Stanislav Dvorský
L’inizio del gioco
non ho nessun amico dietro le finestre scure d’azzurro
lancio soltanto dei sassolini con accortezza per non rompere nulla
ricordiamo ancora i giochi giudiziosi quando sull’acqua si formano dei cerchi sbadiglianti
il cordoglio sorride non ho nulla da perdere
nemmeno le mie mani mobili
nemmeno i miei amici
nella vuotezza zincata del profondo banco di mescita
tanti avanzi convincenti dell’eternità usignola
una volta ero un eccellente tiratore e i miei amici continuano ad applaudirmi
ho sparato già quasi tutte le cartucce
non riesco a fare centro continuo ad essere
come vivo come vivo
* * *
Tarda estate
il ponte di fili bianchi sospeso
sulla baia assente di palombari inchinati
una seppia morta da tre giorni
contempla qualcuno di loro con occhio riconoscente
tutto il limaccio al centro della maestà stagnante del vetro
non volge altrove il capo
culla in grembo il bimbo d’inchiostro
gli raccontai le mie allucinazioni jazzistiche
innalzai un recinto brunito intorno all’idiota
infastidito dagli ordini perenni sul foglio senza righe
alzai i tacchi
delle scarpe sotto il tavolo
pittai il recinto color pelle con vernice color pelle
in modo da non essere troppo visibile
in modo da non stare in piedi
avevo i miei riposi illuminati i ceppi floreali
del resto è la mia missione
poche volte il sistema solare comprende tutti i simboli esterni
perché persino facendo notevole attenzione l’intonazione sfugge dalle narici
lo chiamai col nome di battesimo
nessuno si voltò
Zborcené plochy (Piani distrutti, 1996)
* * *
Bottiglia Molotov
le fiamme disegnano mandrie di animali galoppanti lungo il soffitto del vagone frigorifero che con un ampio tornante si precipita sui binari chissà dove
apicoltori portalettere spazzini intere stazioni di inseminazione un’unica enorme moltitudine armata di forconi asce e attizzatori
si precipita con terrore su piazza Democrazia popolare
questi fenomeni sono visibili nelle nostre bevande
dove cala di sbieco il basso sole primaverile
quando un vento fresco spinge a soffi la tenda nel profondo della stanza
* * *
Tra le cosce di questa primavera
pezzi di cannelli di paraffina nell’attimo in cui cambiano sostanza
della tua eterna nudità (buia: sussurro “di nicotina”)
è anche così il punto focale della notte il resto della pelliccia
dopo un istante pieno di sego caldo
poi le arterie pulsano gemi il nastro al buio fruscia
(mettiamo Wheels of Fire basso basso)
e alla finestra si accendono azzurri i fumi alcolici
invano
senza futuro
Dobyvatelé a pařezy (Espugnatori e ceppi, 2004)
Stanislav Dvorsky e Petr Kral
.
Petr Král
Black and Blue[2]
Quando conobbi Standa Dvorský, alla luce arancione della leggendaria “stagione del ‘59”, diventò subito per me l’amico-iniziatore (secondo la definizione di Sarane Alexandrian), colui col quale è possibile instaurare un vero dialogo, complice e contendente allo stesso tempo, colui che ci apre le porte del mondo e di ciò che vi sarà per noi di fondamentale, e che ci aiuta in maniera decisiva a chiarire i nostri pensieri.
[…]
Molti erano i tratti da noi condivisi, che costituivano la nostra esperienza e la nostra “memoria” comuni, se non altro grazie alla sistematica e reciproca comunicazione: l’esistenzialismo e il surrealismo, il poetismo e il dadaismo, la decadenza di fine secolo e l’ubriacamento degli anni Venti, le incisioni e le comiche mute, i vizi dei salottini e gli amori delle gite scolastiche, la canzone Zasu di Jaroslav Ježek e il Castello di Kafka, i vaporetti domenicali e i salotti in fondo al lago, Voskovec + Werich e Rimbaud con Verlain, la cicoria di Pečky e l’Hispano Suiza, gli smoking bianchi e i maglioni alla beatnick, l’assenzio e il jazz… Ognuno poneva l’accento su cose diverse e costruiva tutto in maniera differente; Standa lo faceva in maniera meno casuale, come se sapesse fin dall’inizio quello che voleva.
[…]
Dopo aver letto i suoi primi testi, fu chiaro che la nostra generazione aveva in Dvorský uno dei suoi autori chiave, il proprio poeta, il quale in modo unico ma essenziale riassumeva le idee, “le sensazioni” e le posizioni degli altri. In molti di quelli che allora lo conobbero i suoi testi ebbero di colpo un influenza determinate; ad esempio, l’opera di Karel Šebek non sarebbe stata la stessa senza di loro, e anch’io non sono sicuro se le mie “visioni” poetiche non siano per metà di Standa – tanto intimamente alcune delle sue immagini si sono impresse nella mia memoria.
Nei suoi testi poetistico-dadaistici del periodo precedente il 1959, nei quali andava assumendo sempre più vigore l’influenza surrealista, traspare la sua caratteristica concezione delle tre componenti che – in diverse proporzioni e relazioni – formeranno l’intera sua opera: il lirismo, la narrazione poetica, il discorso sarcastico. Se la sua narrazione ha, fino a quel momento, una comunanza con le poesie-sogno del Nezval surrealista e il suo discorso con la provocazione dadaista, dietro il lirismo di Dvorský trapela soprattutto, ed è cosa non senza significato, Halas. E ciò sia per quel che riguarda la visione del mondo del poeta e il suo sviluppo personale, sia per il ruolo dello stesso Halas nello sviluppo della poesia ceca.
[…]
Nei primi testi di Standa si mescolano il ludibrio dadaista e il senso per l’umorismo assurdo con accenni di una poetica particolare, che l’autore inizia a creare nel periodo in cui ci conoscemmo, e che sviluppa successivamente nelle poesie da lui scritte in concomitanza con il testo Ruleta (Roulette) e che riunirà poi con i suoi primi testi scelti nella raccolta Neobyvatelná poschodí (Piani inabitabili), i cui principi originano dalla lettura parallela di Halas e Eluard. Chiama questa poetica “costellazione di parole”, l’uso coerente del potere specifico, proprio solo della poesia, dei singolari collegamenti tra le parole stesse: di ingannevoli collegamenti lessicali, nei quali l’aspetto verbale – per metà di idee e per metà puramente fonico – e quello grafico coprono tutti gli altri (narrativo, riflessivo e metaforico), si rendono indipendenti, e l’essenza dell’enunciato si sposta nello “statico” gioco di echi, trasmesse di parole in parole come i segnali dei fari (“quando crescono dalle pieghe delle piume calde / stelo sulle labbra svelante / il lucchetto della notte attardata”; da Smutek obydlená poschodí – Tristezza piani abitati).

