Vasilij Filippov, Poesie, Ho sognato di volare su una nuvola, a cura di Paolo Galvagni, La casa di Irina Aleksandrovna a Rževka, Nel 1980, all’età di venticinque anni, è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico in seguito a una gravissima crisi, che per poco non ha avuto un epilogo tragico. Questo primo ricovero, durato quasi cinque anni, è stato seguito da altri. Dal 1993 è ospitato costantemente in strutture psichiatriche.

Lucio Mayoor Tosi frammenti blu e celeste 2021

Lucio Mayoor Tosi, frammento, blu e celeste, 2021

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Vasilij Filippov

Ho sognato di volare su una nuvola

Vasilij Anatol’evič Filippov è nato nel 1955 nei pressi di Sverdlovsk (oggi Ekaterinburg) sugli Urali. Negli anni Settanta ha frequentato la facoltà di biologia presso l’università di Leningrado, ma in realtà era ben altro ciò che lo appassionava veramente: la letteratura, la filosofia, la teologia. Partecipava attivamente agli incontri del circolo letterario guidato da David Dar (1910-80), carismatico letterato leningradese. Ha scritto articoli filosofici e teologici per “37”, autorevole rivista “Samizdat”, che prendeva nome dall’appartamento n. 37 del civico 20 di via Kurljandskaja a Leningrado, epicentro degli ambienti underground. Nel 1980, all’età di venticinque anni, è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico in seguito a una gravissima crisi, che per poco non ha avuto un epilogo tragico. Questo primo ricovero, durato quasi cinque anni, è stato seguito da altri. Dal 1993 è ospitato costantemente in strutture psichiatriche. A tutt’oggi le sue condizioni di salute lo costringono a condurre una vita appartata.
Filippov è diventato poeta, essendo già malato mentale, in condizioni che parrebbero provocare l’annientamento di ogni energia creativa. Ha cominciato a scrivere poesia nel 1984, dopo il primo ricovero. Dalla fine degli anni Ottanta i suoi versi sono apparsi sulle riviste “Vnl”, “Tret’ja modernizacija”, “Volga”, “Arion”, “Zerkalo”, “Futurum Art” e nel volume collettaneo Stichi v Peterburge. XXI vek [Versi a Pietroburgo. Il XXI secolo] (2005). Sono uscite tre raccolte: Stichi [Versi] (1998), Stichotvorenija [Poesie] (2000), Izbrannye stichotvorenija [Poesie scelte] (2002). Nel 2001 è stato insignito del prestigioso premio letterario Andrej Belyj, il più antico premio indipendente nella Russia contemporanea: viene attribuito regolarmente dal 1978.
Con l’esattezza di un diario (1), le liriche fissano i fatti minimi e le impressioni più minute dell’autore. Si può parlare di una poetica della registrazione spontanea di quanto viene visto. Praticamente ogni testo contiene tutto il mondo poetico dell’autore, e talora anche il suo background storico e letterario. I nomi dei poeti russi venerati da Filippov – Elena Schwartz, Sergej Stratanovskij, Aleksandr Mironov – costantemente citati nei versi, poco a poco si tramutano in emblemi polisemici:

Si illumina la mente coi versi di Elena Schwartz.
C’è la giornata alla finestra, ma non mi serve.
Meglio la notte e la cena.

Così come le immagini dei genitori, la nonna e Asja L’vovna Majzel’, la fedele amica che per più di vent’anni ha sostenuto e incoraggiato Vasilij, raccogliendo e conservando i suoi versi, che altrimenti sarebbero andati perduti:

Asja L’vovna accudisce me-mostro,
Batte a macchina i miei versi,
Parteggia per me presso le edizioni “Aurora”.

Filippov scrive la cronaca della sua vita: una vita trascorsa tra le cliniche e la periferia leningradese, in compagnia dei poeti “del sottosuolo”. Sono versi che compongono un originale diario lirico, appunti documentaristici. Si descrivono fatti a prima vista prosaici, banali, ma che in realtà si tramutano in arte, tanto raffinata e soave è la vista del poeta. Si può parlare di un racconto che esplode con metafore inattese:

Oggi tutta la sera starò a casa,
E la paglia del sole
Avvamperà sulle ciglia.

Poi volterò l’ultima pagina
E mi caccerò sotto la coperta,
Affinché la nonna nella stanza accanto taccia sino al mattino

La nonna guarda le mie narici con gli occhietti di mercurio,
Ha portato su un piattino una codina di topo.

Ma in camera sono solo.
Il duello di mani e piedi,
Quando mi alzo.
Attraverso il bicchierino-vetro guardo la strada.

È inconsueta la visuale del poeta, che tramuta la Leningrado degli anni Ottanta in uno spazio vibrante, dove si confondono la realtà, i sogni, le visioni (2):

Sonnecchia la città, avvolta nel giornale del mezzogiorno…

La Neva, come una vena,
Respira,
Mi sente,
E mi sembra di stare sul tetto del Pamir…

Mi sveglio –
Si spalancano i mille occhi di una libellula,
Mille violette si aprono in mille pupille,
E sopra di esse – il manto celeste.

Lucio Mayoor Tosi frammento con rosso 2021Sono versi naturali come il respiro, a scatti, nervosi. Versi liberi con la sintassi della prosa, con la rima facoltativa.
Michail Šejnker (3) parla di una forte eccitazione intellettuale e creativa, che si è manifestata in Filippov sotto forma di persistente contrapposizione alla vita quotidiana. Preferendo alla normalità prosaica il mondo delle passioni poetiche, egli ha compiuto una scelta tragica, che l’ha certamente condannato alla sventura, ma che gli ha anche concesso di realizzarsi appieno nella sfera letteraria. Si può presupporre una “forte febbre creativa”, connessa tanto al manifestarsi del talento poetico, quanto all’insorgere della malattia.
Il procedimento sicuramente più originale di Filippov consiste nell’accostare, attraverso il trattino, parole appartenenti a sfere diverse (parole apposizioni):

Domani lei ricamerà merletti-parole,
Passerà l’arancio-mano sui miei capelli…

Sulle strade volano le mosche – gli egizi,
Nelle case le api – gli assiri…

Alla finestra la primavera-vespa
Punge col calore…

Si muovono i vermi-parole nel crisantemo della mano.
La Fanciulla sfoglia i versi.

