È possibile oggi scrivere una poesia sulla guerra? di Marie Laure Colasson, Poesie all’epoca della guerra in Ucraina di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Mimmo Pugliese, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, Fondamento del terrore è l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato

Ritratto di Giorgio Linguaglossa

foto di Marie Laure Colasson, Ritratto di Giorgio Linguaglossa al tempo della guerra in Ucraina, 2022

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Marie Laure Colasson

 È possibile oggi scrivere una poesia sulla guerra?

È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, per una semplice ragione: è la vita elementare, la vita quotidiana degli uomini delle democrazie neoliberali che è diventata una guerra permanente: andiamo in guerra tutti i giorni, tutti sono già preparati fin dalla culla ad andare in guerra, è una guerra generale e generalizzata, viviamo in una zona di conflittualità permanente e di permanente regime di esclusione (i più forti escludono i più deboli, i ricchi escludono i poveri, i mascalzoni gli onesti). Viviamo e prosperiamo in un regime ad esclusione portabile, controllata e irreggimentata, siamo entrati nell’epoca delle democrazie dell’esclusione controllata e auto controllata, con il premio di consolazione del sussidio di cittadinanza. La Nuova Ontologia Estetica e la poetry kitchen derivano dalla presa di conoscenza di questa situazione globale. Il modernismo è finito. Chi scrive alla maniera lirica e postlirica è un confidente e un connivente di questa situazione politica di stallo stilistico. È inutile girarci intorno: le democrazie neoliberali se vorranno sopravvivere in Occidente devono trovare il coraggio di fare delle riforme drastiche: togliere ai ricchi e agli straricchi per devolvere parte di questa ricchezza smodata ai poveri, rimettere in moto l’ascensore sociale, aprire gli spazi di libertà. Brodskij è stato un poeta del modernismo europeo, la poesia “Lettera al generale Z” risale al 1968, alla invasione di Praga; oggi, con la guerra di invasione dell’Ucraina prendiamo atto che il modernismo è morto e sepolto, scrivere una poesia della memoria o una poesia sulla guerra sarebbe kitsch, un esercizio alla maniera degli anni Sessanta. Brodskij intelligentemente ha aggirato il problema: ha fatto una poesia contro il “generale Z.” non contro la guerra in modo generalizzato. Torniamo all’oggi, chiediamoci: come è possibile che Putin e il suo regime autocratico abbia raccolto e raccolga tuttora tra i disgraziati e i poveri tanto consenso? La domanda è perentoria e richiede una risposta. Io penso che qui in Europa si può rispondere rilanciando la democrazia, con delle riforme, rimettendo in moto la democrazia. In Russia la democrazia non c’è mai stata, ma qui  in Italia e in Europa occorre da subito rafforzare la democrazia, soltanto costruendo un più di democrazia si potrà porre un argine alle smanie di potenza dell’élite di professionisti che ha fatto il suo apprendistato tra le file del KGB. Ma quello che c’è di più allarmante è vedere quanti appoggi e approvazioni indirette goda Putin e il suo regime tra le masse degli italiani e tra i partiti italiani di destra e anche in parte di sinistra. Come si può spiegare questo fatto? Come è stato possibile? – ma questo è un problema tutto italiano, squisitamente italiano.

Giorgio Linguaglossa

Negli anni che vanno dal 1914 al 1945 l’Occidente ha messo in atto, senza averne coscienza, un vero e proprio tentativo di auto annientamento. La guerra fredda che è seguita è stato un interludio di pace, armata ma di pace. Oggi con la guerra di invasione dell’Ucraina qui in Europa siamo entrati in una nuova era che però ci è ignota, in un certo senso noi siamo gli abitanti dell’ignoto. Non sappiamo se un’altra epoca si aprirà davanti a noi o se ci sarà il diluvio. Auden titolò L’età dell’ansia un poemetto ambientato in un bar di New York verso la fine della seconda guerra, oggi non so quale sarà il titolo di un libro di poesia che passerà ai posteri, forse il libro di Francesco Paolo Intini, Faust chiama Mefistofele per una metastasi (2019). Il titolo del mio libro che sto per dare alle stampe è Distretto n. 18. Ora che ci penso la parola «distretto» è un termine militare, siamo già tutti militarizzati senza saperlo e senza volerlo, viviamo in una zona altamente militarizzata in quanto disponiamo di un inconscio storico de-politicizzato e di una vita privata de-privata in via di privatizzazione progressiva. La nuova militarizzazione delle coscienze si avvale di una vita privata che è stata de-privata, che è incapace di esperire esperienze, si oscilla tutti tra turismo e terrorismo. E questo lo troviamo accettabile.

«Fondamento del terrore è l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato. Tutto il resto appare labile, incerto, inadeguato.
[…]
Nello stadio ultimo della sua formazione, il terrorismo islamico coincide con la diffusione della pornografia in rete, negli anni Novanta. All’improvviso si trovarono davanti agli occhi, facilmente e perennemente disponibile, ciò che avevano sempre fantasticato e desiderato. e che al tempo stesso svelleva l’intero assetto delle loro regole riguardo al sesso. Se quella negazione era possibile, tutto doveva essere possibile. Il mondo secolare aveva invaso la loro mente con qualcosa di irresistibile, che li attirava e al tempo stesso li irrideva e li esautorava. Senza uso di armi – e oltretutto non ammettendo o esigendo la presenza del significato. Ma loro sarebbero andati oltre. E, al di là dal sesso, c’è solo la morte. Una morte sigillata dal significato».1

1 Roberto Calasso ne L’innominabile attuale (Adelphi, 2017 p. 14)

Francesco Paolo Intini

“A questo punto interviene il Re:-il mondo va corretto termodinamicamente”

La coda di lucertola era parte del Logos-animale vissuto nel Pleistocene-
Ma si muove ancora, sbattendo la punta come una banconota l’Europa

Ed è di qua che si assiste alla caccia e di là che ricrescono i T-Rex
Tra i pastelli c’è ressa a ricostruire giungle. Il pollo si lascia dipingere su Pasifae.

Subentrano i missili ad personam-L’atomica tattica nel marsupio-
Tanto per umiliare l’amor proprio delle melanzane ed esaltare il cavolfiore.

Un grido:- Perché m’hai riportato al mercato?
I vocaboli vanno dal parrucchiere ad aggiustare la dentiera.

Se la zucca si spacca in due, nessuno è in grado di fermare i semi
Cocomeri e meloni si rompono a catena.
Pesche e albicocche distruggono l’Italia.

E dunque cos’è massaciquadro nella polpa delle nazioni?

Lucio Mayoor Tosi

È da un po’ che non scrivo. Ho chiesto al medico,
dice che sua moglie lo ha lasciato. Ha iniziato a scrivere.

– Ama quel che le pare. Si veste come una pazza. Si lascia rapire
da un verso. Sa, dice, implora; cioè, lo pensa. Non la senti parlare.
La casa (un) fai-da-te.

– “La rondine al tetto”. Libro per prostitute; scritto a quattro mani
con canterina che squilla – si vede che sta bene, neanche guarda
i tasti… vola!

L’arretrato del tutto, signor accapo.

– Dice di essere turca. Ha le lentiggini. Si esprime con gesti.
È muta.

Ci siamo. Tra sei ore gli occhi saranno chiusi. Strano destino.

– Sempre facendo gesti canta Fiume di parole tra noi.

Più in basso, le Dolomiti.

 

Mauro Pierno

Il dove siamo ha poca importanza, tanto la realtà ci riporta sempre a galla.
L’immedesimazione comporta straniamenti emotivi…

“il fumo delle sigarette tra gli scaffali e le bibite lasciate a metà, le mani
che si stringono alle maniglie, ai corrimani…”(Linguaglossa)

“-E dunque, mio caro animale, ognuno ha la voce che si merita.” (Tosy)

“-Ho una pupilla ballerina!
-No! No! Ha l’occhio pigro! Sentenziò l’oftalmico.”(Gallo)

“Stanotte la campagna è blu
nella mansarda è fiorito il baobab” (Pugliese)

… che tracciano un atemporalità. Tanto la realtà ci riacciuffa sempre.
Forse il tentativo di questa nostra poesia è già una sorta di ricostruzione, dopo un enne tempo.
C’è un tempo, uno spazio, dove tutto questo pensiero poetico può avverarsi!
Una sorta di sottinteso emotivo risucchiato da un gigantesco buco nero.
La felicità della poesia kitchen è una sorta di forte aspirazione.
L’atto di essere aspirati!
Non ispirati.

La poesia di Intini e di Mauro Pierno prende atto che ormai si può scrivere poesia soltanto facendo riferimento ad un ordine delle parole che è saltato, come del resto l’ordine dei fatti, su una sterminata quantità di guerre glocali (162 su tutto il pianeta) che sono il contraltare delle guerre globali (quelle non combattute con le armi ma con gli strumenti del web e delle Agenzie di Affari Riservati, per il tramite delle bande guerresche Wagner e similari).

«Non esiste più uno spazio circoscritto e sommariamente regolamentato entro cui si svolge la politica», commenta Roberto Calasso nel libro sopra citato a pag. 35, il quale così continua: «Nel 1967 Kissinger afferma: Non sarà possibile concepire un ordine internazionale se la regione entro cui si svolgono la sopravvivenza e l’evoluzione degli Stati rimane senza regole internazionali di condotta ed è abbandonata a decisioni unilaterali». Definizione dove Kissinger è costretto a mescolare linguaggio vestfaliano e linguaggio del cyberspazio.
[…]
Henry Kissinger avviò la sua carriera con un solo libro sul Congresso di Vienna. Passato dagli studi alla politica attiva, tentò in ogni modo di applicare quella che ha chiamato politica “vestfaliana”, quindi basata sull’equilibrio fra le potenze, introdotto nel trattato di Vestfalia del 1648 e riformulato per un’ultima volta nel 1815 con il Congresso di Vienna. e, finché durò una opposizione polare USA e URSS, quel principio trovò un ulteriore corollario, puntando questa volta sulla deterrenza nucleare e sulla spartizione delle aree di influenza. Ma dopo? Un ordine fondato sull’equilibrio delle potenze è diventato inattuabile, innanzitutto perché le potenze non si oppongono più frontalmente, ma su più lati. E non condividono neppure il principio della spartizione delle aree di influenza. (p.35)

 

Kitsch poetry

Il coccodrillo rivolge la parola ad un armadio, gli dice:
«Il pollo si cuoce nella carta stagnola».
Così avvenne che il Congresso di Vienna adottò il significante.
I think tank hanno sfornato un mandolino che suona “O sole mio” sul lungomare di Posillipo.
Il sindaco di Napoli però ha preso le distanze.
Parole vestfaliane si mischiano a quelle basedowike di una poesia sagrediana in modo che si possano mangiare in un panino imbottito.
L’Agenzia Affari Riservati del Signor Putler ha inviato un logogramma al Signor Dio, c’è scritto: «Chiuso per lutto».
«Chi controlla il passato controlla il futuro e chi controlla il presente controlla il passato»
mormorò il poeta Antonio Sagredo
il quale non si mosse dal busto in marmo sito in villa Borghese accanto a quello di Ugo Foscolo dove lo aveva piazzato un’ordinanza di papa Pio IX.
Uno stuolo di pappagalli passò di lì e ci fece la cacca.
Così avvenne che la tgirl Korra delle Amazzoni scambiò il fotoreporter del TG1 per il Macho Zozzilla noto attore del film porno intitolato “Il gorilla dello Zoo di Atlanta e la Signorina Biancaneve”.
Il che produsse sconcerto e imbarazzo presso gli utenti della pellicola.
La mannequin Clizia Sosostris in monokini ha dichiarato ai followers di Tic Toc: «Non diventate quello che vi hanno fatto».
In tutto questo trambusto un treno carico di uova fritte entrò direttamente nella suite dove Biancaneve stava girando una scena porno con i sette nani, causando scompiglio e sbigottimento.
Che è che non è, per porre fine a queste ipotiposi alla fine è intervenuto il Signor Dio,
il quale disse:
«Il mondo va corretto in una camera iperbarica ad alta densità di neutrini e positroni»
«E così sia»

Mimmo Pugliese

Non ti sei fidato

Non ti sei fidato
hai continuato a guardare il prato deserto

Il volo che hai sulle spalle
asperge tulipani e ciba cicogne

Una piccola voglia di caffè sul collo
sversa sulle canne dei fucili

Avevi la luna nel piatto
quando ti sei alzato e guardato fuori

Passavano bighe che trinciavano stricnina
avevano martingale di rovi

Domani le aquile dormiranno
i bambini mangeranno gelati alla frutta

Stringono i pugni le colonne
samurai vestito da lince accende fuochi

La portulaca fa il filo alle onde gravitazionali
ha zampe di riccio il nuovo soffitto

Sa di legno la fila di notti
che dalle grondaie spara ai papaveri

Tappeti persiani spezzano il sonno ai pattini a rotelle
l’ultimo brindisi è per l’acrobata cieco

Non ti sei fidato
polpastrelli di saccarina rovesciano il muro del suono

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Per Wittgenstein le parole, le proposizioni valgono in quanto si riferiscono a contesti d’uso: «Che questa o quest’altra proposizione non abbia senso, è significativo in filosofia; ma significativo è anche che suoni comica», afferma il filosofo austriaco. La caratteristica più importante di questa nuova strategia riguarda l’apparenza di nonsenso che si produce nell’uso di giochi linguistici per esprimere esperienze nuove. È possibile individuare due conseguenze importanti per la riflessione del secondo Wittgenstein sul ruolo della filosofia e sull’etica: i giochi linguistici che utilizzano parole o espressioni insensate in relazione ai contesti d’uso della vita di relazione esibiscono questa apparente insensatezza solo perché impiegate in modo nuovo e inconsueto come reazione linguistica al presentarsi di una nuova esperienza. È quanto accade nella poetry kitchen, nella quale sono i contesti di uso delle parole che vengono cambiati. Non avrebbe senso parlare di insensatezza della poetry kitchen se noi considerassimo la questione dal punto di vista delle parole secondo i tradizionali contesti di uso. (g.l.)

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È in corso di stampa per Progetto Cultura di Roma la sua prima raccolta poetica, in edizione bilingue, Les choses de la vie.

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie.

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Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019.
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

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Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. 

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.

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56 risposte a “È possibile oggi scrivere una poesia sulla guerra? di Marie Laure Colasson, Poesie all’epoca della guerra in Ucraina di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Mimmo Pugliese, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, Fondamento del terrore è l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato

  1. antonio sagredo

    Futuri? Passati?

    Levatrice dei morti —- la notte coi suoi gemiti e le stelle così lontane!
    Non abbiamo parole noi – nella luce! Stiletti di pensiero sono infelici passi,
    fitte delle nostre colpe i ritorni dell’eterno: rifugi, cisterne di insensati giorni.
    Inconsapevoli in un qualcosa da cui nascemmo: senza una fine e un principio!

    Ascoltare, dove non so e quando – da chi e da cosa? Insensata presenza il Nulla delle fedi del passato… è il nostro senso? Smarriti dagli occhi e dalle mani… sugli altari increduli di noi resteranno glorie declassate, tabulae rase, apocalissi di pensiero, orienti e occidenti: spazi scellerati, paradisi infernali… aurore e

    tramonti non ci saranno più… quali altri pensieri avremo che mai
    conoscemmo e quali altre immagini ci domineranno, quali altre matematiche,
    con quali occhi scriveremo un nuovo cominciamento… pace e guerra
    conosceremo in altri non-quando e non-dove… e l’Io sarà un altro Io,
    a noi – ignoto sarà il riso – senza… fine!

    Sulle rive invano cercheremo un albero, un oceano, un cantuccio…
    la distruzione sarà più che il nostro pane quotidiano…
    sarà una tendenza – senza… fine!
    Non si canta il nulla che non esiste – si canta quello che esiste – NOI!

    Roma, 7/8 aprile 2015

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  2. Bisogna dire che le parole, le singole parole, non sono tutto. Capita raramente di scrivere una sola parola, iniziale maiuscola seguita da punto. Lo considero un traguardo; ma accade raramente, il linguaggio è costituito da locuzioni, sull’orma dei modi di dire (linguaggio non esattamente parlato, solo condiviso); non si tratta nemmeno di proposizioni, le quali hanno senso (contro senso o fuori senso) e sono attigue al significato. No, da 70 anni almeno la mente è bombardata dal linguaggio stretto di pubblicità e titoli giornalistici. Sintesi ed efficacia, come previsto da Lyotard.
    In questa pagina troviamo diversi esempi di poesia pubblicistica, innalzata al rango di nuova ontologia estetica.

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  3. Scrive oggi Laura Barone su Facebook:

    «Concordo in buona parte con la riflessione fatta. L’unica cosa su cui credo dovremmo riflettere è che, il fatto che le destre sostengano Purin, sia un problema solo Italiano. Putin foraggia le destre in Europa da anni, esse sono ormai rappresentate, per il 20%, nel Parlamento Europeo. L’ obiettivo di Mosca è aumentare le divisioni nell’Unione europea per colpire la Nato e bloccare i programmi di difesa degli Stati Uniti. Il “Telegraph” sostiene che funzionari russi intervistati si siano rifiutati di dire quali siano i partiti coinvolti ma è informa che si tratti di forze politiche di Paesi Bassi, Ungheria, Austria, Francia, Repubblica Ceca e Italia, con riferimento alla Lega Nord.
    Per quanto riguarda il ruolo dei poeti e l’impossibilità o l’ inutilità di scrivere poesie sulla Guerra credo che sia il momento di guardarci tutti in faccia e capire quale sia il nostro ruolo in questo periodo storico contorto e sull’orlo del baratro. O, una volta per tutte, accettiamo che ciascuno abbia il diritto di scrivere con i propri strumenti contro un tale argomento oppure, e lo dico senza polemica, andiamocene tutti a casa, dai Rodari ai Tranströmer. Auguriamoci di poter continuare tutti a fare quello in cui crediamo nel rispetto reciproco e senza rischi, cosa che oggi sembra diventata impossibile anche per noi che scriviamo.»