Stanislav Dvorský
[…]
Il visionarismo di Dvorský assume un nervoso accento jazzistico che lo avvicina, oltre che ai surrealisti, anche a poeti come Jacques Vaché, Arthur Cravan, al primo Tzara, o anche ai beatnick americani, alla cui illuminata pazzia la nostra generazione si sente talmente vicina che alcuni di noi (Karel Šebek, Roman Erben, Prokop Voskovec e io stesso) ne trasmetteranno in seguito una parte anche al movimento surrealista, come contributo specifico e nostro marchio distintivo. Più che verso i surrealisti, ci orientammo quindi verso i beatnik, decidendo di diventare dei poetisti mattoidi e visionari, squilibrati – e frustrati – nell’originale bon vivant dallo scetticismo esistenziale e dallo sfruttamento. Allo stesso modo, le nostre magiche passeggiate per la città, alla maniera di Nezval o Breton, mutarono in un più prosaico e metafisico cammino per il mondo, dove della gustosità di “tutte le bellezze del mondo” e della caccia “dei segnali del desiderio” rimane soltanto la misura dell’estensione dell’esilio, il destino umano che ci è toccato in sorte.
Dvorský, per natura e per un sostanziale pessimismo, fu portato piuttosto alla permanenza sul posto e alla costruzione di una sua “tana” privata, dalla quale trasmetteva al mondo i suoi strali verbali, sprezzanti e precisi, con i quali, anche da parte nostra, comunicava la sua diffidenza, e che noi copiavamo e citavamo come motti un po’ oltraggiosi e malefici, ma che mantenevano, anche per noi, una propria validità. Le posizioni narrative e descrittive del suo pensiero poetico assumono tali sembianze già in Močály (Paludi), prima di svilupparsi completamente e inasprirsi in Vrať se, válko (Torna, o guerra), e nelle opere del periodo durante il quale svolse il servizio militare.
[…]
L’immagine poetica e il tessuto di esperienze (e percezioni) intime che da essa origina si trasformano – assumendone via via la forma – in posizioni umane e morali, la visione è libera e mirata, diventa opinione e invettiva critica. Ciò non significa, comunque, che il punto di vista di Dvorský abbia trovato un’espressione diretta e che le sue immagini si possano leggere come una semplice dichiarazione o confessione. Al contrario, la catena di posizioni, nelle quali la poesia si trasforma, si sviluppa come un gioco raffinato e perfido con il lettore, dove l’atteggiamento significa piuttosto provocazione e confusione: un attacco beffardo alla consuetudine del lettore e la sua conseguente insicurezza riguardo la chiave del messaggio poetico e il modo di comprenderlo. La comunicazione passa attraverso la mistificazione, i pensieri e le visioni sono valide solo su un secondo e terzo “piano”, come una citazione ironica piuttosto che una confessione, il significato dei simboli apparenti non è racchiuso in essi, ma nella trappola tesa alla fiducia del lettore (e al suo bisogno di “verità”), il vero punto di vista del poeta si cela dietro la stilizzazione che offre al suo posto.
Non possiamo, quindi, prendere alla lettera nemmeno lo “scoraggiamento” e il cinismo ai quali sembrano richiamarsi programmaticamente il suo “manifesto” e Močály, e che sono, in realtà, soltanto elementi parziali di un “sistema” compositivo più complesso e, in altri testi, ancora più leggermente sfumato.
[…]
La ricchezza espressiva e formale dei testi di Dvorský è comunque inscindibile dai temi concreti e dalla loro caratteristica unione, che costituiscono il personale punto di vista dell’autore. Ne fanno parte le curiose visioni di estasi solitarie e di giochi amorosi, ritirati in una sorta di pantomima di delicata pazzia e di intimi sussurri al limite del vuoto (“ti telefonai… e avevi i capelli bagnati”, “creature con pelle accorta, sotto la quale ride il nulla”) e anche, però, l’irripetibile incarnazione (e rilevazione) delle esperienze di angoscia e inutilità, la loro unione con l’idea di cose “strette” e “poco profonde”: “notte… cupa da non lasciar cadere nulla”, “…sguazzavamo nelle pozze in ognuna un volto poco profondo come un palmo”. […]
In entrambe le eccezionali composizioni, nelle quali, dopo Močály, (e dopo una nuova serie “di transito” di poesie più brevi) il suo monologo si effonde di una corrente epico-lirica, Dvorský approfondisce e affina le rivelazioni dei testi precedenti, fino a raggiungere una virtuosità demoniaca; la testimonianza, che il poeta depone in rappresentanza di un’intera generazione, si mescola, allo stesso tempo, col “comunicato” fondamentale sulla realtà e, più in generale, sull’essere umano, con il pronunciamento di una sola verità umana e di un solo stadio del mondo.
[…]
Il senso delle sue poesie non si fonda nemmeno ora solo sulla diagnosi del mondo e del suo sfacelo, la quale è solo sfondo e punto di partenza del presupposto creativo, nel quale fa ritorno anche la gioia e la voglia di realtà. Le visioni di Dvorský più sprezzanti e assurde sono al tempo stesso espressione della sua caratteristica sensibilità e proposta di nuovi fatti per la loro raffigurazione, lo stesso scetticismo è fonte di vertigini sconosciute e di prodigi poetici.
[…]
A partire da Vrať se, válko, nei testi di Dvorský si moltiplicano gli sguardi frammentari sulla realtà quotidiana, non dissimili dai frammenti materiali nelle opere di arte informale (informel), e che raggiungono un punto di tensione particolare a confronto con le posizioni simboliche del testo: se sembra che qui le immagini cozzino contro i propri limiti, allo stesso tempo loro stesse interiorizzano la fatticità esterna dei frammenti, finché anch’essi non diventano parte della visione intima.
