplicismo intellettuale di una forma-poesia incentrata sul discorso assolutorio dell’io post-lirico quale epicentro del reale è, dal nostro punto di vista, del tutto fuorviante e secondario; l’io è un «limite del mondo», come afferma Wittgenstein, non il suo centro e nemmeno il suo epicentro. Nella «nuova poesia polittico», l’io è un punto di vista periferico tra innumerevoli, infiniti altri punti di vista periferici e scentrati. E nient’altro.
«Il semplicismo del “questo è stato pensato” o “questo non è stato pensato”, il segno ne è presente o assente. S è P.. Si sarà allora tenui nel rielaborare completamente tutti i valori, essi stessi distinti (fino a un certo punto) e spesso confusi dell’impensato, del non-tematizzato, dell’implicito, dell’escluso sull’esempio della forclusione o della denegazione, dell’introiezione o dell’incorporazione, etc., silenzi che lavorano come tante tracce un corpus da cui sembrano “assenti”».1
La poetry kitchen è un campo aperto di possibilità stilistiche e linguistiche che trovano luogo in un campo osmotico
Un nuovo linguaggio poetico può sorgere soltanto quando il precedente linguaggio poetico è caduto nell’oblio. È quando cade il linguaggio poetico di Zanzotto e di Fortini che si profila all’orizzonte il nuovo linguaggio poetico. Una patria linguistica sorge e si afferma soltanto quando un’altra patria linguistica scompare.
Pensiamo un momento alla «patria linguistica» che noi siamo, che noi siamo diventati. Sono portato a pensare che il linguaggio poetico propriamente non esista, sia un non esistente, un non esistente in atto, cioè in presenza.
La costruzione di un nuovo linguaggio poetico non può mai sortire dai linguaggi precedenti o coevi per, diciamo così, filiazione diretta o indiretta; non c’è una linea di continuità o di discontinuità che ci può ricollegare ai linguaggi precedenti o coevi. Questa è l’idea del riformismo moderato applicato ai linguaggi che pensa di poter progredire in linea retta da un linguaggio poetico all’altro. Bisogna pensare a questa problematica mediante un altro apparato concettuale: è mediante la dialettica del negativo che possiamo afferrare questo concetto. Questa è una aporia che bisogna accettare. È una contraddizione incontraddittoria.
Quello che si può fare, e che noi stiamo tentando di fare, è costruire le cornici, le coordinate di un nuovo linguaggio poetico, e nient’altro. La poetry kitchen è appunto questo «contenitore dinamico» che però si scava la fossa nel momento in cui emerge, nel mentre cioè che scava il fossato che la divide dai linguaggi poetici del pregresso e del contemporaneo. Ecco perché il «contemporaneo» e il «nuovo» sono categorie che oggi sono diventate vuote, gassose, che non appena le afferri si sbriciolano tra le dita e volano via nell’aria. È per via del «frammezzo» (Das Zwischen) che la nuova poiesis può emergere, da una zona larvale e limbale che non sta né qui, nel mondo empirico, né là, nel mondo non empirico.
«Le difficoltà non risiedono nelle nuove idee ma nel sottrarsi alle vecchie che ramificano in ogni angolo della mente». (Keines)
«Non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni». (Ilya Prigogine)
La nuova ontologia estetica segue il medesimo ordine di idee del grande chimico russo. Parafrasandolo potremmo dire che «la forma-poesia è un sistema instabile, e che non esiste un sistema instabile che non possa prendere svariate direzioni». È fondamentale la dimensione caosmotica e caosferica in ossequio a quella filosofia pratica e mondana, a quella prassi tipica della poiesis kitchen a cui si è accennato con la citazione di Prigogine. La zona di indeterminazione, è una zona stilisticamente sismica, altamente instabile e infiammabile che connette il fuori, con il dentro, che riesce a dentrificare il fuori e fuorificare il dentro, coltivare un immaginario, sortire fuori dalla nostra zona di comfort normografico e normologico ed entrare in una zona di indeterminazione e di indifferenziazione entro la quale costruire un crocevia d’incontri, un assemblaggio, un patchwork, compostaggi, story telling, puzzle dinamici e instabili, autobiologie, giustapposizioni di registri stilistici e lessicali, quello che Pasolini chiamava «multistilismo e multilinguismo». L’entanglement che si rinviene così di frequente nella poesia della nuova ontologia estetica o poetry kitchen è un concetto molto diverso dalla empatia che si ha nel discorso poetico epifanico della tradizione novecentesca (che oggi continua per esempio nei poeti in dialetto); nei testi odierni in lingua si ritrova l’empatia piuttosto che l’apatia, la ierofania piuttosto che la diafania, il sacro-sublime piuttosto che il profano; posizione comprensibilissima, in linea di continuità con la poesia epifanica di un Ungaretti e del primo Montale, il che in sé non è un disvalore ma segna una distanza considerevolissima rispetto alla poesia del profano che si tenta di perseguire con la poetry kitchen.
1 J. Derrida, La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà, 1980 Flammarion, Paris – trad it. La carte postale Da Socrate a Freud e al di là, Milano Mimesis, 2015 pp. 508 € 28, a cura di Luana Astore, Federico Massari Luceri e Federico Viri. p. 359
Francesco Paolo Intini
MAGNESIO MANDA A DIRE A CALCIO
È una storia di lavatrici. Beghe tra detersivi e panni zozzi
–quelle da pubblicità che non ce la fanno a sostenere il prezzo-.
Candeggiare liquido o solido?
Meglio il programma ad acqua bollente?
Gli eventi si incurvano nel cestello.
Vendetta si siede al centro del programma
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Chi potrà difendersi dalla centrifuga?
A forza di gravitare attorno i linguaggi scambiano colore.
Visti dall’oblò gli uccelli rotolano a terra.
I nomi lasciano lettere alla rinfusa.
Basta aprire un vocabolo per trovare il tuorlo
ma si discute su un beccuccio di rondine
Bisogna togliere il calcare e sperare che il telecomando obbedisca agli ordini.
La possibilità che la madre abbandoni la partita
è proporzionale al mutuo da pagare.
Si farà un concerto per distinguere l’albume
Decidere se al contrario il giro è più rotondo.
Lucio Mayoor Tosi
Le poesie sono finestre. Il resto è quel che sappiamo, volgiamo credere, Punto. La vita ricomincia da punto.
Scrivila durante il film. Io intanto lavo i piatti.
È poesia moderna, piace a persone che guardano
fiction televisive.
19 bambini uccisi. Gesti sulle guance dei defunti.
Scrivere. Albeggiare, verbo, allontanarsi. Casa dei sogni.
Silenzio in luoghi remoti. Dormire in quel che c’è.
