Green pass, Gianni Vattimo: “Dittatura sanitaria? Göring? Come si fa a sostenere simili sciocchezze?” di Gianni Vattimo, Dalle categorie della metapsicologia, il Todestrieb di Freud, all’odierna disfunzionalità radicale di Thanatos, di Marie Laure Colasson, Caro Agamben, ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismodi Donatella Di Cesare, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Davide D’Alessandro

Lucio Mayoor Tosi Frammento

Lucio Mayoor Tosi, frammento, 2021

.

Marie Laure Colasson

Dalle categorie della metapsicologia, il Todestrieb di Freud, all’odierna disfunzionalità radicale di Thanatos

Il mondo comunque continua, in ogni modo e comunque, non finisce, o meglio, finirà non finendo.
Il neoliberalismo in Italia e in Europa promuove la discoteca. E infatti, apre le discoteche e chiude le scuole. E nessuno protesta. I filosofi italiani Cacciari e Agamben protestano contro il Green Pass ragguagliata alla stella gialla e non si rendono conto della bestemmia che pronunciano, non vedono l’enormità della loro macroscopica svista, si guardano bene dal protestare per la chiusura delle scuole e la DAD.
Dobbiamo prendere atto che QUELLE filosofie non sono le nostre, che dobbiamo ricominciare tutto daccapo, che la vera ragione dello scandalo è che i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, atro che il Green Pass.
Il mondo comunque non finisce, o meglio, finisce finendo interminabilmente, come afferma Charles Simic. E tutta la bellettristica della pseudo arte dei giorni nostri non finirà perché il neoliberalismo ha bisogno di quella pseudo arte, ha bisogno di fingersi democratico e presentabile, quando invece è impresentabile, grottesco e iniquo.
A questa menzogna la poiesis kitchen presenta la vera faccia del mondo, un mondo capovolto, la vera faccia nascosta che il neoliberalismo si guarda bene dal mettere in mostra, e che dissimula in tutti i modi. l paradosso è diventato realtà: i Cacciari e gli Agamben sono utili e redditizi agli interessi del neoliberalismo dei ricchi e dei ricchissimi, le categorie della psicopatologia sono diventate categorie del Politico, strutture ontologiche: Il Todestrieb, l’istinto di morte della meta psicologia di Freud è diventato una struttura ontologica, gli uomini del XXI secolo optano per la morte sotterranea e invisibile. Come afferma Žižek, una «disfunzionalità radicale» è subentrata all’antica categoria della meta psicologia di Freud e noi assistiamo con sbalordimento e incredulità a questo Evento. L’Evento è una «macchia» invisibile, un frammento fuori posizione. «La macchia è la «materia-immagine» della disintegrazione, l’idea della de-figurazione stessa del soggetto e dell’oggetto nel testo, tanto che a realizzare opere di de-figurazione attraverso una lingua-corpo è stato anche il già Antonin Artaud, in testi e disegni dove la de-figurazione non è una banale lacerazione sanguinante né un puro e semplice annientamento della figura. Al contrario, essa è la forza di destabilizzazione che intacca la figura, la forza che mette la figura in movimento e le imprime una rotazione vertiginosa, un ilinx, che è la risposta alla percezione che vede germinare sciami di corpuscoli e striature laddove dovrebbe esistere un solo volto, una sola riconoscibile figura. Ci sono in atto delle forze, invisibili alla percezione quotidiana, che minano alle fondamenta la figuralità della immagine e la distorcono in macchia abnorme. Si tratta delle forze storiche della de-figurazione che agiscono nel profondo dell’inconscio del capitalismo cognitivo e dell’inconscio di ogni individuo, esse sono in azione da un bel pezzo, sono le forze della de-valorizzazione e della de-figurazione» (g.l.).

massimo cacciari 6

massimo cacciari

Giorgio Agamben-988x1024

Giorgio Agamben

Caro Agamben, ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismo
di Donatella Di Cesare
– 20 dic 2021
da espresso.repubblica.it

È stato il filosofo più significativo di questi ultimi decenni. Ma da quando ha iniziato a commentare gli eventi legati al coronavirus ha abbracciato il negazionismo. Sarà quindi necessario preservare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva

Mentre volge al termine il secondo anno della pandemia planetaria non si può fare a meno di riconoscere, tra i tanti devastanti effetti dell’immane catastrofe, un evento tragico che investe in pieno la filosofia. Vorrei chiamarlo il “caso Agamben”, non per oggettualizzare il protagonista, a cui invece mi rivolgo, come scrivendogli una lettera da lontano, bensì per sottolinearne l’importanza.

Giorgio Agamben – piaccia o no – è stato ed è il filosofo più significativo di questi ultimi decenni, non solo nello scenario europeo, ma in quello mondiale. Dalle aule universitarie statunitensi ai più periferici gruppi antagonisti latinoamericani il nome di Agamben, per qualche verso anche al di là del filosofo, è diventato l’insegna di un nuovo pensiero critico. Per quelli della mia generazione, che hanno vissuto gli anni Settanta, i suoi libri – soprattutto a partire da “Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita” del 1995 – hanno costituito la possibilità non solo di scrutare il fondo inquietante e autoritario del neoliberismo, ma anche di smascherare la pseudosinistra vincente e annacquata, che oggi si autodefinisce progressismo moderato. Nessuna critica del progresso, un inventario filosofico fermo tutt’al più agli anni Ottanta, una pratica della politica che la riduce a governance amministrativa sotto il dettato dell’economia. Sulla scia della migliore tradizione del Novecento – da Foucault ad Arendt, da Benjamin a Heidegger – Agamben ci ha offerto il vocabolario e il repertorio concettuale per tentare di orientarci nel complesso scenario del XXI secolo. Come dimenticare le pagine sul “campo”, che dopo Auschwitz, anziché scomparire, entra a far parte del paesaggio politico, e ancora quelle sulla nuda vita, anzitutto di chi è esposto senza diritti, o sulla democrazia post-totalitaria che mantiene un legame con il passato?