In questo si vede la rifrazione di un mondo nell’altro, che si realizza non nel tempo, ma nello spazio, come l’intersezione geometrica di superfici. Si può parlare di una somiglianza tra il mondo paradossale di Filippov e il Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll. (4) In entrambi gli autori lo sdoppiamento non porta alla frattura, all’incubo, in quanto si compie in superficie, al livello della lingua, senza sfiorare la disgregazione di coscienza e corpo.

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Note
1) V. Šubinskij, “Stichotvorenija Vasilija Filippova” [Le poesie di Vasilij Filippov], in “Novaja russkaja kniga”, n. 6, 2001.
2) A. Urickij, “Peterburgskie sny” [Sogni pietroburghesi], in “Znamja”, n. 1, 1999.
3) M. Šejnker, “Neskol’ko slov o Vasilii Filippove” [Qualche parola su Vasilij Filippov], introduzione al volume Izbrannye stichotvorenija, [Poesie scelte], Moskva 2002.
4) M. Bondarenko, “Čtoby kniga stala telom” [Affinché il libro diventi corpo], in “Znamja”, n. 8, 2001

La casa di Irina Aleksandrovna a Rževka (1)

Irina Aleksandrovna taglia prudentemente con le forbici
I delfini azzurri.
La sua casa assomiglia a una clinica.
E l’iris azzurro.
Il suo petalo è picchiettato, assomiglia a un ideogramma-pantera.
E ai tre gatti non bastano i topi per pranzo.

La sua casa è la casa di Pljuškin. (2)
La desolazione si riflette negli specchi e nelle enormi icone.
Nel verde incolto, che circonda la casa, avverto una piacevole stranezza,
Quasi io fossi appena uscito dalla nebbia londinese
E fossi capitato in paradiso, dove i gatti cantano “Osanna”,
E accanto la casa di Kolja Vasin è Cana. (3)

Irina Aleksandrovna siede a tavola.
Il tè indiano le sta davanti.
Lei parla finemente
Della veduta che si apre alle finestre.
E i delfini ormai sulla tavola
Stanno al caldo.
Assomigliano ad animali –

I fiori,
Come conchiglie di madreperla.

E il gatto Bottone in cucina
Mangia il pesce.
Lui e Irina Aleksandrovna si vogliono bene,
Il cavalletto aspetta il gatto.

Irina Aleksandrovna dice che ha paura per me,
E abbassa le ciglia.
Il suo ricevimento si protrae
Nella seconda capitale russa.

“Meglio se non scrivete nulla, – dice lei
E mi versa del vino, –
Piuttosto pregate Dio,
Annusate l’iris, senza accostarvi alla stanza nuziale.
Meglio la via che passa per la cruna dell’ago.”

Noi parliamo.
I gatti cominciano a evitarci
Dopo un’ora.
Il delfino nel vaso non si è ancora spento,
E l’iris si apre per un’ora,
Un’ora di soave conversazione.

Nello specchio si riflette la mia schiena,
E sembra che tra un uomo e una donna non ci sarà mai la guerra,
Perché la camera della conversazione
È addobbata con fiori vivi.
E per il vino
I fiori e i gatti
Si sono mescolati nei nostri occhi.

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1) Località nei pressi di San Pietroburgo.
2) Personaggio de Le anime Morte (1842) di Nikolaj Gogol’. Rappresenta l’avidità e la tirchieria.
3) Nikolaj (Kolja) Vasin (1945), fan russo dei Beatles, che fin dagli anni Sessanta cominciò a predisporre una ricca collezione legata al gruppo di Liverpool.

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Filippov Vasilij Anatol'evich-1

Vasilij Filippov

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Una coppa

Di che cosa parlare, se è stato detto tutto.
Di che cosa, se la coppa è vuota,
Un tempo colma di vino,
Dorata.

***

La camerata

Sentire i lugubri fischi delle ambulanze.
Vivere in una selva umana.
Una statua intelligente guarda una lampadina.
In manicomio c’è silenzio.
Leggo Plotino,
Vivo col terrore gnostico –
L’autobus sulla strada per l’ospedale psichiatrico.

***

Ricordare poco

Ricordare poco
Le vetrate di luce e i tetti sotto il sole di mezzogiorno.
Il piano superiore. La finestra
È spalancata. E non c’è nessuno.
Magari si incontrasse la creatura tanto cercata.

***

Sonno

Dormire e guardare il mondo del sonno
Con gli occhi ben spalancati.
Ecco si vede una chiesa
Con tre cupole.

***

Ecco sono nuovamente solo.
Ciò che è stato nella giornata – è come non fosse stato.
Quanti volti hanno sorriso, riso e cantato nelle ore diurne,
Sembra perfino di aver visto un angelo alla svolta della strada.

***

Una stella

Ho attraversato il fiumicello dei morti, forse dei vivi
E a lungo ho cercato una traccia.
La sabbia marina, ma il mare aveva cancellato tutto.
Solo una sigaretta “Vega” marcisce nell’erba.

***

Il cinguettio degli uccelli non mi ha colmato
Oltre le pareti, alla finestra.
Qui invece l’appartamento a forma di trapezio
È colmato dalla brocca – sonno.

***

Il cancello del recinto ripete esattamente il fregio dell’acqua.
Un’enorme pupilla nera è la macchia di petrolio.
La spazzatura. Un camion. L’edificio
È una vecchia dacia,
Dove le finestre brillano al sole.

***

Quasi non fossi stato in una casa vuota,
Dove aleggia l’odore di medicine e vernice,
Ma un pensiero mi tormenta,
Che tornerò là tra due settimane, e sussurra: “Voltati”.
Me n’andrò nella palude, dove la salvezza
È dissolta dall’orizzonte.

***

Una passeggiata

Solo orologi, semafori a tutti gli incroci.
Balenerà il verde e si potrà passare
In questi cortili, ricoperti di calce,
In questi cortili, da cui poi non si andrà via.

Passeggiando a lungo su un viale polveroso,
Cerchi una panchina e un giardinetto, dove fumare.
Le pareti si stringono al volto.
Si dipana la memoria-filo.

