il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia
(Vincenzo Vitiello)
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(Gilda Policastro)
Pasolini nel 1975 in una intervista pochi mesi prima del suo assassinio, scriveva:
«Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come».1
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Oggi siamo giunti alla completa de-politicizzazione del politico e del privato, le pratiche artistiche si sono ridotte ad apparato decorativo e di intrattenimento, molto diverse da quelle delle occupazioni serie, quelle rette dal plusvalore e dalla valorizzazione del capitale. I conflitti politici si sono de-politicizzati, così come i conflitti estetici; il valore trasformativo del conflitto si è mutato in contro-valore, in conflitto controllato, autoregolamentato. Ad una poiesis critica oggi non resta che porsi nel turning point dei conflitti, diventare protagonista dei conflitti estetici implica accettare il rischio dei conflitti come possibilità celibi.
C’è oggi una nuova modalità poietica: è possibile aprire un campo di possibilità celibi?, è possibile una adozione dei conflitti nell’ambito della poiesis con tutti i suoi corollari: il rifiuto, il diniego, la sottrazione, la provocazione, il gesto, l’interruzione quali atti spendibili e possibilizzazione di alternative? Il conflitto per la trasformazione coincide con la trasformazione del conflitto, il campo dove si determina la possibilità di un progetto per una nuova poiesis; nell’asserzione pratica delle differenze si apre la possibilità di una mise en acte di una via di uscita dalla normografia autoregolata. Una nuova sfera pubblica nell’ambito della forma-poesia passa necessariamente attraverso una nuova pratica delle differenze e delle possibilità celibi, cioè senza la utenza dell’io plenipotenziario e legiferante. La nuova prassi può essere soltanto celibe, non-trasformativa, non-rituale, cioè rivoluzionaria. L’unica alternativa è il cambio di paradigma. Forse Karl Marx non è ancora del tutto morto.
Resta il problema di prendere il testimone là dove lo avevano lasciato Fortini e Pasolini; quest’ultimo prima di morire, indicava la via di una poesia rivoluzionata: pluristilistica e plurilinguistica, in un certo senso rilanciando e correggendo l’idea sanguinetiana per un neosperimentalismo pluriprospettico e critico, una poesia labirintica ed ermafrodita, pluristilisticamente composita e plurilingue, una poesia da palus putredinis liberata dai liquami intersoggettivi del poetismo conventuale della tradizione lirica e antilirica novecentesca.
La storia letteraria salta le generazioni. Dagli anni settanta al 2019, data di esordio della nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen ha operato per riannodare il filo che si era spezzato per ragioni storiche e di conflitto tra le poetiche normative e autopubblicitarie che si sono avvicendate negli ultimi cinque decenni secondo una visione dei rapporti di forza tra le istituzioni stilistiche: c’è stato in questi anni chi ha operato attraverso l’adozione di composizioni in stile palus putredinis con il superpiù della rivoluzione internettiana e della compiuta transvalutazione dei valori antropici della società italiana avviata ed avvitata in una crisi di stagnazione e di pauperizzazione sistemica, ma si trattava di una via permanentemente sbarrata la cui impasse era ben visibile a monte, in quella pratica di un riformismo neosperimentale che coniugasse il registro «basso» con quello «alto» della tradizione poetica. E invece una crisi sistemica si è abbattuta su una società signorile di massa, quella italiana che non consente più alternative possibilistiche che si muovono nell’orbita di un riformismo moderato, di una opzione tra registri e lessici distanti in vista di una loro coabitazione riformistica e autonormata.
È accaduto in questi ultimi decenni la sovrapposizione del «poetico» e del «cafone», che nella seconda Repubblica ha separato artatamente l’endiadi sopra citata optando per il «poetico» sussiegoso ed ermafrodito della poesia auto pubblicitaria e posiziocentrica. Le istituzioni stilistiche hanno oscillato in questi ultimi decenni «tra il poetico e il cafone» (Gilda Plicastro), con scambio di registri linguistici come se fossero davvero equivalenti, l’uno per le finalità dell’altro; per reazione nevralgica, ha avuto luogo un flusso vocabologico anfibologico e virtuosistico che locupletava preziosismi linguistici trattati come relitti poetici e lacerti cafoneschi della massa implebata di oggidì commistandoli con i poetismi ermafroditi. Il risultato è un patchwork meticcio, ortopedico, tipico il caso dei testi di Jolanda Insana. La Policastro invece tiene ferma la linea Maginot del Laborintus (1956) di Sanguineti coniugata con il bisbidis del secondo Sanguineti, per approdare alla palus putredinis del mare della tranquillità della forma-poesia italiana di questi ultimi cinque decenni arrestatasi al capolinea della stagnazione linguistica e stilistica. Il tempo delle poetiche personali e auto promozionali è giunto al capolinea e non avrebbe senso alcuno procedere per via di riformismi moderati che in realtà portano acqua al mulino della opzione per la poesia a vocazione maggioritaria. La Policastro opta per un mistilinguismo e un multistilismo di matrice neosperimentale, un magma lessicale composito che coniuga lessemi culti («cronotopo»), fraseologie autoriferite («tanto lo so che ti piace Gilda»), lessemi di derivazione tecnologica, dal mondo dei media e dei social network («byte», «keyboard», «ps vita», «wii», «switchando», «highlights», «hashtag», «post-it», «video chatta», «Wikipedia»…), lessemi del dialetto romanesco («je so’ saliti sopra», « Nun se dovrebbe lavorà pe’ llegge quanno fa freddo»), e il lessico raffreddato delle istituzioni stilistiche («situabile toponomastica di prevalenza terrona», «ellissi», «ipotassi», «metanarrativo», «autocoscienza», «forme disfunzionali»); tutto questo lessico convive in un magma ultrasemantizato con lessemi gergali («coccofrescoccobello», «megacosi») e lessemi di greco antico commisti a sigle, abbreviazioni, citazioni: «Cortegiano», «Leopardi», «bisbidis» il tutto convergente e coagulantesi in un conglomerato linguistico appositamente inattuale, direi, surrettizio, feriale; trattasi di una procedura linguistica che tende alla ipersemantizzazione dei linguaggi già devalutati e desemantizzati nella loro provenienza e de-istituiti ab ovo, un mash up di linguaggi alogeni, a luminescenza infreddolita e indebolita.
In proposito scrive Gilda Policastro nella nota in fondo al volume:
«Annoto perciò le frasi che orecchio ai tavolini del bar vicino casa come sull’autobus o sui treni. Annoto quando c’è da annotare, cioè quando qualcosa dal rumore di fondo, dal chiacchiericcio quotidiano e volgare si pone in evidenza per originalità o straniamento; di solito è qualcosa che somiglia alla massima di buon senso ma che in realtà ne rovescia l’attendibilità e l’unanimità: «la verità è che i quattro salti in padella nun so’ cattivi» è stata la prima epifania sonora, in un locale all’aperto di Testaccio. Fu poi la volta degli scaricatori di bibite davanti a un supermercato: «La verità è che da novembre a febbraio nun se dovrebbe lavora’», fino a «Lascia stare che Ibiza in sé è sbagliata», sentita in coda al cinema. Ora che ci penso quello che apparenta le massime che isolo dal discorso comune è sempre questa simulazione o dispendio di assertività sapienziale, un finto deposito gnomico consegnato a una boutade paradossale o ironica, spesso nel dialetto del posto (soprattutto il romanesco, visto che è a Roma che vivo)».
Si può affermare che oggi è davvero problematico agire su un testo poetico in quanto i registri linguistici in circolazione nelle società metal mediatiche sono ipertesti e pre-testi già in sé, sono già in sé montaggi e compostaggi di altri testi che li precedono, e in tal senso sono già stati decostruiti a monte; oggi la problematica assillante che un poeta si trova ad affrontare è che il testo è diventato un pretesto, che non si può dare e dire nulla di definito e di definitorio in un testo che si presenta come un quasi-testo privo quindi del sigillo di autenticità, privo di certificazione di origine controllata, privo di autorialità originaria.