[…] L’autore sviluppa quindi, in modo più coerente di altri – con l’eccezione di Vratislav Effenberger, dal quale, ricevette degli impulsi in questo senso – un tratto specifico dell’intero surrealismo “praghese” del dopoguerra. Laddove gli autori parigini, nel tentativo di rinnovare il surrealismo, non abbandonano l’impianto – e la forma compatta – del tradizionale “monologo lirico” (forse ad eccezione di di alcuni “post-” e “parasurrealisti” come Alain Jouffroy o Gherasim Luca), Dvorský ed Effenberger (o Mikuláš Medek per quel che riguarda la pittura) proiettano la propria soggettività in cose e fatti materiali con una franchezza che significa anche una sua “espropriazione” e dispersione. Il dettaglio empirico ha, allo stesso tempo, lui stesso l’unicità e la concretezza dell’insostituibile testimonianza personale, la rivelazione poetica continua a saturarsi della ricchezza delle ossessioni e dei tesori privati (a differenza dell’opera contemporanea di autori quali Milan Nápravník, dove l’immaginazione cerca dietro la realtà soltanto generici significati “junghiani”). La poesia di Dvorský, insieme al suo accurato sguardo sulle cose, è un altrettanto attento – e minuzioso – processo di auto-consapevolezza della percezione e del pensiero personali, e quindi un concentrarsi su quei fenomeni che di solito sfuggono al conscio e alla riflessione.
[…]
La tendenza all’oggettivizzazione e al bilanciamento di sentimenti e percezioni acquista nuova importanza nei testi scritti dal poeta dopo il servizio militare, sia in versi sia in prosa (Hra na ohradu; Gioco al recinto), i quali estendono la poetica del monologo erratico – e dei pseudodiari – nella quale la soggettività diventa teatro grottesco:
“osservavo la bottiglia in frantumi, che rubava l’occhio solo per le macchie unte degli avanzi / mi sentii un po’ sollevato quando senza il minimo interesse vi rovinai sopra in silenzio” (Vzpomínka na realitu; Il ricordo della realtà).
Se qui l’accumulo dei grandi dettagli e dei mini-avvenimenti futili che a mano a mano lo evocano è soggetto ad un’essenza sarcastica, i testi successivi grazie ad una composizione più libera acquistano una molteplicità più accentuata di significati. […]
Tutto è qui una sorta di oggetto della stessa attenta denominazione e della stessa guardia critica, dove prima le faccette della poesia rappresentavano la confessione generazionale o il beffardo “modello di conoscenza”, prevale ora piuttosto il disfacimento analitico di ogni pensiero, sulle stesse particelle elementari l’espressione – pur ambivalente – cede il posto soltanto all’inventario, postmodernamente impersonale, di atteggiamenti, stili e figure retoriche possibili come forme vuote e abiti lisi.[…]
Sintomatico di questo sviluppo è il suo caratteristico commento, che prende le distanze e col quale il poeta completa le sue visioni più spontanee e dove senza dubbio si riflette anche il suo antico dubbio se tutto ciò che (si) scrive non sia già fatalmente derivato. Nonostante un certo raffreddamento e restringimento espressivo, derivati dalla sua subordinazione al principio della citazione ironica e al distacco da ogni forma di comunicazione, il suo più recente periodo creativo è anche testimonianza della coerenza del suo percorso personale; ma non solo questo. Al di là di una canzonatura universale, continua nelle sue poesie l’apertura per un pensiero e per le sue forme meno consolidate, non ultimo il momento magico della nascita del pensiero (come indicano anche le parallele riflessioni teoriche dell’autore); le formulazioni di sottili movimenti interni si mescolano in esse con un umorismo allucinante (“tutte le spine sono d’un tratto come bernoccoli e tutti gli zoccoli come pennellini”) così come l’insostituibile “musica di parole”. Quand’anche desse l’impressione di effondersi, come i panegirici discretamente svolazzanti di Dálková světla (Luci abbaglianti), solo da un sassofono di cenci, o anche da un semplice pantalone: “dei colpi delicati delicatissimi nelle reti a maglie rade delle tende / dei colpi perforanti insopportabilmente distinti nella fugace idea dello sventolio / (e il mondo come se si spostasse di un millimetro)”.
Anche la poesia di Dvorský oggigiorno non può altro che fungere da accompagnamento al crepuscolo (o “da malinconico playback alla lingua delle rovine”), o da fischio nel buio definitivo; lo spazio che si apre, però, è uno spazio di avventura e libertà.
(Petr Král)
[1] Poesia, anno 2013, vol. 26, n. 288.
[2] Questo studio di Petr Král sulla poesia di Stanislav Dvorský è stato pubblicato nel 1996 nel volume Zborcené plochy. Ne presentiamo qui alcuni brani.
da huffingtonpost.it 14 aprile 2022
[Il Signor Putler compare in alcune mie poesie. Considero una fortuna poter esaminare con la massima attenzione il volto, la fisionomia e i gesti di questo psicopatico acuto abitato da fantasmi e da fobie. Per me è una autentica miniera di informazioni sulle caratteristiche dell’Homo sapiens di oggi. Così, Putler è entrato a pieno diritto nel mio personale bagagliaio di Avatar e di Fantasmi. Considero una vera fortuna poter vivere in contemporanea con questo criminale e poterlo esaminare in video (è come se potessi esaminare in diretta video la fisionomia, l’aspetto e il comportamento di gengis Khan o di Attila). Non commetto certo l’errore di considerarlo molto dissimile dal resto dei sapiens, anzi, noto che il resto dei sapiens è vittima delle medesime psicopatie del gran criminale. E questo è un magnifico combustibile per le mie poesie e per la comprensione del mondo che abito]
L’una e l’altra potenza hanno combattuto il Terzo Reich. Ma dobbiamo a questi tutte le guerre che sono seguite, dal ’45 ad oggi. Come non capire, o muovere almeno una critica nei confronti della NATO, quale organizzazione offensiva? “Putler” non è una buona idea, è un’idea monca, epidermica, per altro molto ben allineata (tagliare il gas russo) con le ambizioni elettorali di Enrico Letta, capo del partito ex comunista italiano. E non un pensiero sull’Europa? Non si vuole vedere la debolezza, la mancanza di una propria strategia di pace, perché al seguito degli “alleati”? Che dovremmo scrivere qui nei commenti, che siamo tutti entusiasmi di Biden?
milaure colasson
12 aprile 2022 alle 19:33
È la poesia in confezione regalo che si fa in Occidente che non ha veramente nessun senso… ma veramente pensiamo che le poesiole alla Mariangela Gualtieri e alla Franco Arminio possano interessare le persone dotate di un minimo di intelligenza?
Complimenti invece a Ciccarone a Franco Intini e a Tiziana Antonilli.