    Il fatto è che non soltanto la NATO è «cerebralmente morta» come ha detto una volta Macron, ma anche l’Europa è cerebralmente tarata allo zero, non si può dire che sia morta perché non è mai nata.
    Le potenze, gli stati-potenze sono universi semantici, si muovono nell’ordine di UN discorso; gli stati-colonie (come l’Europa) sono universi semiotici (cioè senza soggetto), i discorsi che producono sono privi di soggetto e di potenza semantica. La sola comunanza delle economie non è sufficiente a formare una stato-potenza, uno stato-nazione. Di qui la ragnatela dei sovranismi e dei putinismi diffusi in Europa, sintomo percettibile del loro essere stati-colonie, colonizzati dalla superpotenza degli Stati Uniti.

    Mallarmé una volta (1897) ha affermato che l’economia politica e l’estetica sono le sole due vie aperte alla ricerca mentale (G. Agamben, Gusto, Quodlibet, 2015, p. 53). Concordo. Nel corso del 900 appare chiaro il fenomeno secondo cui l’economia politica ha colonizzato sempre di più l’estetica e le poetiche, e queste ultime sono diventate normative sempre di più. Ciò vuol dire che si sono limitate a fare il lavoro del guardiacaccia, a sorvegliare la selvaggina, a fare discorsi ecologici, polinomi frastici sussiegosi ed educati… il che significa che l’estetica e la poetica si sono auto limitate a parlare della diffusione dell’estetica e della diffusione delle poetiche, senza rendersi conto di star dicendo delle amenità e delle corbellerie.

    Scrivere oggi, nel 2022, delle poesie sulla guerra significa, oltre che essere cerebralmente tarati allo zero, che si scrivono delle amenità e delle corbellerie. Oggi un poeta consapevole del contesto storico in cui si muove non può che in-scrivere le proprie poesie in questo quadro di belligeranza totale nel quale conduciamo le nostre esistenze storiche.

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  4. È possibile oggi scrivere una poesia sulla guerra? di Marie Laure Colasson, Poesie all’epoca della guerra in Ucraina di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Mimmo Pugliese, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, Fondamento del terrore è l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato


    @valigiabluinfo@valigiablu.it

    La scrittrice premio Nobel Svetlana Aleksievic: “La Russia sta facendo quello che i nazisti facevano sul suo territorio: ora abbiamo a che fare col fascismo
    di Ezio Mauro

    Nata da madre ucraina e padre bielorusso, la scrittrice premio Nobel 2015 ha raccontato l’homo sovieticus. Oggi sta scrivendo un libro sulla nuova guerra: “Solo se vince Kiev vinciamo tutti”.

    Svetlana Aleksievic è nata in Ucraina nel 1948 ma è cresciuta e ha vissuto prevalentemente in Bielorussia. Oppositrice del regime del presidente Aleksander Lukashenko, ha trascorso lunghi periodi in esilio ed è dovuta fuggire in Germania nel 2020. Da giornalista e scrittrice ha raccontato le principali vicende dell’Urss e della Russia nella seconda metà del Novecento in una serie di romanzi corali basati su centinaia di testimonianze. Nel 2015 ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura “per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo” (dalla motivazione). Su sua iniziativa l’editore Bompiani pubblica ora le sue Opere principali in due volumi a cura di Sergio Rapetti con la traduzione di Rapetti e Nadia Cicognini: Guerre e Tornare al cuore dell’uomo (in libreria dal 25 maggio). Riportiamo, con l’autorizzazione dell’autore, l’intervista di Ezio Mauro pubblicata su Repubblica e Il Venerdì del 13 maggio 2022

    Svetlana Aleksandrovna, lei è cresciuta sovietica, è diventata scrittrice di lingua russa, con padre bielorusso e madre ucraina. Come vive oggi il conflitto tra queste quattro nature, entrate in guerra tra di loro?

    “Quando ho ricevuto il premio Nobel dissi che avevo due case, perfino tre: la Bielorussia, l’Ucraina e la cultura russa. Ma erano tempi completamente diversi, e tutti noi eravamo sotto l’influsso grandioso della cultura russa, sentivamo tutto il suo incanto, mentre oggi sembra di essere in un altro mondo. Dobbiamo domandarci, e domandare all’intera élite russa, perché la cultura del Paese è divenuta impotente, perché non aiuta in questa situazione tragica, perché le persone non si rivolgono alla parola della cultura, e non la ascoltano, e invece ascoltano soltanto la televisione”.

    Che cosa è successo?

    “Me lo chiedo ogni giorno. Lei sa che si parla sempre della ‘misteriosa anima russa’, nel Diciannovesimo secolo era un modo di dire molto comune. Oggi, dov’è finita quell’anima? Le faccio un solo esempio che mi ha colpito di recente. I servizi segreti ucraini effettuano continuamente intercettazioni delle conversazioni dei soldati russi con i loro genitori, le loro famiglie. Ed ecco che un soldato russo telefona alla moglie, e la informa: ‘Noi qui stiamo rubando, stiamo facendo sciacallaggio. Io non ho con me un borsone, ma qualcosa sono riuscito a prendere. Per esempio, argento non fresco’. ‘Argento non fresco? Che vuoi dire?’ chiede lei. ‘È ad esempio quello che leviamo ai morti. Ma tu riesci a lavorare con l’argento vecchio?’. Risposta: ‘Tu prendi, prendi tutto quel che trovi…’. Capito? Ecco dove nasce la mia domanda: come sta operando questa grande cultura russa? Perché oggi non funziona? Perché una propaganda così primitiva come quella della televisione ha preso il sopravvento? Senti che cosa dicono i soldati russi tra loro, o al telefono con i familiari, e ti chiedi: come è potuto accadere, perché abbiamo perso le persone in così poco tempo?”.

    È una mutazione indotta dalla guerra o in atto già da prima?

    “Io so che fino a poco tempo fa parlavamo di una nazione spirituale, di un Paese che, come sempre si dice, legge più di ogni altro: ed oggi, ecco, siamo arrivati all’argento non fresco da togliere ai morti… E tenga conto che potrei fare moltissimi esempi come questo. Quando, dopo lo scontro armato, il battaglione ripiega a riposare in Bielorussia, arrivano prima i carri armati colpiti e i blindati ammaccati, e subito dopo li seguono i Kamaz, i camion carichi di lavatrici, frigoriferi, biciclette da bambino… Una razzìa. E io mi sento disperata, e penso a come si può trovare una strada per raggiungere questo tipo di umanità, come scegliere le parole perché la gente capisca che sono cose terribili. La Russia sta facendo quello che i nazisti facevano sul suo territorio: ora abbiamo a che fare col fascismo russo”.

    È una spoliazione?

    “Sì, esattamente. I soldati razziano questi beni in Ucraina e li spediscono a casa utilizzando la nostra posta bielorussa. Centinaia di chili. E poi, soprattutto, laggiù le loro mogli, i figli, le famiglie indossano e usano quelle cose. Come ai tempi delle tribù primitive. Un bottino di guerra, un saccheggio dell’anima”.

    Noi parliamo di guerra, ma in Russia non si può. I giornalisti per raccontare quello che vedono al fronte devono usare le formule scelte dal potere. Perché la guerra comincia sempre con l’arresto delle parole?

    “Ma perché qualunque guerra è innanzitutto una grande menzogna. Lei deve tener conto, sempre, che Putin vuole appropriarsi del popolo. Per questo non vuole che la gente sappia la verità: che conosca la ragione per cui, ad esempio, la radio Eco di Mosca ha dovuto chiudere le trasmissioni. Ecco, questo è il motivo: la popolazione non deve sapere. La cosa più sorprendente è la reazione dei cittadini a questa confisca della verità. Ho visto in televisione un giornalista che cammina sulla Piazza Rossa, a Mosca, e domanda ai passanti: che ne pensa della guerra in Ucraina? La risposta di uno su due, se non di più, è di sostegno a Putin. Mi ha colpito una donna che ha detto: ‘Mia sorella vive a Kharkov, che è stata bombardata e lei è rimasta senza casa, ma io appoggio comunque il nostro Presidente. Perché se non fossimo stati noi ad aggredire saremmo stati aggrediti dagli americani’. Sono mitologie che vengono inculcate nella coscienza delle persone”.

    Ma come spiega questo consenso, è solo frutto della propaganda?

    “Certamente no. Vede, io in questo momento sto scrivendo un libro sulla situazione in Bielorussia e sulla guerra in Ucraina, e devo dire che studiando e analizzando quel che accade è sempre più difficile considerare Putin come l’unico colpevole. Ogni russo porta la sua parte di responsabilità. Perché ognuno, anche nel suo isolamento, nella paura, nella sua solitudine, può domandarsi cos’è questa guerra, cosa c’è di giusto in quel che facciamo in Ucraina, e trarre le proprie conclusioni. Fino a scoprire la vera questione: questa guerra chiama in causa una colpa collettiva”.

    Tutti colpevoli, nessun vero colpevole?

    “Proprio il contrario. Voglio dire che la finzione di un popolo oppresso e disgraziato è troppo facile, non spiega niente. Bisogna comprendere che anche il popolo è colpevole, e avere il coraggio di dirlo, perché è da qui che si deve ripartire. Ecco per esempio di nuovo un’intercettazione: un soldato russo in Ucraina parla con suo padre, il ragazzo non gli racconta le cose tremende che stanno facendo, ma si lamenta: “Papà, ci hanno detto che ci avrebbero pagato di più, invece ci hanno pagato pochissimo”. Ed è di questo che si mettono a discutere lui e il padre, è sui soldi che si sentono ingannati, non sulle ragioni della guerra. Non una parola sulle sofferenze di Mariupol, sulla tragedia di Bucha, sui cinque milioni e più di profughi e rifugiati, sulle centinaia di bambini che sono scomparsi o morti. Il mondo è annichilito da questo dramma e noi siamo davanti a un padre che dice a un figlio di guadagnare il più possibile per quando tornerà a casa. E io, personalmente, come scrittrice sono disperata”.

    Ma lei si aspettava l’invasione dell’Ucraina? In Occidente molti pensavano fosse una minaccia che non sarebbe diventata realtà. Lei aveva capito?

    “Io parlo molto con gli ucraini e loro, tutti, se lo aspettavano. Si preparavano. Facevano scorte di cibo, compravano benzina per le auto, partecipavano alle esercitazioni per imparare a sopravvivere in una situazione di guerra. Il fatto è che l’Ucraina da tempo avverte la Russia come un pericolo. Negli anni Trenta Stalin voleva prenderla per fame, oggi Putin la prende con i missili. Io sono ammirata dalla capacità di combattimento degli ucraini. Conosco ragazze e donne ucraine che lavorano qui in Germania, nelle pulizie delle case, mi raccontano che sono arrivate da poco coi bambini e coi mariti, i quali sono subito tornati indietro a combattere. Nessuno li obbligava, ma loro appena messa in salvo la famiglia sono rientrati in quell’inferno. Anche altri, che già da tempo vivevano in Germania, sono tornati in patria per combattere. Sono ammirata da questo popolo”.

    Lei si aspettava una resistenza di questo tipo da parte degli ucraini?

    “Io sono cresciuta con la mia nonna ucraina, ho passato molto tempo con lei, conosco la mentalità delle persone in quel Paese. Ma no, non mi aspettavo che avrebbero mostrato questa forza d’opposizione, temevo che si perdessero in un momento così estremo. Pochi avrebbero potuto mettere in campo una resistenza di questo genere. Ricordiamo l’effetto che ha fatto su di noi vedere tutti quei carri armati che arrivavano alla frontiera, quelle colonne in fila dalla Russia: e loro? Mi sembrava logico pensare che avrebbero tremato, anche per la sproporzione delle forze in gioco, potevano disgregarsi. Invece sono rimasti lì, ci sono ancora e continuano a resistere”.

    Ma Putin che cosa vuole con questa guerra? Io non credo che punti a ripristinare lo spazio dell’Unione Sovietica, perché manca il cemento ideologico del comunismo. Piuttosto credo che voglia reinterpretare il sovietismo come esercizio sovrano dell’autorità di Mosca, restituendo la Russia alle dimensioni imperiali di una volta. È questo l’obiettivo, il recupero del ruolo imperiale per il Cremlino?

    “Lui vuole ristabilire l’impero zarista. Ha l’idea e il mito della Grande Russia, e noi sappiamo bene come finisce nella Storia l’inseguimento di questo sogno di grandezza, la Grande Serbia, la Grande Germania, e ora la Russia. C’è sempre una premessa vittimistica. Putin continua a ripetere che la Russia è stata offesa, che è stata mortificata, che dobbiamo costringere gli altri a rispettarci, E poi c’è un odio quasi fisico verso l’Ucraina. Che cosa è la Russia senza Ucraina? Non c’è più l’antica Rus’ di Kiev, sparisce col suo deposito mitologico di tradizione. Putin, in poche parole, ritiene che l’Ucraina si sia appropriata della storia russa. E vuole riscrivere quella storia. Infatti alla vigilia dell’intervento armato ha dichiarato che la creazione di quello Stato fu un errore commesso da Lenin”.

    Ascolta anche il podcast >> Nella testa di Putin: viaggio all’interno del pensiero del nuovo Zar di Russia

    Non crede che l’Occidente abbia sbagliato, dopo la fine dell’Unione Sovietica, a ridurre la Russia al rango di potenza regionale, pensando che la dimensione imperiale fosse una sovrastruttura del bolscevismo – mentre invece c’era prima e sopravvive dopo – perché è parte dell’anima russa?

    “Io credo che nessuno si sia davvero reso conto di quel che sarebbe rimasto dopo il crollo dell’Impero. Intanto è rimasto un uomo corrotto, l’homo sovieticus – prodotto del bolscevismo – che per prima cosa vuole che lo si rispetti. Ma mi domando: per che cosa va rispettato? Per la quantità di armi nucleari che controlla? Ci sono molte cose per cui si può rispettare un Paese moderno, le idee, la ricerca tecnologica, le sue conquiste scientifiche. Invece no, noi dobbiamo rispettare soltanto la potenza militare, cioè il pericolo rappresentato dall’homo sovieticus: perché così, ridotto ad una sola dimensione, si tratta di un uomo cresciuto nella cultura della violenza, e che solo con la violenza sa risolvere i suoi problemi”.

    Non pensa che Putin, più che la Nato e la sfida territoriale, tema il contagio occidentale della democrazia?

    “A giudicare da quel che accadde a Minsk, durante la Rivoluzione bielorussa, quando centinaia di migliaia di persone scesero in piazza, direi che Putin ha aiutato Lukashenko proprio perché aveva molta paura della democrazia. Ha capito che sarebbe dilagata e per questo, poco per volta, le truppe russe hanno occupato la Bielorussia. All’inizio si disse che era per le manovre congiunte, ma poi le truppe non hanno più lasciato il nostro territorio. Oggi è Putin a guidare la Bielorussia, non è Lukashenko a stabilire se i carri armati passeranno di qui o di là e se i missili partiranno”.

    Ma è per questo tornaconto che Putin ha rinunciato al rango di leader di una grande potenza rispettata nel mondo? Per diventare il campione dell’antidemocrazia?

    “Io penso che Putin, diciamo così, è un uomo che è stato rinchiuso in un lager per tutta la vita. A un certo punto è uscito da quella gabbia. Eccolo, adesso è fuori, ma questo non vuol dire che superato il cancello del lager riesca a trasformarsi in un uomo libero. E guardi che questo è esattamente ciò che è accaduto a noi, a tutti noi. Siamo usciti dal recinto del lager, ma non sapevamo che cosa fosse la libertà. Neanche Putin lo sa. E non lo sanno i nostri oligarchi. Non lo sanno i nostri eserciti. Secondo un grande filosofo russo, Caadaev, l’idea che la Russia sia un Paese come gli altri è solo un’impressione. In realtà in Russia tutto dipende da chi si trova al vertice, tutto dipende sempre da un uomo solo. Dal suo egoismo, dalla sua idea della vita stessa, dalle sue ossessioni. La Russia di oggi è il riflesso di quello che Putin immagina della vita e del mondo”.

    Quattro anni fa, Putin ha detto che la democrazia liberale dell’Occidente ha fallito, non mantiene le sue promesse: che modello ha in testa?

    “Non comprende il principio basilare della democrazia, la sua concezione. Pensa che corrisponda alla discussione aperta nella società, tutto qui. È questa apertura che non capisce, la interpreta come un segno di debolezza. Per lui, tutto ciò che non è forza, è debolezza”.

    Ma la Russia è condannata a non conoscere la democrazia?

    “In ogni caso, penso non nella mia generazione. Noi non la vedremo. La via per la democrazia è lunga e costa fatica. Noi negli anni Novanta credevamo che la democrazia fosse lì lì per arrivare, a portata di mano, solo più tardi abbiamo compreso che invece è un percorso senza scorciatoie. Come si dice? Lunga è la strada per la libertà, e non si possono saltare le tappe. E per questo noi paghiamo col nostro sangue, con il nostro tempo nella storia. Sì, sì, siamo ancora in cammino”.

    Come può il Cremlino considerare l’Ucraina legata alla Russia sul piano spirituale e distruggere le sue città massacrando la popolazione civile?