Tanto più traumatico è quel che accaduto. Nel blog “Una voce”, ospitato sul sito della casa editrice Quodlibet, Agamben ha preso a commentare l’irruzione del coronavirus in termini semigiornalistici. Il primo post del 26 febbraio 2020 era intitolato “L’invenzione di una pandemia”. Oggi suona come una funesta profezia. Allora Agamben non era però il solo a illudersi che il Covid-19 fosse poco meno che un’influenza. Mancavano dati e l’entità del male non si era ancora rivelata. Nel mio pessimismo, che mi spingeva a scorgere nei primi segnali l’ingresso di una nuova epoca, mi sentivo circondata da persone che preferivano minimizzare o rimuovere.

Durante il lockdown fummo tutti colpiti dalle misure prese per contrastare il virus, tanto indispensabili quanto scioccanti. La vita confinata tra le mura domestiche, consegnata allo schermo, privata degli altri e della polis, ci sembrò quasi insopportabile – fin quando non emerse la sofferenza di chi, senza respiro, lottava per la vita nelle terapie intensive. L’immagine dei camion che a Bergamo trasportavano i feretri segnò per tutto il mondo il punto di non ritorno. Il virus sovrano, che i regimi sovranisti, da Trump a Bolsonaro, pretendevano o di ignorare grottescamente o di piegare ai propri scopi, si manifestò in tutta la sua terribile potenza. La catastrofe era ingovernabile. E metteva allo scoperto meschinità e inettitudine della politica dei confini chiusi. L’Europa reagì.

Per Agamben era tempo di riconoscere a chiare lettere: «Ho commesso un errore interpretativo, perché la pandemia non è un’invenzione». Ma Agamben non ha mai rettificato. I suoi post si sono susseguiti fino a luglio 2020 con lo stesso tenore. Mentre la notizia del suo incipiente negazionismo si diffondeva all’estero, leggevo quelle righe imbarazzanti convinta che l’incubo sarebbe presto finito. Così non è stato. I post sono diventati materia di due libri e la “voce” del blog ha continuato a vaticinare raggiungendo il punto più basso con due interventi del luglio 2021 – “Cittadini di seconda classe” e “Tessera verde” – dove il green pass viene paragonato alla stella gialla. Un paragone osceno, che ha dato la stura ai peggiori movimenti no vax legittimandoli. Il resto, compresa la “Commissione per il dubbio e la precauzione”, è storia recente.

È motivata la preoccupazione per una deriva securitaria. La politica della paura, la fobocrazia che governa e sottomette il “noi” instillando il timore per ciò che è fuori, fomentando l’odio per l’altro, è il fenomeno politico attuale che caratterizza le democrazie immunitarie e precede la pandemia. In modi diversi lo hanno denunciato filosofi, sociologi, economisti, politologi. Altrettanto giusto è sostenere che il contesto italiano è sotto questo aspetto un laboratorio politico senza uguali. Tuttavia non si può confondere lo stato d’emergenza con lo stato d’eccezione. Un terremoto, un’alluvione, una pandemia sono un evento inatteso che va fronteggiato nella sua necessità. Lo stato d’eccezione è dettato da una volontà sovrana. Certo l’uno può sconfinare nell’altro e siamo perciò consapevoli sia del pericolo di uno stato d’emergenza istituzionalizzato sia della minaccia rappresentata da quelle misure di controllo e sorveglianza che, una volta inserite, rischiano di diventare incancellabili. È vero: non c’è governo che non possa valersi della pandemia. Manteniamo il sospetto, che è il sale della democrazia.

Ma il passo ulteriore, quello della deriva complottistica, non lo compiamo. Perciò non diciamo né che l’epidemia da Covid-19 è un’invenzione né che viene presa a pretesto intenzionalmente, come fa Agamben nell’avvertenza del suo libro: «Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia – a questo punto non importa se vera o simulata…». Personalizzare il potere, renderlo un soggetto con tanto di volontà, attribuirgli un’intenzione, significa avallare una visione complottistica. E vuol dire anche non considerare il ruolo della tecnica, quell’ingranaggio che, come insegna Heidegger, impiega quanti pretenderebbero di impiegarlo. I progettisti diventano i progettati. Non si può oggi non vedere il potere attraverso questo dispositivo. Proprio il virus sovrano ha mostrato tutti i limiti di un potere che gira a vuoto, ingiusto, violento, e tuttavia impotente di fronte al disastro, incapace di affrontare la malattia del mondo.

No, non mi associo alla vulgata anticomplottista di quelli che, certi di possedere ragione e verità, riducono un fenomeno complesso a un crampo mentale o a una menzogna. Con tanto più rammarico dico che le cupe insinuazioni di Agamben, le sue dichiarazioni sulla «costruzione di uno scenario fittizio» e sulla «organizzazione integrale del corpo dei cittadini», che rinviano a un nuovo paradigma di biosicurezza e a una sorta di terrore sanitario, lo inscrivono purtroppo nel panorama attuale del complottismo.

Com’è noto Agamben si è ritrovato a destra, anzi all’ultradestra, con un seguito di no vax e no pass. Di tanto in tanto si è perfino scagliato contro chi a sinistra difendeva il piano di vaccinazione. Non mi risulta, invece, che in questi due anni abbia speso una parola per le rivolte nelle carceri, per gli anziani decimati nelle rsa, per i senzatetto abbandonati nelle città, per quelli rimasti d’un tratto senza lavoro, per i rider, i braccianti e gli invisibili. Mi sarei aspettata dal filosofo che ci ha fatto riflettere sulla “nuda vita” un appello per i migranti che alle frontiere europee vengono brutalizzati, respinti, lasciati morire. Anzi, un’iniziativa che, con la sua autorevolezza, avrebbe avuto certo peso. Nulla di ciò.

Ci ha costretto spesso a elucubrazioni fuorvianti e soprattutto, prendendo posizioni paradossali, ci ha spinto verso il senso comune. Per quel che mi riguarda forse questo è uno dei maggiori danni, dato che la filosofia richiede radicalità. Ma i danni sono ulteriori e difficilmente stimabili, a partire da un sovrappiù di discredito gettato sulla filosofia. Per noi agambeniani, sopravvissuti a questo trauma, si tratterà di ripensare categorie concetti, termini, alcuni – come “stato d’eccezione” – divenuti quasi ormai grotteschi. E sarà necessario salvare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva. Né si può sorvolare sulla questione politica, dato che viene meno nel modo peggiore uno dei punti decisivi di riferimento per una sinistra che non si arrende né al neoliberismo né alla versione del progressismo moderato. Il cammino sarà impervio.