Quanto ai «processi di soggettivazione» reazionari e populistici (che attingono sia la destra sovranista che la sinistra ribellista) ormai siamo arrivati alle estreme propaggini della falsa coscienza, di quella cosa che Zizek chiama il «supposto volere», cioè faccio quello che faccio pur sapendo (pensiero inconscio e semi conscio) che quello che faccio mi danneggerà; si tratta di linee di forza, di tensioni endopsichiche che attraversano le esperienze de-culturalizzate degli esseri umani. E sì perché si hanno esperienze soltanto presso gli esseri umani, gli animali non hanno «esperienze». Oggi le persone non hanno più «esperienze» ma riflessi endo psichici, reazioni endopsichiche di carattere psicotico. Sono fenomeni di massa. Reazioni de-culturalizzate. È incredibile che ci siano qui da noi ancora moltissime persone pronte a giustificare con vari argomenti l’aggressione brutale della Russia di Putin ad un paese sovrano, sono le stesse persone che gridavano contro i vaccini e contro la dittatura sanitaria e securitaria del governo… si tratta di vistosissimi fenomeni macro storici che bisognerebbe indagare con la psicanalisi lacaniana, si tratta di fenomeni di psicopatia delle masse, fenomeni borderline di massa. Per esempio, la poesia di Mariangela Gualtieri e di Franco Arminio riflettono questi esantemi psichici, si tratta di scritture de-culturalizzate, sfoghi privati.
Nel prossimo post dedicato a Stanislav Dvorský (1940-2020), con una sua poesia: L’inizio del gioco, il critico, Petr Král scrive :
«…L’immagine poetica e il tessuto di esperienze (e percezioni) intime che da essa origina si trasformano – assumendone via via la forma – in posizioni umane e morali, la visione è libera e mirata, diventa opinione e invettiva critica. Ciò non significa, comunque, che il punto di vista di Dvorský abbia trovato un’espressione diretta e che le sue immagini si possano leggere come una semplice dichiarazione o confessione. Al contrario, la catena di posizioni, nelle quali la poesia si trasforma, si sviluppa come un gioco raffinato e perfido con il lettore, dove l’atteggiamento significa piuttosto provocazione e confusione: un attacco beffardo alla consuetudine del lettore e la sua conseguente insicurezza riguardo la chiave del messaggio poetico e il modo di comprenderlo. La comunicazione passa attraverso la mistificazione, i pensieri e le visioni sono valide solo su un secondo e terzo “piano”, come una citazione ironica piuttosto che una confessione, il significato dei simboli apparenti non è racchiuso in essi, ma nella trappola tesa alla fiducia del lettore (e al suo bisogno di “verità”), il vero punto di vista del poeta si cela dietro la stilizzazione che offre al suo posto»
La spiegazione di Petr Král è quantomai eloquente e acuta laddove scrive: «La comunicazione passa attraverso la mistificazione, i pensieri e le visioni sono valide solo su un secondo e terzo “piano”, come una citazione ironica piuttosto che una confessione». Ecco, la pseudo poesia che va di moda in Occidente e in Italia (Mariangela Gualtieri e Franco Arminio) è, nella sostanza, un impianto di confessioni laiche, pensieri assertori, suasori e regressivi che si esprimono con un lessico e una sintassi de-culturalizzati.
È chiaro: Siamo entrati in un’epoca di mistificazione e di de-culturalizzazione generalizzata dalla quale sembra non sia più possibile uscire. Drammatico, vero? La poesia maggioritaria appare securitaria nel suo lessico bambinesco e leggiadro, infantile, ripieno di Borossigeno “Pagni” e di bicarbonato di sodio, di bollicine, di aperisol… sa di aperitivo…
Senza timore di apparire enfatico, mi sento di affermare che questa di Dvorsky sia grande poesia. Il suo ritmo sincopato di natura jazzistica, il suo apparato eidetico fatto di visioni folgoranti, l’immaginifica costruzione del suo verso ed il suo registro linguistico surrealista, lo rendono esemplare dal punto di vista della formulazione di una poesia in grado di definirsi attuale; analogamente, l’incisività “corrosiva” dei suoi testi è emblematica di quello che dovrebbe essere il vero ruolo della poesia e dell’arte in generale, rispondente alla necessità di mantenere alta la coscienza critica della società.
Come giustamente sottolinea Marie Laure, le emergenze in cui si sta dibattendo il mondo, rendono ancor più urgente ed indifferibile la necessità di individuare un “resa” espressiva che restituisca alle arti tutte (ma ritengo che la questione sia particolarmente cogente per la poesia, nella misura in cui è considerata essere per antonomasia l’espressione eccelsa dell’animo umano) il ruolo di spia luminosa in grado di dispiegare la contemporaneità in tutte le sue componenti, certamente anche quelle più intime dell’animo umano, ma che devono sempre essere antropologicamente riportate al “tutto” in modo olistico.
Al contrario e come giustamente evidenzia Marie Laure, assistiamo ad una narcotizzazione della coscienza poetica, ripiegata inesorabilmente verso un solipsismo avvilente e soprattutto, funzionale all’egotismo dominante, pericolosissimo in quanto ancillare all’obnubilamento della capacità dell’individuo di farsi soggetto cosciente nel processo storico della sua epoca.
Il risultato è quello che Marie Laure Colasson chiama giustamente de-culturizzazione, l’incapacità di saper elaborare delle risposte culturamente consapevoli, mediate, per rispondere a stimoli puramente pre-razionali, istintuali, denotando un forte depotenziamento delle delle facoltà intellettive-critiche: tutto ciò rischia di tradursi in un pericoloso assoggettamento ai vari populismi ed ideologismi messianici crescenti ai nostri giorni e dai forti connotati destabilizzanti, caratterizzati da una netta confusione fra un presunto controbilanciamento critico dell’informazione e la falsa informazione, capace di indottrinare una folta schiera di potenziali “volenterosi carnefici” di sinistra memoria.
Evidentemente, perciò stesso la divulgazione culturale e la rappresentazione artistica, possono e devono assolvere un ruolo importante nel risvegliare la sensibilità e l’intelletto verso il giusto vaglio critico e tanto più la poesia, con la sua capacità di leggere il mondo oltre il velo dell’apparente e di ricostruire la realtà frammentaria del nostro tempo, come propone il percorso della Noe: ed invece cosa avviene nel panorama della produzione dominante? Continua a proporci le poesie dei soliti noti che hanno ridotto già nei decenni scorsi la poesia a retorica da salotto, con l’aggiunta di nuovi “vate” improvvisati, tra i quali quelli giustamente citati dalla nostra Marie Laure.