    “Nella coscienza del mondo russo, tutto avviene attraverso la violenza. È il metro che misura tutto quello che succede in Russia. Ecco, ora, nei giorni della Pasqua, i russi dipingevano le uova e uccidevano gli uomini. E per loro è normale. Non solo. Arriva il Patriarca di tutte le Russie, Kirill, e benedice la guerra in Ucraina dicendo che il conflitto eviterà che da noi si facciano i Gay Pride: si rende conto?”.

    È l’arruolamento di Dio?

    “Si fa perfino fatica a credere che certe persone riescano a pensare cose del genere e che credano in quello che dicono”.

    Che giudizio dà di Zelensky? In Occidente c’è qualcuno che pensa che la resistenza ad oltranza porti ad aumentare il numero delle vittime, e il cinismo della Realpolitik quasi consiglia all’Ucraina di arrendersi. Cosa ne pensa?

    “In queste settimane ho avuto molte occasioni di ascoltare gli ucraini, e credo proprio che si difenderanno, come dicono, fino all’ultimo uomo. Perché Putin vuole distruggere il loro Paese, la loro cultura, la loro lingua. Per lui l’Ucraina non è degna di essere uno Stato, di esistere e di sopravvivere. E la gente ha reagito. È un popolo fiero e non accetterà nessuna capitolazione. Per questo è importante che il mondo sostenga l’Ucraina. Che dia armi e tutto ciò che serve, che aiuti”.

    Ma Putin ha sbagliato i suoi calcoli? E oggi che cosa può sbloccare la guerra, portare a un cessate il fuoco e a un negoziato serio?

    “Vede, Putin non è uno di quelli che accettano una resa. Prima di capitolare spinge il bottone nucleare”.

    Lei pensa che ci sia questo rischio? Che sia concreto?

    “Vorrei poterle rispondere che anche in Russia non tutti sono fanatici come lui: perché prima di premere quel bottone bisogna passare attraverso una lunga catena di controllo con soggetti diversi. E tutti hanno figli, nipoti, persone amate, e non spingeranno quel tasto perché sono esseri umani che hanno molto da perdere. Ma è davvero così? Qual è oggi l’equilibrio segreto del potere al Cremlino? Quella catena di comando, è operativa? Ha qualche grado di autonomia da Putin? O è solo lui a decidere? Perché lui sembra non amare nessuno, e agisce come un fanatico”.

    Lei è scesa nell’inferno di Chernobyl con 485 villaggi svuotati dalle radiazioni, due milioni di persone nelle zone contaminate. Cosa ha pensato quando i soldati russi hanno preso il controllo della centrale?

    “È stata, che dire, una notte tremenda, perché so bene che cos’è Chernobyl, e lì volavano pallottole, colpi di mortaio. E poi non solo hanno fatto irruzione, ma hanno cominciato a scavare, a toccare la terra, a smuovere ogni cosa, un disastro. Ora se ne sono andati. E però tra i soldati ci sono già molti malati, perché quella terra e quell’erba non si possono toccare e non si può vivere e dormire nelle tende in quel territorio. Questo significa che per Putin la vita di quei soldati non vale niente, tanto che non ha sentito il dovere elementare di consultarsi con gli scienziati: gli avrebbero spiegato che una cosa del genere non si può fare. Che è un suicidio”.

    Chernobyl, la bomba, la guerra: lei ha paura dell’Apocalisse?

    “Come posso spiegarle? Io ho già vissuto a lungo, ho visto molte cose. Ho paura per la mia nipotina, per mia figlia: ecco, sì, per loro ho paura. Quel che temo è che l’umanità possa finire per distruggere se stessa”.

    C’è davvero il rischio che questo conflitto degeneri in una terza guerra mondiale?

    “Questo rischio esiste, inutile negarlo. Qui bisogna essere molto accorti. Da un lato aiutare l’Ucraina e dall’altro utilizzare tutte le possibilità della diplomazia”.

    È questo che chiede all’Occidente?

    “Sì, questo, e con la massima urgenza”.

    Ma Est e Ovest sono condannati ad essere nemici? La Russia può fare a meno dell’Europa e l’Europa può fare a meno della Russia?

    “Non bisogna pensare che Putin sia la Russia: non è così. E questa domanda che si ripete sempre – come vivremo senza la Russia? – va aggiornata. Io credo che la politica delle sanzioni sia molto giusta per colpire proprio Putin. Perché si decide il suo destino di leader del Paese. Insisto: la Russia e Putin non sono la stessa cosa, mettiamocelo in testa. Quindi la Russia e l’Occidente torneranno insieme, non ho dubbi: ma quando non ci sarà più Putin”.

    Lei ritiene possibile un cambio di regime ai vertici della Russia?

    “Per ora non ho questa sensazione. Bisognerà vedere l’effetto delle sanzioni, e il corso della guerra. Perché se vince l’Ucraina vinciamo tutti, l’Europa, la Bielorussia, tutti: l’Ucraina combatte non solo per sé, ma anche per noi. Per esempio per quanto riguarda la Bielorussia, se vince l’Ucraina, anche il mio Paese avrà una chance”.

    Dipenderà anche dall’effetto che i soldati morti avranno sull’opinione pubblica russa, o ciò che ne rimane. In Ragazzi di zinco lei ha raccontato i viaggi di ritorno dei 15-20 mila caduti in Afghanistan sul “Tulipano nero”, l’aereo che trasportava i corpi in patria per le sepolture di notte. E oggi?

    “In Ucraina sono apparsi i crematori mobili al seguito dell’esercito russo. Anche questo è un modo per nascondere i morti, per riportarne il meno possibile in Russia. Per non dire la verità sul costo della guerra: nemmeno alle famiglie”.

    Lei racconta che ai tempi dell’Afghanistan i ragazzi non sapevano perché venivano mandati a morire, e volevano solo tornare a casa: è così anche adesso?

    “No, non credo. Oggi molti sono in guerra per guadagnare soldi, è proprio cambiato tutto in questi anni. Ascoltiamo di nuovo le intercettazioni, rivelano ogni cosa. Un soldato telefona alla madre. ‘Mamma, qui stiamo ammazzando la gente normale’. E la mamma risponde : ‘Ma no, io vedo sempre la televisione e voi state facendo una grande opera, state eliminando i nazisti’. E questo inganno per un intero popolo mette paura, non crede?”.

    Per Ragazzi di zinco lei ha subìto un processo perché l’esercito russo l’ha denunciata per diffamazione. Quelle pagine valgono ancora adesso per spiegare questa guerra?

    “Sì, anche oggi quelle pagine vengono lette e recitate in molti teatri. Ora finirò questo nuovo libro, il libro uscirà, e credo che mi aspetti un’altra denuncia e un altro processo per quel che racconto sulla guerra in Ucraina”.

    Lei scrive che i ragazzi-soldato russi partivano per Kabul parlando di internazionalismo, e in guerra scoprivano la realtà. Poi ricorda la scritta sul campo di concentramento delle isole Solovki, “Con mano di ferro costringiamo l’umanità alla felicità”: è questo il totalitarismo?

    “Sì, è il principio del totalitarismo”.

    Lei ha raccolto molte voci di persone che hanno patito la Seconda guerra mondiale. Raccontano che quando tornavano nei villaggi distrutti dai nazisti, si vergognavano che gli animali avessero assistito a questo scempio. Gli altri esseri viventi giudicano la nostra abiezione?

    “Sì. E io credo che l’esercito russo sarà giudicato. Quando l’Ucraina vincerà, tutto il mondo la ricostruirà. Ma prima ci sarà il giudizio”.

    I suoi libri vengono tradotti in quaranta lingue ma sono banditi in Bielorussia e lei ha dovuto lasciare il suo Paese. Si sente in esilio?

    “Sì, un moderno esilio. Oggi vorrei vivere a casa mia, lo vorrei molto”.

    Diceva, pochi anni fa, che siamo tutti uomini e donne “vicini nel tempo”, abbiamo gli stessi smartphone in tasca e soprattutto siamo uniti dalle stesse paure e dalle stesse illusioni. Perché questa convivenza civile si è rotta?

    “È una domanda complessa. Potrei risponderle che ciò è accaduto perché non abbiamo avuto la forza necessaria per resistere, e cambiare. Negli anni Novanta noi credemmo molto in questa possibilità, ma forse non c’era l’uomo libero, e per costruire la libertà ci vuole un uomo liberato. E allora quest’uomo non esisteva. Perché dal socialismo bolscevico non nasce un uomo libero”.

    Noi abbiamo la stessa età: lei pensa che quando finirà la generazione dell’homo sovieticus, la nostra, le cose cambieranno in Russia?

    “Difficile dirlo. Perché anche chi è nato dopo la fine dell’Urss è stato comunque educato da genitori che provengono dall’Urss, in un ambiente che deriva dall’Urss e ne porta ancora tutti i segni. È un processo più lungo di quello che noi avremmo immaginato e voluto. È tutto finito, e nello stesso tempo non sappiamo quando finirà davvero”.

    Suo padre è rimasto comunista fino all’ultimo giorno della sua vita, mentre lei spiega che l’Urss si lascia alle spalle “un mare di sangue e una fossa dove sono sepolti i nostri fratelli”: come sono possibili le due cose insieme?

    “Lei deve pensare una cosa: le persone che credevano in quel mondo erano persone oneste. Mio padre era un romantico. Mi diceva: l’idea era bella, è stato Stalin a rovinarla. È sempre stato una persona giusta, perbene, entrò nel partito durante la battaglia di Stalingrado, e lui ci credeva. Poi io lo amavo e lui amava me, e con il nostro amore abbiamo superato il fatto che vedevamo la vita in modi diversi”.

    Nei suoi libri mi ha colpito moltissimo proprio quello che lei sta dicendo adesso, la generosità di tante persone che hanno creduto nel comunismo in buona fede. Oggi si sentono ingannate?

    “Ma io sono convinta che persone del genere non ci saranno più, già adesso nessuno crede in questa idea. Anzi, ciò che sopravvive di questa idea oggi ha un carattere cinico e mercantile”.

    Scrive a un certo punto: “Siamo stati educati a fidarci della nostra patria”. È questa una delle ragioni del consenso?

    “Quando sono andata in Afghanistan rimasi molto colpita dal fatto che tra i soldati c’erano moltissimi volontari, ed erano figli dell’intellighenzia, anche contadina. Quelli che avevano sinceramente creduto avevano educato i figli nella stessa convinzione. Solo lì, in Afghanistan, i ragazzi hanno incominciato a capire. E io stessa, quando sono tornata da Kabul, ero un’altra persona, finalmente libera”.

    C’è un passaggio quasi metafisico nel suo libro, quando lei scrive: “Pensavamo che il comunismo fosse morto ma è una malattia cronica”, e aggiunge quel che dopo la caduta dell’Urss le ripetevano i vecchi sovietici: “Non ci dovete giudicare in base alle leggi della logica, ma a quelle della fede”. Si trattava di questo, una fede?

    “Proprio così, come una religione”.

    E questo culto cos’ha lasciato? Lei sostiene che i russi possono parlare di libertà solo per negazione, perché non l’hanno mai conosciuta, e aggiunge: “Il dolore è il nostro dono e la nostra condanna”. È la dimensione tragica dell’anima russa vittima e carnefice, immersa in una ordinarietà – lei scrive – sempre eccezionale. Le domando: fino a quando?

    “Ciò che posso dirle è che al momento si vive così in Russia. Ho letto recentemente le parole di una madre che stava accogliendo la bara di suo figlio dall’Ucraina. E diceva: ‘Io sono orgogliosa di mio figlio, è morto per la Russia’. Non so capire e non so spiegare come tutto si sia confuso così nella sua coscienza di madre, il male e il bene”.

    Dostoevskij si domanda: “Perché diavolo abbiamo bisogno di discernere il bene dal male se ci costa così caro?”. E lei aggiunge che “il male non è mai chimicamente puro”. Ma l’evidenza di questa guerra non si tradurrà in pedagogia del bene e del male anche per il popolo russo?

    “Questa è una guerra che non ha nessuna giustificazione, nulla che possa dimostrare la giustezza delle sue ragioni, una qualche motivazione sensata. Ciò nondimeno, ecco che cosa ha fatto Putin: ha investito nella propaganda un’enorme quantità di denaro, ricavato dalla vendita del gas e del petrolio. È un investimento sulla guerra: e infatti è riuscito a fare quello che voleva”.

    Il premio Nobel Dmitrij Muratov, direttore della Novaja Gazeta, costretta a chiudere dalla censura, ha detto che come non si può rimanere immuni dalle radiazioni se si sosta davanti al gruppo 3 della centrale di Chernobyl, così non si può vivere a Mosca e rimanere immuni dalla propaganda. Ha questo potere totale?

    “Qualche settimana fa ho fatto la prova: ho deciso di guardare i programmi della televisione russa per un giorno intero. E ho capito com’è difficile per una persona normale resistere. Molto difficile. Lo so, lei potrebbe dirmi che tocca a noi scrittori e artisti squarciare il velo, trovando le parole giuste. Ma vede, ne troviamo poche”.

    Intanto la guerra conta i suoi morti. Lei ha scritto: “Noi che veniamo dal socialismo abbiamo un rapporto particolare con la morte”. Mi spiega che cos’è?

    “Io immagino che per uno spagnolo o un italiano o un francese sia molto importante la sua vita. Ecco, per quella madre russa di cui abbiamo parlato prima è più importante l’idea. Ha appena visto morire suo figlio, ma l’idea della Russia prevale sul dolore di madre. Capisce quel che intendo dire?”.

    Ci sono pochi vincitori ma molti vinti. È un suo giudizio di dieci anni fa sul conflitto in Afghanistan. Vale anche come epitaffio anticipato per la guerra in Ucraina?

    “Sì. Gli uni riportano i trofei, gli altri le bare. Allo stesso tempo il 68 per cento dei russi sostiene Putin. E quanto più forti sono le sanzioni, tanto più lo sostengono. Perché pensano che la guerra sia la dimostrazione del fatto che intorno al Paese ci sono i nemici: noi siamo vittime dei nostri nemici e dobbiamo compattarci tutti insieme. Tipica, eterna, reazione della Russia quando si sente circondata”.

    Il futuro non è più al suo posto, e lei ci avverte che non possiamo più dichiarare con Cechov che “tra cent’anni il cielo pullulerà di diamanti”. Annichilita dalla guerra, è la fine della letteratura?

    “Non credo alla fine della letteratura, tanto che sto scrivendo. Ma sicuramente nel buio di questa grande crisi sarà difficile spiegare quel che ci è accaduto: e raccontare non solo la violenza del potere, ma soprattutto l’umiliazione della Russia”.

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  6. FERMATA A ODESSA E DATA PER IRRECUPERABILE
    (versione che sostituisce la precedente)

    Da quando non risale la carrozzella di Fantocci?

    Droni e coccodrilli -stelle sconosciute fino a ieri-
    Scendono da Trinità dei monti.

    I gatti con la frangetta consumano lattine
    ma sono i colonnati a svegliarsi templi
    Per farsi meno antichi e rigirare la salamoia.

    Dalla Roma-L’Aquila cosa porta di buono il vento?
    La gara d’improbabilità si fa più rigorosa.

    All’apertura del casello segue la caduta di Bisanzio.
    Solo perché un ratto s’è messo in testa l’elmo di Nerone
    Si apre il ventre di Agrippina.

    Gli aruspici confermano che le visceri
    Si congiungono in matrimonio.

    L’identità è salva finalmente.
    Si procede con la logica fino all’anagrafe del comune.

    Non era una bottiglietta spray? La usò sua moglie per imbiondire il crine
    Ma si tuffò nel Tevere a capodanno.

    La ritrovarono che spruzzava ancora
    in faccia ad uno yankee sul 44.

    L’udito è in catene nelle carceri mamertine. Perché ordisti con Catilina?
    Ti strangoleranno per mezzodì e come un gallo canterà la tua padella.

    La vista soggiace alla potenza del menù.
    Chi accusò il primo schiocco di fiammifero?

    Alla massima estensione del forno a legna
    corrisponde una bottiglia di vodka
    Ma si sente il Chianti e un buon popcorn all’ olio di girasole.

    Si combatte un nemico alla volta tra enzimi della digestione.
    Ha la meglio chi attacca online. La trincea di vetro resina
    è più comoda del pouf solo perché servita con la pizza margherita.

    Alla plebe è assicurato l’esofago perché come è noto
    Tutte le metropolitane finiscono nello stesso buco.

    Escono acidi liberi, iscritti alla Costituzione di primavera
    Ma dalla ferita al fianco si espone il fegato grasso.

    Rimangono balene incastrate alla catena di montaggio
    da ributtare nella bile di Charlot.

    Cresce l’unghia dei piedi sulla corteccia cerebrale
    ma è un siluro da biberon
    a squarciare la gola del bimbo in fasce.

    Francesco Paolo Intini

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  7. antonio sagredo

    di Svetlana Svetlana Aleksievic:

    Che cosa è successo?