Reale fantasia domestica, come trovarsi a un passo
dal suicidio in metrò. Ma uscirne indenni, dopo essere
morti.
Amici. Pellicani. Oroscopo dei Mille. Donat-Cattin,
per una sinistra rigogliosa.
Guerra è rallentamento. Nero di seppia. Il secolo andato,
vissuto in fretta.
Ma la risposta non c’è. Kukident, 7 secondi.
O torna dagli amici. Sai che ci siamo. Ma non è detto.
E tu non ti offendi.
Sì, «È una storia di lavatrici. Beghe tra detersivi e panni zozzi»
e tutto il resto. Qui, nella poesia di Intini, è evidentissimo che qualcosa è successo al linguaggio, che il linguaggio è stato fatto sloggiare dalla casa dell’essere e se ne è andato in giro per fatti suoi, le parole non corrispondono più alle parole, il luogo delle parole non è più un luogo, la guerra ha reso evidentissima questa situazione del linguaggio poetico, in particolare ciò è visibile in Italia dove il linguaggio poetico si è imbolsito in un formulario protocollare. E allora che fare?
Intini scrive:
Bisogna togliere il calcare e sperare che il telecomando obbedisca agli ordini.
Con la guerra in corso si è reso evidente ciò che era visibile anche prima: la scomparsa definitiva della sacralità del luogo dove avveniva l’epifania della parola poetica (da Ungaretti a Montale passando per Sanguineti e Pasolini fino a Franco Fortini). Il luogo così desacralizzato è diventato un non-luogo, ecco perché la NOe impiega i linguaggi della zona da indistinzione, delle zone di compromissione, che sono quei linguaggi che dimorano negli interstizi dei linguaggi ufficiali. Prendiamo ad esempio i discorsi del ministro degli esteri russo Lavrov: lì è evidentissimo che si parla di cose che si trovano in un altro universo di parole, non solo le cose e le parole sono ribaltate, ma di più: le parole hanno perduto la connessione con le cose e i fatti, si parla di cose e fatti di un altro universo parallelo. In questo ruolo Lavrov è un campione di disinformazia. Non è un caso che la disinformazia sia un tropo retorico impiegato di continuo dalla poetry kitchen e da Intini in particolare: disinformazia x disinformazia = altra disinformazia, tutte le parole sono andate al macero della loro insignificanza. Il di più di informazione e il di meno di informazione alla fine si equivalgono. Scrive Intini:
A forza di gravitare attorno i linguaggi scambiano colore.
È che cadute le paratie tra la cornice e il quadro, ciò che è rimasto è uno spazio vuoto, o meglio, uno spazio riempito di parole melliflue che ridondano la propria insignificanza. Le parole sono giunte al limite della feticizzazione, sono ipersignificative al punto che appena un passo e non significano più niente, si apre il baratro della credulità popolare degli asini che volano e delle trecce bionde di Cenerentola. Oggi le parole sono diventate ipersignificative, in quanto si sono gonfiate dagli estrogeni della propaganda e della pubblicità, rivelano uno scarto. Quello scarto, appunto, rivela la verità delle parole scartate.
Heidegger in Essere e tempo scriveva (1927) che è il nostro «destino» esser gettati in un orizzonte storico contingente e insuperabile: e indicava i lineamenti della finitezza storica di ogni ente; il filosofo tedesco ha approfondito la fenomenologia del Dasein irretito nella gettatezza del mondo storico e dell’orizzonte degli eventi, di qui la tesi della «decisione anticipatrice» e dell’essere-per-la-morte… ma non ci ha detto nulla della differenza tra le micro decisioni del Dasein e le macro decisioni del mondo storico che imprimono una svolta storica agli eventi, il filosofo ha obliterato del tutto il mondo storico, sicché il Dasein appare deiettato e abbandonato tra gli eventi senza possibilità di autenticità o di riscatto.
C’è in Italia (l’anello debole dell’Europa occidentale), è percettibile nell’opinione pubblica italiana, uno smarrimento delle coscienze e delle opinioni e un ritorno al fatti i fatti tuoi, a un’ermeneutica dell’individualismo e del cinismo generalizzato e retrogrado che sospinge al menefreghismo e al qualunquismo, e quindi alle varie forme di sovranismo retrogrado e reazionario.
Forse dobbiamo tornare ad essere ingenui, come i selvaggi di Rousseau. E chiederci: «Che cos’è questo?», «Che cos’è quello?», «Chi ha cancellato l’Orizzonte?», «E perché?», «Chi ci ha fatto cadere?», «E perché la caduta continua?», come scrive Tadeusz Różewicz?, «Chi ha decretato la caduta di tutto?», «Perché cadiamo da tutte le parti?», «Perché abbiamo Sua Maestà il Nulla?», «Perché abbiamo Sua Maestà il Vuoto?», «Perché abbiamo Sua Maestà l’Ombra?»…
Scrive Nietzsche: «Noi lo abbiamo ucciso – voi e io!.. Chi ci ha dato la spugna per cancellare l’intero orizzonte?… Dove ci muoviamo? Non cadiamo forse continuamente?… Indietro, e di lato, e in avanti – da tutte le parti?».
Mi sembrano domande alle quali un poeta degno di questo nome non dovrebbe sottrarsi. E invece, si continua a fare poesia del quotidiano e degli oggetti. Ma quale quotidiano? Quali oggetti? Quale Io?, ma non ci rendiamo conto del pericolo in cui siamo “Caduti”? –
Penso che occorra fare una poiesis totalmente differente da quella che si fa oggi. Una poiesis che parli stabilmente con Sua Maestà il Nulla, Sua Maestà il Vuoto, e Sua Maestà l’Ombra.
Antonio Sagredo
POESIA MOSTRUOSA
La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura fiaccò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…
Miris è davvero morto!
E quella rosa d’inverno come mi ricorda le mie Rose conquistate!
Rose di Praga fra la neve imminente… rose di Keplero e di pietra!
Annamaria è un Vesuvio di rose! Rose di lava vesuviana!
Lingue di lava di rose! Rose che vincono tutte le battaglie!
Dialetto rossolavico di rose rosse e invernali e… non so che dire… altro…
Rose dei crocicchi, dei trivi, rose sfogliate e invogliate, rose – su tutto!
Così cantavano i miei passi… e le orbite volate via!… e su tutti i ponti gli occhi
e le visioni di un’altra creatura che mi tallonava… accanto,
e mi assillavano le sue letanie di voler esistere come un refrain la mia vita
su un arazzo sfilacciato – di Gobelin!
Come è artificiale questo sole che infine si riposerà e modellerà i nostri volti
col gelo – di una maschera!