1 https://www.cittapasolini.com/post/il-nudo-e-la-rabbia-intervista-a-pier-paolo-pasolini-1975
(Giorgio Linguaglossa)
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Nota biobibliografica
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Gilda Policastro è scrittrice e critica letteraria, originaria della Basilicata, vive a Roma. Cura la Bottega della poesia per il quotidiano “la Repubblica” ed è redattrice del sito Le parole e le cose (2). Insegna poesia presso la scuola di scrittura Molly Bloom e Letteratura e Diritto presso l’Università Luiss – Guido Carli di Roma. Ha pubblicato i romanzi Il farmaco (2010), Sotto (2013) e Cella (2015), La parte di Malvasia (2021), libri di poesia tra cui Non come vita (2013) e Inattuali (2016), saggi di teoria e critica tra cui Sanguineti (2009) e Polemiche letterarie. Dai “Novissimi” ai lit-blog (2012), L’ultima poesia (2021).
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da Inattuali
n. 3
parlate piano
non vi seguo
dovete dire delle cose
e dovete farlo piano:
quando parlate non vi capisco
parlate piano, andate più piano,
non correte, indugiate sui nessi,
sciogliete le ellissi,
contraete l’ipotassi, non vi seguo,
andate piano, aspettatemi,
provate ad ascoltare anche me, datemi il tempo,
sono più lenta, non vi seguo,
mi sentite, non vi capisco,
fermi, insistete sul concetto, soffermatevi sui nessi,
insisto, i nessi vanno meglio definiti,
chiariti, ripresi, meno gossip,
per favore, e più nessi,
meno parentesi, più fatti; fare i fatti,
non le parole: le parole, meno importanti dei fatti, ma voi
parlate tanto, parlate
sempre, parlate tutti troppo,
non seguo il ritmo, si affastellano
i concetti, non si trovano significati,
rimane tutto sulla superficie delle cose, non li vedo, i nessi,
vi prego, andate più piano, per favore,
aspettatemi, lasciatemi dire una parola
col mio ritmo, col tempo di formulare un pensiero,
di stenderlo senz’avanzi tra un nesso e l’altro,
non copritemi, non travolgetemi
sempre, fate piano,
avverto un fastidio
alle orecchie, un acufene penetrante, le parole invece
non arrivano, se ne vanno in fretta, non resta niente
in me, non si deposita se non rivestite di parole concetti
meno fluviali e più consistenti, non coprite la mia voce
più bassa, non chiudete al posto mio
una frase disarticolata,
lasciatemi balbettare il mio bisbidis,
provate per una volta ad ascoltare o, almeno,
se dovete proprio continuare
a parlare, non copritevi l’un l’altro,
uno per volta e, vi prego, andate piano,
parlate piano anche se forse non vi seguo
lo stesso, ma provateci, scambiamoci di posto, afasia con sordità,
logorrea con abitudine al rumore, alle parole dette tutte insieme, al traffico,
al chiasso, venite ad abitare dove abito io, in mezzo alle strade, ai violini
che suonano al pomeriggio, al dentista che trapana i denti
e videochatta con la badante di Lucia, sua madre
(Valentina, mi senti, Valentina?),
scambiamo il silenzio della campagna
con la vita in comune dei condomini
(alloggi della ferrovia, coi muri sottili:
Mirko di Tecnocasa), e poi vediamo chi è più bravo
a parlare, scambiamoci di posto: io,
al tavolo, a decidere, loro a servire (il cameriere di
Cernobbio, dei tecnici) Ssst, e zitti, coglioni!
la poesia va ascoltata in silenzio,
questa vostra distrazione ci sta uccidendo,
e ci scordiamo dell’Ilva
e di tutto il resto (ma non riusciva da solo, il poeta,
a farsi ascoltare quando le sue parole
sovrastavano il chiasso e quando il silenzio
lo facevano a poco a poco gli anni
che si rileggono, dopo, quelle stesse parole e dici:
ma ti ricordi, di quella volta, com’era bravo,
il poeta,
a farsi sentire,
in mezzo a tutto quel chiasso):
“il poeta buono, l’unico, è quello morto”
*
n. 8
meglio un fiore oggi che
basta fiori, mi spunta
un fiore in bocca
se son fiori resteranno
fiori a chi tocca
(basta fiori)n fiorello
fiori, fiori, fiori tutti l’anno, dobbiamo
essere dalla parte dei fiori
resistere non serve ai f ate vobis i te missa o ra pro nobis
r elata refero i mo fiore in alto
i fiori
d’arancio
rossi per me, ho comprato stasequesto fiore non
si nega a nessuno ma
le canzoni son come un fiore-detto
d’amore (parlano di te)
fiori crisantemi, violacciocche,
gelsomino notturno, digitale –
power people have the flowers
l’estetica dei fiori, aggiungi un fiore
del Cairo (- purpurea, cos’è poi l’ocra)
i quattro fiori in padella
ho perso un sacco di fiori
state fiori se potete
sottosopraffiori
nell’impero dei
fiori a pioggia, a tutta birra a
gogo, nell’investimento,
nella rissa dei fiori al senato
sono fiori tutto il week-end per
la ristrutturazione, l’intercapedine floreale, la passeggiata
ai fiori imperiali, che rottura
di fiori hai notato, assaggia quel fiore
no, e se le foglie respirano
all’ultimo fiore, sei un figlio dei
fiori fin(i)ti, s’era assopito
un fiore, non recidere forbice quel –
di palo in fiore, andarcene con le pive nel
fiore per i morti,
fioretti, manco l’ombra di un –
dai tempi del fiore, in punta di
fiore, dài tempo al -,
per me solo fiori, grazie, e nient’altro,
in regime di fiori (opere di bene no?)
il giusto rapporto fiore-prezzo,
ci vai tu a prendere i fiori a scuola?
*
n. 13
Nel dolorificio tu non tormenti gli amici con le ubbie matrimoniali
non spieghi la metafora a tua figlia con sei bella come il sole
(nella fase dei perché apocalittici e mamma come nascono)
o se, per un caso sui miliardi possibili, la incontri dove non dovrebbe stare
non accorri a documentarla, perché no, non ha alcun interesse per me,
nel dolorificio, di quanti private message sfilaccino
la tramatura dei se e dei perché non –
Nel dolorificio ci sono i pescecani o anche i cani soli,
io so e darò le prove: testimone
del non so dov’era né com’è andata,
ma se c’erano dei sorveglianti l’hanno calata
nel dolorifico e la madre spera (non pratica l’ellissi,
ogni minuto particolare)
nell’altrovevita se non altro per fotterli, fuor di metafora
Nel doloroficio mancano loro, e ne parlavi subito
ma adesso mai, perché quando era presto riavvolgeva da capo
il filo della pesca à rebours e adesso l’intervallo-ἐποχή alterna lo sconcio
del caro rimembrare con l’ombra secca dei cumuli lapidari:
sei, nel doloroficio: stecco
chiuso
giallo
Quando esci dal dolorificio ti aspettano di sotto, oppure: no,
non sanno di preciso come muoversi dentrintorno Tutti lo fingono,
ma nessuno veramente lo apprende tu, tu solo, nel dolorificio hai capito
la morte e la spalmi sulle nostre diatribe quotidiane come burro ontologico:
grasso che cola se non ce ne andiamo tutti come in Giovanni
le cose di prima non saranno
nel dolorificio a vestircene la bocca e foderarci il teschio
travisato dal make-up secolare
Quando ci siamo noi, che ne parliamo, ne parliamo sempre e non ne
profittiamo
se ci spianano la strada: un’idea nuova e l’agone dei perché nei social epitaffi
e le squadre di chi lo sa e chi no
tu, per esempio,
l’incalzare delle fiamme di cui parlava
la depressa nel romanzo, e dall’altra parte falling man che pareva
il sollievo ed era,
rispetto alla cosa (specie quando non erano le effettivamente fiamme
nel dolorificio, a braccarti), un modo soltanto,
malgrado i differenti squilibri
e per qualcuno hobby quello che ad altri è patto
Quanto più sei giovane sarai divertito se no buh, fuori
nel dolorificio
PG non guarisce le ossa spolpate dall’a tutti i costi dieta
con la Ferrari: ha 27 anni,
e in tre soli rapidi mesi la risolve PZ, a 41, da cirrosi in morte subitanea
LP ne ha 63 quando l’ospedale la studia da cavia
degli endoscopici i più invasivi:
un successo l’intervento con tutte le metastasi
tranne quando non si evidenziavano, che poi difatti muori
nel doloroficio, d’incidente o di cancro
e se trascolori nelle giornate vuote finisce che balli
e se traballi che resta, che resta di te
fino a domani, fino a tutti i domani in cui la terra vive come opaco –
e mamma, allora, che cos’è la metafora, che cos’è
una cosa che dici con altre parole e una vita che vivi come fosse ogni giorno
morte da illeso morte e nient’altro, fin quando puoi,
e per il resto
passo:
non sono brava, con i finali
[È già da tempo che il diagramma della conflittualità intrapsichica e intersoggettiva delle masse occidentali segnalava una brusca impennata e la de-politicizzazione raggiungeva livelli di guardia. La forma-poesia e i suoi linguaggi in Italia restavano, nel frattempo, segnatamente lirici e soggettivi evidenziando una inidoneità e incapacità di comprendere e farsi carico delle crisi e dei conflitti del nostro tempo: uno pseudo postsperimentalismo e uno pseudo orfismo unito a un pseudo adamismo agrituristico hanno invaso e depauperato il linguaggio poetico di questi ultimi decenni al picco del quale c’è il baratro della stupidità]
La poesia inattuale. Intervista a Gilda Policastro
By Paolo Melissi
https://www.satisfiction.eu/la-poesia-inattuale-intervista-a-gilda-policastro/
Il contemporaneo, che come per Agamben è qualcosa di anticipatorio o di dissonante, che spicca dall’immediato in cui si vive e che al contempo vi è completamente immerso. Inattuali sono delle circostanze epifaniche in cui la parola viene a staccarsi dal flusso dell’indifferenziato e diventa significante, ma si tratta di pseudosentenze, di testimonianze dell’irrilevanza e della dispersione, di impressioni e valutazioni frammentate che nel nostro presente si sono sostituite, in poesia, alla pretesa gnomica o veritativa.