    “Me lo chiedo ogni giorno. Lei sa che si parla sempre della ‘misteriosa anima russa’, nel Diciannovesimo secolo era un modo di dire molto comune. Oggi, dov’è finita quell’anima? Le faccio un solo esempio che mi ha colpito di recente. I servizi segreti ucraini effettuano continuamente intercettazioni delle conversazioni dei soldati russi con i loro genitori, le loro famiglie. Ed ecco che un soldato russo telefona alla moglie, e la informa: ‘Noi qui stiamo rubando, stiamo facendo sciacallaggio. Io non ho con me un borsone, ma qualcosa sono riuscito a prendere. Per esempio, argento non fresco’. ‘Argento non fresco? Che vuoi dire?’ chiede lei. ‘È ad esempio quello che leviamo ai morti. Ma tu riesci a lavorare con l’argento vecchio?’. Risposta: ‘Tu prendi, prendi tutto quel che trovi…’. Capito? Ecco dove nasce la mia domanda: come sta operando questa grande cultura russa? Perché oggi non funziona? Perché una propaganda così primitiva come quella della televisione ha preso il sopravvento? Senti che cosa dicono i soldati russi tra loro, o al telefono con i familiari, e ti chiedi: come è potuto accadere, perché abbiamo perso le persone in così poco tempo?”.
    ———————————–
    Ebbene la signora Svetlana se risponde in tal modo al suo intervistatore vuol dire che non ha mai letto resoconti di guerra da parte russa-sovietica e russa di nuovo! In tutte le gierre russe sono state compiute razzie da parte delle soldataglie russe: è una tardizione secolare. La risposta delòla madre del soldato è lampante e chiarificatrice, e ciò è dovuta all’indigenza sempre presente e mai risolta in meglio a favore del popolo russo da chi deteneva il potere!
    Noin ha mai letto una riga della Anna Politkovaskaja, e non ha mai letto nulla in definitiva… altrimenti invese di questa risposta banale avrebbe dato una rsisposta più specifica e noin generalizzata.

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  8. antonio sagredo

    Continuo…
    ———————————-
    Dunque soltanto una caduta verticale della banda putiniana potrebbe far si che la Russia trovi una via per una rudimentale democrazia iniziale. Una implosione!
    —————————–
    Apocalisse? Ha il suo fascino come pressso i primi e i secondi autori simbolisti russi della fine ‘800 e prinìmi

    Ho visto migliaia di bambini girovagare come forzati dèmoni ovunquecon le pistole in mano per le città di Dio – la morte antelucana come compagna –
    tutta la terra: dalle marce periferie dei sobborghi pustolosi ai centri spietati
    e grassi celebrati dai tre culti mentecatti!
    Miliardi di orbite deturpate da miliardi di affilati cavalli di Frisia,
    carovane di occhi e d’infanzie devastate, rotule piagate e disossate
    dai rostri aguzzini di frustate ferrigne,
    come se i loro passi fossero maledetti ad ogni trivio
    per aver sbavato dalla pelle lacrime scheletriche!

    (2006)
    Una bazzecola gli stermini del secolo trascorso,
    vedrete, non milioni, ma miliardi di ossa nelle discariche e nelle fogne.
    (2011)
    E la caduta dei volti e delle maschere come petali dai balconi, i saluti recitati,
    gli addii dai treni di confino, le gonfie glandole dell’infanzia di Pietroburgo.
    I poeti sono martiri del futuro, e la loro parola è già oltre torture imprevedibili.

    Applausi, e sul palco il can-can di despoti –
    spettri ossuti del Moulin Rouge!
    Torbidi tempi io vi sento… sipario!… ciak! –
    siete pronti al trionfo delle apocalissi?
    E io…
    (2011)

    Ascoltare, dove non so e quando – da chi e da cosa? Insensata presenza il Nulla delle fedi del passato… è il nostro senso? Smarriti dagli occhi e dalle mani… sugli altari increduli di noi resteranno glorie declassate, tabulae rase, apocalissi di pensiero, orienti e occidenti: spazi scellerati, paradisi infernali… aurore e
    tramonti non ci saranno più… quali altri pensieri avremo che mai
    conoscemmo e quali altre immagini ci domineranno, quali altre matematiche,
    con quali occhi scriveremo un nuovo cominciamento… pace e guerra
    conosceremo in altri non-quando e non-dove… e l’Io sarà un altro Io,
    a noi – ignoto sarà il riso – senza… fine!

    (2015)
    La soglia del duende

    Mi giunsero notizie come varianti mostruose da ogni luogo terrestre: l’orrore
    non era più una novità per me, gli eventi sugli occhi battevano i ritmi delle visioni
    recidive: catastrofi, apocalissi il nostro pane quotidiano… i tasti del duende scellerati:
    Sono rose nere queste quotidianità, ma non sono le mie rose!

    Voi forse credete le croci meno mostruose delle scimitarre? I candelabri meno
    mostruosi di quelle? Caroselli, giostre, morgue, obitori, mattatoi ad uso comune… tutto o nulla fluisce dalla pianta dei piedi al midollo… meno cantavo più la canzone
    mi era sonoramente insensata: fuoco del sangue! sangue del fuoco!

    (2015)
    —————————————————————————————–
    “Comunismo in buona fede”? ci riferisce la signora Svetlana…
    davvero? E gli stermini e i genocidi di Stalin, dove li mettete?
    C’è ancora gente lì in Russia – a milioni – che non crede che possano essere avvenuti,
    e allora quale speranza da questo popolo russo da secoli asservito?
    Fine della letteratura?

    Fine della poesia? Adorno e compagni si sono sbagliati, e la risposta di Celan è più che una risposta: è una domanda contro questi gufi!!!
    grazie

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  9. Un mio testo contro tutte le guerre e tutte le dittature.

    Evasi in trentacinque durante la visita al museo
    i loro smartphone adesso parlano arabo
    e i passaporti pendono da una app di Kabul.

    Gli insegnanti del Nuovo Ordine Mondiale piangono disoccupazione.

    Dai tredici anni in su è fortemente raccomandato dire yes.

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  10. letizialeone

    Complimenti per il post e il bel commento di M. Colasson, è quasi impossibile scrivere poesia d’occasione di guerra.
    Questi madrigali mi stanno sfuggendo di mano, senza giustificazioni opportunistiche. Un caro saluto a tutti gli amici dell’Ombra.

    Gli inani madrigali vanno in guerra

    Il velluto vistoso del fosforo
    Ha incenerito gli orti.
    Ma poi cosa accade là sottoterra?
    La mano fredda chiusa sulle chiavi
    Di casa. Il bassotto è in fuga.
    Cade un altro pezzo di stucco.

    Adolescenti siberiani in fila
    Su carri armati T-72 chiedono: Che città è?

    ****
    La corazzata incede
    Sul panno verde del gioco di guerra
    Intanto il sole allaga i soldatini
    Cadaveri alle mura

    Nessuno di voi crede più al diavolo?
    Leggete: Il Doktor Faust in grafic novel
    Con il calice del brindisi ad Oriente.

    ****

    Coralli nevralgici
    Sulla schiena di scuri fondali
    Alti e scarlatti come i rosolacci
    Dolorosi. Beve il bicchiere acqua
    Di mare. La borraccia
    ha preso il largo è vuota.
    Le Alghe dei frutteti sulle onde.

    ****

    Tuber melanosporum
    Il bozzolo deforme del tartufo
    Terra inferna mangiabile e pregiata
    rimbomba nel palato
    nessun diavolo frena il buongustaio.
    Inani i madrigali vanno in guerra.

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  11. antonio sagredo

    Boris Bondarev, dipendente della missione diplomatica permanente russa presso l’Onu a Ginevra, ha annunciato le dimissioni a causa dell’invasione dell’Ucraina.

    “Non mi sono mai vergognato così tanto del mio Paese”, ha fatto sapere tramite l’avvocato internazionale Hillel Neuer. “Questa guerra scatenata da Putin non è solo un crimine contro il popolo ucraino, ma anche il crimine più grave contro gli stessi russi, la cui speranza di vivere in una società libera e prospera è stata cancellata”, ha aggiunto.
    “Nei miei vent’anni di lavoro, ho visto le diverse espressioni della nostra politica estera, ma non mi sono mai vergognato così tanto del mio Paese e del mio lavoro come lo sono stato il 24 febbraio di quest’anno”, si legge. Secondo UN Watch, Bondarev sarebbe il più alto diplomatico russo che lascia il servizio per protesta contro l’invasione dell’Ucraina. Sul sito internet dell’Onu a Ginevra, alla pagina della Missione permanente della Federazione russa, è indicato come “consigliere”.

    “Coloro che hanno concepito questa guerra – scrive Bondarev, in una dichiarazione condivisa con i diplomatici a Ginevra – vogliono solo una cosa: rimanere al potere per sempre, vivere in palazzi pomposi, navigare su yacht paragonabili per dimensioni e costi all’intera Marina russa, godendo di potenza illimitata e completa impunità. Per raggiungere questo obiettivo sono disposti a sacrificare tutte le vite necessarie. Migliaia di russi e ucraini sono già morti proprio per questo”.

    Poi l’aspra critica alle autorità di Mosca. “Mi dispiace ammettere che in tutti questi vent’anni il livello di bugie e mancanza di professionalità nel lavoro del ministero degli Esteri è cresciuto continuamente. Il ministro Lavrov è un buon esempio del degrado di questo sistema. In 18 anni è passato da intellettuale professionale e colto, che molti dei miei colleghi stimavano profondamente, a persona che rilascia costantemente dichiarazioni contrastanti e minaccia il mondo (cioè anche la Russia) con armi nucleari”.

    “Oggi il ministero degli Esteri non si occupa di diplomazia. Serve gli interessi di pochissime persone, contribuendo così all’ulteriore isolamento e al degrado del mio Paese. La Russia non ha più alleati e non c’è nessuno da incolpare se non la sua politica sconsiderata e mal concepita. Ho studiato per diventare diplomatico e sono diplomatico da vent’anni. Il ministero è diventato la mia casa e la mia famiglia. Ma semplicemente non posso più condividere questa ignominia sanguinosa, insensata e assolutamente inutile”.

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    • Ora tocca a Cina e Taiwan. Biden si è già detto pronto a iniziare una nuova guerra. Logico, che altro possono capire? L’Italia ha proposto per il problema in Ucraina un trattato di pace progressiva, stop alle armi, aiuti e e corridoi umanitari. Trovo giusto che l’Europa ponga delle condizioni anche a Zelenski, prassi e tempistica.

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  12. Mariella Bettarini

    Caro Giorgio e care amiche e cari amici de “L’Ombra delle Parole”,

    … e pensare che noi della rivista “L’area di Broca” stiamo preparando un intero fascicolo dal titolo “CONFLITTI”! Mah!

    Grazie sempre di quanto fate, di quello che scrivete e i più cari auguri e complimenti, con un affettuoso saluto da

    Mariella (Bettarini)

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  13. milaure colasson

    …che la nuova poesia deve essere e può essere soltanto comica, cioè una Commedia, è nell’ordine delle cose, la guerra in Ucraina è la guerra di una cricca di criminali sanguinari e stupidi, criminali fascisti. In queste condizioni parlare di pace alle orecchie di un incallito nazista come Putin fa ridere le galline, siamo seri, Putin e il suo inner circle farà una tregua per poi interromperla e riprendere la guerra. E’ nell’ordine delle cose: le autocrazie monocratiche non ragionano con le categorie in uso nelle democrazie. I filo putiniani della Lega e di Forza Italia sono indecenti oltre che stupidi perché l’Italia fuori dal concerto dell’Occidente diventa una preda ghiotta per i piccoli fascistini alla Salvini. Fare poesia seria oggi è davvero ingenuo, l’unico modo di fare poesia è fare la Commedia. I quattro autori del post di oggi fanno tutti e 4 poesia da Commedia, cioè comica su una materia tragica, Complimenti ai madrigali di Letizia Leone, si vede che ha frequentato gli amici dell’Ombra, il suo è un fare anti madrigali piuttosto che madrigali della tradizione, è un esperimento da approfondire.

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  15. antonio sagredo

    tanti del resto NON SANNO PERCHE’ E’ SCOPPIATA LA GUERRA…
    Fino a poco tempo fe quelle regioni orientali della Ucraina nessuno sapeva che esistessero, ora tutti lo sanno. Ma perchè si chiamano così? E che storia hanno: mbah!
    per comprendere le cause basta leggere un testo di fine 700, quello di Radiscev….

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  16. I 90 giorni della guerra che hanno sconvolto l’Occidente

    nelle poesie postate sopra ci vedo come uno «scarto di parallasse» (mentale) tra l’automatismo psichico che porta a reiterare la poesia già fatta e codificata per la quale si ha già un certo linguaggio e la poesia che si progetta ma per la quale non si dispone di un linguaggio già pronto. Si verifica così uno scarto, una disfasia tra il soggetto psichico dell’enunciatore e il soggetto fisico dell’enunciato: il soggetto non è più il prodotto di 2 soggetti ma un soggetto-scarto, scisso. La guerra, per il soggetto, ha l’effetto di un trauma, si presenta come un Grande Acceleratore di Particelle. In effetti, la guerra è un grande acceleratore della Storia.

    «…è che Schömberg nella sua musica ha espresso gli orrori dell’olocausto e dei bombardamenti a tappeto prima che questi avessero luogo. Più radicalmente, quello che le due storie [che precedono] hanno in comune è che il legame che instaurano rappresenta un impossibile cortocircuito di livelli i quali, per ragioni strutturali, non si possono incontrare… l’illusione di usare lo stesso linguaggio per fenomeni che sono reciprocamente intraducibili e che possono essere compresi solo in una specie di visione di parallasse, cambiando continuamente prospettiva tra due punti per i quali non è possibile sintesi o mediazione. tra i due piani non esiste alcuna relazione, nessuno spazio condiviso, eppure essi sono strettamente connessi, in un certo senso identici; sono, per così dire, sui lati opposti di un nastro di Möbius. L’incontro tra leninismo politico e modernismo artistico (esemplificato dalla fantasia di Lenin che incontra i Dadaisti al Cabaret Voltaire di Zurigo) non può strutturalmente aver luogo; in modo più radicale, politica rivoluzionaria e arte rivoluzionaria si muovono secondo temporalità differenti, nonostante siano collegate e siano due facce dello stesso fenomeno che, in quanto tali, non si possono incontrare [scarto di parallasse]. È più di una casualità storica il fatto che, dal punto di vista culturale, i leninisti ammirassero la grande arte classica mentre molti modernisti fossero politicamente conservatori, addirittura proto-fascisti. Non è la lezione già impartita dal legame fra rivoluzione francese e idealismo tedesco? Sebbene fossero due aspetti dello stesso momento storico, non avrebbero mai potuto incontrarsi direttamente; il che significa che l’idealismo tedesco poté emergere solo con la “precondizione” di una Germania in cui non si era verificata nessuna rivoluzione politica… Scarto di parallasse [è] il confronto tra due prospettive strettamente collegate per le quali non si dà alcun terreno comune».1

    1 Slavoj Zizek La visione di parallasse, il melangolo, 2006, p. 9

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  17. Biden pledges to defend Taiwan against China

    President Biden indicated at a news conference in Japan yesterday that he would use military force to defend Taiwan if it were ever attacked by China, dispensing with the “strategic ambiguity” traditionally favored by American presidents, and drawing a firmer line at a time of rising tensions in the region.

    Responding to a reporter who asked whether the U.S. would be “willing to get involved militarily to defend Taiwan if it comes to that,” Biden simply said yes. “That’s the commitment we made,” he added. The declaration set the stage for fresh tensions between the U.S. and China, which insists that Taiwan is part of its territory.

    Though Biden appeared to be suggesting that he would be willing to go further on behalf of Taiwan than he has in helping Ukraine, the White House quickly asserted that its policy had not changed, and that the U.S. would provide Taiwan with the “military means to defend itself” if necessary.

    Quotable: “The idea that it can be taken by force, just taken by force, is just not appropriate,” Biden said of Taiwan. “It would dislocate the entire region and be another action similar to what happened in Ukraine. And so it’s a burden that is even stronger.”

    Diplomacy: Biden has enlisted nearly a dozen Asia-Pacific nations to join a new, loosely defined economic bloc meant to counter China and reassert U.S. influence in the region.

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  18. Penso che lo «scarto di parallasse» sia il tratto minimo che unisce poeti noe e li distingue per l’azione decostruttiva del discorso, quindi del significato. Ma questa distinzione può essere dovuta a mancanza della componente ontologica, ravvisabile nello sguardo estroverso, anche fantastico, anche surreale.. Una sorta di malinteso sulla capitolazione dell’io, sostituito da parole tratte dal nulla, che non sanno tornare all’umano, inteso come singolo. Ho idea che il passo più difficile, in questa nostra ricerca, sia quello del saper tornare – da un verso metafisico, da un’astrazione – al linguaggio condiviso. A volte mancano ponti di comunicazione; e allora sì, ecco la discrepanza drammatica tra guerra e divertissement. Ma sulla comicità non ho dubbi: la poesia che annoia (nei tanti libri che non rileggiamo) è da evitare, e questo è un punto fermo. Vi è poi nella comicità l’intento generoso di voler bene, nonostante tutto. Parliamo quindi di alta comicità, o almeno ci si prova.
    Non si parlerà di guerra, ma la guerra ci coinvolge a livello personale, nella mente e nei sentimenti; le parole ne risentono, non occorre andarle a cercare; semmai è vero il contrario: troppa guerra, troppa inquietudine, ci avvelenano nel giudizio. In questi scenari le parole dei poeti valgono nulla, come vale nulla la vita quotidiana, come valgono nulla le notti insonni…

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    • caro Lucio,

      tu scrivi:

      «Ho idea che il passo più difficile, in questa nostra ricerca, sia quello del saper tornare – da un verso metafisico, da un’astrazione – al linguaggio condiviso.»