***

Una farfalla

Guardo il cielo. Gli occhi si dischiudono,
Come due dalie.
Forse è colpa del movimento di una nuvola,
Che spinge il bulbo oculare verso la radice del naso,
Dove si è posata una farfalla.
Non spaventarla, non spaventare il cielo!

***

Vasilij FILIPPOV Paolo Galvagni cover

Nella stanza, che sa di alloggio,
Gli anniversari sono
I banchetti funebri, i funerali. I soldati
Guardano dalle pareti, dalle fotografie.
E l’acqua del corpo nel letto.

***

L’odore del fieno di agosto solletica le narici-ninfee.
Sulla finestra gli orci di latte.
L’odore dei viveri dello spaccio rurale è diffuso sull’orizzonte.
E gli ombrelli degli abeti
Sui funghi – la gente di città.

***

Ieri sono stato da Asja L’vovna.
L’ho incontrata per la strada.
Asja L’vovna ha agitato una mano – rametto di lillà,
“Vasilij!” – ha urlato.

Asja L’vovna mi ha dato ciò che aveva promesso, –
Marina Cvetaeva con la copertina-camicetta
Per una notte.

Asja L’vovna mi ha dato il caffè e mi ha messo a letto
A dormire.

Asja L’vovna ha anche scelto le poesie migliori
E mi ha chiesto di scrivere una dedica.

Sedeva con le gambe piegate sotto di sé,
Dondolando la testa a tempo, come un cobra.

Sul volto fioriva il crisantemo di un sorriso,
E la mia coscienza era malferma
Dopo il caffè al limone.

Asja L’vovna, entusiasta per i versi, ha applaudito
E mi ha invitato a fare il bis.

Dalle labbra è caduto un iris
E si è appigliato al mento-cornicione.

Il suo cane Jolie, simile a una pecora, si metteva sulle zampe posteriori,
E mi pareva che fosse Ochapkin (*) travestito.

Jolie afferrava coi denti le nostre gambe, come fossero topi,
Ed echeggiava un ringhio e un ululato indecente.

Jolie è un cane intelligente.
Non lo scaccerai dalla stanza, finché ci sono ospiti,
Neanche col formaggio, neanche con la voce-bastone.

Asja L’vovna mi ha versato il caffè,
Mi ha avvicinato i funghetti, che adoro,
Ha profetizzato una lunga navigazione per me-nave.

Asja L’vovna mi ha avvolto le gambe con uno scialle
E mi ha guardato con un mite sorriso-mestizia.

Poi mi ha condotto in un’altra stanza a dormire
E mi ha sistemato nella Penisola arabica – il deserto-giaciglio.

Mi sono svegliato ormai col buio,
Ricordando la funzione e i lumi sulla croce nel tempio.

Asja L’vovna mi ha accompagnato alla porta,
Le sue labbra bisbigliavano: “Credo nel tuo futuro, Vasilij, ci credo”.

Sono andato a casa con un pegno di amicizia –
La raccolta di versi della Cvetaeva,
L’ho letta sul mètro,
L’ho letta sotto le ruote del tram.

E ora a casa
Bevo un tè –
I rivoli del Lete.

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* Oleg Ochapkin (1944-2008), poeta degli ambienti underground leningradesi.

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Un sogno

Ho sognato di volare su una nuvola,
E di avere il mare sotto ciascun piede.
Spiegavo alla ragazza-pilota il senso recondito dei delfini-onde.
Non ricordo più se ho visto un cigno in mare.
Qualcosa di bianco… Un loto bianco, forse.
Ho volato a lungo.
E poi mi sono svegliato.
Il tè mi aspettava.
E ho ricordato il sogno.
Ho ricordato di aver incontrato Ljubegin su una scala del convitto,
Ho ricordato che un amico scriveva della crisi alle Falkland.
Ho ricordato tutto,
E alla fine del sogno il volo sulla nuvola.
Nel dormiveglia ho scritto versi sul volo,
E con questo mi sono svegliato,
Sono ritornato.
Le ciglia erano arroventate dai fili del lumino elettrico.
Ho baciato la carta da sigarette – ho acceso una “Šipka”.
Nel cuore dondola una culla.
Avrei volato ancora con piacere,
Ma ormai gli occhi sono sbocciati.
Mancano tre ore all’alba.
E nel dormiveglia ho scritto versi sul volo:
“Un tossico fluttua tra le nuvole”.
Ora è notte. Sulla terra non vive nessuno.
Solo le trote nei letti si dimenano sul ghiaccio. (1)
Le persone dormono,
Compiono il rito della respirazione.
E io sono contento del sogno.
È morto Černenko (2), dicono.
Tutto il giorno si è riversata la musica funebre.
Presso la bara si ergono i soldati con le corone.
Le corone aspettano lo stipendio.
Margaret Thatcher non è venuta a Mosca per i funerali di Černenko.
Ohè.
Se ne sta a Londra
A mangiare le ostriche.
E noi qui tra le nevi ci ribaltiamo col defunto.
Il defunto – guida – ha lasciato dietro di sé una scuola professionale.
La nave dello stato non va a fondo.
Černenko si è presentato a Dio,
E Dio gli ha chiesto:
“Che cosa hai fatto con i bimbetti,
Con i loro libricini?”
Portamelo via, angelo Gabriele,
Portalo via da me, perché non soffra,
Sino all’oscurità eterna.
A un distacco intimo.

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1) Allusione alla raccolta La trota rompe il ghiaccio (1929) del poeta russo Michail Kuzmin.
2) Konstantin Černenko, segretario del Pcus, morto nel 1985, predecessore di Michail Gorbačëv.