Campomarino, 13 luglio 2015
Giorgio Linguaglossa
Intervenne il mago Woland:
«il mondo va corretto termobaricamente
La coda del Labrador si unirà a Cape Cod e l’Islanda all’isola di Taiwan,
Del resto il Signor Putler è parte del Logos dell’Antropocene,
Spartisce i suoi artigli come un tergicristalli sui vetri dei think tank
Le sedie elettriche cesseranno di funzionare e verranno sostituite da isotopi di polonio
Le ghigliottine andranno in cerca dei Guardasigilli
I pacifisti manderanno fragole alla panna al Signor Putler
Casanova spedisce scarpette rosse a punta a Madame de Staël
Gli assassini avranno di che pentirsi per non aver esercitato il loro diritto pieno e incondizionato
Le mammole prenderanno il posto delle favole
E la poesia lirica sarà la benvenuta in questo fetido liquame di morte»
29 maggio 2022
LA GUERRA IN UCRAINA NELLE PAGINE DI SERHIY ZHADAN
DIRITTO E LIBERTÀ
Pubblicato: 06 Dicembre 2020 di Massimiliano Di Pasquale https://www.stradeonline.it/diritto-e-liberta/4346-la-guerra-in-ucraina-nelle-pagine-di-serhiy-zhadan#
Serhiy Zhadan
Novembre è un mese molto importante per l’Ucraina. Ogni anno infatti, il quarto sabato del mese, il Paese e la diaspora ucraina in tutto il mondo commemorano lo sterminio per fame di milioni di contadini ad opera di Stalin noto come Holodomor (termine ucraino composto da due parole holod – carestia, fame – e moryty – uccidere).
A questo evento, fortemente voluto dal Presidente Viktor Yushchenko, molto attivo nel far conoscere la storia e la cultura dell’Ucraina oppresse da decenni di russificazione e sovietizzazione, si è aggiunta in tempi recenti la celebrazione, il 21 novembre, del “Giorno della dignità e della libertà” che ricorda due importanti eventi nella storia moderna del Paese: la Rivoluzione Arancione (2004) e la Rivoluzione della Dignità (2013-2014).
Coincidenza vuole che quest’anno i due eventi, celebrati anche dalla diaspora ucraina nel nostro Paese, cadano in concomitanza con l’uscita italiana de Il Convitto (Voland), l’ultimo romanzo di Serhiy Zhadan incentrato sul tema della guerra in Donbas, conflitto scatenato nella primavera del 2014 dalla Russia avvalendosi di proxy, truppe regolari, mercenari e separatisti locali.
Zhadan, forse lo scrittore ucraino contemporaneo più conosciuto in patria e all’estero (fatta eccezione per l’Italia dove una slavistica monopolizzata dalla russistica e un’ucrainistica spesso miope e autoreferenziale non permettono ad autori anche validi di essere conosciuti dal grande pubblico), è originario di Starobilsk (Luhansk), cittadina del Donbas dove è vissuto fino a diciotto anni prima di trasferirsi a Kharkiv.
Capitolo conclusivo di una trilogia ideale che comprende Voroshylovhrad (pubblicato in Italia nel 2016 da Voland con il titolo La strada del Donbas) e Mesopotamia (Voland, 2018), Il Convitto (titolo originale Internat), uscito analogamente a Mesopotamia dopo lo scoppio del conflitto tra Mosca e Kyiv, è senza ombra di dubbio l’opera migliore data sinora alle stampe dallo scrittore ucraino.
Smessi per sempre i panni dello scrittore rock, seppure anche ai tempi in cui veniva definito l’enfant-prodige della letteratura ucraina sarebbe stato riduttivo considerarlo semplicemente un romanziere dal taglio pop, nonostante le tante citazioni dai Beatles, ai Depeche Mode ai Sex Pistols disseminate qua e là nei titoli e all’interno delle sue opere (Depeche Mode, Anarchy in the Ukr), Zhadan è oggi un autore nel pieno della sua maturità.
La prosa non ha perso nulla della sua poeticità e le storie, più adulte e lancinanti che in passato, sono destinate a interessare un pubblico più vasto.
Il Convitto, che può essere letto legittimamente come un romanzo di formazione – l’evoluzione psicologica del protagonista, l’insegnante Pasha, con i conflitti identitari che lavorano carsicamente dentro di lui, fanno propendere per tale definizione avvicinandolo a classici del genere –, è fondamentalmente un libro sulla guerra.
L’intera vicenda si svolge nell’inverno del 2015 in un centro del Donbas caduto nelle mani dei separatisti (molto probabilmente si tratta di Debaltseve nonostante lo scrittore ucraino, non citi mai il nome della cittadina né la parola Donbas) ed è costruita intorno a tre parole chiave: sangue-morte-guerra (in ucraino: krov-smert-viyna).
Non è un mero dato statistico il fatto che nell’arco delle 300 pagine del testo questi termini ricorrano rispettivamente 55, 40 e 21 volte.
Talvolta l’idea della morte è veicolata tramite le immagini dei cani randagi – “dagli alberi spuntano tre cani randagi, si avvicinano all’edificio, magri e guardinghi. Sguardi angosciosi e disperati, come se negli ultimi giorni si fossero nutriti di cadaveri” – e della neve fradicia – “neve giallognola, scura, come marcia, morta da qualche giorno e ora lì a imputridire all’aria aperta.”
In quest’ultima opera, la neve, da sempre unitamente al cielo l’elemento naturale più presente nei romanzi di Zhadan, è spesso associata al grigio, alla morte, all’angoscia, raramente a un candore poetico.
“Si maledice e capisce che quel mortifero sapore di inverno, il soffio gelato della paura e del nulla lo accompagneranno fino alla morte, che per stavolta lei si è dileguata ma non mancherà di rivendicare i propri diritti, si rende conto che la morte non rinuncerà, che sa aspettare, e che lo raggiungerà in quelle stesse circostanze, nella neve profonda, sotto il cielo plumbeo, fra fiumi gelati.”
Il Convitto è un romanzo di guerra che “non ha niente di eroico, di ideologico o di predeterminato”, come fa giustamente notare la traduttrice Giovanna Brogi nella postfazione.
Nulla a che spartire con la retorica belluina intrisa di dannunzianesimo sovietico e granderusso di Limonov o peggio ancora del suo più giovane epigono Zachar Prilepin (il poeta vate da lassù ci perdoni per averlo accomunato a questi due mediocri scrittori russi) che nel romanzo
“Nekotoryie ne popadut v ad” (Alcuni non andranno all’inferno) – opera non ancora uscita in Italia – racconta la sua esperienza a Donetsk, a fianco dei separatisti in un battaglione creato per sua iniziativa al fianco del leader separatista Alexander Zakharchenko.
Zhadan, rifuggendo ogni retorica, anche quella pacifista, racconta ai lettori gli orrori e la stupidità di una guerra nell’ultimo angolo remoto d’Europa.