      Ma il fatto è che quel «linguaggio condiviso» (il linguaggio di relazione e il linguaggio poetico), è la macchina principe della omologazione; è impossibile avere rapporti di buon vicinato con il «linguaggio condiviso» in quanto prodotto di ideologia, di cloroformio e di ortodossia. Che cosa significa la locuzione «linguaggio condiviso»?, quello della propaganda che fanno le autocrazie?, quello delle democrazie neoliberali? (che sono sempre preferibili alle autocrazie). – Quella metafisica, quel «linguaggio condiviso» le dobbiamo mettere a bagnomaria e lasciarle andare a fondo. Non facciamoci illusioni: se «la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi» come diceva von Klausevitz, anche la poetica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi, soltanto un po’ più edulcorati ed educati. Le poesiouole che ci parlano del mare e della campagna e dei loro benefici effetti sulla pelle abbronzata, non sono diverse dalle fonti del Clitumno della bella pubblicità della Buitoni che citano la natura incontaminata e benedetta, come avviene nelle poesie agrituristiche e paesaggistiche di Umberto Piersanti e adepti. Quello è kitsch maleodorante disinfettato col deodorante. Sono pallottole di stupidità messe nel pallottoliere.

      Slavoj Žižek opportunamente riassume la questione così:

      «tutti gli spettri metafisici emergono dagli antagonismi della vita reale».1

      1 Slavoj Žižek op. cit. p. 562

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      • Sono d’accordo ma l’esempio che porti è di restyling, dietro nemmeno tanto nascosto è solito poetichese. Perdona il mio linguaggio inadeguato per la critica, ma la mia osservazione voleva essere ontologica: guardarsi negli occhi ogni tanto, non affastellare discorsi e acrobazie, riuscire a dare del tu, accorgersi della prova a cui sottoponiamo l’ignaro lettore, andargli incontro; snellire, abbandonare seriosita, solennità, presunzione… insomma, le cose di cui anche tu parli sempre. Ma non solo, è anche nella forma, nelle micro particelle del discorso, anzi, del frammento, che si annida la possibilità di un’intesa. La quale è sempre silenziosa.

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  19. da The Guardian, 23 may 2022

    We must stop letting Russia define the terms of the Ukraine crisis
    Slavoj Žižek

    A question like ‘Did US intelligence-sharing with Ukraine cross a line?’ forgets the fact that it was Russia that crossed the line – by invading Ukraine

    In recent weeks, the western public has been obsessed with the question “What goes on in Putin’s mind?” Western pundits wonder: do the people around him tell him the whole truth? Is he ill or going insane? Are we pushing him into a corner where he will see no other way out to save face than to accelerate the conflict into a total war?

    We should stop this obsession with the red line, this endless search for the right balance between support for Ukraine and avoiding total war. The “red line” is not an objective fact: Putin himself is redrawing it all the time, and we contribute to his redrawing with our reactions to Russia’s activities. A question like “Did US intelligence-sharing with Ukraine cross a line?” makes us obliterate the basic fact: it was Russia itself which crossed the line, by attacking Ukraine. So instead of perceiving ourselves as a group which just reacts to Putin as an impenetrable evil genius, we should turn the gaze back at ourselves: what do we – the “free west” – want in this affair?

    We must analyze the ambiguity of our support of Ukraine with the same cruelty we analyze Russia’s stance. We should reach beyond double standards applied today to the very foundations of European liberalism. Remember how, in the western liberal tradition, colonization was often justified in the terms of the rights of working people. John Locke, the great Enlightenment philosopher and advocate of human rights, justified white settlers grabbing land from Native Americans with a strange left-sounding argument against excessive private property. His premise was that an individual should be allowed to own only as much land as he is able to use productively, not large tracts of land that he is not able to use (and then eventually rents to others). In North America, as he saw it, Natives were using vast tracts of land mostly just for hunting, and the white settlers who wanted to use it for intense agriculture had the right to seize it for the benefit of humanity.

    In the ongoing Ukraine crisis, both sides present their acts as something they simply had to do: the west had to help Ukraine remain free and independent; Russia was compelled to intervene militarily to protect its safety. The latest example: the Russian foreign ministry claiming Russia will be “forced to take retaliatory steps” if Finland joins Nato. No, it will not be “forced”, in the same way that Russia was not “forced” to attack Ukraine. This decision appears “forced” only if one accepts the whole set of ideological and geopolitical assumptions that sustain Russian politics.

    These assumptions have to be analyzed closely, without any taboos. One often hears that we should draw a strict line of separation between Putin’s politics and the great Russian culture, but this line of separation is much more porous than it may appear. We should resolutely reject the idea that, after years of patiently trying to resolve the Ukrainian crisis through negotiations, Russia was finally forced/compelled to attack Ukraine – one is never forced to attack and annihilate a whole country. The roots are much deeper; I am ready to call them properly metaphysical.

    One is never forced to attack and annihilate a whole country

    Anatoly Chubais, the father of Russian oligarchs (he orchestrated Russia’s rapid privatization in 1992), said in 2004: “I’ve reread all of Dostoevsky over the past three months. And I feel nothing but almost physical hatred for the man. He is certainly a genius, but his idea of Russians as special, holy people, his cult of suffering and the false choices he presents make me want to tear him to pieces.” As much as I dislike Chubais for his politics, I think he is right about Dostoevsky, who provided the “deepest” expression of the opposition between Europe and Russia: individualism versus collective spirit, materialist hedonism versus the spirit of sacrifice.

    Russia now presents its invasion as a new step in the fight for decolonization, against western globalization. In a text published earlier this month, Dmitry Medvedev, the ex-president of Russia and now the deputy secretary of the security council of the Russian Federation, wrote that “the world is waiting for the collapse of the idea of an American-centric world and the emergence of new international alliances based on pragmatic criteria.” (“Pragmatic criteria” means disregard for universal human rights, of course.)

    So we should also draw red lines, but in a way which makes clear our solidarity with the third world. Medvedev predicts that, because of the war in Ukraine, “in some states, hunger may occur due to the food crisis” – a statement of breathtaking cynicism. As of May 2022, about 25m metric tons of grain are slowly rotting in Odesa, on ships or in silos, since the port is blocked by the Russian navy. “The United Nations World Food Programme (WFP) has warned that millions of people are ‘marching towards starvation’ unless ports in southern Ukraine which have been closed because of the war, are reopened,” Newsweek reports. Europe now promises to help Ukraine transport the grain by railway and truck – but this is clearly not enough. A step more is needed: a clear demand to open the port for the export of grain, inclusive of sending protective military ships there. It’s not about Ukraine, it’s about the hunger of hundreds of millions in Africa and Asia. Here should the red line be drawn.

    The Russian foreign minister, Sergei Lavrov, recently said: “Imagine [the Ukraine war] is happening in Africa, or the Middle East. Imagine Ukraine is Palestine. Imagine Russia is the United States.” As expected, comparing the conflict in Ukraine with the plight of the Palestinians “offended many Israelis, who believe there are no similarities”, Newsweek noted. “For example, many point out that Ukraine is a sovereign, democratic country, but don’t consider Palestine as a state.” Of course Palestine is not a state because Israel denies its right to be a state – in the same way Russia denies the right of Ukraine to be a sovereign state. As much as I find Lavrov’s remarks repulsive, he sometimes deftly manipulates the truth.

    Yes, the liberal west is hypocritical, applying its high standards very selectively. But hypocrisy means you violate the standards you proclaim, and in this way you open yourself up to inherent criticism – when we criticize the liberal west, we use its own standards. What Russia is offering is a world without hypocrisy – because it is without global ethical standards, practicing just pragmatic “respect” for differences. We have seen clearly what this means when, after the Taliban took over in Afghanistan, they instantly made a deal with China. China accepts the new Afghanistan while the Taliban will ignore what China is doing to Uyghurs – this is, in nuce, the new globalization advocated by Russia. And the only way to defend what is worth saving in our liberal tradition is to ruthlessly insist on its universality. The moment we apply double standards, we are no less “pragmatic” than Russia.

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  20. Stefano Cardarelli

    Non so se si possono ancora scrivere poesie sulla guerra, so che è ancora possibile, sbirciando questi scritti, scrivere grandissime corbellerie sulla guerra, su questa guerra, e sui relativi artefici, e spargere tanti ottusi silenzi sul golpe planetario in atto, che comprende, tra le altre cose, anche questa guerra.

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    • gentile Stefano Cardarelli,

      è sua questa poesia turistica?, l’ho trovata su Google digitando il suo nome.

      La grande bellezza

      Da Ponte Sant’Angelo
      vedo riflessa dentro lo scorrere del Tevere
      la croce del cupolone
      rimani reiterato dall’emozione
      lo sguardo segue il filare dei palazzi
      il susseguirsi di tetti e chiome di alberi
      tutto si fonde con l’accingersi del tramonto
      come questi pensieri
      che si tramutano in passi verso il Pantheon
      catturi l’occhio del ciclope in uno scatto
      poi ti ritrovi in volo sulla barocca piazza Navona
      dove tra i passanti scorgi in Agone l’anonimo atleta romano
      ma il bello sono tutte queste viuzze
      legate con il battesimo a vecchi mestieri
      con i loro inattesi portoni, le loro finestre sornione
      e nei volti che sfiori intravedi la storia
      e ti accorgi che è questa Roma
      poi ci sei tu, tra questi muri colorati
      tra i rami degli alberi verso il mattino
      tra i passi e i rumori del tempo
      alla prima volta che ti ho incontrata
      e ti accorgi che la grande bellezza
      era il tuo viso e il tuo sorriso.

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  21. Giuseppe Gallo

    Dagli interventi espressi nei precedenti post emerge la convinzione che nella situazione attuale, data la follia generale e la frattura radicale interna ad ogni sfera individuale, poetare, soprattutto sulla guerra, sia impossibile. “In effetti”, ricordando Hegel, Linguaglossa ci rammenta che “la guerra è un grande acceleratore della Storia.” Di tutta la Storia, però, anche di quella intellettuale, artistica e poetica. Certo, non si può essere “impegnati”, seri, seriosi, ecc.; solo l’Ombra può ospitare la “prigionia delle nostre parole”. Dice la Colasson: “la nuova poesia deve essere e può essere soltanto comica, cioè una Commedia, è nell’ordine delle cose, la guerra in Ucraina è la guerra di una cricca di criminali sanguinari e stupidi, criminali fascisti…”. Vero, il problema reale è che ormai l’argomento “guerra”, ci ha permeato tutti; tutti siamo genuflessi e immersi nella guerra, tutti la viviamo per sopravviverci dentro. Ogni nostra parola sorge sulle nostra labbra e nelle nostre penne, sui nostri schermi e dai nostri tasti, per effetto di quel conflitto “mentale”, tra l’Io e l’Inconscio, ecc. e tra e molteplici disposizione della realtà. In fondo, ha detto qualcuno, che anche il “dialogo” è un conflitto”, figurarsi una poesia… Non voglio rimettere in campo alcuni fondamentali della la cultura greca, ma appare chiaro che siamo tutti schiacciati all’interno di una condizione esistenziale determinata, qualificata e caratterizzata da una “guerra” quotidiana. Cosa sono, oggi, le varie “narrazioni” se non conflitti di comunicazione?
    Voglio dire che il concetto di guerra è metafora strutturale, la grande metafora, che sorregge il capitalismo, il neoliberismo, il cristianesimo, l’Islam
    e qualsiasi altra espressione ideologica e politica, religiosa, ecc., in altri termini, è sul suo fango che cammina l’homo sapiens, e la Colasson quando evoca la Commedia dice qualcosa di molto profondo: il riso, l’ironia e l’istrionismo presenti nella comunicazione dei poeti kitchen risultano essere forme di liberazione dalla schiavitù che la metafora strutturale di guerra ci impone: “Fare poesia seria oggi è davvero ingenuo, l’unico modo di fare poesia è fare la Commedia. I quattro autori del post di oggi fanno tutti e 4 poesia da Commedia, cioè comica su una materia tragica.”

    Un saluto a tutti.
    Giuseppe Gallo

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  22. Rileggo. Non sono poesie sulla guerra, sono poesie scritte in tempo di guerra; e parliamo di guerra mediatica dell’informazione, quella che tutto sommato ci accompagna sempre – guerra + eutanasia + razzismo, ecc.
    Ne parla direttamente Franco Intini, ma sempre dall’alto dei suoi paradossi verbali, “e dunque” la commedia.

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  23. La guerra va in direzione opposta alla poesia in divenire. Non siamo futuristi.

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  24. «La procedura critica tradizionale è oggi quella di chiamare in causa l’opposizione tra uomo e soggetto : il concetto di soggettività (autocoscienza, autonomia che si fonda da sé, ecc.) rappresenta una pericolosa hybris, una volontà di potenza che offusca e deforma l’essenza dell’uomo; il compito è quindi quello di pensare l’essenza dell’uomo fuori della sfera della soggettività».1

    Scrive Svetlana Aleksievic:

    «Oggi molti sono in guerra per guadagnare soldi, è proprio cambiato tutto in questi anni. Ascoltiamo di nuovo le intercettazioni, rivelano ogni cosa. Un soldato telefona alla madre. ‘Mamma, qui stiamo ammazzando la gente normale’. E la mamma risponde : ‘Ma no, io vedo sempre la televisione e voi state facendo una grande opera, state eliminando i nazisti’. E questo inganno per un intero popolo mette paura, non crede?».

    Quando i russi entrano nelle città uccidono gli uomini, donne e bambini, violentano le donne e le uccidono, saccheggiano i frigoriferi, portano via formaggio, pane, Cola Cola, il Phon, i frigoriferi, le forbici, i jeans… arraffano quello che possono, proprio come facevano le orde di Gebgis Khan, le orde di Attila, seminavano morte per la morte, spargevano terrore, toglievano il frumento ai contadini anche loro, proprio come i russi di oggi.

    Questa violazione delle più elementari regole di rispetto per le persone civili, indifese, per le popolazioni civili è la più grave violazione delle regole del diritto internazionale, una violazione efferata e ingiustificata se non dalla forza bruta e dalle ragioni che un gruppo di criminali da a se stesso. L’obiettivo di Putin non era solo quello di riannettere con la forza l’Ucraina ma anche di infliggere un colpo mortale alla NATO e all’Europa, dimostrare al mondo che delle regole stabilite dall’ONU e dai consessi internazionali ci si può fare carta straccia; l’obiettivo politico era e resta quello di stabilire le regole e i confini di un nuovo ordine mondiale mediante la forza bruta e la distruzione di intere città e territori facendo sventolare il rischio di una guerra nucleare.

    L’occidente era impreparato all’inizio, non credeva possibile un progetto tanto folle e scriteriato, ma pian piano ha dovuto ricredersi, con le nuove armi pesanti di Biden entro 3 settimane gli ucraini potranno passare alla controffensiva e rigettare l’esercito russo dietro i confini della madre patria. Non ci sono altre soluzioni, Putin, come tutti i dittatori comparsi nella storia (Attila, Gengis Khan, Hitler, Putin) non si fermerà mai se non davanti ad una forza più forte di lui e del suo esercito, allora sarà costretto a scendere a patti e a siglare una non-belligeranza e una tregua. Per la pace duratura il tragitto sarà lungo.
    La guerra di Ucraina non solo ha posto fine al post-moderno ma ha posto fine anche alla globalizzazione. Sono gli eserciti che muovono la storia in un senso o nell’altro, non le anime belle. E anche la poesia è cambiata, cambierà.

    S. Zizek, op. cit. p. 67

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  25. milaure colasson

    dalla mia raccolta in corso di stampa: Les choses de la vie
    un’anticipazione della guerra in Ukraina ( sono sempre in guerra ! )
    poesia scritta nel 2021 –

    [Le Maschere: il clown pailleté, la blanche geisha, Eredia, Edith sono le personificazioni dell’Altro, indicano (al contrario dell’impiegato Bartleby che dice sempre “Preferirei di no”), l’atto affermativo, il dire “Sì” ad una esistenza voluttuosa, fatta di lusso, di «lux, calme et volupté» di baudelairiana memoria); il dire “Sì”, è ben più reattivo e rivoluzionario del dire “No”. “Sì” alla vita sensuosa e sensibile, “Sì” al principio di Piacere, “Sì” al principio della jouissance, respingimento del principio di Realtà e della Guerra sua consorte fedifraga. In una parola “Sì” al rovesciamento della realtà.]

    33.

    Un clown pailleté d’un cirque en déroute
    ignore le monde qui s’écroule autour de lui
    Eredia tient sa tristesse à distance
    met un masque pour déguiser son angoisse

    Les yeux émerveillés Edith regarde une plume blanche
    suspendue entre ciel et terre

    La blanche geisha à fleur de rêve
    écarte les ombres qui dansent sur le sol

    Un fou sanguinaire en quête de mort
    fait jouer les ressorts cachés de son triomphe

    Tourbillon entrechoquement d’objects isolés
    un violon luisant un ventilateur argenté

    Un vase d’excrément un archet des cordes des poignards
    tout conspire aux raffinements de la cruauté

    Eredia la blanche geisha Edith entrainent le clown
    loins du terrificant fracas métallique

    ne laissant à terre que fragments décousus

    *

    Un clown con le paillette d’un circo in rovina
    ignora il mondo che crolla attorno a lui

    Eredia tiene la tristezza a distanza
    indossa una maschera per dissimulare l’angoscia

    Gli occhi stupefatti Edith guarda una piuma bianca
    sospesa tra cielo e terra

    La bianca geisha ai fiori di sogno
    scarta le ombre che danzano sulla strada

    Un folle sanguinario cerca la morte
    fa giocare le molle nascoste dal suo trionfo

    Vortici intersezioni di oggetti isolati
    un violino lucido un ventilatore argentato

    Un vaso d’escrementi un archetto delle corde dei pugnali
    tutto cospira alla raffinatezza della crudeltà

    Eredia la bianca geisha Edith trascinano il clown
    lontano dal terrificante fracasso metallico

    non lasciando a terra che frammenti scuciti

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  26. antonio sagredo

    Colasson prova a fare la Casandra
    “dalla mia raccolta in corso di stampa.
    un anticipazione della guerra in Ukraina ( sono sempre in guerra ! )
    poesia scritta nel 2021” (Colasson)
    Anticipazione? Tutto questo è pretestuoso e pretenzioso dopo quanto ho scritto sopra e in altri post.
    Che bisognava capirlo subito non appena eletto Putin Presidente della Federazione Russa: e ho spiefgato cause e motivazioni storiche.
    ————————————————————————————-
    Slavoj Žižek: analisi molto superficiale e monotona.
    —————————————————————————————-
    Colasson:
    “Fare poesia seria oggi è davvero ingenuo, l’unico modo di fare poesia è fare la Commedia. “…. e dove è la novità?.
    La Poesia nasce come Commedia e Tragedia insieme. Il poeta sceglie o la commedia o la tragedia, o mescola entrambi .
    O non sceglie affatto, e si volge altrove, p.e. la farsa o la finzione che si celano nella commedia o nella tragedia per poi mecolarsi creando la satira, e dalla satira si può giungere al sublime come estrema ratio della Nemesi.
    ecc.