Tutto ciò che ha a che fare con un orizzonte di assoluti e di emotività tanto effusa quanto impraticabile: è quello che trovo di più inattuale nel contemporaneo, ma qui non nel senso di Nietzsche o di Agamben, bensì della persistenza di un orizzonte di senso superato dalla prova del vero già dai tempi di Leopardi (la cui poesia non vive di assoluti ma di disillusioni e disincanto).
È un bisbidis, come dico citando Sanguineti (ma, per suo tramite, una “frottola” trecentesca) nella stessa poesia da cui prendi il verso, la n. 3 delle Inattuali: un brusio di fondo da cui si staglia a un certo punto quella che ho definito prima la pseudosentenza. Le Inattuali sono un modo per mettersi in ascolto di quanto succede intorno a noi in presa diretta, non attraverso il filtro delle buone maniere poetiche o delle assurdamente resistenti infiorettature bellettriste. Un invito all’ascolto, e una speranza nella possibilità di rinnovamento delle forme: la poesia come l’abbiamo conosciuta fino al Novecento, è stata archiviata dallo stesso Novecento.
Nelle poesie fino alle Inattuali dominava il crisantemo, in effetti, e un sentore di cappella e finitudine. Nella poesia più recente c’è odore di ipercontemporaneo, quindi nessuno o molti odori mischiati e odori non precisamente di fiore: l’odore, piuttosto, che fanno i fiori sui desktop o sui display dei telefoni, il ricordo o l’impressione di un odore, mai la sua sdilinquita percezione (o, se mai, l’appercezione).
Un sapore composito, la poesia è una frittata di cose osservate e inventate, di versi come onomatopee o istantanee e di reverse come soluzione o adattamento percettivo. La vita degli umani è mossa e la poesia, come la fotografia, può fermarne un attimo, un frame. Un sapore indefinibile come il retrogusto piccante di una spezia, quello che mancava, nel migliore dei casi, non quello che ti aspetti o che già sai da una poesia millenaria. Tramontata è la luna e tramontate sono le stelle: era anche ora, no?
MARLIN
Ci sono missili che fanno la spesa al supermercato
Comprano nature morte senza copyright.
E intanto che nel nervo X si elencano le sinapsi da bloccare
Bartolomeo Colleoni segna un punto nella partita a golf
Ma forse non c’è stato e dunque il fegato chiude il coledoco
dopo la pestilenza , subito dopo Pasqua, oppure prima della Lotteria
Anche ora che la minaccia sembra sepolta
I contromissili di questa parte mostrano grossi sigari dalle ogive.
Ci sarà come trovare aria pura negli intestini
Penetrare da qualche altra parte e respirare nel duodeno.
Nell’attesa che il pancreas blocchi il dotto
Una gru parla in Televisione di una foglia
Che si secca di scendere giù dall’ albero.
Rallegra un Marlin con la testata bionda
Più della moglie appena uscita dal parrucchiere
(Francesco Paolo Intini)
sempre, fate piano
ma anche (da “Non come vita):
Gli altri sono:
mangiare il panino a morsi,
gridare al telefono e
sputare
mentre lo fanno
quel “mentre lo fanno” è una particella, nel discorso, che appartiene a una voce fuori-campo, tra le diverse che partecipano al flusso. Voce che, spesso, nelle personalità che accorrono scrivendo, sembra nata apposta per
puntualizzare, alleggerire; e se ce l’hai, quella voce (è neutra, impersonale) puoi dirti fortunato: leva, ti leva, dall’immedesimarti nella finzione poetica.
Se ne trovano molte anche qui, nelle poesie “Inattuali”, che a me sembrano fiori, per l’appunto; perché non amo le scritture fluenti, ché già a guardarle, in lunghezza e larghezza, a volte mi scoraggio. Io per questo preferisco la frammentazione, che in p,kitchen significa punto e inizio daccapo; proprio volendo, perché si può essere anche più brevi – poi uno pensa, compri il libro e sono solo frammenti, non ti sei sforzato, non tenti neppure il o un discorso…
Ci andava una (giusta) pausa tra “sputare” e “mentre lo fanno”.
A me queste poesie lunghissime fanno lo stesso effetto. Mi scoraggiano.
Dopo poco non sono più sul testo.
Credo di avere qualche deficit di attenzione
“Scrivere, significa ritrarsi…dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto” (Derrida).
Il soggetto si scopre in una situazione di irriducibile secondarietà, di espropriazione radicale rispetto al luogo del linguaggio il quale, una volta posto, è sempre assente. Rispetto alla tradizione il soggetto poetico si scopre essere sempre in un luogo de-localizzato, lateralizzato.
La decostruzione della tradizione che la nuova poesia mette in atto non vuole semplicemente svelare dietro alla storia del senso l’operare silente di una traccia rimossa, non è un’operazione che ha come fine quello di porre il problema della différance, è esattamente il contrario: è porre il problema della différance dalla tradizione, è l’evocarla e il mettersi sulle sue tracce che ha il proprio fine; la de-costruzione della tradizione è intesa come ethos che sospende i significati ossificati per non frequentarli in modo irriflesso. La torsione diventa ripescaggio di frasari del registro convenzionale. L’opera poietica torna così ad abitare il suo «luogo proprio», torna a parlare del luogo che conosce a menadito, con le persone, i sosia, gli avatar, le maschere, «proprie» e allotrie.
… per Derrida la figura del poeta, l’”uomo della parola e della scrittura” per eccellenza. Egli è al tempo stesso il soggetto del libro, la sua sostanza e il suo padrone, e il suo oggetto, suo servitore e tema. Mentre il libro è articolato dalla voce del poeta, il poeta si trova ad essere modificato e letteralmente generato dallo stesso poema di egli cui è il padre, ma che producendosi si spezza e si piega su se stesso, diventando soggetto in sé e per sé: “la scrittura si scrive, ma insieme si immerge nella propria rappresentazione”. In questa situazione, l’unica esperienza di libertà a cui il poeta può accedere, la sua “saggezza” consiste tutta nell’attraversare la sua passione, ovvero nel “tradurre in autonomia l’obbedienza alla legge della parola”, nel non lasciarsi sopraffare, abbassare a semplice servitore del libro.