Donatella De Cesare

Green pass, Gianni Vattimo: “Dittatura sanitaria? Göring? Come si fa a sostenere simili sciocchezze?” Il filosofo esterrefatto per Cacciari e Agamben. E indica la via in Kant e Rorty
da Davide D’Alessandro da huffingtonpost

Salgo le scale e immagino il professore Gianni Vattimo seduto davanti alla finestra a leggere i giornali, che passano in fretta, e a rimirare la Mole, che non passa mai. Mi accoglie con le mani giunte e quel sorriso dolce e stanco di chi è costretto alla poltrona. Di fronte svetta la libreria, dove campeggiano i libri di Heidegger, di Nietzsche e i suoi, tradotti in tutte le lingue del mondo; perché, sia detto con chiarezza, è lui il filosofo italiano più tradotto all’estero. Della versione cinese ci limitiamo a guardare la bella copertina. Dentro è inutile avventurarsi.

Gli chiedo se devo mostrargli il green pass della doppia vaccinazione ma lui, lucidissimo, non abbocca: “Sono in attesa della terza dose e tutto questo chiasso francamente mi provoca fastidio e sconcerto”.

Ma come, gli dico, si fanno incontri e manifestazioni sulla dittatura sanitaria, sulla sorveglianza, sui complotti politico-tecnico-finanziari, si fa addirittura riferimento ai metodi di Hermann Wilhelm Göring e tu te ne stai qui, buono buono, zitto zitto, ad assaggiare una fettina di torta alle mele e a sorseggiare un po’ di vino bianco? Si fa più serioso: “Guarda, a me sembra un’autentica follia. Ma come si può arrivare a sostenere simili sciocchezze? Stanno usando il green pass e il malcontento generale per arrivare chissà dove. Purtroppo, la responsabilità non è soltanto dei Cacciari e degli Agamben, ma anche di un sistema mediatico che insiste sul tema, concedendo pochissimo o nessuno spazio ad altri tipi di dibattiti, che sarebbero ben più importanti. Vorrei partecipare a incontri e manifestazioni sulla povertà, sull’eutanasia, vorrei parlare di questi temi a studenti coinvolti colpevolmente in una confusione generale”.

Gli porgo la pagina di un libro dov’è l’idea dello Stato da parte di Kant: “L’idea dello Stato è quella in cui nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, ma ognuno può ricercare la propria felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà di altri di tendere a uno scopo simile, la quale può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale”. Vattimo si illumina: “Ecco, scolpiamola sulla pietra e non parliamone più. Anzi, possiamo issarla a mo’ di bandiera e farla sventolare per le piazze. Una volta i Movimenti nascevano su ben altre motivazioni, oggi mi tocca leggere che le riunioni sul green pass potrebbero preparare la nascita di qualche Movimento. Non ho parole. Ma dove siamo finiti?”.

C’è un filosofo al quale il professore affiderebbe la lettura di questo complicato tempo presente ed è Rorty: “Certo, perché le sue parole sono attuali, edificanti, positive. Il pensiero filosofico può essere al centro del discorso pubblico, ma non sul green pass. Non mi sento affatto sorvegliato. Mi sento un po’ spento e amareggiato. Aprire i giornali al mattino e leggere menti, ritenute brillanti, che si accapigliano sul nulla è deprimente. I dati, inconfutabili, ci dicono che la stragrande maggioranza degli esseri umani è ancora in piedi grazie al vaccino. I controlli sono necessari, poiché lo Stato non può consentire che la libertà sfrenata e pericolosa di qualcuno possa compromettere la libertà e, ciò che più conta, la vita di altri. Se non comprendiamo questo, di che cosa parliamo? Di quale filosofia parliamo? Povera filosofia!”.

Lo saluto ricordandogli che la filosofia della quale resto attento lettore è in “Scritti filosofici e politici”, la sua opera (quasi) omnia edita da La nave di Teseo. Il professore sorride ancora. Un raggio di sole lambisce la Mole. Il pensiero debole è più forte che mai.

Giorgio Linguaglossa giacca blu

Giorgio Linguaglossa

Sul concetto di «catastrofe»

Ho scritto tempo fa a proposito di un quadro di Marie Laure Colasson [Struttura dissipativa, la macchia, 35×35 cm, acrilico, 2020]:
«Osserviamo attentamente, ed ecco che emerge una “macchia” (nella parte inferiore, centrale, a sx?). Soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione, ovvero, guardando il quadro obliquamente fino a non poter distinguere la partitura dei colori, l’osservatore potrà realizzare che quella zona non riconoscibile corrisponde ad un buco nero: il punto/centro geometrale cartesiano è perduto, quello che emerge è la zona di angoscia che non può essere raffigurata se non da una macchia nera. L’indicibile. L’irrappresentabile. La catastrofe».

Leggendo le tesi di alcuni filosofi e intellettuali (Cacciari, Agamben etc.) e dei demagoghi della politica della destra sovranista non ho potuto fare a meno di pensare che la «macchia» è qui, presso di noi, ma non la vediamo neanche col microscopio o un binocolo; quella macchia è in realtà un «posto vacante», il quadrante della scacchiera che permette agli scacchi di muoversi e di dare scacco matto. Quella «macchia», quel «posto vacante» è ciò che consente alla struttura (la storia) di mettersi in moto e di restare in moto. Quella «macchia» la puoi interpretare come vuoi: da destra la vedi in un modo, da sinistra in un altro, dall’alto in un altro ancora, dal basso in un altro ancora.