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***

L’iniezione

Ho finito di leggere Gregorio il Teologo. (1)
La nonna mi ha dato da mangiare.
Oggi vado dal dottore,
Tenterò di pareggiare con lui,
Evitare l’iniezione.
Questo per me non è nuovo
Come l’invenzione di Pirogov. (2)
Non cerco nulla.
Attendo la seconda venuta.
Ma la vita è severa.
Fremo davanti al dottore,
Quasi fosse Jahvè.
Il dottore mi indirizzerà
Allo studio medico, dopo
Avermi chiesto: “Quanti anni hai?
Vai in chiesa? Fai la comunione?
Ti ravvedi?”
Farò il bravo con lui,
Perché non voglio un’iniezione di troppo.
Così corro dal dottore.
Tutto il tempo cerco qualcosa.
Dal dottore balbetterò
Che mi è venuto a noia dormire,
Dirò: “Non vi ha tediato infilzarmi con le siringhe,
Ma andate a quel paese”.
Il dottore dovrà segnare le mie parole nel registro.
Proverà ad addormentarmi
Col discorsetto che
Fare un’iniezione non è nuovo,

È come trovare un ferro da cavallo.
Per lui sono una mucca.
Ma lui chi è?
Uno zero, una nullità.
Firma solo ricette
E vi divora tenacemente con gli occhi:
“Vuoi l’iniezione, ragazzo?”
Così oggi avrò la mia iniezione
E mi stenderò – cadavere – sul tavolo,
Quasi fossi un ladro.
Ho superato molte prove nella vita.
Bene.
La nonna mi accompagna all’iniezione,
E prima mi accompagnava a scuola.
Gli anni, gli anni.
Il tempo vola,
Ma io mi becco sempre le iniezioni.
Non si prevedono cambiamenti.
Anche la nonna se la prenderà col dottore.

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1) Gregorio il Teologo (329-389), vescovo di Costantinopoli e uno dei padri della chiesa
2) Nikolaj Pirogov (1818-1881), celebre chirurgo e studioso russo. Nell’intensa attività di medico militare trasformò la chirurgia in scienza.

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20 risposte a “Vasilij Filippov, Poesie, Ho sognato di volare su una nuvola, a cura di Paolo Galvagni, La casa di Irina Aleksandrovna a Rževka, Nel 1980, all’età di venticinque anni, è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico in seguito a una gravissima crisi, che per poco non ha avuto un epilogo tragico. Questo primo ricovero, durato quasi cinque anni, è stato seguito da altri. Dal 1993 è ospitato costantemente in strutture psichiatriche.

  1. Per Wittgenstein le entità primarie di cui si compone il nostro mondo non sono gli «oggetti», ma i «fatti». Se qualcuno si chiedesse che cos’è il mondo, o meglio, in che cosa consiste il mondo potrebbe essere tentato di fare un elenco delle cose che ci sono: il fiore, il vaso, il tavolo, lo schermo, la finestra e così via, finché arriva a un elenco completo, un inventario del mondo. Chi pensa così suggerisce che il mondo sia la somma delle cose che esistono; come se il mondo fosse un grande magazzino con lunghi corridoi di scaffali dove troviamo in un corridoio i fiori, in un altro i vasi, in un altro ancora i tavoli etc.

    I limiti di questa concezione sono evidenti. Wittgenstein afferma che ciò che conta non è il mero «essere» degli oggetti, ma il modo in cui essi si relazionano gli uni con gli altri. In altre parole, non è sufficiente che il fiore esista e che il vaso esista, ma che il fiore stia nel vaso. «Il mondo» – dice Wittgenstein all’inizio del Tractatus – «è tutto ciò che accade. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose».Per descrivere questi fatti ci serviamo, secondo Wittgenstein, delle frasi o proposizioni. Se uno dice: «Il fiore sta nel vaso» descrive il «fatto» che il fiore «sta» nel vaso. E si nota subito una somiglianza tra la proposizione e il «fatto» descritto: infatti, Wittgenstein suggerisce che le proposizioni siano immagini dei «fatti» del reale. A ogni elemento presente nel «fatto» (il fiore, il vaso, lo “starci dentro” nel nostro esempio) corrisponde un elemento della proposizione, la parola “fiore”, la parola “vaso”, l’espressione “sta nel”. Il «fatto» è caratterizzato da una struttura interna che determina come si relazionano gli oggetti e la loro dislocazione all’interno del «fatto» (che «il fiore sta nel vaso»); questa struttura viene rappresentata dalla struttura logica dell’enunciato che determina come si relazionano le parole all’interno della proposizione.
    Può apparire banale ma è bene ricordare che la poesia ha a che fare con le proposizioni e che ogni proposizione è una immagine fatta ad immagine di fatti che avvengono o sono avvenuti nel reale. È questa distanza tra le proposizioni e il reale che interessa la poiesis. Il poeta è il custode di questa «distanza».

    Per la poiesis dire «tavolo», «vaso», «fiore» significa accogliere l’evento come esso si dà nella sua nudità. È l’Evento che illumina le cose che sono nei fatti. È l’evento che illumina la poiesis del soggetto postedipico delle democrazie occidentali a sovranità limitata. La poesia di Vasilij Filippov è la tipica esemplificazione di una soggettività esasperata giunta all’ultimo stadio della dissoluzione della soggettività. Filippov porta alle estreme conseguenze il linguaggio della soggettività esasperata, il verso libero e la distruzione delle forme chiuse e definite ne sono la conseguenza in sede stilistica; il soggetto parla in verso libero; liberatosi della cornice metafisica che lo imprigionava, può parlare soltanto esasperando i conflitti tra il soggetto e il mondo, ma non è un caso che questa contrapposizione frontale tra soggetto e mondo determini la progressiva dissoluzione della soggettività poietica fino a inficiare lo stesso equilibrio mentale del poeta russo che avrà bisogno di cure psichiatriche prolungate che lo porteranno sull’orlo del suicidio.

    La poesia più rappresentativa di questa stagnazione formale di Filippov è senz’altro la poesia La casa di Irina Aleksandrovna a Rževka, qui il poeta russo sta per abbandonare la posizione del soggetto lirico senza riuscirci ovviamente; si avvertono in certi salti del discorso alcuni sintagmi che potrebbero portare verso l’abbandono della forma-poesia con soggetto lirico centrale, ma restano sintagmi, intuizioni e nulla più, la poesia di Filippov non può che continuare a ruotare attorno all’epicentro del soggetto lirico sottoposto a una continua tellurizzazione del discorso poetico.