L’unica forma di libertà a cui può accedere un uomo che appartiene radicalmente, visceralmente ad un tradizione linguistica, sarà allora quella che passa attraverso il riconoscimento dell’essenzialità, della costitutività dei propri legami; tale “identificazione” però, per essere emancipante, non può implicare la chiusura, la semplice delimitazione di uno spazio a cui si deve appartenere in maniera esclusiva, quanto piuttosto costituire l’esperienza di un radicamento ad un “laggiù”, ad un “oltre-memoria”, ad un altrove che non è solo un passato assoluto, che è già da sempre stato (e non è una semplice forma modificata del presente, un presente-passato), irrimediabilmente perduto, ma anche l’apertura della possibilità di un’ avventura a-venire, di una traversata dei segni sempre lontana da qualsiasi forma di prossimità e vicinanza, da qualsiasi viaggio dalla meta prestabilita e sicura.
Il fatto che la scrittura sia radicalmente seconda, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimità del senso, occultamento dell’origine più che suo svelamento, innesta costitutivamente nella sua struttura di significazione la differenza, la negatività e la morte; d’altra parte solo quest’assenza apre lo spazio alla libertà del poeta, alla possibilità di un’operazione di inscrizione e di interrogazione che deve “assumere le parole su di sé” e affidarsi al movimento delle tracce, trasformandolo “nell’uomo che scruta perché non si riesce più ad udire la voce nell’immediata vicinanza del giardino”. Perduta la speranza di un’esperienza immediata della verità, il poeta si deve affidare al lavoro “fuori del giardino”, alla traversata infinita in un deserto senza strade prefissate, senza un fine prestabilito, la cui unica eventualità è la possibilità di scorgere miraggi. Partecipe di un movimento animato da un assenza, il poeta non solo si troverà così a scrivere in un’assenza, ma a diventare soggetto all’assenza, che “tenta di produrre se stessa nel libro e si perde dicendosi; essa sa di perdersi e di essere perduta e in questa misura resta intatta e inaccessibile”. Assenza di luogo quindi, e, soprattutto, assenza dello scrittore:
Indicherei, anche in questi dispositivi poetici di Gilda Policastro, fondati sul non dichiarato ma evidente «montaggio», accanto alle altre cifre che emergono in tutta la loro nitidezza dalla lettura del mini-saggio di Giorgio Linguaglossa, la serendipità, tipica cifra estetica della poesia in stile kitchen. Nella sua poetica serendipica Gilda Policastro cerca qualcosa, o nulla cerca, e ne trova o ne scopre un’altra.
Riproponendo alcune meditazioni già rese note in un mio precedente commento ribadirei che la serendipità non è soltanto una sensazione, non è una semplice sensazione. Lo si deduce da uno scritto (che qui in parte riporto, ma non ne ricordo l’autore/autrice) nel quale è possibile un processo di chiarificazione, da un lato, e di allargamento di conoscenze, dall’altro, in virtù della serendipità e dei suoi sviluppi nel corso della storia delle arti, della letteratura e soprattutto nel campo tecnologico-scientifico:
“[…]La serendipità è diventata parte integrante della ricerca scientifica, oltre che della vita di tutti i giorni. Infatti, molto spesso le scoperte più importanti avvengono mentre si cerca altro: Colombo che scopre l’America cercando le Indie, le sorelle Tatin che inventano l’omonima torta dimenticando di inserire nel forno l’impasto di base della crostata di mele, l’astronomo Herschel che cerca comete e trova il pianeta Urano, la Pfizer che – invece di una cura contro l’angina pectoris – inventa il Viagra…”
Insomma, se anche i poeti o i filosofi sapessero già che cosa cercare, non avrebbero più bisogno di cercarlo…
Basterebbe per tutti loro trovare conferme nel già esistente, (come per anni è stato nella pseudo poesia italiana e anche europea, da Carducci, Pascoli e D’Annunzio ai giorni nostri, con talune eccezioni come quella montaliana, segnatamente nel passaggio dal simbolismo al modernismo, accanto a figure come Eliot, Pound, per la poesia, Proust, Woolf, Joyce, Svevo, Pirandello e anche Gadda, per la prosa ).
E’ un fatto che decisamente si differenzia rispetto all’opportunità anche fortunata di ottenere una nuova “scoperta” basandosi sull’intuizione, sulla immaginazione, ma anche sulla disciplina, sul confronto con altre esperienze letterario-poetiche.
O, appunto, sulla serendipità.
Propongo, da Storie di una pallottola e della gallina Nanin di prossima pubblicazione, Storia di una pallottola n. 15
Gino Rago
n.15
All’Ufficio Affari Riservate di Via Pietro Giordani
intercettano questa conversazione:
«Psst! Ehi! Ahò! Oh! Hum! Ouf…Eh! Toh! Puah! Ahia!
Ouch! Ellallà! Pffui! No!? Boh! Sì! Beh!? Cacchio!
Mizzica! Urca!? Ma va!! Che?!! Azz!!… Te possino!!
Ma no!?. Vabbé!?. Bravo!!
Ma sì…».
Ennio Flaiano litiga con il marziano di Roma.
È che le parole scappano, se la danno a gambe, finiscono
dietro un cespuglio di Circonvallazione Clodia dove un signore sta facendo pipì
e poi corrono fino al Pincio dove assistono al funerale
della Signora chiamata poesia.
Il critico letterario Linguaglossa convoca d’urgenza
una conferenza stampa, dice:
«Adesso basta con questa storia della pallottola e del visconte dimezzato!
Mettiamo in una busta di plastica Italo Calvino
e tutta la letteratura
degli ultimi cinquanta anni!».
Che è che non è,
una pallottola entra nell’appartamento di Marie Laure Colasson.
Litiga con un acrilico attaccato alla parete.
Gli oggetti discutono.
Il manico della scopa litiga con lo scolapasta, la bottiglia di Bourbon
con il cavaturaccioli.
Le voci sono quelle della caffettiera, del manichino,
del marziano di cartapesta, del visconte dimezzato, dell’abat-jour,
del cappello Borsalino che esce dal film con Alain Delon e Belmondò
e si piazza sulla testa di Umberto Eco
mentre scrive il finale del romanzo Il nome della rosa.
C’è anche il poeta di Milano che dirige il giornale “La Padania letteraria”
il quale sorseggia un crodino al bar.
Ennio Flaiano vuole girare un film con la ex sindaca di Roma in giarrettiera e con Marcello Mastoianni, Anita Ekberg
e la Santanchè in mutande di chiffon.
C’è anche un figuro con la mascherina tricolore!
Entra Ewa Tagher con lo scudiscio.
Dice:
« Devo ammaestrare i poeti di Milano, sono peggio delle tigri
e dei leoni del Circo Togni…».
Madame Colasson invia un sms al Commissariato della Garbatella:
«Intervenite! Urgente! Ci sono i marziani!
Stanno facendo a pezzi la poesia!».
*
Una questione di abiti. Da sera, da giorno, da aperitivo. Invertiti a piacere.
Che sonnolenza! Esattamente
gli acrobati del circo cadevano come mosche.
Una forza di gravità devastante. Le armi attratte dai proiettili, le portaerei dalle coste.
Gli hai davvero colti i fiori? Non hai arti, non hai monconi, non hai protesi.
Un sorriso di fotosintesi. Le barche sono vuote, i continenti sono vuoti. L’alfabeto dei segni.
Sulle autostrade, negli otto dei viadotti con una macchina ad elettrica. Start e poi a tavoletta.