Se le genti occidentali non si sono sollevate contro Putin, ma lo hanno fatto solo i governi, una ragione ci dovrà pur essere. Quando gli americani vollero la guerra in Vietnam, in tutto il mondo vi furono manifestazioni di pace, e di lì a poco si arrivò al ’68. IL fatto è che, favorevoli o contrari, un po’ si è capito quale sia l’idea di pace della NATO. Solo i politici, al solito, come anche nelle rigide istituzioni, lì si ragiona diversamente. I poeti sanno che lo scenario della follia non conosce confini. Nessuno si fida più degli americani, delle bombe nucleari di Saddam, solo per fare un esempio… Il fatto che Giorgio insista contro, e solo contro Putin, non può trovare tutti d’accordo… mossa sbagliata, direi anche anti europea. Pare che Zelenski non sappia quale sia il tempo della politica e del cambiamento, è stato imprudente, con americani e russi. Vedrete poi quale sarà il parere degli storici, ammesso che ve ne siano non di parte…
Ad voler essere sincero, a me non piacciono tanto questi compostaggi. Ci sento della goliardia, meglio se a scriverli sia un solo autore… basterà tenerne a mente l’architettura. Ma per i miei versi no, nascono già arredati, progettati per bastarsi. Mauro Pierno non me ne vorrà se dico questo; e già che ci sono aggiungo qualcosa sulla gettatezza, su cui mi sembra che Mauro faccia affidamento (ne so qualcosa anch’io, ma ho capito presto dove sta l’errore).
Quando Tranströmer scrive “Il geroglifico del verso di un cane / è dipinto nell’aria sopra il giardino” si avvale di parole gettate; ma è l’unico modo per far “sentire” l’abbaiare solitario di un cane, che non si vede, tra le case. L’abbaiare appare come lampo, come evento.
Le parole gettate arrivano dove parole sensate non potrebbero arrivare. Se però non trovano appiglio – pur ammettendo che possa mancare senso e scopo – ma se manca l’appiglio, allora è rumore nel vuoto assoluto; che a noi non dispiace, ma non se ne dovrebbe fare poetica, se mai un mezzo per non ricadere nel poetichese. Ma un mezzo! e non sempre funziona. Io poi ho capito che il problema sta anche nel voler fare discorso, ma questo è un altro argomento. Io comunque in una pagina dove l’articolo comincia con bombardamenti non ci vorrei stare.
caro Lucio,
se non sbaglio i bombardamenti con bombe termobariche li sta facendo l’esercito russo.
È vero, non sono entrati in Ucraina per fare visita di cortesia agli insediamenti della NATo. Queste bombe arrivano dopo che Biden ha stanziato miliardi per nuovi armamenti. Non vedi la spirale, e dove potrebbe portarci tutti quanti? Non ti accorgi di quanto si siano fatte prudenti le posizioni del nostro governo, le parole di Mattarela e di Draghi? perfino quelle di Enrico Letta, inizialmente categoriche…
se non sbaglio l’Ucraina non faceva parte né dell’Europa né della Nato, e prima della invasione russa sia Scholz che Macron avevano dichiarato a Putin che l’ingresso dell’Ucraina nella Narto “non era all’ordine del giorno” e il presidente russo aveva avuto ampie assicurazioni che non ci sarebbe entrata. Mi sembra che il ministro degli Esteri Di Maio abbia preso una posizione seria e affidabile nel piano di pace stilato dalla Farnesina (che è stato liquidato dai russi con parole offensive e denigratorie del ministro degli esteri, ma la posizione di Di Maio mi sembra molto diversa da quella di Conte… il problema di trovare una linea è dei 5Stelle ai quali auguro di fare chiarezza, anche sulla collocazione internazionale dell’Italia e sull’invio di armi in Ucraina).
Ma qui il problema posto dal post è un altro:
Quale poiesis fare in tempo di guerra in Europa?
Potessi i mitrati inverni salmodiare
e dal calice insidiare metafore e patiboli.
Il trono sarà una sospetta distrofia regale,
una rossa gorgiera di sentenze senza requie.
Torvo il sentiero nero come una cornacchia
becca i campi la mia parola cordigliera.
Non so se festini e maschere creano convegni:
la segnaletica degli occhi è un dono irriverente.
Dalle soglie ai portali l’anima eretica ci spia
col suo sguardo di corsaro… guercia sarà la preda!
Questo secolo non sarà migliore del trascorso:
i massacri saranno il nostro pane quotidiano.
Le Madri senza fede né speranza spolperanno
i figli prima d’una condanna o una guerra.
Il boia cercherà invano gli occhi di un poeta disossato
o lo sguardo impietoso d’una carcassa che t’accusa.
Non esiste un Nulla che mi conforti, il resto è Delirio!
Vermicino, 17 ottobre 2003
Michael Krüger,
Discorso del Viaggiatore, da “Il coro del mondo. Poesie 2001-2010”
traduzione di Anna Maria Carpi
È libera quella sedia?
Posso sedermi?
E’ da tanto che sono in viaggio.
Le mie scarpe
hanno carpito ai ciottoli il poema delle strade,
all’asfalto il suo sospiro oleoso.
Sono andato sempre per vie tracciate da altri,
ogni pietra un ricordo di viaggiatori precedenti.
Ho sentito il freddo ed il calore inafferrabile,
l’infelicità l’ho riconosciuta dagli occhi splendenti.
L’amore non mi ha mai trattenuto.
E il dolore
ha camminato accanto a me
e voleva sorpassarmi.
Ho ascoltato canti e discorsi sciolti
nessuna rima mi ha fatto inciampare.
Ho incontrato uomini,
che avevano risolto il problema della morte,
ed altri che continuavano a credere nell’immortalità.
Ho raccolto tutto ciò
che i miei predecessori hanno fatto cadere,
da appesantirmi tanto lo zaino.
Adesso che mi sto riavvicinando all’inizio,
i piedi non mi ubbidiscono più.
Sono stanco,
ci vedo a stento,
ho fatto il viaggio a spese degli occhi.
Se permettono prendo un pezzo di pane
e un po’ di vino.
Grazie.
Adesso mi sento quasi come a casa.
Il misuratore delle ombre uscì dalla Cadillac nera
I
Il misuratore delle ombre uscì dalla Cadillac nera
parcheggiata sotto gli alberi
Il Mago Woland tirò fuori dal cilindro il Signor Putler in giacca e cravatta
il quale prese a tossire e a friggere
«È libera quella sedia?
Posso sedermi? È da tanto che sono in viaggio.