    Scrive Wittgenstein:

    «Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, chiodi e viti. — Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto diverse sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là). Naturalmente quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte o stampate. Infatti, il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente non quando facciamo filosofia».1

    1 L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche § 11

    • Il testo kitchen si presenta come sistema cacofonico e irrelazionale che non richiede né prevede la comprensione come ‘riconoscimento’ dell’altro, immedesimazione nell’altro come avviene nella poesia epifanica o comunque empatica ed elegiaca a cui siamo stati abituati nel corso del novecento e di queste ultime decadi; piuttosto è la distanziazione il fattore decisivo. Distanziazione del lettore dall’autore e dell’autore da sé medesimo. Quanta più distanziazione tanto più il testo diventa irriconoscibile e impresentabile. Distanziazione e disarticolazione sono i binari lungo i quali procede il testo kitchen.
      La domanda del modo di appropriazione dei personaggi, delle icone, degli avatar specifici di un testo kitchen deve essere posta in termini che escludano il ricorso alla soluzione ideologica che porta con sé i tradizionali termini: soggetto versus oggetto e la struttura di riconoscimento speculare. La intrinseca contraddittorietà di tale formulazione viene superata mediante la transizione ai concetti di: articolazione, scarto, relazionalità, differenza, capovolgimento, parallasse, peritropè, procedura serendipica etc; i personaggi intesi come «oggetto-di-conoscenza», vengono con ciò ‘declassati’ allo status di meri ‘segnaposto’ o ‘segnavia’ aventi la funzione di indicare la irrelazionalità complessiva del testo inscritta nella praxis performativa.
      Il testo vive nell’esecuzione timbrica, nella voce performativa, nello scarto tra la voce e il gramma.

      Nella vicenda che la poetry kitchen mette in scena, è evidente la disconnessione da ogni visione tragica dell’esistenza a cui rimanda la nozione di destino, in quanto ogni gesto è una messa in mora dell’azione, del crimine, della colpa e dell’imputazione, ancora più significativo in tale vicenda è il superamento della dialettica tra maschera e volto, che costituisce il presupposto di ogni carattere comico e drammatico. Gli avatar, al di là di ogni possibile dubbio, sono totalmente maschera; essi non possono gettare la maschera, in quanto sono privi di azione e dietro di essa non c’è nulla. Per converso, divenire maschera significa assumere totalmente l’apparenza come cifra dell’esistenza, significa perdere ogni personalità, ogni identità, ogni certezza in favore della identità della maschera. Il doppio, a cui rimanda il concetto di persona, che come sappiamo ha nella teatralità della maschera la sua scaturigine, e su cui si fonda gran parte della politica e della teologia occidentale e, secondo l’indicazione di Carl Schmitt, della teologia politica, negli avatar non ha più ragion d’essere. Gli avatar non sono persone, non compiono azioni, quindi non sono responsabili di nulla, non si può loro imputare nulla; dietro la maschera non c’è alcun volto, alcuna identità; la maschera non è capace di azione, può solo gesticolare. Di qui il vuoto di rappresentazione, vuoto di identità, vuoto di vuoto. Di conseguenza, abbiamo il collasso della politica, dell’etica e della poetica. In una parola: il collasso della rappresentazione.

  2. (Francesco Paolo Intini)
    3 febbraio 2021 alle 12:26

    UN BITE E MEZZO

    Raggruppare lana sulla lampada.
    Raggruppata.
    (In fondo si trattava di sostituire una u difettosa)

    Morso di pecora al posto del cavallo.
    Sostituito.
    (Unità di misura non ammessa dal SI)

    Alla scomparsa di Guernica cambiò rotta la corrente del golfo.
    Anche i Sette Sigilli furono ritoccati da Filini.

    Dalla sedia del regista originò un ratto e altri risalirono la rena.
    Innestare uno speculum sulla Punto rottamata.

    Chi ha parlato male della r?
    Forse un pungiglione calmerà la sete di peste?

    C’è un ragazzo sul predellino che riempie un secchiello di nostalgia.
    Faremo un castello con qualche trucco di cartone
    ma alla fine morderemo un pezzo di pane.

    Il collo di mollica che nessun demone riesce a baciare.

    -Che furfanti riempiono le valigie?
    Svuotare anche la stiva della scrivania.
    Litanie da bombarolo in un lapsus.

    Un tirannosauro incastrato in prossimità del cuore.
    Ma nessuno vuol parlarne.

    Forse un infarto chiarirà la misura del suo bite
    o un’indagine televisiva sulle pillole di dentina.

    Alle dieci del mattino interviene una marmitta catalitica.

    E in fondo potevamo coltivarli come lumache
    Sarebbero cresciute al profumo di mimosa.

    Avremmo discusso con un angelo biondo.
    Bignè sulle guance e tulipani dopo i canini.
    Anteprima e via coi programmi sul cappellino.

    Fa così buio sul Tempo
    e i lampioni suonano black to black per raggelarsi.

    Ha un lampo d’amuchina mentre sposta una parete
    Un tocco di meraviglia sistema le piastrelle.
    Si tratta di uno scarico da inabissare nella fossa delle Marianne.

    I critici non capiscono i tubisti che murano le strofe tra pesci rotti.

    L’emporio della metafisica pubblica i suoi depliants.
    Sfogliarli all’alba, sul Collins ogni parola che buca una tomba.

    Per il momento gli eventi girano attorno ad uno scarico
    Finire in strada senza ausili né parcheggio riservato.

    Un’ape morta sul lavandino.
    Un cardellino con la bocca di un bambino.

    Non c’è tregua nel creme caramel.

  3. un piccolo contributo dalla Crisalide fatta d’aria

    Nave angolare

    Parallelepipedi irregolari, spazi deformi, mondi capovolti,
    Pareti sciolte, corridoi voraci, contro-soffitti stravolti,

    Nella nave canta un violino ungherese
    a un certo punto il suono del mare resta sospeso
    si sente un urto, uno squarcio, sembra quasi uno scherzo

    Al giglio, al buio di notte le sue urla, di acciaio, lei affonda
    Concordia. Concordo: infinita (o forse nessuna) Misericordia
    Inclinata, lacerata, di fianco distesa sembra quasi che dorma

    si muore a tentoni nei vicoli cechi, nell’acqua corrosi
    L’idea: una piroetta, un saluto, un pesantissimo inchino
    Addio a chi di 13 o di 14 o di mieloma (piu’ che una data, un destino)

    Nave angolare

    • Cara interlocutrice,

      è evidente che la funzione essenzialmente contrastiva della tua poesia caratterizzata da straniamento in quanto insiste sugli «strappi» insoliti e sorprendenti del naufragio del Costa Concordia sia una scrittura anti-realistica, in tale accezione la composizione appare riuscita, almeno dal nostro punto di vista.
      La concezione del realismo come «sottrazione dell’oggetto all’automatismo della percezione» (Sklovskij) ha a che fare con la sfera ideologica. Il “vissuto”, ogni “vissuto” infatti è impregnato di falsa coscienza e di utilitarismo nonostante le pretese di autenticità e le tesi di legittimazione che molti autori condividono (poiché un vissuto «immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio»). Il vissuto” è, lo abbiamo visto con Althusser, inesorabilmente «informato dal discorso ideologico»,1 e quindi sempre inquinato da ideologemi che ne scandiscono la fatuità, il gratuito e la falsa coscienza.