“una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio”, scrive Derrida; la scrittura procede così, a zig zag: un passo in avanti e uno all’indietro, si tratta di due forze che frenano, immobilizzano il soggetto… e allora l’unica soluzione è andare per frammenti, per lapsus, per improvvisazioni… che non devono apparire in quanto tali ma come necessitate, come accade di frequente nel discorso della Policastro, e ciò non accade in virtù di una semplice opzione stilistica o per dichiarare uno scacco o uno smacco, ma perché solo questa può essere la forma di un movimento che insegue qualcosa che proviene da un’assenza, da una rottura, da un vuoto di scrittura…
Oggi le forme poetiche e narrative sono tutte beatamente compresenti, vivono beate le une accanto alle altre, non c’è attrito tra di esse ma indifferenza, collateralità, i termini che fino gli anni settanta del novecento indicavano i confini dei conflitti tra forme poetiche e narrative, vengono oggi riusati per galleggiare, il déjà-vu è già in sé una poetica e anche il bisbidis e le poesie sul mare di Posillipo. La partita dell’oltranza non si pone più se non come stereotipo, si ripropongono modelli e pseudo-modelli in quanto non si gioca più alcuna partita all’interno della letteratura ma all’esterno: i media, i luoghi recensori e attributori di status symbol. Prevalgono un atteggiamento e una sensibilità velleitarie e kitsch, i guasti prodotti dalla Ipermodernità sono quelli che marcano la differenza di regime tra la storia e la storialità della situazione attuale. Dinanzi a questa situazione non c’è altro da fare che sottrarsi con tutte le proprie forze al dilemma di una letteratura del gelo e del disgelo, dell’impegno e del disimpegno, siamo tutti compromessi in questo disgelo compromissorio che in sé è già una ideologia: l’ideologia del grigio e del prendi tre e paghi uno.
Qui, bar della nazione.
Alcune stalagmiti si sono innalzate; per diffondere,
così dicono, libri che trattano di aeronautica.
LMT
Fortissima Lucio. Ancora rido di gusto (amaro!)
Grazie
8.
Roulement de tambour dans une pluie tropicale
Un envol cinématographique Orson Wells denude à cinq heures du matin
Rita Hayworth dans son lit
Comparaison confusion entre un mort et un vivant
Charlotte enfourche son Harley Davidson s‘échappe
Les oiseaux flèches d’un ciel aquatique
revêtent leurs combinaisons spatiales pour affronter
les astres et les désastres
“Fleurs de nénuphars” dans la poitrine
Zaza enfile des vérités comme des perles
Droguée de Sporanox Sœur Candida de la perversion
bas à résille la nuit fait le tapin rue de la Gaité
L‘astrophysicien observe au telescope les couleurs des ombres
Se gratte le crane à rythme cadencé selon les heures
Rimbaud et Barbara voyagent à travers les océans
“vont à la plage et font beaucoup d‘enfants”
Envolées des violons Méditation de Massenet
Charlotte grimpe sur una échelle avec con Harley Davidson
Miss vitamins A B C D E quatre-vingt milliards de probiotiques
se transforme en poupée gonflable pour des plaisirs dissimulés
*
Rullio di tamburo in una pioggia tropicale
un volo cinematografico Orson Welles spoglia alle cinque del mattino
Rita Hayworth nel suo letto
Comparazione confusione tra un morto e un vivo
Charlotte cavalca la sua Harley Davidson e scappa
Gli uccelli frecce di un cielo acquatico
indossano le loro tute spaziali per affrontare
gli astri e i disastri
“Fleurs de nénuphars” nel petto
Zaza infila delle verità come delle perle
Imbottita di Sporanox sorella Candida della perversione
calze a rete la notte batte il marciapiede in rue de la Gaité
L’astrofisico osserva al telescopio i colori delle ombre
si gratta il cranio a ritmo cadenzato a secondo delle ore
Rimbaud e Barbara viaggiano attraverso gli oceani
“vanno in spiaggia e fanno molti figli”
Slancio di violini la Meditazione di Massenet
Charlotte si arrampica su una scala con la sua Harley Davidson
Miss Vitamine A B C D E ottanta miliardi di probiotici
si trasforma in bambola gonfiabile per dei piaceri dissimulati
Sull’odierna condizione di sommergibilismo della poiesis
La neoavanguardia italiana ed europea degli anni sessanta nasce in un momento congiunturale dell’economia italiana ed europea in forte crescita, ed è favorita da due fattori: il boom economico e la crisi del marxismo ortodosso, nelle condizioni del quadro politico italiano ed europeo degli anni sessanta. C’è stata sì la modernizzazione economica e sociale durante gli anni cinquanta ma non la modernizzazione delle istituzioni. Un ritardo politico, dunque. Ma il fattore determinante è stato il boom economico, tal che sarebbe impensabile pensare alla neoavanguardia senza lo sviluppo economico che la supportava. Per altro verso, il mercato e il capitalismo necessitavano una modernizzazione dei linguaggi narrativi, per questo utilizza attraverso i suoi strumenti (la pubblicità, il marketing, la moda, la canzonetta, la televisione di massa e, perché no, anche la letteratura, etc.) anche la strategia innovativa della neoavanguardia per i propri fini; per questo obiettivo era necessario allargare il mercato, allargare le maglie dei governi di centro-destra, spostare l’asse politico del paese verso il centrosinistra, in una parola: modernizzare e stabilizzare il quadro politico del paese.
Questo fu il quadro delle avanguardie europee degli anni sessanta (Italia: neoavanguardia, Francia: Tel quel e Germania: Gruppo 47).
Oggi il quadro economico e politico europeo e italiano è lontanissimo dalla situazione tratteggiata degli anni Sessanta. In una situazione economica e geopolitica di stagflazione come quella attuale è semplicemente impensabile un ripristino delle parole d’ordine delle avanguardie europee degli anni sessanta in mancanza del Fattore Fondamentale: Una neoavanguardia è possibile soltanto in un momento di forte espansione economica e di una spinta ideologica propulsiva e progressista. Oggi la situazione macro economica e geopolitica non consente neppure di fantasticare la possibilità di una NUOVA AVANGUARDIA, e non consente nemmeno di parlare di una nuova Retroguardia, dato che stiamo già tutti qui, uniti tutti insieme in una zona di GUADO, ovvero, di Retroguardia Generalizzata.
Per questi motivi guardo con favore all’operazione poetica di Gilda Policastro, c’è contezza della situazione di normografia stabilizzata in cui versa la poesia italiana da vari decenni, la Policastro tenta un ripescaggio del bisbidis sanguinetiano adattato nelle nuove condizioni di stagflazione poetica di oggi.
Più volte, nei dibattiti di questa Testata si è fatto cenno in modo ricorrente che oggi è possibile soltanto una condizione sottomarina, da fondale submarino, a bordo di sommergibili. Accettare la nostra condizione di apnea, di Ombra, di sommergibilismo non equivale ad una resa, tutt’altro. La poiesis nel mondo odierno, può trovare luogo soltanto entro le coordinate di una poetica, come dice Linguaglossa, «celibe», una poetica di nicchia agguerrita. Che non vuol dire affatto una condizione di resa, di rinuncia, di scetticismo; adotto la dizione di Roberto Bertoldo: siamo in una condizione di «NULLISMO ONTOLOGICO ma non assiologico», quale base per la riformulazione e il riposizionamento dei linguaggi narrativi e poetici.
Del resto, il motto in exergo della nostra testata è quanto mai eloquente:
Gli scrittori sono i postini delle Poste assunti con contratti a tempo determinato. I pittori anch’essi sono degli imbrattatele, facinorosi fabbricanti di orrendi manufatti che chiamano installazioni. I giornalisti sono i più utili, sono pagati per servire il padrone di turno e, a quanto mi risulta, lo fanno per bene. I critici sono assunti a tempo determinato per degli effetti determinati: sfornano belletti per transgender e crossdresser in passerella. I poeti, in ultimo, sono gli addetti alle pulizie dei lavabo e dei servizi igienici. E c’è una gran ressa là fuori per entrare. Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia, l’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno, in dosi omeopatiche o macropatiche, a seconda dei punti di vista.
È verosimile che dopo le avanguardie storiche non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.
Parlare di ontologia dopo la bancarotta dell’ontologia è un controsenso?, ma qui si parla di una critica dell’ontologia non della sua apologia, dell’ontologia di ciò che non si dice dicendo soltanto quel che si può dire.
Ci sono dei pensieri che hanno una carica elettrica, uno di questi è il pensiero dell’essere, «concetto omnibus», diceva Ortega y Gasset negli anni trenta rivolgendosi ad Heidegger… ma proviamo a scendere dall’omnibus e a camminare sui pensieri come su cocci aguzzi di bottiglia, proviamo a gettare uno sguardo al di là della cornice dell’essere: si troverà sempre l’essere. L’essere di cui non abbiamo che una vaghissima cognizione, è una idea confusa e smarrita.