Significativa in particolare, in questo senso, la parabola di Arminio, che partito da deboli, ma dignitose istanze sociali, si è sentito ad un certo punto intitolato au autoelevarsi a maître-à-penser, fondatore di non si capisce quale corrente di pensiero palingenetica, sviluppando una versificazione priva di quasiasi validità e profondità poetica.
E’ la traduzione in poesia dei falsi profeti del nostro tempo con tutto il carico di perigliosità connesso, nonché l’ennesima affermazione di egocentrismo, in linea con il “faccio quel che mi pare perché lo voglio io” che già ci ha condotto a questo sfondo da fine impero.
E qui torniamo a Dvorsky: la sua poesia è una dimostrazione chiara, di ciò che la poesia dovrebbe rappresentare, il miglior antidoto contro questo mondo clorofomizzato dalla mercificazione sempre più spinta, come fa la Noe e come sempre più significativamente la poesia tutta dovrebbe cercare di fare, pena il suo svilimento artistico.
Buona Pasquetta a tutti.
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Questa è una poesia Dada di bp nichol, ( 1944-88 ). Questo testo non può essere letto, ha senso solo in una performance. Comunica l’idea di un ritorno al linguaggio originario degli esseri umani fatto di urla, grugniti e sibili, una provocazione Dada. Leggo del grande Dvorsky , visionario e influenzato da Tzara, leggo i suoi bellissimi testi e il suo ‘concentrarsi su quei fenomeni che di solito sfuggono al conscio e alla riflessione’.
A me sembrano queste poesie un giusto equilibrio, tra surrealismo (base di partenza per molti poeti europei, ma non italiani) e “beatnik” (questi anche da noi), versione autentica europea – dell’Europa, un’idea immaginaria comune, incerta, penso l’abbiamo tutti; anche se la storia di questi giorni sembra volgere alla fine di tutto. Però è da un pezzo che va così, paesi rossi e paesi a strisce… Mi sono appuntato, del grande P. Král “costellazione di parole” , ”un nervoso accento jazzistico” e”un attacco beffardo alla consuetudine del lettore”.
Io non ho trascorsi surrealisti, penso però che ve ne siano negli interstizi tra i miei versi, dove non scrivo niente. Di recente, un amico ha scritto: “Mi sento del tutto inadeguato a valutare la tua silloge programmaticamente e rigorosamente priva di contenuti”.
Piano alterno antecedente Mile Davis.
Due stanze con bicchiere.
Confuso, con geranio, davanti al mare, bianco e nero.
Prima, e coi denti rifatti.
Mentre aspettiamo. E due chiedono la strada.
[…]
Arriva in tutta fretta. Ha le mani sporche di terra.
Seppellito, nascosto. Passa un taxi.
Many thanks.
Visibile, non al passo coi tempi. In South Dakota.
Qui tra i semafori. Rien ne va plus e
in piscina. – Cosa leggi?
LMT
le parole risultano appese come mollette sul filo dello stenditoio in attesa che la massaia vi appenda i panni da asciugare. Parole in attesa di asciugarsi al sole…
Riguardo alla poesia di Stanislav Dvorský, scrive Petr Kral :
«questa poetica “costellazione di parole”, l’uso coerente del potere specifico, proprio solo della poesia, dei singolari collegamenti tra le parole stesse: di ingannevoli collegamenti lessicali, nei quali l’aspetto verbale – per metà di idee e per metà puramente fonico – e quello grafico coprono tutti gli altri (narrativo, riflessivo e metaforico), si rendono indipendenti…»
Comprendo come la definizione che Kral dà alla poesia di Dvorský: «costellazione di parole», abbia colpito Lucio Mayoor Tosi, infatti quella definizione ben si addice alla sua stessa poesia nella quale le «esperienze» sono scisse e disarticolate dalle parole e sono anche indecifrabili e quindi non richiedono l’impiego dei verbi dimostrativi e di azione; nelle mini-poesie di Lucio non trovi mai i verbi volere, potere, né in genere verbi di alcun tipo, perché mancano le azioni, le azioni sulle parole che richiamano alla mente le azioni sulle cose. E quindi, scomparso il mondo delle cose, rimangono solo delle parole con le quali non ci puoi fare niente, niente di utile ai fini del discorso lirico della poesia tradizionale. E questo è il merito della poesia di Lucio, e anche la sua strategia di auto sottrazione dalle parole impiegatizie e giustificatorie, quelle che «formano» la loro riconoscibilità e quindi la loro auto legittimazione. È una strategia di fuga dall’ordine delle parole dei discorsi poetici «securitari» e «assertori» della tradizione poetica italiana. Ed è vero anche che nella poesia di Lucio non ci trovi nulla che richiami alla poesia del surrealismo… ma in Italia è difficilissimo trovare un poeta che abbia i suoi antenati nel surrealismo per via della nostra estraneità, tutta italiana, al movimento surrealista e alle sollecitazioni che la cultura del surrealismo ha avuto per esempio sulla poesia ceca (Dvorský, Petr Kral, Sebek, Napravnik, Ajvaz Reznicek etc.). Infatti, l’unico autore della poesia kitchen che fa una poesia di lontana derivazione surrealista è senza dubbio, Marie Laure Colasson. Ma lei è francese, di cultura francese, e questo spiega tutto. Altri autori kitchen come Francesco Paolo Intini, Mimmo Pugliese fanno una operazione di efficace effrazione delle parole e dell’ordine sintattico e semantico del linguaggio poetico, sul posizionamento delle parole all’interno di un certo quadro sintattico e semantico e quindi rispetto a una certa tradizione che ha avvalorato e legittimato «quel» quadro sintattico e semantico. In una sorta di via mediana sta ad esempio la poesia di Ewa Tagher, di Giuseppe Gallo e di Alfonso Cataldi. Potremmo dire che l’autore che più si avvicina alla poesia di Stanislav Dvorský è Gino Rago, il quale però insiste molto di più sull’aspetto di decostruzione dell’ordine assertorio e monolocale della poesia italiana tradizionale, puntando molto sull’iperbole, su situazioni ultronee e quindi su una idea di poesia «situazionista». Anche la mia poesia è, in una certa misura, una poesia ultronea e «situazionista».
Questo per dire come una certa «costellazione di parole» si riallaccia sempre a un certo modo di vedere il mondo e di incorporare un certo linguaggio. È il linguaggio ciò che ci consente di incorporare un certo modo di vedere le cose.