      1 Cfr. L. Althusser, Sulla psicoanalisi, p. 129

  4. milaure colasson

    è straordinaria la capacità di Vasilij Filippov di presentare come in fotografia i fatti (Wittgenstein) e non gli oggetti:

    Irina Aleksandrovna taglia prudentemente con le forbici
    I delfini azzurri.
    La sua casa assomiglia a una clinica.
    E l’iris azzurro.
    Il suo petalo è picchiettato, assomiglia a un ideogramma-pantera.
    E ai tre gatti non bastano i topi per pranzo.

    Un poeta si distingue da come sa presentare i fatti.
    Complimenti al traduttore Paolo Galvagni.

  5. antonio sagredo

    Di solito diffido dei poeti che hanno trascorro tanti dei loro anni nei manicomi. Secondo alcuni critici letterari e non la permanenza in questi luoghi di sofferenza non solo mentale, ma innanzitutto fisica, determina un innalzamento della qualità dei loro versi. E invece non è così; di solito è un peggioramento. Ma di questo non siamo totalmente sicuri.
    ——————–
    Ho davanti a me lo splendido numero della rivista “Europa Orientalis”, e precisamente dell’anno 2008, edita a Salerno.
    Questo numero che ha titolo “Quel che si metteva in rima” – CULTURA E POESIA UNDERGROUND A LEMINGRADO – e questo puntiglioso e notevolissimo studio è del giovane e capacissimo slavista Marco Sabatini capace di mettere in bianco e nero completamente e interamente il tragitto di quella poesia prodotta dai poeti nati negli anni ’40 e 50’, e in parte degli anni ‘60; e che daranno vita al “secolo di bronzo”. (il secolo d’oro da Puškin e compagnia; il secolo d’argento da Blok, Chlebnilov e compagnia).
    Qui tratto di soli tre di quei poeti dell’underground leningradese: Elena Švarc, Aleksandr Mironov e Serghej Stratanovskij, solo quest’ultimo è vivente, ha circa 78 anni. I primi due sono nati nel 1948 e morti nel 2010. I riconoscimenti avuti dalla Švarc da alcuni contemporanei poeti e poetesse russi non sono stati raggiunti da altri poeti nati in quello stesso periodo degli anni ’40 e 50’ e ’60.
    Ma limitiamoci a questi tre, e comprendiamo Filippov.
    E scriviamo di Vasilji Filippov nato nel 1955 (che qui viene presentato in una foto giovanile che falsa una oggettiva prospettiva critica letteraria se di lui bisogna dire oggi! – nel 2022! ).

    Intanto il russista Sabatini così ce lo presenta (da pag. 303 a pag. 309 di quel numero), di un : “carattere suscettibile e uno stile di vita di piccoli eccessi sono la causa di un distacco progressivo dalla vita reale e di una deriva verso la noia e l’inazione…l’anomalia letteraria di Filippov risiede nello stato mentale in cui inizia a scrivere verso la metà degli ’80 a distanza di qualche anno dall’evento che radicalmente ha segnato la sua esistenza: la reclusione in un ospedale psichiatrico dopo l’aggressione al padre, che per poco non si conclude in tragedia. Sono le conseguenze di questo gesto a determinare la sua sorte futura e la sua maniera di fare poesia”.
    In ospedale viene curato malamente, gli generano i dottori (“medici-ragno”) una dipendenza farmacologia, complici le infermiere “inservienti in bianco – dalle – elefantesche orecchie”.
    Come reagisce il poeta a questa continua tortura – somigliante tantissimo a quella praticata quotidianamente nelle carceri criminali, correzionali ecc. ?
    Non può che reagire con la sua arte poetica tanto che tra il 1984 e 1986 è “animato da una sorta di delirio grafomane, e scrive 400 testi”!
    Ma ciò si spiega che pur essendo a tutti gli effetti un recluso speciale (la colpa è l’essere un poeta, e perciò a maggior ragione è colpevole: stato eterno che circonda il poeta da tempi senza memoria) – “ Filippov concretizza nei versi la sensazione asfittica di un’epoca di ristagno”.
    Ma è il soccorso della poetessa Elena Švarc a spronarlo perché “ si liberi dalla dimensione patologica dell’ospedale psichiatrico” e allora gli dedica questi versi:

    Vasja, volate via dall’ospedale psichiatrico
    Riponete la bambola sul letto e volate.
    Come se l’aveste detto: mettetecela tutta
    Ed io aspetto già girando sopra la Neva
    Noi, due uccellini fumanti, c’involeremo,
    Sopra un posacenere di cenere – la Luna
    (Elena Švarc – 1996)
    —–
    E intanto siamo alla vigilia della “glasnost” di Gorbacëv… e i poeti tutti sono perplessi, son presi in contropiedi, non possono crederci, tant’è che il poeta V. Krivulin (1944-2001) scrive:

    Troppo tardi ci hanno permesso di parlare!

    E nessun poeta crede a questa “tradiva e artificiosa apertura alle libertà fondamentali” ed è certo che “neanche di un passo l’anima è stata conquistata”.
    E allora il poeta Stratanovskij scrive versi profetici:

    Soffia un brutto vento sulla Rusiia
    da qualche parte il popolo ubriaco!
    berciava una canzone indecente…

    Quale è dunque la conclusione. Il poeta Vasilij Filippov ha oggi 66 anni.
    Possiamo scrivere che :” V. Filippov traduce in versi le apprensioni del suo animo in simbiosi con la memoria di un microcosmo culturale prossimo alla estinzione, sullo sfondo della fine dell’Unione Sovietica… Nei versi, V. Filippov trova l’autentica dimensione della sua visione del mondo, incarnando l’immagine romantica e simbolica della follia poetica, uno tra i classici archetipi letterari di Pietroburgo e ne muta la prospettiva ne ‘i poeti e il folle’.