Una nuova «critica della ragione poetica» richiede la circoscrizione di una «nuova topologia del poetico».
Un mio lontano zio siciliano fu spedito dal regime fascista di Mussolini nel 1941 in Francia a fare la guerra in quel paese. Dopo qualche mese lo zio scrisse una cartolina alla sua fidanzata, c’era scritto: «La guerra è finita, torno presto». L’anno seguente fu spedito in Russia in qualità di porta ordini motociclista, attraversava centinaia di chilometri di steppa coperta di neve in motocicletta per portare gli ordini da un punto all’altro dell’immenso fronte russo dove erano dislocate le truppe italiane. Dalla Russia scrive un’altra cartolina con dei fiori stampati e, sotto, la scritta: «Ciao Marina, ho pensato ti possano interessare». Lo zio non tornò più.
Sono passati ottanta anni e più da quelle parole, ormai si sono perse le tracce di quelle cartoline, le persone che le hanno scritte e le hanno ricevute sono morte, il mondo è cambiato, ci siamo dimenticati anche i volti di quelle persone, sono rimaste soltanto quelle parole, quelle scritte sulle due cartoline impresse nella mia memoria.
Le frasi di quelle due cartoline sono entrate, misteriosamente, in due mie poesie. Chi l’avrebbe potuto prevedere? Esse sono lì, disperse e anonime, sono diventate parte di un altro organismo, un organismo fatto di lettere alfabetiche, di segni invalicabili. Così si costruisce una poesia: con dei frammenti perduti e ripescati miracolosamente dalla volubilità della memoria o dalla casualità del ritrovamento che tenta di restituire un senso purchessia a ciò che è accaduto. La poesia non ha altra funzione che questo, di ricomporre i frammenti distassici della storia.
«Orizzonte eventico» è la dizione esatta: se c’è «orizzonte eventico» c’è poesia. Se c’è una cosa da cui la poesia si sottrae con vigore, quella è la parola asservita agli interessi di parte e umiliata ad essere mezzana, arlecchino. La poesia arlecchinesca, la parola «zambracca» è quella che viene utilizzata per gli scopi della comunicazione del politico. La parola della poesia non può essere «mezzana» di alcunché, pena la sua ricaduta nell’ammutolimento e nella sterilità. In assenza di una teoria ermeneutica, ci affidiamo alla cura di una pratica, ad una lettura che riabiliti l’ontologia del quotidiano; l’interrogazione che la poesia pone in essere è un facere, si dà nel tempo e si rinnova ad ogni ascolto. L’ente è muto e si risveglia ad opera dell’interrogazione che lo ri-chiama ad essere, dalla invisibilità alla visibilità. La poesia è uno Zeit-Raum, uno spazio-tempo dove confluiscono una molteplicità di spazi e di tempi.
Tra le pezze, nel pre-conscio.
Meccanico celeste (maionese, datteri).
Paradiso ore cinque. Cascata di diamanti.
Un posto al sole.
La morale in ghingheri. Bella ragazza.
Fumo nei polmoni. Agatha Christie.
Hunphrey Bogart col mal di testa.
Ma passiamo oltre.
LMT
caro Lucio
i tuoi esperimenti di instant poetry portano al limite il tuo linguaggio del limite ad una situazione limite in grado forse di darci qualche segno, qualche storta sillaba intorno alla nostra contemporaneità, qualche osso di seppia o di coccodrillo, ci indicano che non c’è limite al limite e che il limite delle parole è una illusione, che le parole sono atti di illusionismo, sono illusorie, né più né meno… a furia di sottrarre sei arrivato alla impossibilità o quasi di procedere ancora per sottrazione… in questo procedere per sottrazione e all’indietro tu giungi ad una situazione limite, ad un protolinguaggio che precede il linguaggio, che è un limite interno al linguaggio … ma non hai via di uscita: oscilli tra un protolinguaggio e il linguaggio…
Non c’è verso di dire il vero sul vero. Nel luogo del Grande Altro, nel campo del Simbolico, non posso trovare le risposte che cerco sulla verità del mio essere e dell’essere delle cose come stanno, ciò comporta il fatto che la verità non è qualcosa che il soggetto può possedere, essa si identifica come effetto della simbolizzazione, effetto di un effetto.
Ergo, non esiste il vero del vero, cioè che il luogo del Grande Altro è sprovvisto della verità che concerne il soggetto.
Ho letto con attenzione i versi di Gilda Policastroe devo dire che non mi entusiasmano affatto. Preferisco i versi di Anna Ventura che purtroppo ci ha lasciati. E insieme ai versi di Anna quelli di Helle Busacca. Ma con questa anche siamo su un piano decisamente superiore. Grazie – Rita Casale
A TUTTI I GIOVANI POETI E POETESSE
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Non voglio mai leggere nulla.
Libri?
Che sono i libri?
Io un tempo pensavo:
i libri si fanno così:
arriva il poeta,
lievemente disserra le labbra
e d’improvviso si mette a cantare il sempliciotto ispirato.
Prego!
Ma risulta che prima
che cominci a cantarsi,
(i poeti camminano a lungo incalliti dal vagabondare),
dolcemente sguazza nella melma del cuore
la stupida tinca dell’immaginazione.
V. Majakovskij
(1914-15)
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Comunico che il sito è stato attaccato da un hacker, in particolare l’hacker si è infiltrato tra i commenti. Do oggi stesso mandato alla Polizia Postale di svolgere gli accertamenti d’ufficio per individuare l’autore di questo danneggiamento. Cmq il sito continua a svolgere le sue normali funzioni.
Il concetto di trash come categoria estetica si pone consapevolmente come base dei tre livelli di cultura: cultura alta, cultura bassa e kitsch.
Il kitsch è stato storicamente un effetto collaterale della poetica modernista. Il modernismo valorizza l’avanguardia e non affida più all’arte la conferma della tradizione ma è impegnata nella scoperta di nuovi orizzonti. Soricamente il trash è stato considerato come elemento della cultura di massa, un prodotto dell’industria culturale, in quanto attribuisce alla cultura tradizionale la genuinità delle sue radici.
Il trash si colloca come comune denominatore di tutte le attività artistiche dell’avanguardia. Oggi il mondo èrappresentabile con due modelli sovrapponibili: uno è dato dalla rete telematica della comunicazione, l’altro dalla discarica (trash) formata da elementi materiali e culturali potenzialmente disponibili e riutilizzabili in quanto non sono degradabili oltre alla loro natura. Nella rete telematica si trova quindi di tutto senza distinzione fra utile e inutili, bello e brutto, ecc. Anche per il trash l’elemento caratterizzante resta il contenuto e vale anche qui il fatto che qualcosa venga apprezzato perché nuovo o di tendenza, e successivamente venga sorpassato. Un caso a parte riguarda la pornografia, la quale non è trash in senso letterale ma prodotto per un mercato.
Caratteristica storica del trash è che viene ad un tempo riabilitato e disprezzato. Il trash è sempre materia riabilitata e riconsiderata: ciò che è nuovo è lo status conferito dai fruitori. In tal senso il termine “cult” è significativo come segnale di un primo grado di apprezzamento.
Vi è poi la “trash art”, che consiste in opere d’arte realizzate con materiali raccolti dagli artisti nei depositi di rifiuti. Essa si fonda sul mantenimento dello status di spazzatura oppure può riciclare il materiale trascendendone quindi l’origine.