Resta il fatto che quella «macchia», quel «luogo vacante» c’è da qualche parte ma, maledettamente, noi non possiamo vederla, localizzarla, individuarla. Però, possiamo immaginarla. La «macchia» c’è, eccome! Il Covid19 ci ha dato la possibilità di mettere su questo teatrino della vanità dove ciascuno recita la sua parte senza accorgersi della «macchia», del «luogo vacante». Quella «macchia» è nascosta in qualche zona del nostro inconscio e noi non la vedremo mai perché è invisibile, ma è Lei che ci guida nella recita, è Lei che governa i nostri passi, i nostri umori, le nostre scelte nella vita quotidiana e nella politica.
Allora, prendiamo un po’ di coraggio e guardiamo bene in faccia quest’ospite sgradevole che sta dentro di noi, sprofondato in poltrona a sorseggiare un Campari e sogghigna.

Le recenti distopie e narrazioni catastrofiste ci narrano la urgenza di poter assistere dall’esterno alla storia del fallimento e della catastrofe, alla distruzione del modello sociale, economico e politico del mondo capitalistico; distopie che intercettano le pulsioni inconsce della volontà di porre fine ad una esistenza non-umana, pulsioni che non siamo disposti ad ammettere a noi stessi, per via della cattiva coscienza inconscia dell’autocatastrofe.

Marie Laure Colasson con il suo libro in corso di stampa

La morte per Covid

Giorgio Agamben ipotizza addirittura «l’urgenza della catastrofe». Che siano le forze illiberali, e autocratiche a decretare la fine della nostra civiltà è un sollievo per la cattiva coscienza infelice, ma l’autocatastrofe in cui siamo ogni giorno impegnati non ci libera dalla scortese ripugnanza che inconsciamente percepiamo per noi stessi, carnefici e vittime ad un tempo designate e destinate. Proiettare la realizzazione del fallimento delle democrazie nell’immaginario della finzione servile implica rendere la sua realizzazione fantasmatica, quando invece è reale, realissima, prossima a noi. È erroneo pensare che se pertiene all’immaginario e al fantasmatico, allora la catastrofe non potrà mai avvenire, e ci sentiamo sollevati per questo pensiero auto consolatorio.

Lo stato di conflittualità permanente presente nelle società a capitalismo neoliberale e la percezione di vivere in una costante guerra civile, sono i corollari del nostro odierno modo di vita, la traccia di una via permanentemente sbarrata alle istanze della coscienza critica dell’esistente. Non c’è nulla di meglio che una condizione di shock permanente per indurre gli uomini alla resa, o quantomeno ad una condizione di adattamento alle circostanze vissute come oggettive e immodificabili. È la condizione dello shock che apre le porte delle stanze costipate di armadi e di cofani dove nascondiamo gli abiti dismessi della nostra incapacità a vivere. Lo stato di shock da catastrofi che caratterizza le società neoliberali rappresenta l’opportunità, anzi il quotidiano di una nuova articolazione del dominio neoliberale. Il regime neoliberale opera mediante shock: lo shock deforma e disarma la coscienza, la rende inerme, la riduce alla difensiva e alla rinuncia a qualsiasi resistenza. Gli uomini paralizzati e traumatizzati dalla catastrofe permanente, si offrono supini alla nuova articolazione neoliberale della catastrofe annunciata. Il capitalismo cognitivo, la nuova forma del capitalismo di oggi, trasforma le crisi in opportunità, rimodula il plusvalore intensificando lo sfruttamento del capitale fisso, sfruttando le risorse psicologiche dei salariati, rimodulando in vista di un maggior profitto le caratteristiche psichiche e psicologiche dei soggetti umani posti nelle condizioni di prestatori d’opera. Il capitalismo accelera la percezione psicologica del «presente» che gli esseri umani hanno del tempo assolutizzandolo, rendendolo eterno, facendo del futuro una semplice esondazione proiezione del presente.

Il discorso neoliberale presenta il se stesso come il regno della massima libertà, affetta un discorso a-ideologico; anzi, di più, come liberazione da ogni dipendenza ideologica. È importante che il soggetto goda di un grado (ipotetico) elevato di libertà e di autonomia al fine di sviluppare e mantenere la logica del mercato che necessita di soggetti efficienti, in grado di perseguire i propri interessi, la cura del sé, assumere dei rischi e promuovere la auto responsabilità. Questa razionalità, con le connesse pratiche discorsive, promuovono e incrementano una condotta di vita indirizzata all’autonomia e alla autorealizzazione individuale, spingendo verso una ricerca di senso o di un quadro valoriale orientativo dell’esistenza in un’ ottica di salvezza individuale. Vengono predisposti e messi a disposizione dei soggetti una vasta gamma di programmi di tecnologie del sé attraverso i quali modellare la propria esistenza. La ratio di base è la derubricazione dell’angoscia mediante le tecnologie del sé e dei centri benessere, lo yoga e le discipline tantriche e altro ancora; tanto più la catastrofe è incombente quanto più ci si affida ad emollienti e lenitivi, a balsami dell’anima, il tutto in un quadro di salvezza individuale. Tanto più la catastrofe è annunciata mediante i mezzi di comunicazione, quanto più vale la strategia individuale del «si salvi chi può». La ratio neoliberale spinge alla performance in ogni ambito della società e della esistenza degli individui al fine di attingere una modellizzazione delle forme di soggettivazione umana fino a delineare una zona della «cura del sé», ossia uno spazio di relazione del soggetto con se stesso, una vera e propria antropotecnica della manutenzione del dispositivo dell’efficientamento della salubrità e della salvezza individuali. La felicità diventa una questione personale, individuale: si è felici nella misura in cui ci liberiamo dall’angoscia e dalle ansie, nella misura in cui riduciamo l’angoscia e le ansie ad una dimensione accettabile, portabile, diciamo ad un modello prêt-à-porter (abito di serie su modello di sartoria), nella misura in cui le pratiche antropotecniche ci inducono alla evasione del sé e dal sé evitando di affrontare realmente l’angoscia. Il «cura te stesso» diventa l’apoftegma imperativo del discorso neoliberale, la sua ideologia non detta; la strategia del discorso neoliberale nella versione conservatrice non vuole per liberarci dall’angoscia e renderci felici ma intende imporci una censura alla rappresentazione della felicità collettiva.