Ingehaltenheit in das Nicht»
disse senza colpo ferire, aggiungendo la seguente postilla:
«Se in una poesia appare una bianca geisha,
non resta che contemplarla»
Tornare alla normalità, concetto assai discutibile. Oggi nessuno sa cosa significhi (nemmeno quel geniale ma ignorantello d’un Di Maio, che la pronunciò durante la pandemia). Ecco, penso che la poiesis debba onestamente farsi portatrice della a-normalità, di conseguenza affrancarsi all’inquietudine. E dare prova di libertà, darne manifestazione, liberare questa intenzione come potrebbe fare un uccello in gabbia.
L’Italia, come la Francia e la Germania, tendono a chiudere la partita in Ucraina. Non è stato così fin dall’inizio del conflitto, c’è stato chi avrebbe voluto chiudere immediatamente le forniture di gas russo e mandare armi; atlantisti convinti, intransigenti, da fare invidia a Boris Johnson. Ma si sa che, in politica, parole chiare servono nell’immediato ecc. poi si cambia idea. Oltretutto questa è l’epoca della non-memoria, o della memoria nel quotidiano, poco più di un instant… basta leggere nei sondaggi.
BICI ELETTRICHE
Bici elettriche speronano cuspidi del pranzo
ne approfitta il toro per gabbare il santo
Tra le tovaglie si fa largo una guardia svizzera
il barometro ha smagliature sui cateti
Una folla di nuvole arresta rotule filanti
nei giorni di festa delle giraffe
Sui monumenti sbiaditi fermentano corvi
danzatrici del ventre dirottano il treno delle 7
Il mantello del karateka è una scorciatoia
rade la criniera alle sfingi
I freni a disco nascondono abeti
che rubano l’insonnia all’oleandro
I bilanci finali sono un fascio di bambù
in cima ai pennoni starnutisce l’orologio a cucù
In un tempo fatto di funghi
il colpo di pistola è scomparso dal panorama
Rivoli di cemento hanno occhi falsi
dalle casematte declina la neve
Scolaresche disordinate fumano sul pontile
il guanto di paraffina morde le caviglie dei platani
Se consideriamo la storia dell’umanità da un punto di vista evolutivo possiamo dire che siamo in continuo movimento. Questo piccolo pianeta, un punto nell’universo dove per un insieme di circostanze favorevoli si è sviluppata la vita, tra alti e bassi, tra barbarie e conquiste, si sta giocando il senso stesso del suo esserci. A prima vista, considerando i tempi attuali, può sembrare un cammino a ritroso, ma con sguardo lungo segnali di luce e di saggezza sono più numerosi che in passato. Penso che solo un linguaggio senza padroni possa sperare di essere dentro il sommovimento continuo.
Il fumo di una sigaretta,
il lancio dei dadi sulla terra.
Prendi la bici semplicemente e la inforchi.
La carità deglutita in pillole.
Gli spunti come le mongolfiere di tanti colori.
Agli abiti usati il sabato c’è sempre ressa.
La minuteria di viti bulloni chiodi rondelle, piccole guarnizione di gomma.
La macchinetta della caffè lasciata al minimo.
Una tazzina sempre amara.
Le forbici per tagliare un abito ad un ciclope;
su Polifemo, fai il bravo, non ti muovere!
Grazie OMBRA.
Interessante l’intervento lucido e inquietante del prof. Gastone Breccia ” La tempesta perfetta” :
«“Sta accadendo adesso”, ha detto uno dei partecipanti al forum di Davos.
La sensazione è sempre più chiara, e inquietante: siamo in mezzo non a una semplice crisi, ma a una “tempesta perfetta”. Guerra, epidemia, carestia, cambiamento climatico. Moltiplicatori di forza che creano una situazione di instabilità globale mai sperimentata prima.
Come ho scritto tre anni fa, le guerre per l’acqua saranno le peggiori della storia. E sono imminenti: la “culla della civiltà” rischia di diventare anche la sua tomba, perché la situazione di Tigri ed Eufrate è drammatica, e arriva a coinvolgere anche l’Iran, al margine orientale della regione, oltre che ovviamente Turchia, Iraq, Siria. Ma molti altri sono i teatri di possibile o probabile crisi.
Le forze armate di tutto il mondo si stanno preparando ad affrontare scenari da incubo. Il riarmo di questi mesi, apparentemente causato dalla crisi ucraina, è in realtà un fenomeno di più vasto respiro. Ad alcuni sembra folle prepararsi al peggio ricorrendo al peggio – le armi, la guerra: io mi limito a registrare il fatto che, in mancanza di un governo mondiale che sappia gestire “la tempesta perfetta”, è inevitabile che ogni comunità pensi ad essere meno vulnerabile, rifugiandosi sotto l’ala di un’alleanza (vedi Finlandia e Svezia) e dotandosi di strumenti per la difesa del proprio spazio vitale e delle proprie risorse.
Ho usato volontariamente un termine che evoca ricordi orribili – il “Lebensraum” nazista – perché se quella hitleriana era una concezione razzista e aggressiva dello “spazio vitale”, ben presto potremmo essere costretti a riconsiderarlo sotto un’altra luce.
Forse sono troppo pessimista. Forse. Ma quando guardo il Po metri sotto il livello dello zero idrometrico, i campi secchi a fine primavera, le tempeste di sabbia che flagellano la Mesopotamia, i cadaveri per le strade delle città indiane uccisi dall’ultima ondata di calore, le pietre dove c’erano fino a pochi anni fa i ghiacciai, credo davvero che “stia accadendo adesso”. Dobbiamo smettere, purtroppo, di credere che ci siano catastrofi “impensabili”: la guerra iniziata il 24 febbraio era per molti (me compreso) estremamente improbabile – per tutta una serie di motivi su cui non torno – finché non è iniziata, e ci ha costretto a cambiare il nostro modo di vedere il mondo.
Aprire gli occhi di fronte a quello che sta accadendo è il primo passo. Non è più tollerabile che ci sia ancora chi nega l’evidenza della “tempesta perfetta” che si sta addensando sul nostro orizzonte.»
Il soggetto postedipico è diventato un soggetto serendipico
Chiunque legga una poesia di Mauro Pierno, Mimmo Pugliese, Francesco Intini e altri autori kitchen non può non prendere atto che qualcosa come una violenta esplosione è avvenuta all’interno del linguaggio, uno shock di inaudite dimensioni, un trauma gigantesco: Il Collasso dell’ordine simbolico ha trascinato con sé il Collasso dell’ordine del significante. Il che implica che quel soggetto che era il punto principiale e terminale della catena significante, ha fatto fiasco, e con esso fiasco è andato al macero quella antica metafisica che era, tutto sommato, rassicurante, ospitale, che va da Giovanni Pascoli di Miricae (1891) a Franco Fortini di Composita solvantur (1994). L’io del romanzo e del poetico si è trovato, si è scoperto nient’altro che un involucro vuoto che attende dei riempitivi per apparire significante di nuovo.