DAL KITSCH AL TRASH
Secondo Susan Sontag il camp è una sensibilità più che una poetica, che predilige l’artificio, l’innaturale, l’eccesso, la mancanza di serietà, il gioco, il fun, ma, secondo la studiosa il camp sarebbe il contrario del trash: il camp è uno snobismo della modernità e dà scarsa rilevanza ai contenuti,il trash invece è un effetto collaterale della riabilitazione del kitsch ed è veicolato dalla moda, il prodotto trash però risulta ripugnante al senso comune ma è vero che per raggiungere un grado alto di ripugnanza è comunque necessaria un’abilità, una techne e in fin dei conti la moda, che coltiva il trash e il kitsch, ha tutto l’interesse a riabilitare il trash per confezionare nuove merci e metterle sul mercato come un supervalore che consente un maggior profitto. Trash e techne vanno quindi a braccetto, oggi il trash ha in sé, per merito della moda, il brand della bellezza e della trasgressione, il trash, dopotutto, si può definire anche come capacità di adeguarsi alla finalità dell’opera, che è quella di essere e di apparire di cattivo gusto, il quale è per l’appunto il sostrato, ciò che sta alla base del kitsch e del trash. Nell’ipermoderno il trash viene percepito e giudicato dall’alto come spread e cattivo gusto da chi lo disprezza, ma può anche essere giudicato dal basso e considerato in modo positivo per la sua audacia e la sua trasgressione, vi è anche una modalità mediana, in cui quello che è riconosciuto come cattivo gusto, paradossalmente, piace lo stesso, anzi piace appunto in quanto di cattivo gusto. In conclusione possiamo affermare che il trash e il kitsch seguono la tendenza all’abbassamento estremo dei linguaggi, che è una costante dei linguaggi artistici del moderno e trova la sua applicazione nelle poetiche kitchen che effettuano la carnevalizzazione della poiesis tradizionale e dei brand tradizionali. Trash e kitchen mettono in atto la carnevalizzazione e abitano entrambi il carnevale quale luogo più idoneo alla sospensione dei significati e delle convenzioni condivise.
Un esempio di trash ad opera di un poeta ceco di oggi.
Leggiamo insieme questa poesia di Michal Ajvaz (nato a Praga il 30 ottobre 1949), che fa una poesia sicuramente post-modernista:
Turisti
Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.
(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989, nella traduzione di Antonio Parente)
Splendida questa poesia di Ajvaz che oscilla tra il trash, il kitsch e il folle e il sovra reale.
Condivido il parere di Guido Galdini secondo cui la poesia della Policastro dovrebbe essere recitata come testo teatrale, ne guadagnerebbe. A mio parere il testo della Policastro riparte da dietro, dal bisbidis sanguinetiano aggiornato con un mistilinguismo tutto post-postmoderno. Rispetto al precedente suo libro che era ancora legato, nel bene e nel male, alla tradizione post-lirica quest’ultimo ha fatto un deciso salto di qualità e di complessità. Purtroppo la complessità dei registri linguistici della poesia critica trova oggi non buona accoglienza, si preferisce una poesia meno complessificata.
Ecco una mia recentissima poesia ancora in fase di ultimazione.
Umwelt fait en 2004, durée 1 h et 6 mn coreografie Maguy Marin
musique Denis Mariotte pou le Festival Equilibrio 2022
Panneaux miroir et six personnages
son musical assourdissant répétitif
infernal le souffle du vent entre les panneaux
Fragments du tourbillon de la vie
une pomme croquée à pleines dents
un sandwich dévoré
une serpillière esclave de la propreté
une defécation de 3 pantalons abaissés
des lampes électriques qui fouillent le sol
des fesses de femmes éclairées à cru
de dos 3 chadors orangés
des bretelles de salopettes que l’on replace
des sacs poubelle
les couronnes du pouvoir
des chapeaux pour toutes saisons
des robes insolentes unisexes rouges jaunes blanches
des disputes des viols
des actes amoureux sexuels
des déchets jetés sur scene
Le tout le peu le rien
les mâchoires grincent
*
Pannelli a specchio e sei personaggi
suono musicale assordante ripetitivo
infernale il soffio del vento fra i pannelli
Frammenti del tourbillon della vita
una mela morsicata a trentadue denti
un sandwich divorato
uno strofinaccio schiavo della pulizia
una defecazione di 3 pantaloni abbassati
delle lampade elettriche che frugano il suolo
delle chiappe di donne illuminate a crudo
di schiena 3 chador color arancia
delle bretelle di salopette che si aggiustano
dei sacchi di immondizia
le corone del potere
dei cappelli per tutte le stagioni
dei vestiti insolenti unisex rossi gialli bianchi
delle dispute degli stupri
degli atti amorosi sessuali
dei rifiuti gettati sulla scena
Il tutto il poco il niente
A mio modo di vedere, trash sono le parole che arrivano già composte (precotte), orfane di qualsiasi contesto. “Pezze”, ideali per comporre sintagmi dove il nome prevale sul verbo. Di fatto, sono queste le espressioni che ogni poeta aborre (sa di non averle inventate, che sono immondizia, frasi fatte depositate dai media). Effimere, impermanenti, appartengono tuttavia al linguaggio condiviso. Rielaborate (tramite accostamento), sono basi ideali per elaborati pop.
Per Giorgio: è vero, il protolinguaggio – che precede il linguaggio – comporta che si faccia ogni volta un passo indietro (da probabile silenzio). Il passo indietro serve a creare ponti di comunicazione.
Il modernismo considerava centrale il «tempo», il postmodernismo mette accanto al tempo anche lo spazio, anzi gli spazi e la questione dei linguaggi,
Il post-postmodernismo
La performance nel post-postmodernismo ha la sua sede negli spazi non convenzionali con l’arte (strade, città, corpi umani, ecc.), ma anche quando avvengono in spazi convenzionali (musei, ecc.) si presentano come parte dell’evento, per cui l’opera d’arte è la mostra stessa più che gli oggetti che vengono mostrati. I“contenitori” vengono quindi estetizzati. Inoltre, il modernismo era ossessionato dal tempo, mentre il postmodernismo recupera i flussi delle temporalità. Questi flussi invadono gli spazi moltiplicandoli, ed ecco che emerge la realtà virtuale. Non si cerca più la comprensione delle cose, ma tutto diventa illusione, invenzione, performance.
Anche i mezzi multimediali (radio, televisione, telefono, internet, ecc.) influenzano grandemente le forme narrative e poetiche entrando di pieno diritto in esse. Anche la forma-poesia diventa sempre più performativa ed evenemenziale e l’io viene sostituito con il plurale degli io. Anche il linguaggio viene percepito sempre di più a partire dal protolinguaggio.
… di fatto la nuova poesia (autocritica) mette in azione quella che si potrebbe chiamare una strategia della profilassi: la condivisione dialogica dei significati, secondo la quale è l’autore (anonimo) del testo che crea i presupposti della condivisione dialogica, non più la tradizione, il passato, l’ideologia, la chiesa, il circondario dei letterati, i critici etc., e ciò appunto perché non esistono più schemi di precomprensione che legittimano la comprensione e i discorsi si autonomizzano, diventano monadi cieche e impazzite che si autolegittimano, e acquisendo tale legittimità tolgono al lettore o ad un terzo (escluso) la funzione di legittimare il discorso dell’opera poetica. In altre parole, l’opera poietica si auto legittima. E buonanotte ai suonatori. Non c’è altro da dire.
“Per Giorgio: è vero, il protolinguaggio – che precede il linguaggio – comporta che si faccia ogni volta un passo indietro (da probabile silenzio). Il passo indietro serve a creare ponti di comunicazione.” (Mayoor)
… e in parte è vero… più ci si sottrae e più ci si avvicina alla unità, e per unità intendo la base originaria, primigenia, che prima di creare “ponti di comunicazione” già li contiene tutti…
la POESIA SI SFALDA come FRAG-MENTAZIONE PER INONDARE TUTTE LE CIVILTA’ E LE CULTURE… IL FRAMMENTO E’ ALLORA LA PROVA CINETICA PROVATA E INCONFUTABILE DELLA POESIA…
è il frammento che viaggia in ogni dove e tempo, e bisogna considerare l’HAIKU, come una derivazione straordinaria.
Va bene così, si continua,- e riferisco (COME MIA PERSONALE IPOTESI) che l’ hacker non è altro che un BLOG PREZZOLATO E INVIDIOSO manovrato da gente rozza che si diverte – SENZA SAPERE CHE IL CINISMO è ANCHE UN’ARTE ARISTOCRATICA), ma incapace Di creare se non il proprio vomito nausaeabondo di sterco suino ecc.