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  27. antonio sagredo

    Io abito nel quartiere Trionfale
    12, 48
    Luogo tranquillo,
    abbastanza calmo.
    Ebbene?
    Si direbbe – che non m’importa,
    che in qualche posto
    nella tempesta-mondo
    abbiamo preso e abbiamo inventato la guerra?

    Quando canonizzerete i nomi
    dei caduti,
    di me più noti, –
    ricordatevi:
    ancora uno ne ha ucciso la guerra –
    è il poeta del Trionfale!

    Il tuo corpo
    prenderò ad amare e custodire,
    come un soldato,
    troncato dalla guerra,
    inutile
    di nessuno,
    custodisce la propria unica gamba.

    Forse,
    se sarò loro necessario
    comanderanno:
    ucciditi in guerra!

    Ultimo sarà
    il tuo nome,
    aggrumatosi sul labbro lacerato da un proiettile.

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  28. Che dire?
    Da quando è iniziata questa guerra leggo quanto posso e ascolto i Tg, i talk show che si susseguono sulle reti , ascolto tutti e tutte. Ci sto mettendo passione per riuscire a capire cos’è che mi spaventa. Per qualche tempo ho pensato ai neutroni trattenuti nelle testate nucleari, costretti a stare buoni e non invadere nessun altro territorio. Devo confessare di aver persino sognato che facessero squadra e si mettessero in sciopero se qualcuno avesse pestato il tasto sbagliato. Ma i neutroni escono volentieri anche dalle mie fantasticherie. Devono berci sopra per non sentirsi schiavi di un impulso di morte. Piccoli kamikaze in picchiata libera sulle portaerei di grossa stazza. Botte a destra e a manca per ricavare una cattivissima reputazione. Che soddisfazione c’è a distruggere quello che capita?
    Dopotutto sono solo fantasie mie che non stanno in cielo né in terra. Piuttosto penso a come un linguaggio combatta con un altro che vuol essere di segno opposto. A come l’uno sia incompatibile con l’altro ma provi comunque a vincere. Già, anche alcune parole sembrano votate all’auto distruzione. GUERRA, VINCERE, ARRENDERSI, COMPROMESSO, PACE, RESISTENZA, EROE etc appartengono a vocabolari ormai inservibili come i carri armati sulla via di Kiev. Dovremo farne a meno o al massimo usarle per un selfie con la famiglia. Siamo in presenza di un tentata fissione della realtà in due parti. Dove l’una è Propaganda e l’altra è Verità. Non vale girare la testa di qua e di là sperando in questo o quello. La partita a ping pong si trasforma facilmente in una di calcio e quindi di rugby con molossi sulle curve, grandi come portaerei a suonarsele di buona ragione.
    Non ce n’è nemmeno per gli arbitri. Spesso si finisce impiccati a una traversa solo per aver soffiato nel fischietto sbagliato con su scritto la parola “PACE” e chissà quando un santo verrà a mettere la buona parola.
    Fino a quando insomma l’assurdo si travestirà di senso? Ogni guerra è assurda e meriterebbe una trattazione profonda delle ragioni che l’hanno scatenata. Occorrerebbe farne una dimostrazione matematica e insegnarla alla prima elementare con la pallottoliera del due più due. In una atmosfera surriscaldata dal lutto invece ogni frase è sospetta e deve fare un giro di scongiuri e rituali magici, pronunciare parole d’ordine per farsi aprire la porta dell’amico e farsi accettare senza che si sospetti di parteggiare per la parte sbagliata.
    In tutto questo quale tipo di attacco può avere l’armata di parole di uno che starebbe solo nelle scarpe di Charlot e il suo grande dittatore?
    E certo non è edificante vedere Arlecchino passare alle vie di fatto per convincere la platea che sta agendo e pensando seriamente. La risposta passa per il linguaggio tra panzer in fase di annichilimento reciproco ma anche per quello che c’è di tragico e marcio in un buffone disposto a uccidere migliaia di persone per dimostrare la sua versione di verità: DUE PI§ DUE FA CINQUE.
    Nascono raggi gamma che accecano d’odio ma da cui, grazie a Dio, il linguaggio poetico prova a liberarsi con l’arma del ridicolo, dell’ironia, della caricatura e della strombazzatura. Credo che questo avvenga per vocazione allo smascheramento da parte del bambino che addita la nudità di re ed eroi di ogni genere. Un Omero piccolo piccolo che veste Achille con le armi di Fantozzi ed Ettore con quelle di Filini impegnati in una gita di fine agosto intorno a un trullo di Alberobello.
    F.P.Intini

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  29. Alla questione dell’individualità si avvicinò Pessoa, il quale si trovò a suo agio in personaggi inventati. Andrebbe capito “cosa” sia un poeta, in quale spazio mentale vive; se da proteggere come i panda, o farne polpette.

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    • Non sono favorevole alla guerra tra poeti. Dipendesse da me la critica letteraria, laddove non sia esibitiva, andrebbe accompagnata da abbracci. Amo il Montale di Satura, almeno Lui ci ha provato (con le telescriventi), in leggerezza, anche se con linguaggio d’oltretomba. Gli eredi hanno dissipato. Non scrivo poesia “contro”, anche in guerra sono felice. Oppure muoio. Fatela finita.

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  30. 20 giugno 451 d.C. Nella piana dei Campi Catalaunici, il Generale Romano Flavio Ezio sconfigge Attila sul campo.

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  31. Uccisi 19 bambini e due insegnanti, in Texas. Armi più armi più armi, cosa abbiamo da imparare da questi politicanti? Genitori afflitti, atterriti… ma chissà perché tutti obesi… cosa mangiano gli americani? E perché dobbiamo dagli retta? Dopo l’età del rame, l’età del bronzo, l’età del ferro, eccoci all’età delle armi. Serve un risveglio, politici con mentalità giovane e nuova.

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  33. Le poesie sono finestre. Il resto è quel che sappiamo, volgiamo credere, Punto. La vita ricomincia da punto.

    Scrivila durante il film. Io intanto lavo i piatti.

    È poesia moderna, piace a persone che guardano
    fiction televisive.

    19 bambini uccisi. Gesti sulle guance dei defunti.
    Scrivere. Albeggiare, verbo, allontanarsi. Casa dei sogni.

    Silenzio in luoghi remoti. Dormire in quel che c’è.

    Reale fantasia domestica, come trovarsi a un passo
    dal suicidio in metrò. Ma uscirne indenni, dopo essere
    morti.

    Amici. Pellicani. Oroscopo dei Mille. Donat-Cattin,
    per una sinistra rigogliosa.

    Guerra è rallentamento. Nero di seppia. Il secolo andato,
    vissuto in fretta.

    Ma la risposta non c’è. Kukident, 7 secondi.

    O torna dagli amici. Sai che ci siamo. Ma non è detto.
    E tu non ti offendi.

    LMT

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  34. Compostaggio di reperti, cruciverba e stracci verbali

    Il dove siamo ha poca importanza, tanto la realtà ci riporta sempre a galla.
    L’immedesimazione comporta straniamenti emotivi… (Mauro Pierno)

    All’apertura del casello segue la caduta di Bisanzio.
    Solo perché un ratto s’è messo in testa l’elmo di Nerone
    Si apre il ventre di Agrippina. (F.P. Intini)

    Ma la risposta non c’è. Kukident, 7 secondi. (L.M. Tosi)
    Ascoltare, dove non so e quando – da chi e da cosa? (Antonio Sagredo)
    Droni e coccodrilli -stelle sconosciute fino a ieri-
    Scendono da Trinità dei monti. (F.P. Intini)

    Le poesie sono finestre. Il resto è quel che sappiamo, volgiamo credere, Punto. La vita ricomincia da punto. (L.M. Tosi)

    La portulaca fa il filo alle onde gravitazionali
    ha zampe di riccio il nuovo soffitto. (Mimmo Pugliese)

    È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, Fondamento del terrore è l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato. (G. Linguaglossa)

    «Ho idea che il passo più difficile, in questa nostra ricerca, sia quello del saper tornare – da un verso metafisico, da un’astrazione – al linguaggio condiviso.» (L.M. Tosi)

    Ma il fatto è che quel «linguaggio condiviso» (il linguaggio di relazione e il linguaggio poetico), è la macchina principe della omologazione. (G. Linguaglossa)

    Rileggo. Non sono poesie sulla guerra, sono poesie scritte in tempo di guerra. (L.M. Tosi)

    Le potenze, gli stati-potenze sono universi semantici, si muovono nell’ordine di UN discorso (del soggetto); gli stati-colonie (come l’Europa) sono universi semiotici (cioè senza soggetto). (G. Linguaglossa)

    I mercati del capitale, ora valutati attorno agli 83 trilioni di dollari, esistono in un sistema basato sull’interesse personale, in cui il comportamento del gregge, spesso fondato sulla diceria, può gonfiare o distruggere il valore di intere compagnie – o di intere economie – in poche ore.
    […]
    bisogna essere consapevoli di avere a che fare con un mero teatro d’ombre, con entità virtuali non sostanziali, e che di conseguenza non dovremmo dedicare tutto noi stessi al gioco capitalista, che dovremmo partecipare al gioco con una distanza interiore. Il capitalismo virtuale può quindi essere un primo passo verso la liberazione: ci pone di fronte al fatto che la causa della nostra sofferenza e del nostro asservimento non è la realtà oggettiva (non c’è niente di simile) ma il nostro Desiderio, la nostra brama di beni materiali, il nostro eccessivo attaccamento ad essi; tutto quello che dobbiamo fare, dopo esserci liberati della falsa nozione di realtà sostanziale, è quindi rinunciare al nostro stesso desiderio, adottare un atteggiamento di pace e distacco interiori… non c’è da meravigliarsi che questo buddismo possa funzionare come perfetto supplemento ideologico del capitalismo virtuale odierno: ci permette di prendervi parte con una distanza interiore – con le dita incrociate, per così dire.
    È contro questo disimpegno che Bartleby ripete il suo “preferirei di no”; non “non farlo”: il suo non è il rifiuto di un contenuto determinato ma semmai il gesto formale di rifiuto in quanto tale. È dunque strettamente analogo al “No!” di Sygne: è un atto di Versagung, non un atto simbolico. C’è una chiara qualità olofrastica in “Preferirei di no”: è un significante-divenuto-oggetto, un significante ridotto a una macchia inerte che rappresenta il crollo dell’ordine simbolico.
    (Slavoj Zizek)

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  35. http://huffingtonpost.it/blog/2022/05/25/news/milan_kundera_e_l_occidente_prigioniero_di_se_stesso-9460749/amp/
    di Milan Kundera, Un Occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale.
    (di Alessandro Catalano, professore di lingua e letteratura ceca presso l’Università di Padova e candidato socio di Memorial Italia)

    Alcuni scrittori hanno la capacità di cogliere aspetti poco visibili della realtà che ci circonda e suscitare discussioni non superficiali su questioni politiche di grande complessità. Adelphi ha portato in questi giorni nelle librerie italiane un saggio estremamente attuale di Milan Kundera, Un Occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale. Il volumetto, uscito da Gallimard nell’autunno scorso, contiene due testi, entrambi reperibili solo a fatica in italiano, il discorso al IV Congresso degli scrittori cecoslovacchi nel 1967 e uno dei suoi interventi pubblicistici più noti in assoluto, dedicato alle conseguenze del “ratto dell’Occidente”. Si tratta di un testo subito tradotto in molte lingue, che ha avuto gran diffusione alla metà degli anni Ottanta e ha contribuito, come ha sottolineato lo storico Jacques Rupnik, “a rimodellare la mappa mentale dell’Europa” (in Italia era stato a suo tempo pubblicato col titolo Un Occidente sequestrato su Nuovi argomenti).

    Ma perché Kundera accusava nel 1983 l’Occidente di disinteressarsi di quanto accaduto nella parte dell’Europa finita nella sfera d’influenza dell’Unione Sovietica? In un mondo diviso in blocchi contrapposti, che cosa avrebbe dovuto fare l’Occidente? È importante aver presente che la polemica di Kundera non verteva su un’idea intoccabile della geopolitica bipolare, ma affrontava coraggiosamente la questione culturale di fondo: che cos’è l’Europa? Oggi sono di nuovo in discussione le mappe politiche e culturali del continente ed è in gioco molto più che il destino di una regione lontana, fuori dagli interessi di molti esperti internazionali, è un discorso che torna a essere di grande attualità. La domanda che poneva Kundera è infatti se l’Europa sia solo una mera unione geografica di paesi (oggi diremmo economica) o rappresenti un insieme di valori condivisi. Allora poteva sembrare velleitaria, ma non lo sarebbe stata più appena sei anni dopo, al momento del fragoroso crollo del comunismo che ha messo in moto una completa riorganizzazione politica del continente.

    Viste dall’esterno anche le questioni all’apparenza più semplici appaiono in prospettive nuove e la cultura non fa certo eccezione. Già Italo Calvino, recensendo l’Insostenibile leggerezza dell’essere, aveva definito Milan Kundera un autore che dall’Europa dell’Est osservava gli intellettuali occidentali “con l’impassibile oggettività d’un etnologo che studi i costumi d’un abitante agli antipodi”. La stessa impressione può suscitarla anche Un Occidente prigioniero, uscito in francese nel novembre del 1983 su “Le Débat”. In un momento in cui l’Europa era spaccata da una cortina che sembrava eterna, Kundera si chiedeva cosa resta dell’Occidente nel momento in cui rinuncia alla parte centrale dell’Europa.

    Va ricordato che per molti i paesi dell’Europa centrale rappresentavano allora poco più di varianti del mondo indecifrabile dell’est comunista, “nascoste dietro la cortina di lingue bizzarre e poco accessibili” e quindi lontanissime dall’Occidente. Oggi quel confine si è spostato più a oriente, sono coinvolte negli stessi meccanismi di appartenenza/esclusione altre parti d’Europa, ma l’atteggiamento è rimasto sostanzialmente lo stesso. Per Kundera invece la questione centrale era che cosa succede alla nostra identità nel momento in cui una parte d’Europa viene abbandonata a chi ha il potere di occuparla. Una domanda provocatoria allora, come oggi, in un momento peraltro in cui non risulta più preponderante la contrapposizione tra sistemi politici alternativi, il capitalismo e il comunismo.

    Non è sorprendente che sia stato proprio uno scrittore di radici ceche a lanciare l’allarme rispetto alla sparizione dell’idea di unità culturale dell’Europa. La Primavera di Praga, della quale Kundera era stato uno dei protagonisti in campo culturale, era stata infatti repressa nell’agosto del 1968, con una strategia che ricorda da vicino le modalità portate avanti nella prima fase dell’invasione dell’Ucraina. Kundera viveva da anni in Francia e l’Europa centrale sembrava ormai definitivamente uscita dall’Occidente e poco compresa dagli intellettuali che la osservavano al di qua della cortina. Da ciò la sua visione netta: “oggi l’Europa centrale è asservita alla Russia”.

    L’appassionata, quasi angosciata, difesa di uno scrittore che era al vertice della sua notorietà internazionale parte dalle parole diffuse dal direttore dell’agenzia di stampa ungherese nel 1956 (“Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”). Perché una frase del genere proprio in uno dei paesi che “sono scomparsi dalla carta dell’Occidente”? Che senso potevano avere quelle parole nel 1956? L’idea di Kundera, piuttosto indulgente rispetto al sostegno attivo fornito dalle élite culturali locali nell’imposizione del comunismo, è che cechi, polacchi e ungheresi fossero imprigionati da catene culturali imposte dall’esterno, come dimostrava anche il fatto che periodicamente venissero messe in discussione dal “lungo periodo delle rivolte centroeuropee” (1956, 1968, 1970). Diritti umani, stili di vita e valori europei non dipendono infatti soltanto dall’appartenenza a una sfera di influenza, qualunque essa sia, ma possono essere perseguiti anche da chi appena pochi anni prima poteva sembrare lontano e indifferente.

    Il testo si pone obiettivi ambiziosi, a partire dalla definizione di Europa centrale (“l’incerta zona di piccole nazioni strette tra Germania e Russia”), e finisce spesso su un terreno scivoloso, che ha suscitato molte discussioni. Più che come saggio scientifico va chiaramente letto come una riuscita provocazione. L’idea stessa di identità centroeuropea come multiculturale e transazionale è stata infatti da allora oggetto di ripetuti tentativi di definizione, spesso poco convincenti. La discussione sui confini esterni dell’identità immaginata da Kundera è naturalmente aperta e si fa tanto più problematica quanto più coinvolge paesi che, per cultura, religione e storia, sono sempre stati eccentrici rispetto a quest’idea idealizzata di Europa centrale, non solo in casi come la Bulgaria, ma anche in fondo la Germania e, naturalmente, l’Ucraina.