    I poeti russi sono fermi allo stesso punto iniziale. Sanno bene il valore di una falsa e fittizia libertà; conoscono altrettanto bene che la libertà è una chimera., del resto anche noi, perché è un quadro universale, ma noi in Occidente ci permettiamo ancora, ma per poco, il lusso di baloccarci; e scrivevo

    L’Oriente scivolava sulla pagina
    e dileguava ripreso dalla rotazione,
    come figura di un testo geologico
    tu stesso scatenando l’Occidente.

    1981

  6. Marie Laure Colasson
    18 gennaio 2022 alle 19:09

    Chiedere ad un poeta elegiaco di capire una poesia kitchen, sarebbe come chiedere a un Homo Erectus che cosa ne pensa della cultura e della storia degli Homo Sapiens o come chiedere ad una lucertola di comprendere la malinconia degli scimpanzè.

  7. antonio sagredo

    4 febbraio 2022.

    Aggiungo qualcosa al mio precedente intervento sul poeta russo Vasilij Filippov.

    Quel numero della rivista “Europa Orientalis” del 2008 a cura di Marco Sabatini viene preceduto da un lavoro di presentazione e di traduzione dei versi dei nuovissimi poeti del russista M. Martini: La novissima Poesia Russa, Einaudi 2005, che registra come fatto irreversibile la frammentazione drammatica e l’implosione caotica della poesia russa già iniziata alla fine degli anni ‘70 (del ‘900) e che il poeta V. Krivulin (1944-2001) rifacendosi ai “toni apocalittici”
    di un poeta dell’800 F. I. Tjutčev (1803-1873) lo ripropone come antefatto certo poiché si dice della fine (della cultura) di Leningrado.

    E a questo punto ci si deve ricordare anche delle predizioni di A. Belyj e di alcuni versi di Mandel’štam ( e di altri autori non meno importanti).

    Vi è una data precisa (scrive Sabatini), il 6 settembre 1991, quando “cala definitivamente il sipario sul palcoscenico letterario dell’underground di Leningrado: il referendum popolare, di cui Krivulin è tra i promotori, dà alla città il nome originario di San Pietrobrgo. Tre mesi dopo, il 25 dicembre 1991,
    si disintegra l’Unione Sovietica.”.
    Va in frantumi pure “lo schema dualistico – cultura ufficiale vs. cultura non ufficiale…- già da tempo in crisi”. – Il lavoro di Martini ci fa intravedere attraverso i poeti da lui tradotti come la nuovissima poesia russa ha rotto gli argini ed è dilagata ovunque con forza dirompente e incontrollabile, di\mostrando debolezze strutturali tanto è che il Sabatini tre anni dopo può scrivere che i poeti russi
    “Ormai abitanti di un universo decaduto risalgono dalla penombra del sottosuolo e, abbagliati dalle luci del nuovo mondo, vagano orfani e storditi nel rumore assordante della parola libera”.

    Questo stesso concetto è già presente nel lavoro del Martini (p. XVI).
    Un verso di Krivulin recitava:

    è giunta tardi la rimozione dei divieti

    pure se una “legge sui mezzi d’informazione di massa emanata il 1 agosto 1990 pone fine al controllo ideologico sulla stampa e di fatto chiude l’epoca della censura e del samizdat”. (p. 348 – Europa Orientalis).
    Vasilji Filippov è colto di sorpresa anche lui come tutti i poeti della sua generazione ma oramai le loro vicende esistenziali sono state duramente colpite dal potere del sistema sovietico e a nulla valgono le “liberalizzazioni” considerate fittizie, perché i tempi delle censure – sono certi loro – ritorneranno come sempre è stato nella storia secolare della Russia.
    I poeti non si illudono affatto tant’è che i poeti non si uccidono più – si uccidono al posto loro i giornalisti -, ma i poeti continuano a uccidersi egualmente come, uno dei tanti, il giovanissimo poeta Boris Ryžyj (1974-2001).

    E allora che resta della poesia e dei poeti dell’underground, se non macerie, ma un fatto è sicuro che “la spontaneità della loro esperienza conferma che l’anomalia era costituita dallo schema costretto e riduttivo in cui hanno operato gli scrittori ufficiali sovietici e non viceversa”. (Europa Orientalis, 2008,
    p. 372).
    E oggi, nell’anno 2022, come è la situazione a distanza di 14 anni (2008) dalle riflessioni dello slavista Sabatini? Credo come lo stesso slavista chiude il suo lavoro che “la letteratura underground si dimena per uscire dall’anonimato dell’epoca sovietica, in lotta con quel pregiudizio che la vuole confinata a sottocultura.”
    E si dimena ancora, aggiungo, anche se una rivalutazione di quella “letteratura indipendente” che fu aspetta ancora un riconoscimento ufficiale non solo nella critica letteraria della Russia odierna, ma nei testi degli studiosi stranieri.
    Resta il fatto che a quei poeti del periodo “bronzeo” bisogna dare il nome di una lega ben più preziosa:

    a loro non basta più un semplice tramonto di bronzo!
    ———————————————————-
    Non avevi che un vessillo esangue e uno scudo bovino contro gli amori
    inaciditi… il bronzo inutile dei tuoi occhi che raccattavano immagini invernali
    per una emorragia di specchi e lacrime appuntite nei canali industriali, bambini
    che si giocavano l’infanzia scellerata e la gloria con astragali infetti e purulenti.

    (2009)
    antonio sagredo

  8. raffaele ciccarone

    Speculazioni Kitchen
    Antoine-Laurent de Lavoisier nel 1879 sostiene* la legge di conservazione della massa. Dice che: nulla si perde e tutto si ricompone, nell’arte come nella natura. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Un taglia e cuci, copia e incolla, smontare e rimontare tutte azioni da Poetry Kitchen. Un po’ di tempo dopo Einstein confermava, in modalità diversa, che l’energia era pari alla massa per la velocità della luce al quadrato. (* La Repubblica, del 22/1/22, allegato Robinson arte “Alchimisti per sempre” di Cristiana Campanini).