Sempre quel mio amico: “Noto nella struttura compositiva una tendenza alla sintesi, una sorta di cortocircuitazione semantica che, attraverso il registro dell’omissione, potrebbe condurre ad uno sbocco presumibilmente apofatico. Chissà…”. Qui allude a vie di misticismo negativo, ma io so che il misticismo non può essere affrontato di petto, direttamente, a meno che tu non sia profeta o maestro spirituale; in realtà l’omissione è diretta, come ben scrive Giorgio, a sottrarre aspetti lirici della poesia tradizionale. Infine a negare qualsiasi discorso (quasi mai oltre i due versi). Ma questo è presente anche nelle poesie kitchen di altri autori, ai quali importa dell’evento di scrittura. Ecco perché ”un nervoso accento jazzistico”, scandire con silenzi laddove servirebbe un discorso descrittivo. La musicalità non è centro di interesse (se manca il discorso), ma è nel ritmo delle parole evento e nella loro sonorità. Niente di nuovo, quindi, eppure tanto di nuovo.
L’icononologia dell’immaginario de-politicizzato
Il montaggio è la pratica teoretica della comunicazione. Anche la poiesis in quanto costituente della realtà è, in se stessa, nel senso antropologico, sempre fiction, funge da «sostegno» del Reale lacunoso. La poiesis è ciò che costituisce il Reale ma ha una consistenza insostanziale, invisibile, come invisibile è il fantasma che lo abita. La nuova poiesis ha acuta consapevolezza del legame che sussiste tra il fantasma e il Reale, nega legittimità al mito di un significante fondamentale, di un dire originario e di una metafora fondamentale; non si dà nulla di fondamentale né di originario, e il fantasma ne è la contro prova. Ciascun essere pensante ha i propri fantasmi, la propria solitaria scena fantasmatica, se non ci fossero i fantasmi il soggetto non potrebbe sopportare il trauma dell’irruzione del Reale nell’ordine simbolico; così, la smagliatura nell’ordine simbolico ristabilisce il contatto con la realtà.
L’icononologia dell’immaginario de-politicizzato si inserisce nel «montaggio» del materiale poetico in quanto indizio di una inversione radicale nella quale il pensiero poetico si disidentifica da se stesso per farsi fantasy, filmografia; la fantasy si disidentifica da se stessa, per divenire pensiero-filmografico, truismografia dell’immaginario. La pratica del «montaggio» kitchen non è inscrivibile nelle consuete estetiche novecentesche, dal detournément situazionista, alla «macchina desiderante» di Deleuze-Guattari, e chiarisce anche il motivo della importanza capitale del «montaggio dell’immaginario», della coppia: Reale/ Immaginario. La riduzione del Reale da trauma a spettro, e dell’Immaginario da riflesso narcisistico e scenario fantasmatico a categoria ontologica, è uno dei punti decisivi e più importanti della modalità kitchen e del suo modo di operare. Il fantasma che inerisce al soggetto (fantasy) differisce dalla ideologia (social fantasy) delle società della rappresentazione, esempi ne sono la moda e la letteratura di intrattenimento, ma può dispiegare un livello di fantasizzazione del reale come autentica dimensione trascendentale intersoggettiva. L’immaginario è la determinazione di un momento dialettico. Il montaggio del materiale poietico non è un mero succedaneo del momento dialettico ma è il momento dialettico stesso nel suo operare attraverso la fantasizzazione del reale.
L’immaginario è il colpo di bacchetta magica capace di trasformare il nulla della fantasy in qualcosa, in un ente: il nulla della fantasy, pur restando nulla, può produrre effetti reali diventando un sostegno del reale in quanto il reale è insufficiente a colmare le lacune del soggetto. La dialettica che si svolge nell’inconscio del soggetto comporta una implicazione decisiva: che per creare un oggetto immaginario anche il soggetto debba «irrealizzarsi», diventare immaginario.
Non c’è alcuna fantasia fondamentale perché, se ci fosse, una volta realizzata si dissolverebbe. Non è la verità fondamentale ma la menzogna fondamentale, la bugia secretata che tiene oscenamente insieme i frammenti sparsi della soggettività.
Poetry kitchen
Assiomi
il linguaggio è una struttura disantropica che risponde a leggi sovraindividuali ma il soggetto non è un epifenomeno ma un centro di attività, di prassi, di movimenti che incidono il Reale e vi aprono delle fenditure
In realtà il poetico è un nulla di che, non c’è non si dà, il poetico è semplicemente fuori, non un dentro, non uno spirito, non un interno, non aleggia tra le cose ma è nelle cose, è un altro modo di vedere le cose
uno spettro si aggira per il mondo della poesia di accademia che si fa in occidente… lo spettro della poetry kitchen e del soggetto non cartesiano
Le condizioni di possibilità della memoria sono connesse alle condizioni di possibilità di avere delle esperienze, ma quando le esperienze diventano problematiche anche la memoria diventa problematica perde il filo della matassa. E si perde.
Quando la filosofia si riduce a storia della filosofia, la filosofia della storia si sostituisce alla filosofia, e il poetico diventa la storia della poesia, cioè un luogo, un feticcio, un totem de-storicizzato, un nulla di che.
La pessima poesia soliloquiale e monolocale che alberga in Europa e in Occidente è una autodichia permanente, è completamente errato perseguire e inseguire il senso in un mondo palestrato di populismi, di fondamentalismi e irrazionalismi.
Il tempo: dal passato verso il futuro o dal futuro verso il passato? Tempo ciclico
Tempo lineare
Tempo puntiforme
Tempo distopico
Il concetto di Tempo nella nuova poetica,il tempo, come il fiume congelato, non scorre, è fermo
Tanti auguri a tutti i lettori de l’Ombra di una serena Pasqua…
https://www.nbcnews.com/think/opinion/russian-ukraine-war-ukrainian-army-winning-rcna22415?cid=referral_taboolafeed
The secret to the Ukrainian military’s success
Ukraine’s conduct is a warning to U.S. leaders that a technically inferior adversary can impose surprisingly sharp costs.
Ukraine forces push back Russian troops outside Kyiv
April 1, 2022, 12:37 AM CEST
By Sébastien Roblin, military writer
Russia’s awful military performance in Ukraine has been the greatest surprise to emerge from President Vladimir Putin’s unprovoked invasion, confounding military analysts who had observed tactical and technological improvements in the Russian military in preceding years.
By now it’s clear that Putin’s ambition to capture the port of Odesa and the capital of Kyiv in western Ukraine is almost certainly unrealizable, forcing him to drastically downsize his objectives while disingenuously claiming that had been the real intent all along.