    Il grande merito del saggio Un Occidente prigioniero è però quello di disegnare, tra i primi, un’idea di Europa in cui non ci sono paesi occidentali (Austria) e orientali (Cecoslovacchia), ma un’unica matrice culturale comune. A decidere il campo di appartenenza di un paese o dell’altro è questo criterio e non certo l’imposizione del dominio di un altro paese con la forza.

    La storia culturale dei secoli passati è ricostruita da Kundera in modo creativo, a partire dal presupposto che “l’Europa centrale non è uno Stato, ma una cultura o un destino” e che “i suoi confini sono immaginari”. Si tratterebbe sostanzialmente di un insieme di stati in cui permangono “la medesima memoria, la medesima esperienza, le medesime tradizioni comuni”, nonostante nella storia abbiano dato vita a formazioni statali molto diverse tra loro. Per rendere possibile la costruzione di un’identità di questo tipo, che con grande fatica è stata poi perseguita senza particolare successo dopo il 1989 dai quattro paesi del gruppo di Visegrád, l’autore non può naturalmente accettare “l’ideologia slava”, che viene liquidata come costrutto o “mistificazione politica” del XIX secolo. Kundera a questo proposito ricorda le parole del giornalista ceco Karel Havlíček, che dopo una fase di avvicinamento alla Russia, si era trasformato in uno dei suoi maggiori critici: “ai russi piace definire slavo tutto ciò che è russo, in modo da poter poi definire russo tutto ciò che è slavo”.

    Già nell’intervento nel giugno del 1967 al citato congresso degli scrittori, Kundera aveva affrontato il tema della continua lotta per l’esistenza che le “piccole nazioni” devono sempre affrontare e dei rischi corsi dalla cultura ceca, spinta alla periferia dell’Europa. Ancora più esplicito era stato nell’articolo Il piccolo e il grande, dei primi giorni di agosto del 1968, quando ormai le nubi si addensavano sulla Cecoslovacchia. Le continue pressioni di Mosca avevano infatti reso puramente virtuali i proclami sui rapporti fraterni: tutta la buona volontà dei politici cechi “non è comunque un’arma del pari contro il pari, ma del piccolo contro il grande, del minacciato contro chi minaccia”. La Cecoslovacchia si trovava in una situazione critica e il rapporto con la Russia rischiava drammaticamente di trasformarsi da quello di “alleato volontario di una grande potenza una volta tanto amata” a quello di un paese prigioniero di un “destino estraneo, imposto, derivato”.

    I carri armati e la vuota retorica propagandistica, che accompagna da sempre l’azione bellica, hanno poi il 21 agosto reciso definitivamente tutti i legami culturali: “la prima conseguenza dell’occupazione della Cecoslovacchia da parte dei russi fu la totale distruzione della cultura ceca in quanto tale”. Per ricorrere al celebre paragone, poi molto abusato, con cui Louis Aragon aveva presentato Lo scherzo in Francia, la Cecoslovacchia stava per essere ridotta a “un Biafra dello spirito”. Ma nelle parole di Kundera si coglie anche l’eco del famoso discorso di Neville Chamberlain sulla Cecoslovacchia del 1938 in cui, dopo la famigerata conferenza di Monaco, rifiutava la guerra per “un paese lontano di cui sappiamo poco”. E non è la stessa incomprensione che risuona nelle parole del povero direttore dell’agenzia di stampa ungherese? Un intellettuale che, “perché l’Ungheria restasse Ungheria e restasse Europa, era pronto a morire”? E non è l’essenza di molte delle odierne discussioni a proposito dell’Ucraina?

    Pagine significative dell’Occidente prigioniero sono naturalmente dedicate alla Russia che “sta smarrendo anch’essa la sua identità”. Se la tradizione imperialista è meno visibile altrove, “ai confini orientali di quell’Occidente che è l’Europa centrale, siamo sempre stati più sensibili al pericolo della potenza russa”. È in quella parte d’Europa, infatti, che “percepiamo, meglio che altrove, la Russia come un Antioccidente”. Per Kundera sembra che anche la storia del comunismo russo vada reinterpretata: in parte può essere vista come la sua negazione (per esempio per quanto riguarda l’aspetto religioso), ma al tempo stesso rappresenta anche il “coronamento delle sue tendenze centralizzatrici e dei suoi sogni imperiali”. Agli occhi di Milan Kundera la Russia rappresenterebbe “il minimo di diversità nel massimo spazio”, mentre l’identità europea “il massimo di diversità nel minimo spazio”. E la situazione non sembra oggi particolarmente mutata. Ma si può davvero leggere la storia degli ex paesi dell’est come una variante dell’imperialismo russo, come riteneva lo scrittore ceco-francese? È un punto che andrà in ogni caso discusso e forse gli avvenimenti degli ultimi mesi ci costringeranno a ripensare in termini diversi anche all’interpretazione della storia del XX secolo.

    Attorno alla metà degli anni Ottanta, Milan Kundera ha affrontato polemicamente una serie di questioni, oggi tornate di estrema attualità, attorno alle quali troppo spesso gli esperti di culture slave si muovono con circospezione. Sulle pagine del “New York Times Book Reviews”, nel gennaio del 1985, in quella che in italiano è pubblicata come prefazione alla pièce Jacques e il suo padrone, dichiarava per esempio di provare, a differenza dell’amato Čechov, gran fastidio nei confronti del “clima” dei romanzi di Dostoevskij. La proposta di un regista di realizzare una riduzione teatrale dell’Idiota, che avrebbe poi firmato a suo nome in un momento in cui Kundera non poteva più pubblicare ufficialmente le proprie opere, gli aveva provocato un sentimento di nausea nei confronti di “quell’universo di gesti eccessivi, di profondità oscure, di sentimentalismo aggressivo”. A quello che ha spesso definito “anima slava” Kundera contrapponeva il razionalismo di Diderot. Anche se il discorso verteva in realtà su certe implicazioni filosofiche di una parte della cultura russa e non sul suo valore estetico, le sue parole suscitarono la replica sprezzante del poeta russo Iosif Brodskij, che da lì a poco sarebbe stato insignito del premio Nobel.

    È interessante rileggere oggi, nel contesto dell’invasione dell’Ucraina, quella discussione, visto che, per utilizzare un termine così caro oggi ai rappresentanti del Cremlino e che andrebbe usato con maggiore cautela rispetto a quanto si sente spesso anche in Italia, la posizione di Kundera sarebbe senz’altro etichettabile come “russofobia”. Si potrebbe però anche ritenere che, se determinate domande vengono riproposte a distanza di tempo, forse è anche perché le risposte non sono state del tutto soddisfacenti.

    Al di là dei passaggi discutibili (che cos’è per esempio “la civiltà dell’Est”?) e al ruolo ricoperto da Kundera stesso negli anni Cinquanta nel consolidamento di quello stesso sistema politico, Un Occidente prigioniero pone un insieme di questioni rilevanti rispetto all’“Europa della cultura”. Se volessimo utilizzare la terminologia estremizzata dello scrittore ceco-francese, ci si potrebbe chiedere perché sembrano di nuovo disposte a morire per i valori fondanti dell’Europa proprio le élite di quei paesi che fino a pochi mesi fa sembravano “meno europei” degli altri?

    Alcuni dei temi affrontati da Kundera sono oggi tornati di grande attualità e meriterebbero di essere discussi in una prospettiva più ampia. Il punto cruciale del discorso di Kundera è infatti che quello che si stava svolgendo allora non era solo un inevitabile conflitto basato sulle ferree leggi della geopolitica, ma “la sua vera tragedia non è dunque la Russia, ma l’Europa”. Peccato che molti non l’hanno capito allora e non sembrano rendersene conto nemmeno stavolta.

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  36. 26 Maggio 2022 – 06:00 ilgiornale.it
    Nel nuovo volume delle sue “Opere”, il premio Nobel racconta la Federazione dopo il crollo del comunismo

    Alessandro Gnocchi

    La profezia di Svetlana Aleksievic sul ritorno dello “zar”

    Ci sono indizi dai quali una grande scrittrice riesce a capire la direzione della Storia con largo anticipo. È il caso di Svetlana Aleksievic, Premio Nobel per la letteratura nel 2015. Nata in Ucraina nel 1948, cittadina bielorussa, censurata (anzi: cancellata) in patria dal presidente Aleksandr Lukasenko, la Aleksievic è maestra nell’arte della cosiddetta non-fiction. Raccoglie testimonianze sul campo, come potrebbe fare una reporter di razza, sceglie le vicende più significative e le rielabora in affreschi che raccontano più di un romanzo.

    L’editore Bompiani sta pubblicando le Opere di Aleksievic, e ora è arrivato il momento del volume monumentale (a cura di Sergio Rapetti, pagg. 894, euro 35) che raccoglie due tra i libri più famosi e belli: Preghiera per Cernobyl (2005) e Tempo di seconda mano (2013). È proprio su quest’ultimo che ci soffermeremo.

    Il Tempo di seconda mano è l’epoca di disillusione seguita al crollo dell’Unione sovietica. Gli anni Novanta del XX secolo avevano acceso la speranza di vivere meglio, con più opportunità e più libertà. La conversione al capitalismo però si è rivelata truffaldina: qualcuno, la vecchia élite ex comunista, ha arraffato tutto quello che poteva, lasciando le briciole alla gente comune. Il popolo non può nemmeno consolarsi con l’orgoglio di appartenere a un impero, per quanto dittatoriale. Ecco spiegati almeno due fenomeni: la nostalgia di un ideale, il comunismo, per il quale vivere (anche male) e l’ondata straordinaria di suicidi.

    Nel capitolo introduttivo, la scrittrice tira in anticipo le somme per inquadrare le storie che seguono. Rilette oggi, quelle poche pagine sono impressionanti per la precisione dell’analisi e per la previsione azzeccata di quanto sarebbe accaduto nelle terre dell’ex Urss e soprattutto in Russia.

    Aleksievic ha chiesto ai suoi testimoni cosa fosse la libertà. Per i figli, la libertà «è qualcosa di normale». Per i genitori, le cose sono più complicate: «La libertà è quando non si vive nella paura; i tre giorni di agosto in cui abbiamo sconfitto il putsch (il colpo di Stato contro Gorbaciov del 1991, ndr); se uno può scegliere tra cento diverse qualità di salame è più libero di un altro che deve sceglier tra dieci, dopo di che è insensato sperare nell’avvento di ipotetiche generazioni che non conosceranno il bastone; l’uomo russo non capisce la libertà, quel che ci vuole è il cosacco e la frusta».

    Nella società «si è manifestata una forte domanda di Unione sovietica. Ha ripreso vigore il culto di Stalin. La metà dei giovani dai diciannove ai trent’anni considera Stalin un grandissimo politico. Un nuovo culto di Stalin nel paese in cui Stalin ha sterminato non meno gente di Hitler?! È tornato di moda tutto ciò che è sovietico».

    Si va anche più indietro, perché la nostalgia dell’Urss non è altro che la nostalgia della Grande madre Russia degli zar. Scrive Aleksievic: «Rinascono idee di vecchio stampo; quella del grande impero, del pugno di ferro, della peculiare via russa (…) C’è il partito del potere che imita il Partito comunista. Il presidente ha altrettanto potere del segretario generale di prima. Un potere assoluto. E invece del marxismo-leninismo, l’ortodossia». C’è tutto, in nuce: la peculiare via russa teorizzata da Aleksandr Dugin, il potere assoluto di Vladimir Putin, l’ortodossia come nuovo orizzonte religioso ma anche ideologico. Conferma, tra i testimoni, un «quadro» burocratico di alto livello del Cremlino: «Per mentalità e nel suo inconscio il popolo è zarista. Ce l’ha iscritto nei geni. (…) Un Vaclav Havel può andar bene per i cechi ma noi di un Sacharov non abbiamo bisogno, è uno zar che vogliamo. Uno zar, un padre! Che si faccia chiamare segretario generale o presidente fa lo stesso, per noi è sempre uno zar».

    Non manca il risentimento verso l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti. Ecco cosa dice uno degli uomini interpellati dalla scrittrice: «L’Occidente ha sempre visto la Russia come un nemico, ne ha paura. Gli è rimasta come un osso in gola. Ci siano o meno i comunisti, a nessuno conviene una Russia forte. Ci considerano alla stregua di un magazzino: petrolio, gas, legname e metalli non ferrosi. E il petrolio ce lo pagano in mutandine. Eppure c’è stata una civiltà che faceva a meno di stracci e cianfrusaglie. La civiltà sovietica! A qualcuno faceva comodo che scomparisse». Quel «qualcuno» sono gli Stati Uniti. Sono questi i sentimenti a cui fa appello, fino a qui con successo, la retorica putiniana.

    Nel rammarico per la fine di un grande Paese, trova posto, in una testimonianza, anche una ferita che ci proietta nel presente: la perdita della Crimea, penisola avvertita come parte integrante della Russia… L’anno seguente alla pubblicazione di Tempo di seconda mano, come sappiamo, la Crimea è stata annessa alla Russia, con una operazione militare poi ratificata da un referendum. Il problema di Putin era già l’Ucraina che aveva appena vissuto la rivoluzione di Maidan. Non è tutto, nel libro c’è anche chi vorrebbe l’aviazione russa nei cieli di Riga…

    C’è spazio anche per una (modesta) opposizione a Putin e (più ampia) a Lukasenko; c’è chi riconosce la necessità di una conversione al capitalismo (purché sia russo, qualunque cosa significhi); non c’è però un’adesione, neanche alla lontana, al modello occidentale. Questa Russia, che ha fatto in tempo a conoscere l’impero sovietico, si sente ancora alternativa all’Occidente. Come la penseranno i figli e i nipoti? Presto lo sapremo, nel bene e nel male.

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  37. riprendo un mio vecchio commento del 30 aprile 2019 alle 18:47

    Ecco un pensiero di Derrida estrapolato dal contesto filosofico e psicanalitico in cui è nato ma che noi possiamo applicare tranquillamente al nostro progetto per una nuova fenomenologia del poetico, per la poetry kitchen, per la «poesia-polittico» o la «poesia compostata» nella quale non solo il «pensato» trovi posto ma anche e soprattutto il «non-pensato», il «de-negato», l’«impensato», il «non-tematizzato», il «punto di vista scentrato», l’«incorporazione», la «parallasse», il «compostaggio», l’«esproprio» citazionale, il «montaggio».

    Ma tutto ciò è possibile da esperire solo in un contesto di democrazia liberale. Ve lo figurate voi un tale armamentario concettuale in un movimento poietico nella Russia di Putin? o in qualsiasi altra zona del mondo a autocrazia illimitata, come nella Bielorussia di Lukashenko, nella Cina o nella Corea del Nord o in Afghanistan? Lì la poesia non può allignare se non nella forma forbita ed educata del discorso suasorio di un io magari post-lirico. Qui da noi almeno si ha un certo spazio di libertà per la ricerca.

    Il semplicismo intellettuale di una forma-poesia incentrata sul discorso assolutorio dell’io post-lirico quale epicentro del reale è, dal nostro punto di vista, del tutto fuorviante e secondario; l’io è un «limite del mondo», come afferma Wittgenstein, non il suo centro e nemmeno il suo epicentro. Nella «nuova poesia polittico», l’io è un punto di vista periferico tra innumerevoli, infiniti altri punti di vista periferici e scentrati. E nient’altro.

    «Il semplicismo del “questo è stato pensato” o “questo non è stato pensato”, il segno ne è presente o assente. S è P.. Si sarà allora tenui nel rielaborare completamente tutti i valori, essi stessi distinti (fino a un certo punto) e spesso confusi dell’impensato, del non-tematizzato, dell’implicito, dell’escluso sull’esempio della forclusione o della denegazione, dell’introiezione o dell’incorporazione, etc., silenzi che lavorano come tante tracce un corpus da cui sembrano “assenti”».1

    1 J. Derrida, La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà, 1980 Flammarion, Paris – trad it. La carte postale Da Socrate a Freud e al di là, Milano Mimesis, 2015 pp. 508 € 28, a cura di Luana Astore, Federico Massari Luceri e Federico Viri. p. 359

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  38. lombradelleparole.wordpress.com
    La poetry kitchen è un campo aperto di possibilità stilistiche e linguistiche.
    Un nuovo linguaggio poetico può sorgere soltanto quando il precedente linguaggio poetico è caduto nell’oblio. È quando cade il linguaggio poetico di Zanzotto e di Fortini che si profila all’orizzonte il nuovo linguaggio poetico. Una patria linguistica sorge e si afferma soltanto quando un’altra patria linguistica scompare.

    Pensiamo un momento alla «patria linguistica» che noi siamo, che noi siamo diventati. Sono portato a pensare che il linguaggio poetico propriamente non esista, sia un non esistente, un non esistente in atto, cioè in presenza.
    La costruzione di un nuovo linguaggio poetico non può mai sortire dai linguaggi precedenti o coevi per, diciamo così, filiazione diretta o indiretta; non c’è una linea di continuità o di discontinuità che ci può ricollegare ai linguaggi precedenti o coevi. Questa è l’idea del riformismo moderato applicato ai linguaggi che pensa di poter progredire in linea retta da un linguaggio poetico all’altro. Bisogna pensare a questa problematica mediante un altro apparato concettuale: è mediante la dialettica del negativo che possiamo afferrare questo concetto. Questa è una aporia che bisogna accettare. È una contraddizione incontraddittoria.