È un concetto di libertà posticcio un’autenticità erranea ciò verso cui spinge l’ideologia individualistica della «cura del sé». La proposta della auto realizzazione del sé profilata dalle pratiche antropotecniche, è una falsa soluzione. Il soggetto avverte la propria inadeguatezza rispetto all’ideale performativo indotto dalla ideologia neoliberale, e di fronte al vuoto che si spalanca il soggetto non riesce a trovare una via di uscita dal sortilegio che gettarsi a capofitto nelle pratiche di manutenzione del sé. Quel progetto emancipativo e di libertà inteso come autorealizzazione in vista della felicità individuale e collettiva viene derubricato in vicolo cieco, si preferisce il disastro esistenziale e finanche la morte per Covid al principio della solidarietà e alla felicità del collettivo.*

*dal mio libro La Catastrofe, il Kitsch, L’Angoscia, il Covid19 e la Poiesis kitchen, di prossima pubblicazione.

41 commenti

Archiviato in filosofia

41 risposte a “Green pass, Gianni Vattimo: “Dittatura sanitaria? Göring? Come si fa a sostenere simili sciocchezze?” di Gianni Vattimo, Dalle categorie della metapsicologia, il Todestrieb di Freud, all’odierna disfunzionalità radicale di Thanatos, di Marie Laure Colasson, Caro Agamben, ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismodi Donatella Di Cesare, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Davide D’Alessandro

  1. Green pass, Gianni Vattimo: “Dittatura sanitaria? Göring? Come si fa a sostenere simili sciocchezze?” di Gianni Vattimo, Dalle categorie della metapsicologia, il Todestrieb di Freud, all’odierna disfunzionalità radicale di Thanatos, di Marie Laure Colasson, Caro Agamben, ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismodi Donatella Di Cesare, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Davide D’Alessandro


    La derubricazione delle questioni metafisiche  e la svolta della poesia kitchen

    Il problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa», così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece è ipotizzabile l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento.

    Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente.

    È interessante andare a computare la topologia della poesia del modernismo di Kjell Espmark, di un Tranströmer di uno Jacobsen, di un Herbert; di solito si tratta di interni domestici ripresi per linee diagonali, sghembe e in scorcio, qualche paesaggio antropomorfizzato; i plot esistenziali sono quelle della grande civiltà urbana delle società postindustriali; le vicende sono quelle del privato, vicende sobriamente prosaiche di una prosaica vita borghese; non c’è nessuna metafisica indotta, ma un domesticità e una prosaicità dei toni e delle situazioni. Potremmo definire la poesia di un Espmark e di uno Rolf Jacobsen come una sobria e prosaica epopea dell’infelicità borghese del nostro tempo post-utopico. Emerge il ritratto di una società personaggi alla affannosa ricerca di un grammo di autenticità nell’inautenticità generale.

    In Italia  nel secondo Novecento hanno tentato questa direzione di sviluppo della poesia Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhuller (1985) e Franco Fortini con Composita solvantur (1995), da diversi punti di vista e con opposte soluzioni, ma sempre all’interno di un concetto di resistenza ideologica alla società borghese, la dimensione esistenziale in sé era estranea a quei poeti come alla cultura italiana degli anni settanta ottanta. Per il resto, quella problematica ultronea ed esistenziale che balugina nei poeti del secondo surrealismo ceco (Michal Ajvaz, Petr Kral, Pavel Reznicek, Milan Napravnik, Scebek… da noi è apparsa per fotogrammi e per lacerti, in modo balbuziente e intermittente, qua e là; quella problematica inizia ad essere presente nella poesia italiana del Novecento presso i poeti non allineati, in Alfredo De Palchi con Sessioni con l’analista (1967), in Helle Busacca con la trilogia de I quanti del suicidio (1972); in chiave interiorizzata, in Stige di Maria Rosaria Madonna (1992 e 2018, Stige. Tutte le poesie, Progetto Cultura, Roma); in chiave stilisticamente composta in Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996), e poi in Mario Lunetta con la proposta di una «scrittura materialistica» e in Guido Oldani con La betoniera (2008) e il Manifesto del Realismo terminale (2010). In ambito europeo è stato il tardo modernismo che ha insistito sulla problematica dell’esistenza: Rolf Jacobsen con Silence afterwards (1965), Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954), Herbert e, infine, Kjell Espmark con le poesie che vanno dal 1956 ai giorni nostri. Si tratta di un ampio spettro di poeti europei che hanno affondato il bisturi sulla condizione umana dell’uomo occidentale del nostro tempo.

    Ciò che emerge dalla poesia della nuova ontologia estetica e della svolta poetry kitchen, è l’assenza totale della «dimensione esistenziale» (di Espmark, Tranströmer, Helle Busacca, Caproni etc.) e della «dimensione ontologica», sostituite con un «vuoto». Quelle «dimensioni» sono ormai diventate delle scatole vuote. Le condizioni del nuovo capitalismo finanziario globale ha finito per derubricare le questioni esistenziali e psicologiche degli esseri umani a questioni secondarie e terziarie, le ha espulse dal periscopio degli osservatori più acuti, dalla filosofia e dall’arte. Sono diventate questioni psicopatologiche. In particolare, è evidentissimo ad esempio che nella ultima poesia, ad esempio, di Gino Rago, Francesco Paolo Intini e di Guido Galdini la dimensione esistenziale risulti totalmente assente; questo dà da pensare, gli esseri umani ne escono macchiettizzati e sostituiti da sosia, emblemi, avatar, icone, doppi, emoticon… Le voci si sono moltiplicate in emittenti linguistiche, a dismisura, le parole hanno perduto sostanza, si sono raffreddate, sono state sostituite da emoticon, hanno perso il loro referente e sono diventate leggere e volubili, si sono alzate in volo come mongolfiere. Questa gigantesca crisi che è diventata emblematica con la pandemia del Covid, è il prodotto delle nuove condizioni delle forze produttive e dei rapporti di produzione su scala globale, non sono essenze metafisiche, sono questioni ben reali e concrete che nella poesia kitchen vengono improvvisamente in luce in tutta la loro portata.

  2. La scrittura poetica è «una produzione di significati».
    Non ci sono problemi perché non ci sono soluzioni, questo è il motto del neoliberalismo.