Mi pare che questi versi siano pezzi teatrali che reclamano una recitazione urlata, affannata, convulsa, col fiatone. Rispetto alla tranquillità di troppe proposte poetiche (specie femminili) perlomeno ci tengono svegli.
Gentile Galdini,
se si riferisce ai versi di Majakovskij più su pubblicati da me, si vada ad ascoltare _ “La nuvola in calzoni ” (poema del poeta russo del 1914\15) recitata da Carmelo Bene.
Ai miei tempi si andava ad ascoltare (-rlo) a teatro o a recitarlo a casa per pochi amici…
….adesso dopo aver setacciato per circa 10 anni i giovani poeti e poetesse italiani (per restare da noi) devo con rammarico dire che la poesia giovane e giovanissima fa schifo!!!
…potrei donare a tutti un elenco lunghissimo di poeti e poetesse (?!) che vivono nell’equivoco di essere davvero poeti…
basta leggere i cosidetti loro versi per rendersi conto degli strafalcioni e della presunzione che li denota, ma anche quelli che hanno 40\50 anni rientrono
in questo elenco…
e devo dire che la poesia “femminile” è di gran lunga superiore….
basta citare i nomi di :Madonna, Busacca, De Pietro (che si son lasciate dietro la troppo celebrata Alda Merini e compagnia) e altre due o tre poetesse che ora non mi vengono in mente per cancellare tanta poesia maschile e femmiile che sa di marciume cadaverico…
Linguaglossa è un grande esperto di questa poesia femminile… chidetelo a lui.
grazie
as
Scusi Sagredo
ho sbagliato a non intestare il commento: la mia considerazione era sui versi della Policastro.
Di Carmelo Bene ho ben presente le sue letture poetiche, che mi sono sempre parse senza rivali.
«Al posto del problema gnoseologico kantiano, come sia possibile la metafisica, compare quella di filosofia della storia, se sia possibile comunque un’esperienza metafisica».1
Fare una esperienza metafisica è diventato problematico, ci mancano le parole, il condominio linguistico delle parole dell’ipermoderno sono restie e inidonee a introdurci in una esperienza, le parole della poesia moderna ci dicono questo, che le esperienze di cui esse sono le portatrici sono defraudate di linguisticità, appartengono ad un condominio linguistico estraneo ed ostile, le parole di Maria Rosaria Madonna e di Helle Busacca ci dicono questo. Anche le parole di Gilda Policastro ci dicono questo.
1 T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. a cura di Alberto Donolo, 1970, Torino, Einaudi, p. 336.
Metafisica e ontologia trovano nelle parole un cortiletto accogliente, adatto alla meditazione; ma si capisce, anche dalle poesie di Policastro, che serve un’esperienza meno concettuale, più coinvolgente, anche se non per questo soggettiva; che di volta in volta tocchi piani diversi dell’essere (ironia, leggerezza, vuoto silenzio, brevi illuminazioni, istantanee…). Registro interno ed esterno, parole del mondo odierno nel linguaggio proprio di ognuno. Il nuovo si fa da sé, onestamente, forse questo è il tratto distintivo della post modernità. Buona e la brutta poesia sono sempre esistite.
A Paris.
Le parole non durano vent’anni. Cose nuove hanno nomi
che di per sé significano niente. Non che le so, le impara
a memoria il server già sveglio al mattino presto.
A sera quasi defunte. Così che adesso porto il cane a vedere
che intorno non c’è nessuno. A parte il campanile.
Ma finirla qui, sul fatto che non piove, una poesia everyday,
come tanti che di mestiere sfornano libri. E via, sul cellulare.
Una per dire che è mezzanotte, ah ah! Se mi senti mi credi,
che sono a Paris. Tu a ragionare tempo e distanze. Però lo so
che sei fuori. Anche tu con il cane. E stai bene.
LMT
Ecco gli ultimi versi di una poesia di
Lucio Mayoor Tosi:
Come è evidente alla lettura non c’è nessuna relazione tra le «stelle intermittenti» e il prosieguo: «mi morivo tra le braccia», con l’indicazione aggiunta della causale: «perché la borsa da ballo era senza cucchiaino», che non vuole essere una spiegazione quanto una interferenza di un Altro del linguaggio, e precisamente il soggetto dell’inconscio; le ulteriori spiegazioni «le batterie del cuore erano scariche e non avevo soldi», aggiungono complicazione alla complicazione, elusione alla elusione; sono gli espedienti di cui si avvale il soggetto dell’inconscio per screditare il soggetto del conscio che si muove sempre per ordini causali e per nessi sintattici subordinati. Lucio Tosi usa la paratassi per screditare e scardinare la sintassi. La locuzione è scombiccherata e bizzarra alla ragione raziocinante: «né per comprarne di nuove né per rifarmi i denti». Il costrutto sconclusionato va a zig zag, come a zonzo, non è diretto da alcun soggetto legiferante. Le interruzioni sono le finestre dell’inconscio; reiterate e paradossali, sono una strategia dell’inconscio per infirmare ogni possibilità di elocuzione sobria e razionale, ma in realtà è soltanto l’inconscio che parla, ça parle, lui parla perché non sa fare altro che parlare a vanvera seguendo il senso del senso del suo linguaggio insensato che segue la legge della «implicazione infinita… e della equivocità pura e infinita, che non lascia tregua, riposo al senso significato, impegnandolo, nella propria economia, a fare ancora segno e a differire?».1
L’ultimo verso «Le stelle intermittenti erano senza batacchi e le mucche ruminavano nella tazza», è soltanto una finta chiusura che invece «apre» alla possibilità di qualche altra cosa di non ancora scritto, e quindi di ignoto, che potrebbe seguire. Tutta la composizione polifrastica è un susseguirsi di elusioni e di diversivi, di interferenze dell’inconscio. È una poesia che si colloca nel «fuori senso» e nel «fuori significato».
Facciamo adesso un passo indietro, a concetto di Das Ding.
Lo statuto ambiguo della Cosa non è ascrivibile al piano della rappresentazione. La Cosa non può essere rappresentata, esibisce un carattere di extimité, si costituisce come ciò che è, da un lato, intimo al soggetto, nel senso che lo determina nel suo modo peculiare di orientarsi, indica le linee direttive che orienteranno la sua esistenza; dall’altro, invece, risulta come estraneo (Entfremdet), escluso, oltre che potenzialmente ostile. Già Freud aveva definito la Cosa come ciò che resta (Reste) del linguaggio. Lacan sviluppa l’intuizione di Freud e definisce l’ambito della Cosa, das Ding.2
Lacan, definisce das Ding «una Realtà muta e fuori significato»,3 sembra porla in una qualche connessione con il linguaggio.
1 J Derrida, L’écriture et la différence, 1967, Paris, trad it. La scrittura e la differenza, 1971 Einaudi, Torino, trad. Gianni Pozzi, pp. 31, 32.
2 J. Lacan, Il seminario VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960 A cura di Jacques-Alain Miller, Antonio Di Ciaccia,
3 Ivi, p. 64
(…) non vi capisco,
fermi, insistete sul concetto, soffermatevi sui nessi,
insisto, i nessi vanno meglio definiti,
Natale (2013) è scritta con tecnica circolare (Mimmo Pugliese ne diede esempio su queste pagine, giorni fa). Sintassi non terremotata. I nessi sono grammaticali, per meglio andare di seguito (lettura: ipnosi, atto collettivo irriflesso). Non scrivevo ancora poesia kitchen.
Set 65
…
al saloon filosofi covano in piccoli cerchi assunti dogmatici
con voce fonda alla birra scura sotto bufera di Bacardi Gold
compassi, squadre ma di più righelli, goniometri predatori di storie,
pillole azzurre come viagra per dimore fatiscenti
con vere congratulazioni di canguri e paguri, tipi nobili
in pausa o giù di lì i pesci maturi in bianche consolazioni
Shaun Sheep e Bitzer in performance con la tgirl Freddie Mercury
adorate allusioni a gattine spettinate da portare a cena
Mr. Magoo fuma un sigaro Habanos da solo sul barbecue
Betty Boop balla su tacchi a spillo, sono sparite le forchette
…
Vivi ringraziamenti a Giorgio Linguaglossa.
Poesia contemporanea al 1960. Passatempi sperimentali.