La NOe e la poetry kitchen nasce quando si inizia a distinguere chiaramente questo gigantesco iceberg che sbarra la navigazione ad ogni tipo di enunciato dotato di senso. A quel punto è andato al macero anche la catena significante, la serie sintagmatica dei significanti che costituiscono gli enunciati dotati di senso e di significato. Con la guerra di Ucraina ciò appare ovvio : quel linguaggio era infarcito di ideologemi e di falsa coscienza, non si può più adottare.
Il soggetto postedipico è diventato un soggetto serendipico. Il Nome-del-Padre è diventato il Nome-di-Nessuno.
verso la storialità
Si va verso la storialità. Una volta c’erano le parole della storia, adesso i gesti hanno sostituito le parole e la storia è stata derubricata a storialità.
Il poeta è colui che è rimasto senza le parole, perché non ha propriamente nulla da esprimere e nulla da dire oltre a ciò che è detto nel linguaggio delle emittenti linguistiche; così il poeta si rifugia nel gesto, la parola diventa gestuale, geroglifica, ultronea; è sempre sul punto di fare un gesto, di non raccapezzarsi più tra le parole. Si pensi al cellulare, a un comune smartphone. È un «mezzo» nuovo, privo di storia, l’invenzione risale al 1973, nulla a che vedere con i piccioni viaggiatori, i telefoni bianchi e rosa con il loro squillio galvanico e con annesso il relativo immaginario. Il cellulare non ha storia, Google parla: la sua «voce» è propriamente dovuta a un gesto che si fa col dito, facendo scorrere e digitando una icona: i messaggi vengono prima trasmessi e poi pensati senza che vi sia un quadro, una procedura o guida di pensiero. Il cellulare è una scatola vuota, ontologicamente vuota, scaricabile, tenuta quotidianamente «in carica». In questa ontologia ricaricabile le parole sono date gratis, sono di troppo e possono essere sostituite con immaginette ed emoticon. Il gesto è il sostituto delle parole, lo produce un dito, un clic.
Il «luogo» del linguaggio poetico è nel frammento, nel distico, nel polittico, e la poesia diventa naturaliter instant poetry, kitsch poetry: qualcosa rimbalza al suo interno, divaga, le parole accorrono come per accomodarsi, non in poltrona ma sempre in bilico, in precario equilibrio tra i luoghi-non-luoghi.
La posizione della poiesis oggi deve essere propriamente rubricata in un non-luogo. La pars construens del progetto della nuova fenomenologia del poetico è comprensibile se lo si pensa all’interno di questo quadro concettuale: una nuova politica è possibile solo attraverso una nuova ontologia, una «nuova poiesis» è possibile solo come preavviso di una nuova politica, parlare di estetica è oggi diventato blasfemo e indecente. Il linguaggio che troviamo oggi già confezionato dalle emittenti linguistiche è il solo di cui disponiamo. Il concetto di «nuovo», nelle condizioni delle attuali società de-politicizzate dell’Occidente, è intimamente aporetico e va bene per i palinsesti televisivi, per la moda, il football, il basket, il flipper i talk show. Il concetto di «nuovo» è diventato problematico e indecente da qualunque parte lo si prenda. È stantio e apologetico.
Dialogo estemporaneo tra Mrs. J. K. e Mr. B. K.
…
tra buche e crateri è uno spasso con lo skateboard
e poi con il motocross sai che goduria!
altro che aurora boreale qui il cielo è rosso fuoco
e nero d’eccezione! – dice Mr. B. K.
Si, ma il frigo è vuoto! – replica Mrs. J. K.
Come può essere diversamente
se le colombe e gli aironi sono partiti col primo treno.
Le spighe, il grano sono andati via in macchina
per raggiungere la farina.
Solo adesso t’accorgi del vuoto?
In più galli e galline sono in giro per i campi,
non trovano più il pollaio! – soggiunge Mr. B. K.
Ne sei certo? di fake news il mondo
è sempre più pieno! – dice Mrs. J.K.
…
RC
copio e incollo dalla intervista a Repubblica del 22 aprile 2022 l’intervista al filosofo Slavoj Žižek
Per cominciare, professor Žižek, cosa pensa della guerra in Ucraina?
«Ha presente quello scandalo scoppiato in Italia quando l’università di Milano Bicocca ha cancellato il corso di uno scrittore su Dostoevskij? Ebbene, ci sono state tante giuste proteste, era assurdo censurare l’autore di Delitto e castigo perché Putin ha invaso l’Ucraina. Ma Dostoevskij ha rappresentato a lungo la visione di una Russia spirituale, superiore, da contrapporre al materialista Occidente: il mito di una Russia panasiatica che deve sempre intervenire a salvare l’Europa, una volta da Napoleone, un’altra da Hitler, senza ottenere dall’Europa la gratitudine che merita».
E cosa c’entra Putin?
«C’entra perché ha stessa visione rabbiosa e frustrata dell’Occidente».
Il presidente ucraino Zelensky invece le piace?
«Sì, ma al suo posto avrei usato un altro slogan. “Noi siamo i difensori dell’Europa”, dice Zelensky. Io avrei detto: “Noi ucraini lottiamo per la libertà della Russia”. Perché se l’Ucraina vince, forse potremo liberarci di Putin, altrimenti la sua dittatura ne uscirà rafforzata».
In Italia, in nome del pacifismo, c’è chi dice: né con Putin né con Zelensky.
«Il pacifismo non è un’opzione in questo conflitto. L’unico modo per resistere a Putin è con la forza. Gli invasori dicono sempre di volere la pace, perché è il modo per sovrastare le vittime. Anche Hitler diceva di volere la pace nella Francia occupata dai nazisti».
Qualche anno fa Putin disse che il modello della democrazia liberale è in declino. Concorda?
«In un certo senso aveva ragione. Naturalmente Putin lo diceva per rivendicare la sua autocrazia come modello vincente. Tuttavia lo scontento che si avverte in gran parte del mondo industrializzato è reale, indica che nelle democrazie liberali bisogna cambiare qualcosa».
Cambiare cosa, esattamente?
«Esagerando direi che bisogna fare come nel comunismo di guerra, i provvedimenti economici e sociali presi da Lenin dopo la rivoluzione bolscevica. Non per realizzare il comunismo, beninteso, ma per ristrutturare la democrazia, che ha bisogno di più socializzazione, più pianificazione, più cooperazione internazionale, più sforzi globali per affrontare problemi come sanità, cambiamento climatico e immigrazione».
Un vasto programma…
«Per questo esiste la politica. Prendiamo l’Italia. Io non sono contro Mario Draghi. Ma Draghi rappresenta una sorta di tecno-populismo che dovrebbe mettere tutti d’accordo: infatti è alla testa di una coalizione che comprende praticamente tutti i partiti. Come se oggi l’unica risposta possibile fosse mettersi al di sopra della politica. Mentre io credo che debba essere ancora la politica a fornire risposte ai problemi della società».