    Il neoliberalismo è questo: un atto di im-posizione del linguaggio sulle cose. La posizione della poiesis è invece un ritrarsi dal linguaggio, sostare un passo indietro, un attimo prima che la parola ci raggiunga, dall’esterno, con la sua dote di «imposizione», di Gestell avrebbe detto Heidegger; se invece andiamo oltre, se procediamo verso il linguaggio, con attese, con im-posizioni, con Gestell, ecco che quel linguaggio ci imporrà le sue regole di condotta e le sue scelte, il nostro linguaggio verrà intaccato dalla «imposizione» dei linguaggi che provengono dall’esterno, dal mondo dell’utilitarietà, dal mondo delle condotte, delle pratiche, da ciò che è redditizio, dagli interessi in competizione, dall’interesse dell’io alla propria auto conservazione e alla propria im-posizione.

    Il problema è molto complesso e non riducibile in poche battute, ma certamente l’ideologema dell’io che impera nel mondo tecnologizzato delle società mass-mediatiche non aiuta a pensare in poesia e a fare poiesis, l’io ha bisogno dei linguaggi dell’utilitarietà, della comunicazione, della im-posizione, non può farne a meno pena la sua implosione; l’io è una macchina infernale che lavora sempre per la propria sopravvivenza, lavora per i progetti di auto organizzazione, non può fare altrimenti, è un epifenomeno delle ideologie utilitaristiche che imperversano nella comunità linguistica e mediatica, non può sfuggire alla ontologia della im-posizione.
    La totalità della poesia che si fa oggi nell’Occidente mediamente acculturato, altro non è che un epifenomeno dei linguaggi mediatici, scrittura utilitaria, impositiva, scrittura da risultato sicuro, progettata, narrativizzata, la scrittura assertoria, suasoria, incantatoria, che è l’altra faccia della medaglia di una scrittura definitoria, scrittura da risultato, che parla con un linguaggio imperativo, giustificato, giustificatorio.
    Qualcuno mi chiederà: «che cosa intendi per linguaggio giustificatorio»? Risponderei così: con linguaggio giustificatorio intendo la posizione del «poeta» che si pone in un angolino del «mondo» e di lì si interroga e interroga il «creato» alla ricerca di un «senso» che giustifichi la propria esistenza. Ebbene, questa è una finzione e un falso, è una posizione imbonitoria, assolutoria, in quanto si assume un Gestell, un podio, e ci si mette in posa, in alto sullo zoccolo, proprio come una statua, e di lì si sciorinano pensieri meditabondi, efflorescenze di narcisismi. La poesia che si fa oggi è ricchissima di cotali «poeti» che oggi sono di moda e vengono celebrati. C’è una interminabile schiera di auto poeti alla Franco Arminio, incomparabili nell’adamismo della loro positura assolutoria, dalla quale sciorinano incensamenti alla pacificazione, buonismi e banalismi in grande quantità, un intero dolorificio con una confezione di dentifricio in omaggio.

    Qualche tempo fa uno scrittore mi ha scritto che non «condivide affatto il [mio] giudizio apocalittico» sulla morte della poesia italiana, che invece godrebbe, a suo parere, di ottima salute. Al di là dei convincimenti personali sull’argomento, tutti legittimi e tutti opinabili, ho tentato di argomentare che la poesia di questi ultimi decenni è stata fatta per esigenze privatistiche, psicologiche, per ragioni encomiastiche di status symbol, per personalismi, per narcisismo, senza alcun progetto culturale e consapevolezza storico culturale della poesia del novecento. La poesia italiana di queste ultime decadi è un genere di scrittura privatistica priva di valore culturale, un dolorificio, un genere di scrittura non retta da alcuna normazione di poetica, alcuna episteme direbbe un filosofo. Una scrittura imbonitoria.

  3. Guido Galdini

    Dall’Incredible string band
    Light in the time of darkness (quale titolo più appropriato)?

  4. Guido Galdini

    In un post dedicato a filosofi (o ex-filosofi) un mio pezzo in argomento (probabilmente troppo presuntuoso).

    Ripasso di matematica e geometria otto

    fin dal primo anno del corso di platonismo
    è noto che ogni cerchio
    tracciato, immaginato o sognato
    è un modesto riscontro del cerchio
    che dimora nell’inattingibile mondo delle idee

    ripeto, è una filosofia elementare
    diffusa da autori senza pretese
    da prefatori la cui voce non osa
    avventurarsi nella bufera dei testi
    contentandosi delle note a piè pagina
    dove possano esprimere il loro smorto fulgore

    ma tutto il resto, le figure più sghembe
    gli ovali mal riusciti, gli sgorbi tracciati
    con mano tremante o indecisa
    avranno anch’essi il loro timido luogo
    nel mondo delle idee sopracitato?

    la precisione negli occhi del volto
    si ribella a quella negli occhi della mente
    cospargendo di terriccio lo splendore
    il muschio cresce sui muri delle case crollate
    schiaffeggia le ambizioni dell’intonaco
    ma non cessiamo di rovistare nello scrigno
    che rinchiude i tesori e le loro vendette

    siamo i gingilli della perfezione.

    • Una poesia della disillusione conclusa che è diventata certezza. Però dovresti dirci l’anno della sua stesura, la data è indicativa per capire quale «distanza» tu poi abbia dovuto frapporre tra te e il mondo, fra il tuo linguaggio e il mondo.

      • Guido Galdini

        Non ricordo.
        Presumo attorno al duemila e quindici, poi qua e là ritoccata.

      • La tua poesia del 2015 è ancora una poesia racconto, che vuole raccontare qualcosa che è accaduto nella storia. Anche io a quell’epoca mi muovevo nell’orbita di una poesia racconto, come tutti. Poi dev’essere cambiato qualcosa, ci siamo trovati tra le mani questa poesia della disillusione e del racconto della nostra disillusione e abbiamo capito che non potevamo ancora continuare a raccontarci una storia che già sapevamo, che non dovevamo raccontare più perché i media raccontano molto meglio di quanto possa fare un singolo. Non c’era più niente che valesse la pena di essere raccontato, perchè non c’era più una storia da raccontare…

  5. Tra le mie carte ho ritrovato questa composizione, piuttosto antica. Mi chiedo se sia cambiato qualcosa nel frattempo, da queste parti, Ciao e BUONE FESTE

    STA QUI IL MIO SUD (1980)

    Sta qui
    il mio sud
    dove
    il sole arde
    -con fiamme d’ invidia-
    talenti quasi artistici
    poeti disperati, falliti, anarchici.