Putin’s onslaught temporarily bridged long-standing divisions between Ukrainian and Russian speakers within Ukraine, as well as between political rivals, creating a unified, coordinated force.
But there’s a flip side to this story: The Ukrainian military has also defied expectations. In the case of the Ukrainian armed forces, they’ve performed well beyond what was anticipated despite a profound imbalance in military capabilities, particularly in air and naval power and long-distance missiles.
The secret to Ukraine’s success rests first of all on its mindset — one Russia itself has strengthened — backed up by dynamic military strategies that have exploited the weaknesses of a powerful, overconfident adversary.
For starters, the Ukrainians came into the war with a drastically greater will to fight in defense of their homes and way of life. As Napoleon once put it in explaining factors behind military success, “The moral is to the physical as three is to one.” Accordingly, Ukrainian units are not panicking and evaporating under intense pressure, instead holding out for weeks in besieged cities like Chernihiv and Mariupol. And when facing setbacks, Kyiv’s troops are aggressively and rapidly counterattacking, often checking or reversing Russian gains.
This spirit has been inflamed by Russia’s brazenly unprovoked invasion. Putin’s onslaught temporarily bridged long-standing divisions between Ukrainian and Russian speakers within Ukraine, as well as between political rivals, creating a unified, coordinated force for confronting the invaders. Even occupied cities with predominantly Russian-speaking populations — which have traditionally been more favorably inclined toward Russia — are actively resisting through civil disobedience and protests.
By comparison, Putin seems to have poorly communicated his intentions and objectives to ordinary Russian soldiers, which didn’t instill a strong commitment to the fight among the rank and file. He spent months ridiculing suggestions that he was preparing for war in Ukraine, claiming deployments around the country were simply military exercises. Now some soldiers appear quick to abandon vehicles or surrender rather than die for a war they’re simply not sold on.
The Ukrainian mental edge was already evident in 2014 and 2015, when Putin started aiding pro-Russian separatists in eastern Ukraine and Ukrainian soldiers resisted so stubbornly they were nicknamed “cyborgs.” By 2021, Ukraine’s military had years of combat experience and were demonstrably stronger thanks to new weapons, military aid and tactics, which is part of why I wasn’t confident that those who doubted how the Ukrainian armed forces would perform in this contest were correct.
Still, I joined the skeptics in thinking Ukraine’s air force could not long survive vastly superior Russian air power in a full-scale conflict or that ground forces outside of cities could long survive the lack of air cover. But with limited means — just around 100 combat aircraft, less than a tenth of Russia’s more modern force — Ukrainian fighter pilots and ground-based air defenses still contest the airspace over Ukraine, inflicting losses and compelling Russia to use its warplanes less effectively.
One shouldn’t exaggerate: Russia is calculated to be flying a few hundred combat missions daily; Ukraine is averaging less than a dozen, and its air force has suffered important losses. But Russia’s warplanes are relying more and more on inaccurate bombs dropped from high altitude and expensive, limited-supply cruise missiles. When they don’t, Russian jets are getting shot down by short-range missiles, including portable weapons sent by NATO.
To overcome these huge Russian advantages in the sky, Ukraine has waged a guerilla air war of sorts. It apparently dispersed combat aircraft to secondary air bases, or possibly even highways, just before the invasion to avoid their being wiped out on the ground by Russian missile strikes.
Its ground-based air defense batteries, meanwhile, are only briefly activating their radars to ambush Russian warplanes — often aided by a World War II-style network of spotters on the ground — to be harder to track. Kyiv is also reaping dividends from the unmanned aircraft it wisely invested in, picking off Russian fuel transports, command posts and air defense vehicles. Russia’s military is struggling to shoot down these small, slow-flying aircraft, perhaps fearing their powerful jammers could harm communications with their own planes.
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Ukraine’s military has arguably managed to blend its inherited Soviet-era legacies — abundant artillery and armored vehicles, greater reliance on ground-based air defenses than fighter aircraft — with selected Western advantages such as the practice of empowering noncommissioned and junior officers on the ground to take initiative, and using intelligence to stage precision attacks. These have killed seven Russian generals, according to Ukraine, and devastated a Russian helicopter base.
Notably, stealthy teams of Ukrainian infantry have ably used thousands of portable long-distance anti-tank weapons supplied by the West, as well as manufactured by Ukraine itself, to disable hundreds or more Russian armored vehicles and supply trucks in ambushes and hit-and-run raids. There’s often an instinctive desire to use heavy forces to fight heavy forces, when sometimes well-armed soldiers on foot can do the job better because they’re less likely to be spotted. Ukraine showed foresight in focusing on these types of weapons requests from allies.
Above all, Ukrainian forces have fought asymmetrically: Rather than seeking to stop Russia’s superior might on the border, the Ukrainian leadership has used Ukraine’s sheer geographic expanse as a strength in itself, recognizing that major cities can serve as deadly tar pits for attacking forces. As a result, it’s yielded indefensible open ground while stoutly holding on to densely urbanized areas. Russian troops, therefore, are left with stretched-out and vulnerable lines of supply, with large forces dedicated to surrounding cities they can’t capture to protect these supply lines. To help offset the mismatch further, Ukraine has been highly nimble at distributing imagery of battlefield successes and humanitarian distress to rally Western support.
The Ukrainians came into the war with a drastically greater will to fight in defense of their homes and way of life.
Of course, it would be wrong to characterize Ukraine’s war effort as flawless. Ukrainian President Volodymyr Zelenskyy, for instance, failed to fully mobilize until after Russia initiated hostilities. The political rationale behind this — avoiding giving Putin an excuse for an attack, as well as prematurely damaging the Ukrainian economy — might have been the wrong calculation, since it helped Russian troops rapidly seize three medium-sized cities in southern Ukraine at the onset.
Furthermore, dozens of Ukrainian troops have been killed by Russian missile attacks while sleeping in barracks. Their quarters should have been dispersed. And the coming weeks will test Kyiv’s decision not to pull back veteran brigades from the eastern Donbas region, where they remain at risk of being surrounded by encroaching Russian forces.
Regardless, the Ukrainian military’s conduct should give NATO plenty to learn from. If nothing else, it illustrates to U.S. leaders how a technically inferior adversary can impose surprisingly sharp costs on a seemingly overwhelming foe. Since Vietnam, the U.S. military hasn’t fought a major war with a state-level adversary with highly motivated soldiers and capable military leadership. Ukraine is now providing an object lesson in how and why that’s a dangerous combination to underestimate.