    Quello che si può fare, e che noi stiamo tentando di fare, è costruire le cornici, le coordinate di un nuovo linguaggio poetico, e nient’altro. La poetry kitchen è appunto questo «contenitore» che però si scava la fossa nel momento in cui emerge, nel mentre cioè che scava il fossato che la divide dai linguaggi poetici del pregresso e del contemporaneo. Ecco perché il «contemporaneo» e il «nuovo» sono categorie che oggi sono diventate vuote, gassose, che non appena le afferri si sbriciolano tra le dita e volano via nell’aria. È per via del «frammezzo» (Das Zwischen) che la nuova poiesis può emergere, da una zona larvale e limbale che non sta né qui, nel mondo empirico, né là, nel mondo non empirico.

    «Le difficoltà non risiedono nelle nuove idee ma nel sottrarsi alle vecchie che ramificano in ogni angolo della mente». (Keines)
    «Non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni». (Ilya Prigogine)

    La nuova ontologia estetica segue il medesimo ordine di idee del grande chimico russo. Parafrasandolo potremmo dire che «la forma-poesia è un sistema instabile, e che non esiste un sistema instabile che non possa prendere svariate direzioni». È fondamentale la dimensione caosmotica e caosferica in ossequio a quella filosofia pratica e mondana, a quella prassi tipica della poiesis kitchen a cui si è accennato con la citazione di Prigogine. La zona di indeterminazione, è una zona stilisticamente sismica, altamente instabile e infiammabile che connette il fuori, con il dentro, che riesce a dentrificare il fuori e fuorificare il dentro, coltivare un immaginario, sortire fuori dalla nostra zona di comfort normografico e normologico ed entrare in una zona di indeterminazione e di indifferenziazione entro la quale costruire un crocevia d’incontri, un assemblaggio, un patchwork, compostaggi, story telling, puzzle dinamici e instabili, autobiologie, giustapposizioni di registri stilistici e lessicali, quello che Pasolini chiamava «multistilismo e multilinguismo». L’entanglement che si rinviene così di frequente nella poesia della nuova ontologia estetica o poetry kitchen è un concetto molto diverso dalla empatia che si ha nel discorso poetico epifanico della tradizione novecentesca (che oggi continua per esempio nei poeti in dialetto); nei testi odierni in lingua si ritrova l’empatia piuttosto che l’apatia, la ierofania piuttosto che la diafania, il sacro-sublime piuttosto che il profano; posizione comprensibilissima, in linea di continuità con la poesia epifanica di un Ungaretti e del primo Montale, il che in sé non è un disvalore ma segna una distanza considerevolissima rispetto alla poesia del profano che si tenta di perseguire con la poetry kitchen.

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  39. MAGNESIO MANDA A DIRE A CALCIO

    È una storia di lavatrici. Beghe tra detersivi e panni zozzi
    –quelle da pubblicità che non ce la fanno a sostenere il prezzo-.

    Candeggiare liquido o solido?
    Meglio il programma ad acqua bollente?

    Gli eventi si incurvano nel cestello.
    Vendetta si siede al centro del programma
    .
    Chi potrà difendersi dalla centrifuga?
    A forza di gravitare attorno i linguaggi scambiano colore.

    Visti dall’oblò gli uccelli rotolano a terra.
    I nomi lasciano lettere alla rinfusa.

    Basta aprire un vocabolo per trovare il tuorlo
    ma si discute su un beccuccio di rondine

    Bisogna togliere il calcare e sperare che il telecomando obbedisca agli ordini.

    La possibilità che la madre abbandoni la partita
    è proporzionale al mutuo da pagare.

    Si farà un concerto per distinguere l’albume
    Decidere se al contrario il giro è più rotondo.

    F.P.Intini

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  40. milaure colasson

    Sì, è una storia di lavatrici… e tutto il resto. Qui, nella poesia di Intini, è evidentissimo che qualcosa è successo al linguaggio, che il linguaggio è stato fatto sloggiare dalla casa dell’essere e se ne è andato in giro per fatti suoi, le parole non corrispondono più alle parole, il luogo delle parole non è più un luogo, la guerra ha reso evidentissima questa situazione del linguaggio poetico, in particolare ciò è visibile in Italia dove il linguaggio poetico si è imbolsito in un formulario protocollare. E allora che fare?
    Intini scrive:

    Bisogna togliere il calcare e sperare che il telecomando obbedisca agli ordini.

    Con la guerra in corso si è reso evidente ciò che era visibile anche prima: la scomparsa definitiva della sacralità del luogo dove avveniva l’epifania della parola poetica (da Ungaretti a Montale passando per Sanguineti e Pasolini fino a Franco Fortini). Il luogo così desacralizzato è diventato un non-luogo, ecco perché la NOe impiega i linguaggi della zona da indistinzione, delle zone di compromissione, che sono quei linguaggi che dimorano negli interstizi dei linguaggi ufficiali. Prendiamo ad esempio i discorsi del ministro degli esteri russo Lavrov: lì è evidentissimo che si parla di cose che si trovano in un altro universo di parole, non solo le cose e le parole sono ribaltate, ma di più: le parole hanno perduto la connessione con le cose e i fatti, si parla di cose e fatti di un altro universo parallelo. In questo ruolo Lavrov è un campione di disinformazia. Non è un caso che la disinformazia sia un tropo retorico impiegato di continuo dalla poetry kitchen e da Intini in particolare: disinformazia x disinformazia = altra disinformazia, tutte le parole sono andate al macero della loro insignificanza. Il di più di informazione e il di meno di informazione alla fine si equivalgono. Scrive Intini:

    È una storia di lavatrici. Beghe tra detersivi e panni zozzi.

    E’ che cadute le paratie tra la cornice e il quadro, ciò che è rimasto è uno spazio vuoto, o meglio, uno spazio riempito di parole melliflue che ridondano la propria insignificanza. Le parole sono giunte al limite della feticizzazione, sono ipersignificative al punto che appena un passo e non significano più niente, si apre il baratro della credulità popolare degli asini che volano e delle trecce bionde di Cenerentola. Oggi le parole sono diventate ipersignificative, in quanto si sono gonfiate dagli estrogeni della propaganda e della pubblicità, rivelano uno scarto. Quello scarto, appunto, rivela la verità delle parole scartate.

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  41. Heidegger in Essere e tempo scriveva (1927) che è il nostro «destino» esser gettati in un orizzonte storico contingente e insuperabile:
    e indicava i delineamenti della finitezza storica di ogni ente; il filosofo tedesco ha approfondito la fenomenologia del Dasein irretito nella gettatezza del mondo storico e dell’orizzonte degli eventi, di qui la tesi della «decisione anticipatrice» e dell’essere-per-la-morte… ma non ci ha detto nulla della differenza tra le micro decisioni del Dasein e le macro decisioni del mondo storico che imprimono una svolta storica agli eventi, il filosofo ha obliterato del tutto il mondo storico, sicché il Dasein appare deiettato e abbandonato tra gli eventi senza possibilità di autenticità o di riscatto.
    C’è in Italia (l’anello debole dell’Europa occidentale), è percettibile nell’opinione pubblica italiana, uno smarrimento delle coscienze e delle opinioni e un ritorno al fatti i fatti tuoi, a un’ermeneutica dell’individualismo e del cinismo generalizzato e retrogrado che sospinge al menefreghismo e al qualunquismo, e quindi alle varie forme di sovranismo retrogrado e reazionario.

    Forse dobbiamo tornare ad essere ingenui, come i selvaggi di Rousseau. E chiederci: «Che cos’è questo?», «Che cos’è quello?», «Chi ha cancellato l’Orizzonte?», «E perché?», «Chi ci ha fatto cadere?», «E perché la caduta continua?», come scrive Tadeusz Różewicz?, «Chi ha decretato la caduta di tutto?», «Perché cadiamo da tutte le parti?», «Perché abbiamo Sua Maestà il Nulla?», «Perché abbiamo Sua Maestà il Vuoto?», «Perché abbiamo Sua Maestà l’Ombra?»…
    Scrive Nietzsche: «Noi lo abbiamo ucciso – voi e io!.. Chi ci ha dato la spugna per cancellare l’intero orizzonte?… Dove ci muoviamo? Non cadiamo forse continuamente?… Indietro, e di lato, e in avanti – da tutte le parti?».
    Mi sembrano domande alle quali un poeta degno di questo nome non dovrebbe sottrarsi. E invece, si continua a fare poesia del quotidiano e degli oggetti. Ma quale quotidiano? Quali oggetti? Quale Io?, ma non ci rendiamo conto del pericolo in cui siamo “Caduti”? –
    Penso che occorra fare una poiesis totalmente differente da quella che si fa oggi. Una poiesis che parli stabilmente con Sua Maestà il Nulla, Sua Maestà il Vuoto, e Sua Maestà l’Ombra.

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  42. “Putin ha trasformato il russo nella lingua degli assassini”, ci dice il dissidente Mikhail Shishkin da Ilfoglio.it
    Giuseppe FAantasia 27 maggio 2022

    Lo scrittore cresciuto a Mosca ha lasciato il paese dopo l’invasione della Crimea. “Mi piacerebbe tornare, ma l’aria è irrespirabile. I crimini di Putin sono anche contro la cultura russa”, racconta dal Salone del libro. In libreria con Punto di fuga, vincitore del Premio Strega Europeo

    “Di questi tempi, fa davvero male essere russi: siamo al terzo mese di guerra, una guerra fatta – dicono – per salvare la lingua, il popolo e la cultura russa, ma in realtà non è così. Ora i crimini non sono soltanto contro gli ucraini, ma anche contro la nostra cultura: la lingua russa non è più associata alla grande letteratura, ma a quel quadro mostruoso e orripilante che è stata la strage a Bucha. Putin non ha cuore e ha trasformato la mia lingua in quella degli assassini. Il mio obiettivo? Difendere oggi tutto quello che ci ha tolto e continua a togliere in tal senso: la mia lingua, il russo, e la nostra letteratura. Mi piacerebbe tornare nel mio paese, ma la realtà è insostenibile e l’aria irrespirabile”. Al Salone del Libro di Torino, edizione numero 34, la più frequentata di sempre (168mila presenze) – abbiamo incontrato Mikhail Shishkin, lo scrittore russo dissidente, vincitore (ex aequo con Amélie Nothomb con Primo sangue, edizioni Voland) del Premio Strega Europeo con il suo romanzo Punto di fuga (edizioni 21lettere, la traduzione è di Emanuela Bonacorsi).

    Nato nel 1961 e cresciuto nel centro di Mosca, dal 2014 ha lasciato la Russia in contrasto all’invasione della Crimea. In patria è considerato un traditore dagli ambienti vicini al governo di Putin e in questi giorni si sta impegnando molto con articoli e dichiarazioni per dare una voce ai russi e alla cultura russa che si oppongono alla guerra. Quando non lo fa lui personalmente, a “parlare” ci pensano i suoi libri, tradotti in oltre 30 lingue. Il suo Punto di fuga – una delle opere più belle e rappresentative della sua produzione con cui, prima dello Strega Europeo (promosso dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e da Strega Alberti Benevento), aveva già vinto nel 2010 il Big Book Prize – è un romanzo epistolare che raccoglie le lettere di due giovani innamorati russi – Volodya, uno scrittore ossessionato dalla morte, che si arruola volontario nella guerra dei Boxer, e Sashka, la sua amata – separati dalla guerra e dallo spazio, ma soprattutto dal tempo.

    “Questo libro è iniziato molti anni fa – spiega al Foglio – dopo una conversazione con mio padre che aveva solo 18 anni quando andò in guerra nel 1944 e nel 1945. Voleva solo sopravvivere, sposarsi e avere dei bambini e quando mi raccontava, nonostante fossero passati tanti anni, continuava ad essere sconvolto. Era troppo giovane quando fu chiamato alle armi e a quell’età un uomo non è ancora pronto. Nessuno lo è mai”. Quando scrivevo questo romanzo – aggiunge – sapevo che la guerra ci sarebbe stata. Del resto, in Russia non è avvenuta la de-stanilizzazione e non c’è stato il processo di Norimberga contro il partito comunista, come risultato abbiamo avuto la dittatura.

    “Il libro – continua l’autore – riflette sul percorso verso la saggezza, su cosa sia importante davvero. Ci sono due vie per raggiungerla: un percorso che segue Sashka nel libro, una vita monotona e quotidiana, e un percorso più maschile, mi viene da dire, che è stato quello di mio padre, un cammino che costeggia la morte stessa. Tutti questi particolari non si possono inventare e nello scriverlo, io non ho inventato nulla. Dove non ho potuto fare diversamente, ho usato metafore e dato ai soldati nuove parole e nuove vite come ai contadini che nelle situazioni di disagio hanno acquisito più calore umano, comprendendo cosa sia la vita e l’amore”.

    “Uno come Putin non conosce il vero significato della parola amore e non sa darlo”, continua Shishkin, che è stai definito dal Guardian “il migliore scrittore russo vivente”. “Lui se ne andrà, ma il il dolore e l’odio che ha creato resteranno a lungo nelle anime e nelle menti di molti. La nostra è una realtà ingiusta, ma resteranno storie come le mie che definiscono realtà diverse create dalla letteratura che si oppone alla guerra, perché parla sempre del bisogno umano d’amore”.

    Il suo – come lo definisce lui stesso – “è un romanzo sull’immortalità”, perché l’autore, cioè lui, morirà, ma i suoi personaggi e le sue storie no, “quelle continueranno”. “È importante che un libro ci sopravviva, questo è il senso dell’arte. Bisogna capire che la morte è lo stesso dono come la vita, bisogna recepirla e viverla come un dono che ti dà la possibilità di percepire questo amore. Solo la perdita ti fa capire l’importanza di chi hai perso. Lo scrittore, dunque, ha il compito di parlare e di raccontare: non farlo significherebbe sostenere l’aggressore”. Da non sottovalutare, dice prima di salutarci, è il processo di scrittura che per lui “è come una trasfusione di sangue”. “Da ragazzo, avevo la nausea quando dovevo leggere per forza i libri imposti da Bréžnev. Poi, per fortuna, ci pensavano i libri proibiti a darmi vita. Da scrittore, condivido con i lettori le cose più importanti e indispensabili ed è per questo che il mio e il loro gruppo sanguigno deve essere lo stesso. Se non c’è, il libro può anche uccidere. Per fortuna, è compatibile con tanti lettori in tutto il mondo e, almeno per ora, è una salvezza”.

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  43. piernomauro1

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  44. vincenzo petronelli

    Ringrazio tutti gli amici dell’Ombra per gli interventi che hanno arricchito quest’articolo davvero di alto livello: un esempio – come del resto l’Ombra ci ha ormai abituati – rarissimo ai nostri giorni, di come la critica letteraria, se seria ed intellettualmente solida, possa riuscire a collegare la produzione letteraria alla contemporaneità storica, politica e sociale.
    Condivido ogni singola parola delle esternazioni circa lo sciagurato conflitto, putroppo ancora in corso pur essendo trascorso un mese circa dalla comparsa di quest’articolo, come ho già avuto modo di precisare in altri miei interventi precedenti.
    E’ evidente anche da quest’articolo come, pur nel momento in cui l’Ucraina si batti per affermare principi democratici per noi sacrosanti (battendosi addirittura per certi versi in modo esemplare anche per le nostre menti anestetizzate, spesso incapaci di rendersi conto dei limiti del nostro stesso modello democratico) questo conflitto, nella sua tragicità contrassegni anche la fine di molte certezze, in molti casi posticce, artificiose, su cui la società europea e quella che si suole definire “società occidentale”. La follia del despota russo, ha rimarcato al tempo stesso le debolezze, le fragilità del nostro sistema, soprattutto europeo, incartapecorito sulle dinamiche finanziarie ed economiche e totalmente impreparato verso la gestione delle problematiche politiche più delicate, persino nei confronti di una gestione alternativa, emergenziale, delle stesse dinamiche economiche.
    Siamo così di fronte, molto probabilmente, alla frantumazione dei paradigmi occidenatali di questi ultimi tren’anni: la globalizzazione, il primato della finanza sull’economia reale, l’illusione post moderna dell’affrancamento della dimensione della produzione materiale, l’attenzione edonistica per la sfera del personale rispetto a quella comunitaria, hanno rivelato la loro fragilità e si stanno liquefacendo di fronte all’assalto dell’autarca russo.
    Evidentemente, per raccontare questo tempo slabbrato serve un nuovo codice linguistico ed un nuovo angolo d’osservazione per le poesia e la letteratura in generale; è esattamente la visione poetica della Noe, quella di ricercare il filo conduttore dell’attuale scenario nelle retrovie delle parole e della produzione letterarie ufficiale: nei rifugi, nei sottovia, nelle condutture dove si sedimenta la storia non ufficiale, quella immediata (nel senso letterale di “non mediata”, senza filtri). Non è soltanto l’unica strada praticabile per snidare la connivenza tra la produzione culturale industriale e da salotto ed il quadro politico attuale (connivenza che costituisce il coronamento di questa condizione), ma è anche uno dei pochi progetti seri di destrutturazione e ristrutturazione del panorama poetico attuale, al riparo da percorsi pseudo-avanguardistici che mirino in realtà solo alla distruzione – senza proporre modelli alternativi – impalcature pericolosamente ammiccanti ai populismi politici, già parte dell’attuale débacle socio-culturale e che rischiano di prendere ulteriormente piede nel vuoto che si prospetta.
    Buona domenica a tutti.

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