    Pozzanghera dove pullula in miniatura
    la lotta di classe.
    Lotta tra amici
    sotto un cielo di bolle.

    Si rosicchia come tarli
    la stessa porta
    lo stesso gusto d’arraffare.

    Reduci del ‘68
    grassi e ricchi
    di un ’68 mai vissuto
    con ferite dentro al corpo
    ma violente discussione
    quelle sì
    con fucili e cannoni
    che sparavano sogni
    frustrazioni non più represse
    Rivoluzioni.

    Ancora urlano
    da una porta all’altra
    dialettiche prese di coscienza
    sensibilizzazioni di massa
    ed un sangue
    vernice rossa sui muri
    testimonia ancora il fuoco nelle vene
    di folli incazzati col potere
    ora panciuti impiegati
    ex intellettuali.

    Teatro di gran battaglie
    sul filo del suicidio sotto i treni
    e d’aneddoti maliziosi
    da ridacchiare insieme.
    Con radio che educano all’ idiozia
    nullità geniali che s’ingozzano d’avanguardia
    ed il gioco della birra
    a dettar legge nei partiti.
    Miserabile teatro dei quattro venti
    dove il sole si schifa di sorgere personalmente
    partorisci imitatori
    mimi
    del gran baccano che chiamano

    Arte, Cultura, Politica.

    Sopra le antenne
    vive una tribù di corvi,
    qualcuno era di passaggio
    ma ora è un piatto prelibato
    questo paese di vive carogne.

    (Francesco Paolo Intini)

    • È proprio vero caro Francesco si arriva alla kitchen poetry attraverso la consapevolezza politica.
      “…di folli incazzati col potere
      ora panciuti impiegati
      ex intellettuali.”

      Un abbraccione.
      Cari, cari auguri a tutti…e a tutti quelli che leggono.
      (Salutone ad Alfonso Cataldi e a Giuseppe Gallo).

  6. Giuseppe Gallo

    Auguro a tutti gli amici un tranquillo Natale e un felice anno nuovo…

    Giuseppe Gallo

  7. Logos erchomenos, la “parola che viene”. Andrea Zanzotto si è servito più volte dell’espressione che nei Vangeli e nell’Apocalisse designa il messia, logos erchomenos, per definire il dialetto come sorgività della parola, qualcosa che viene direttamente dalla immediatezza di una pura interiorità.

    Io ho sempre sospettato che dietro questa tesi si celasse un sottocosto, un prezzo aggiuntivo. L’etichetta della immediatezza mi ha sempre fatto venire l’orticaria… penso, anzi, sono convinto che non ci sia nessuna immediatezza alla base del linguaggio poetico, perché di questo passo finiremmo per divinizzare il mito della sorgività e dell’origine. E la poesia non ha niente a che vedere con questo pseudo mito.

    Tanto è vero che, in un momento di rara sincerità, Zanzotto ha detto che «il mio linguaggio poetico in lingua era fasullo», pronunciando un verdetto inequivocabile di discredito sulla sua produzione poetica in italiano.

    Che tu abbia potuto scrivere questa (tra l’altro molto bella poesia) nel 1980 non mi stupisce, hai fatto una poesia singolare-plurale che ha raccontato la storia di una generazione sconfitta e disillusa in pieno rigoglio e riflusso alla utopia della poesia rurale e della poesia adamitica in pieno inverdimento negli anni ottanta. Quella era una poesia con certificato vidimato di inautenticità e di programmatica falsa coscienza. La tua poesia io la leggo, oggi, come reazione a tutta quella fumisteria di buoni sentimenti e di buone intenzioni, di cuore aperto… le buone intenzioni lastricano sempre la via verso l’inferno.

    Adesso capisco come la tua ultima poesia kitchen sia in un certo senso imparentata con la tua produzione degli anni ottanta, nella tua ultima poesia non c’è nulla della immediatezza, tutto è meditato e mediato dal mondo e dalla distanza che tu hai saputo mettere tra il linguaggio poetico e la tua interiorità. È stato il prezzo che hai dovuto pagare per transitare verso una poesia oggettiva, che cioè impiega le parole come oggetti linguistici e non come oggetti liturgici, quello che fa, con falsa coscienza, la poesia elegiaca.

    • È questa una composizione che segna un distacco di vent’anni dalla poesia e una dedizione all’attività scientifica che perdura ancora anche se senza il fervore e l’entusiasmo dei tempi migliori.
      Il periodo della giovinezza per quanto iscritto nel perimetro degli 80-70 però mi duole ancora in gola. Per come si gridò il Rosso e per quello che ci si aspettava dalla parola Rivoluzione. Ma si sentivano nell’aria le fanfare dei vincitori man mano che si aprivano nel sottosuolo le foibe per seppellirvi il Comunismo Reale con tutti i suoi mentori e sottoscrittori.
      Il mondo si girò nell’altro verso e in effetti che differenza c’è tra un senso e l’atro intorno all’asse terrestre?
      E allora che fine ha fatto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo?
      Che fine ha fatto l’alienazione, il profitto e l’accumulazione del capitale?
      Il tempo fa l’indifferente e senza alcun ritegno da perfetto voltagabbana s’è messo a tessere questa epoca e le altre che seguiranno nel segno dell’ assenza di un’alternativa al capitalismo.
      E dunque disperate genti: questo è!
      L’oscuro vi fa parte, in esso avvengono le distruzioni delle nazioni, le migrazioni su meridiani di dolore che attraversano deserti, bolge e natural burella, viaggiano virus indifferenti alle sorti magnifiche e progressive, avendo tra le mani tecnologie elaborate in miliardi di anni che aggirano le nostre, le bucano come avessero dentro un regista con tutte le chiavi in mano per chiudere le partite e riaprirle alle sue condizioni da capestro.
      Il grande oscuro è visibile a tutti.
      È solo per il vizio di chiamarsi uomo che assumiamo colpe nelle cose che avvengono nell’universo?
      E’ sempre la stessa distorsione che ci fa credere di essere i padroni in questa sostanza autosufficiente per massa ed energia solo perché nel nostro cervello brilla qualche idea che evidentemente vi fa parte?
      Oh poverini che vengono disarcionati dal loro trono nel palazzo reale dell’universo!
      O forse non basta saper viaggiare da un pianeta all’altro e riparare a malapena i danni causati dalle intemperie nei polmoni per dirsi all’ altezza di qualcosa che continuiamo a vedere altro?
      La poesia “oggettiva” di questo tempo risente della forza oscura che impregna l’universo fino a tirare giù dai loro piedistalli le certezze di qualunque pretesa centralità umana, rovistarle ed eventualmente ricombinarle.