Riprendo un mio commento alla poesia di Lucio Mayoor Tosi del 1 febbraio 2016
Scrive Lucio Mayoor Tosi:
«Sarà poesia quel che diventerà voce e commento di molte immagini.
Esattamente come Omero tanti secoli fa».
Aboliti l’arbitrarietà del segno linguistico e i significanti, ciò che resta è la mera materialità delle icone linguistiche e l’impiego dei simboli iconici che si convertono nei loro correlativi materici. Come è noto, la messa in rilievo della forma del «messaggio» in facebook e in twitter, acquista caratteri fisici e ottici. Un fenomeno analogo avviene in queste composizioni di Lucio Mayoor Tosi. Il «messaggio» è, in primo luogo, la sua superficie, comunica la propria corporeità nella misura in cui scrivere non è più un atto di pensiero che soggiace nel soggetto ma diventa un gesto che conserva del proprio gesticolare una materialità extralinguistica, una corporeità extralinguistica. Tipico ad esempio è la candida ammissione di Lucio Mayoor Tosi di non sapere affatto quale che sia il «significato di quel che scrivo», appunto perché non c’è un significato ma tutti i significati possibili e immaginati dal lettore. Tutti i significati compossibili. È una scrittura eminentemente ottica e iconica, ma le icone sono come svuotate di contenuto e se ne stanno lì a denotare dei referenti che nel frattempo si sono spostati, si sono dis-locati. In questo modo, Lucio Mayoor Tosi attua la presentificazione ottica di ciò che sta al di là della icona linguistica con un uso spregiudicato di fraseologie disconnesse e lambiccate. Una scrittura eteroriflessiva, dunque, che ha rinunciato alla auto riflessività delle scritture elegiache incentrate sulla memoria; una scrittura che fa le bucce alla realtà extra segnica, alla matericità che sta oltre il segno linguistico. La cella dell’«io» è scomparsa, inghiottita dal vuoto della significazione. E con esso tutto il mondo oggettivo si dissolve in una miriade di appercezioni.
Scrive Lucio Mayoor Tosi: «Avrei potuto essere un altro». Eccellente ammissione di colpa: ormai l’«io» se ne è andato per i fatti suoi, ha preso congedo, ha dismesso l’abito di scena.
Scrive Lucio Mayoor Tosi:
«Da non so Quale ombra mi venne incontro
ier sera un verso perso: io sono l’amante mia».
Dove è chiaro che qui c’è una disconnessione e una duplicazione allo stesso tempo tra l’«io» e «l’amante mia», tra l’io e l’oggetto. Le tipiche disconnessioni della scrittura di Mayoor Tosi prototipiche di una frattura che sta a monte della significazione e che la scrittura però può non evocare se non in un laboratorio alchemico fitto di alambicchi e di liquidi fluorescenti che ribollono e zufolano.
Caro Petronelli,, e altri,
faccio fatica a considerarli versi quelli su qui pubblicati. E poi sono costellazioni di “banalità”. La grande poesia ceca (o boema se volete, anche se sa di trapassato remoto) sembra finita, ma non è così.
P.e. ci sono i versi della Rudcenkova che ancora danno lustro.
A tutti i costi si vogliono far passare per versi quelli che invece sono delle descrizioni, pure difficilmente poetiche.
Non ci siamo,
Perché intanto bisogna essere degli specialisti (slavisti in senso generale) per riconoscere i poeti veri dai falsi. Non che questo sia sempre ogni qual volta necessario, perchè la poesia si riconosce subito, senza essere dei boemisti., in questo caso.
Non sempre la quotidianità descritta diviene poesia, anzi raramente.
E Linguaglossa qualche volta, ma recentemente, mi dà ragione.
A. S. – Roma 19 aprile 2022
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Quanto alla poesia ucraina non ha eccelleze di rilievo e infatti non lo sono per niente, forse qualcuno nell’800.
Di scrittori eccellenti ne abbiamo tanti, un caso per tutti è Gogol’, ucraino ma considerato scrittore russo (scrive in russo e non in ucraino, dunaue)…
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caro Sagredo,
di solito chi legge la poesia di altri poeti si limita a leggerla dal punto di vista della propria posizione in poesia, e questo è un errore perché non si darà mai una coincidenza di punti di vista, sicché tutti gli altri modi di fare poesia considerati da un punto di vista risultano necessariamente inadeguati e fallaci.
Si legge la poesia altrui restando nella propria poesia. E questo è un limite.
Io personalmente leggo la poesia altrui mettendomi in una posizione di fuori-poesia, cerco nella poesia degli altri poeti quello che la loro poesia mi dice di nuovo o di ignoto alla mia personale esperienza della poesia. Sicuramente un grande merito della poesia di Stanislav Dvorský è quello di non esporre la propria poesia in vista su un balcone con parole forti o con trasognati sentimentalismi o con immagini «belle», la traduzione di Antonio Parente ci restituisce nella lingua italiana un modo di fare poesia che va per linee interne. Andare per linee esterne è davvero un modo scontato di fare poesia, per linee esterne si fa poesia didascalica, realistica. Volete degli esempi di poesia didascalica e mimetica ben fatta? Ve la do subito: è la poesia di Giovanni Giudici o di Pagliarani, La vita in versi (1965) e La ragazza Carla (1961) sono poesie didascaliche che assumono un modo di fare poesia mimetica e realistica scegliendo dei personaggi e delle situazioni emblematiche. Sto parlando di due poeti che hanno scritto le loro cose migliori proprio negli anni in cui Dvorský scriveva le poesie qui pubblicate. La differenza della impostazione con quella del poeta ceco salta agli occhi subito. E anche la novità di impostazione del poeta ceco.
Dvorský fa un discorso poetico tutto basato sullo shifter, su delle deviazioni minime, quasi non avvertibili che vanno a modificare come un sottofondo continuo il piano del discorso introducendo discorsi sotto stanti e laterali che entrano in commistione con il discorso incipitario centrale, anzi non c’è alcun discorso centrale ma tanti discorsi laterali che diventano o tentano di diventare centrali. So quanto questo argomento possa risultare ostico ai palati poetici italiani medi, ma è così. Provate a scrivere una poesia che si muova per linee interne, invisibili ad occhio nudo, che si estende come una invisibile ragnatela per tutto il componimento. È molto difficile.
Tanti auguri a tutti i lettori de l’Ombra di una serena Pasqua…(HAZEL)
INFATTI… ALLA GUERRA SI ADDICE LA SERENITà, MA DEI MORTI!