Qualche politologo sostiene che il vecchio conflitto ideologico tra destra e sinistra è superato, sostituito dalla sfida tra nazionalismo e globalismo.
«Non sono d’accordo. Beninteso, non sono contrario alla globalizzazione in quanto tale, ma i mega miliardari come Jeff Bezos sono dei monopolisti che controllano tutto, troppo. C’è qualcosa di poco democratico in questo. Perciò la gente si ribella. Solo che il populismo alla Donald Trump è una falsa ribellione».
Teme il ritorno alla Casa Bianca di Trump?
«Trump è il frutto di un elettorato deluso. Bisogna parlare a quel tipo di persone. Chi lo fa talvolta coglie risultati inaspettati, come il candidato della sinistra francese Mélenchon, che ha preso il 20 per cento alle presidenziali. La penso come il senatore americano Bernie Sanders: non bisogna temere di spostarsi troppo a sinistra per paura di perdere gli elettori di centro, bisogna conquistare gli elettori di destra, gli elettori di Trump, i populisti delusi».
Che lezioni ci ha dato la pandemia?
«Davanti a un problema che minacciava tutto il Pianeta, la gente ha riscoperto l’importanza dello stato e delle strutture internazionali. L’iniziativa privata è bella, ma senza lo Stato non porta vantaggi per tutti. La pandemia ce lo ha rammentato. Lo stesso dovrebbe valere per la lotta al cambiamento climatico».
Considera quest’ultimo il maggiore problema mondiale?
«Nel lungo termine, sì».
E nel breve termine?
«Ne abbiamo uno all’anno. La crisi economica globale. La pandemia. La guerra in Ucraina. Domani magari la guerra tra Cina e Taiwan. Il mondo sembra infestato dai quattro cavalieri dell’Apocalisse: peste, guerra, fame, morte».
E tra questi cupi cavalieri è ottimista o pessimista?
«Il pessimismo è il modo migliore per mantenere un pizzico di ottimismo. Se sei ottimista e le cose vanno male, perdi ogni fiducia nel futuro. Se sei pessimista e qualcosa va bene, ti resta un barlume di speranza».
Guida perversa alla politica globale di Slavoj Žižek (Ponte alle grazie, trad. V. Ostuni e V. Salvati, pagg. 432, euro 22)
FRIDA NACINOVICH NUMERO 10 – 2022 29 MAGGIO 2022
Canfora: “Putiniano? Impossibile per un comunista. In Ucraina c’è uno sconto fra potenze” – di Frida Nacinovich
– Professore, andiamo subito al cuore del problema: come scrive il brillante vaticanista Marco Politi, è centrale chiedersi quale sia l’obiettivo geopolitico finale del conflitto. Da una parte Papa Francesco e il presidente francese Emmanuel Macron, che continuano a chiedere in tempi rapidi un tavolo di negoziato, dall’altra i Paesi baltici e la Polonia, che premono per infliggere alla Russia un colpo finale che non le consenta mai più avventure militari, sostenuti da un pezzo del governo Usa e da quello inglese. Secondo lei che sviluppi possiamo aspettarci?
“La risposta non è facile. Fino a qualche mese fa si poteva pensare che in Occidente regnasse il buonsenso. Invece da qualche tempo a questa parte abbiamo capito che ai vertici degli Stati Uniti c’è una parte che vuole chiudere la partita contro la Russia. Dato che i polacchi danno una mano – e sono anche gli ‘infiltrati’ degli Stati Uniti dentro l’Unione europea – la situazione è molto seria. Possono prevalere questi irresponsabili, per i quali una guerra generalizzata non è un problema. I polacchi forse hanno la tendenza al suicidio, gli Stati Uniti sono tranquilli perché protetti da due oceani. Quindi, mentre l’Europa va al massacro, loro se la spassano. E vendono le armi agli europei che si massacrano fra loro. L’opzione di chiudere la partita con la Russia non è impossibile, c’è solo da sperare che non prevalga”.
– Professor Canfora, non c’è da avere paura quando i governi mettono l’elmetto mentre i governati chiedono trattative, il cessate il fuoco e stop al riarmo?
“Da quando abbiamo i governi del presidente, l’opinione pubblica non conta nulla. È come se non ci fosse. Forse l’opinione pubblica voleva un governo comprendente tutti, dalla Lega al Pd? Credo di no. Eppure questo governo ci è stato imposto. E se a noi non piace, a loro non importa. È stato detto, non è una mia riflessione, che nel Paese è stata sospesa la democrazia perché maiora premunt. Quando è entrato in carica il governo Draghi, è stato giustificato con il fatto che l’ora grave della patria richiedeva l’unità, e ogni conflittualità doveva essere messa da parte. Il governo è nato così. Ma a quel punto le dinamiche che siamo soliti chiamare democratiche vengono sospese, inutile fingere che sia andata diversamente. Molti giornalisti si sono affrettati a dire che è vero il contrario. Pazienza”.
– La guerra è tornata in Europa, come accadde nella ex Jugoslavia. Sembra che i governi continentali abbiano nuovamente dimenticato la terribile lezione del secondo conflitto mondiale.
“Non l’hanno dimenticata affatto. Dopo la fine dell’Unione Sovietica la Nato ha deciso di spazzare via tutto quello che sopravviveva del socialismo. Quindi il bersaglio principale era la Jugoslavia, alla quale hanno inflitto prima una guerra civile, poi una guerra di aggressione da parte della Nato, nel 1999. I governi sanno benissimo quello che fanno. Avevano promesso a una persona ‘ingenua’ come Gorbaciov che la Nato non avrebbe fatto passi per arrivare ai confini della Russia, dopo poco hanno fatto esattamente il contrario. E ora, come ha detto Papa Francesco, la Nato abbaia ai confini della Russia. Non è che hanno dimenticato, stanno seguendo un piano preciso, al quale evidentemente tengono moltissimo”.
– Dopo tre mesi di guerra, in Italia anche i più convinti sostenitori dell’aiuto armato all’Ucraina iniziano a farsi delle domande. Perché ogni guerra, si sa, provoca conseguenze economiche e sociali non soltanto fra gli attori principali del conflitto.