    Antoine-Laurent de Lavoisier
    con lo zucchero e albume fa le meringhe
    Gargantua e Pantagruel vanno a Lille
    per mangiare la merveilleux

  9. Questa volta nessuna durezza-sentenza nella poesia di Franco Intini, Un bite e mezzo, ma ottima poesia da leggere in modalità rigorosamente kitchen altrimenti molte cose si perdono. E può essere che la sensazione di durezza che avverto, in altre sue poesie, sia dovuta all’applicazione sistematica di “A” come “cavallo”, “B”/ “finestra”, quindi la cosa che credete in realtà non è, perché siete fessi. E poi forse l’intenzione filosofica che non sento di condividere. Ma Un bite e mezzo è un gran lavoro.

    La “soggettività esasperata” di Vasilij Filippov è centomila volte meglio di tante poesie dell’io che ancora si leggono. Per quella via non si può andare oltre. Io ci passai quando lessi il Diario di Nijinsky, e ne rimasi molto colpito. Dalla soggettività esasperata iniziò un nuovo percorso, quindi fu la volta di Tranströmer e poi la noe.

    Da Paolo Galvani traggo una definizione che sento adatta per le due opere pittoriche che Giorgio ha scelto per dare commento visivo a questo articolo, la qual cosa mi onora moltissimo:
    “In questo si vede la rifrazione di un mondo nell’altro, che si realizza non nel tempo, ma nello spazio, come l’intersezione geometrica di superfici”.

  10. antonio sagredo

    Carissimo Mayoor,
    in lingua russa il pronome “IO” quando si parla o si scrve è presente oralmente o graficamente, sempre!
    Non esiste la forma, p.e., del presente omettendo il pronome, come noi in italiano possiam fare.
    P:E : se io dico scrivo “Dormo” in italiano possiamo tranquillamente non dire o non scrivere il pronome “io”, – ma se traduco o dico in russo il pronome ci deve essere: è una regola!!!
    La poesia “Sogno” di Filippov come centinaia di altre sue poesie è farcita del pronome “Io”. – e sono poesie anche dell’io, come da Puskin in poi nella poesia russa.
    L’esasperazione del pronome “io” raggiunse il suo apice con la poesia di Majakovskij- che si provi a levare il pronome dai suoi versi, e la sua poesia decade totalmente. slavisti prima e dopo (e specie) Ripellino hanno scritto su questo.
    Nella “Nuvola in calzoni” (poema di Majakovskij è l’apice) –
    Provi caro Mayoor ad ascoltare questo poema dalla voce di Carmelo Bene (vedi internet) e si renderà conto. – Poi pensala come vuoi.


    Riguardo le tue due opere qui pubblicate che sono “altamente” godibili (non c’è dubbio che hai molto talento: te lìho sempre detto), la seconda deriva almeno per me dall’opera di Mondrian : mi sbaglio?
    Ma questo non toglie nulla al tuo alto lavoro.
    a. s.

  11. Il modello di testo che propone in particolare Francesco Paolo Intini e, in generale tutta la poetry kitchen, è che il testo è un qualcosa di non più padroneggiabile dall’autore che lo ha scritto, ma piuttosto strutturato in modo plurale e anonimo, pensabile come un tessuto di linguaggi che ne fanno una manifestazione eventuale, una linea in perpetua trasformazione di un movimento di scrittura che non conosce alcuna origine a alcun punto di arrivo, che non c’è e che non è mai stato, una forma di scrittura che, come dire, fotografa la sua riduzione ad una semplice presenza (senza assenza).
    La poetry kitchen mostra come ogni possibilità di presenza, di pienezza, di significato appartenga da sempre al movimento della significazione, ovvero a quell’apertura che lega costitutivamente ogni presenza alla non-presenza, ogni vita alla morte, ogni dentro ad un fuori.Un testo kitchen esula dal principio di identità che pensa le strutture linguistiche come semplici strutture oppositive, ma le pensa come un «gioco» ad incastro che si crea tra i segni di un testo che rimanda ad altri testi e luoghi linguistici e che corrisponde al lavoro della différanza, che vede i testi come una infinita sequenza anonima ed eccentrica sganciata da qualsivoglia movimento significazionista.
    Il testo diventa archeologia della superficie, come i frammenti di Lucio Mayoor Tosi che io li vedo come dolmen, megaliti della nostra superficie superficiaria e infinita.
    Sulla «soggettività esasperata» di Vasilij Filippov condivido appieno il parere di Lucio: sempre meglio una soggettività esasperata che una soggettività tranquilla e fasulloide.

  12. milaure colasson

    Complimenti per i frammenti di Lucio Tosi

  13. Pingback: Stefanie Golisch – Alessandria today @ Web Media. Pier Carlo Lava

  14. vincenzo petronelli

    La poesia di Filippov ci risucchia in un vortice inarrestabile, che sembra travolgerci con il suo caleidoscopio di immagini istantanee.
    Siamo nella più fulgida poesia del frammento, dello sgranamento e ri-formulazione di significati, di mondi semantici, nei quali si ricostruisce il vuoto, il caos primordiale; quel vuoto nel quale poi i vari contorni si intrecciano, ricomponendo un nuovo piano cosmologico.
    Mi affascina la sua capacità di ri-collegare piani diversi del discorso, attraverso congiunzioni, raccordi trascendenti le convenzioni di senso e la capacità di saper allargare gradualmente l’occhio della telecamera dal piccolo miscrocosmo domestico o familiare – partendo da fermi-immagini in campo medio – al magma esterno, diventando paradigma dell’universale mediante un progressivo ampliamento dell’inquadratura in campo lungo.
    C’è evidentemente un’ intersecazione mirabile con il linguaggio cinematografico: a primo impatto – ma è un’impronta che mi riservo di approfondire ad una lettura ulteriore – mi sembra ricordare certe atmosfere bergmaniane, che personalmente trovo abbiano un’attinenza ontologica palpabile con la costruzione della versificazione “kitchen”.
    La grande poesia russa ed in generale di tradizione slava, ci riserva ancora una volta un referente di notevole spessore nel nostro progetto di rinnovamento, direi palingenesi, del linguaggio poetico.
    Buona giornata a tutti.

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