“Non deve convincere me che questo piano sia pericoloso. Come le ho già detto, per gli Stati Uniti le guerre a casa degli altri sono la norma. Hanno avuto solo una loro guerra ‘interna’, perché all’epoca, nel 1861, il partito democratico voleva mantenere la schiavitù dei neri, mentre il partito repubblicano era contro. Lo dovremmo raccontare a Walter Veltroni. A parte quella guerra civile interna, un massacro, hanno sempre fatto le guerre a casa degli altri. Quando hanno aggredito il Vietnam dicevano che stavano combattendo per la libertà. Come recita un proverbio siciliano, non è cretino carnevale, lo è chi va dietro a carnevale. Quello è stupido. Abbiamo una notevole quantità di persone assoldate per dire il contrario di quel che sta accadendo”.
– Il suo ultimo libro, edito da Laterza, si intitola “La democrazia dei signori”. C’è chi sostiene che per Putin la vera minaccia sia il mondo occidentale nel suo complesso, cui si stava pericolosamente avvicinando l’Ucraina. Questa chiave di lettura la convince?
“Basta avere la forza e poi si può imporre anche l’idea che gli asini volano. Lei che vede l’asino può dire di no, non vola. Ma le risponderanno che è appena atterrato. Il 3 ottobre scorso il Guardian, giornale inglese che non si stampa a Mosca, ha redatto un profilo allucinante di Zelensky. Un personaggio a dir poco inquietante, anche sul piano degli affari”.
– Il primo ministro inglese Boris Johnson ha dovuto smentire le indiscrezioni che lo volevano pronto a inviare navi nel Mar Nero per garantire l’esportazione di grano dal porto ucraino di Odessa. Per fortuna.
“Condivido questo suo allarme. Boris Johnson ha avuto una sorta di allucinazione e si è convinto di essere Winston Churchill. Crede di impersonare Churchill contro la Germania nazista. Evidentemente ha bevuto troppe birre, e quindi si comporta come se vivesse nel 1939/40. E tutti i giornali gli vanno dietro”.
– Come può una manifestazione sindacale non avere la pace quale tema principale? Esistono forse diritti o giustizia sociale sotto le bombe?
“Mi ricordo una frase di Trotsky sul mondo occidentale. Lui diceva che apparentemente è il luogo della libertà, perché tutti possono volare. Ma non tutti hanno l’aeroplano”.
– In una sua recente intervista, di fronte all’ennesima accusa di tifare per Putin ha risposto: “Non posso essere putiniano, sono comunista …”.
“Hanno inventato il concetto di putiniano, è uno pseudo concetto che serve a falsificare la realtà. La realtà è che siamo di fronte a un conflitto fra potenze. La Russia non è più sovietica, è diretta da una élite di magnati, di oligarchi. Con il socialismo non ha niente a che fare. Ma questo non è il problema che turba i magnati dell’Occidente. Il vero problema è che loro ritengono che la Russia abbia ancora una forza militare preoccupante, quindi bisogna ‘tagliargli le unghie’, come si diceva una volta. Portando argomenti ovviamente nobili, la libertà, ecc, ecc.. Ma la sostanza non cambia, è questa. La Cina è una potenza economica gigantesca ma non ha le armi che hanno gli Stati Uniti. La Russia le ha, ma non è più una potenza economica. Allora bisogna colpire prima la Russia e fare piazza pulita di quell’arsenale. Poi toccherà alla Cina, alla quale già pensava George Bush junior quando diventò presidente nel 2000. Presidente con l’imbroglio, perché in base ai numeri elettorali avrebbe dovuto vincere le elezioni Al Gore. Appena Bush entra in carica, la prima cosa che fa è valutare la situazione militare in vista di una guerra con la Cina nel 2013. Per fortuna l’abbiamo scampata. Ma questo è nella zucca dei portatori di libertà a casa altrui: intervenire contro la potenza residuale della Russia perché ha armi preoccupanti. Risolto quel problema, toccherà alla Cina. Per poi dominare il mondo. Nella testa di questi signori non c’è qualcosa di diverso. Dopodiché, definire putiniano chi lo fa notare è di una stupidità sublime”.
– Professore, certo lei non le manda a dire.
“Io ho sempre detto quello che penso. Non sono così dogmatico da ritenere che tutto quello che dico è giusto. Ma quando intervengo, lo faccio dopo aver riflettuto. E aver la possibilità di esprimersi non è sempre scontato”.
Nei canali di stato della televisione russa si mettono in scena dei talk show in cui vengono proiettate delle simulazioni luminose su una carta geografica su quanti secondi impiegano i mussili russi muniti di testate nucleari per attingere e annichilire Parigi, Berlino, Londra, Torino etc. il tutto condito da sorrisetti di soddisfazione e di rivalsa da parte delle conduttrici e degli ospiti dei cenacoli televisivi.
È indubbio che qui ci troviamo in quello che Lacan nel Seminario VII descrive come «il punto di distruzione», cioè l’impossibile saturazione del Simbolico da parte del Reale della jouissance. Con i talk show russi siamo davanti ad un caso paradigmatico ed emblematico di come e quanto ad un certo punto il Simbolico non può più vestire il Reale, e il Reale sfonda il Simbolico, lo annichila. L’impossibile diventa così del tutto possibile, l’Impossibile sfonda il Simbolico lasciando gli uomini supini e indifferenti dinanzi alla soluzione estrema e definitiva. Questo è un fatto nuovo ed estremo per l’umanità dell’homo sapiens il quale mai prima d’ora nella sua lunga evoluzione si era trovato di fronte a questo Interrogativo «Abbiamo passato la linea […] nel mondo in cui viviamo?» si chiede Lacan alludendo alla circostanza che la morte del Simbolico è diventata una realtà tangibile. Lacan ha prefigurato tutto ciò: la minaccia di un olocausto atomico.
Il fatto è che la probabilità di un olocausto atomico totale sia accolto con risolini beffardi e sarcastici da parte di alcuni sapiens è un indice pericolosissimo, un campanello d’allarme che non può essere sottovalutato e sottaciuto: La distruzione del Simbolico è la carta segreta che un gruppo di criminali può giocare in una situazione di estremo pericolo (per loro): muoia Sansone con tutti i filistei.
In un universo post-ideologico assoluto è possibile che una cricca di criminali disposta a tutto possa prendere il potere in un paese X e chiamare a raccolta la popolazione in vista di uno scambio simbolico: la jouissance assoluta (lo sterminio del nemico opera del Male) per una esistenza piena di significato: lo sterminio e l’auto sterminio totale. Con il che ritorniamo alla affermazione di Roberto Calasso: che soltanto l’uccisione dell’Altro ci dà il significato assoluto.
Le insalatissime.
Mezzogiorno e venticinque. Paprica sul melograno. Non sa quel che dice. Affetta un tulipano.
A “tulipano”spegnere il fuoco. Un pensiero ai caduti.
Non toccare il frigo.
Poesia. Abbattimento.
Monna Lisa sorridente al telefono. Frange di luce.
Dal cielo visigoti e cagnolini in fila. Il poeta Francesco P. Intini
spezzato in due.
LMT