      TRATTO DI VIA LATTEA PIUTTOSTO NERO

      Dalla tastiera escono tigri. La giungla bruciata.
      Ossa e fibre giocano nella stessa foiba.

      A contenuto scuro corrisponde un corvo
      portavoce di un caveau.

      -Sai quanti cheap vivono nell’oro?

      Gli stessi che fanno un selfie
      a due bocche sotto il naso.

      Che vetta è sorridere in uno scatto?

      Poi è sempre la stessa metamorfosi:
      Un cono davanti alla sfera diventa Luna.

      E per un incidente
      Il fulmine muore accanto al guidatore.

      Arriva la puntualità a dire in germanico
      Che la stanchezza è irriguardosa.

      E intanto Lucrezio fuori della mischia
      Guarda la partita tra fotoni ed elettroni

      Dolce è mirare chi fa meta.
      Giusto e savio tenere alla guida un crotalo?

      Sputare veleno negli svincoli
      fa pendant col doberman in TV.

      Un tizio buttato giù dal quarto piano.
      E che centrerà mai?

      Stanno le cariatidi al Partenone
      Come il tritolo alle banche.

      Il buco scuro offrì champagne
      e moltiplicò cariatiti e banche

      Tanto per dire macchia nera
      nacque spontanea una valigia

      Alle dieci e venticinque il risultato
      Tra Partenone e dinamite

      (Francesco Paolo Intini)

      • caro Francesco,

        dagli anni ’80 ad oggi abbiamo assistito ad una discesa culturale e politica, la società si è depoliticizzata. Oggi abbiamo una democrazia depoliticizzata.
        Dice una vulgata molto diffusa: «destra e sinistra sono uguali, non c’è più differenza», e infatti il governo pochi giorni fa ha votato contro la proposta del Premier Draghi di destinare ai diseredati con reddito minore a 15.000 euro, i proventi del congelamento degli aumenti derivanti dalla diminuzione delle aliquote Irpef. Si trattava di 4 o 5 euro ciascuno, una cosa miserabile, poco più di un paio di caffè al bar. Eppure, la maggioranza di destra con la convergenza di Italia viva e metà dei 5 stelle ha votato contro. Così i miserabili sono rimasti miserabili. Ma il fatto è che un atto così miserabile come quello di negare ai miserabili una elemosina di 4 euro ciascuno non ha altro nome adeguato che: Miserabile.
        Una democrazia depoliticizzata è una contraddizione in termini, alla lunga la democrazia si corrompe, si guasta e finisce. La crisi della democrazia è ben visibile anche nel cassetto poesia, oggi si fa poesia corporale, si fa poesia come si va di corpo. Ricordo che all’inizio degli anni ’90 un critico, Giorgio Manacorda, scriveva che la poesia era simile ad un atto corporale (andare di corpo). Io all’epoca rimasi allibito. Oggi non c’è più tanto da stupirsi o da rimanere allibito se pensiamo che corriamo il rischio di vedere Berlusconi eletto Presidente della Repubblica. Ormai i guasti sono in profondità.
        La poetry kitchen non è altro che il prodotto dei profondi guasti procurati alla democrazia italiana in questi ultimi 40 anni dalla politica di basso profilo.
        Abbiamo perso nel frattempo molti compagni di strada, ma è stato un bene perderli.

  8. la foto (di qualche tempo fa) del post di Marie Laure Colasson rappresenta il fondo di un lavabo sporco, è del marzo del 2021. Ci dice una cosa: che l’arte di oggi è sporcizia, che l’arte della nostra civiltà è un’arte da immondizia, accompagnamento musicale alla discarica pubblica.

    La Poetry kitchen e l’immondizia sono imparentate. La poesia annuncia una forma-poesia eterodiretta, cioè guidata dalla logica dell’Altro… ma qui non c’entra il divino, né le dimensioni ipnagogiche e le epifanie dei poeti che flirtano con il mistico e fanno misticheria, non ci sono sotterfugi miracolistici e scorciatoie consolatorie, non ci sono bypass, «dio» è lontano e, se c’è, se ne frega delle questioni dell’homo sapiens e delle beghe della poiesis.

    La distanza che ci separa dalla poesia del secondo Montale è immensa. La poesia di Montale si muove dall’io e dalla crisi dell’io, crisi esistenziale, ideologica, stilistica, religiosa, forse, non saprei; Montale non arriva e non può arrivare a concepire una poiesis diretta dalla logica dell’Altro, l’epoca non glielo consente. Il lessico, la sintassi e la grammatica dell’io del secondo Montale ha avuto ripercussioni maleodoranti nella poesia italiana successiva. La poetry kitchen ha alzato il cartellino rosso, «dio», l’epifania, la catabasi, la ipnagogia, la normativa del silenzio sono state espulse dal campo di gioco, la nuova poiesis ha perso atto che la poesia è guidata dalla logica dell’Altro. Tutto qui.

    Il recupero delle forme chiuse e normative in letteratura, e in particolare nella poesia, la convivenza pacifica delle forme narrative con quelle poetiche, dell’arte figurativa con l’arte astratta e così via assume un significato peculiare: il fatto che le forme aperte convivano beate con le forme chiuse, ci dice molto di più, ci dice che il rinchiudersi del poeta all’interno di una normatività positivizzata in campo formale è una strategia per rendere evidente il peso e la relativa postura che un paradigma normologico impone ai corpi e alle psicologie di massa e individuali; il ritorno all’ordine che tanta poesia del secondo novecento ha in qualche modo messo in atto senza remore e remissioni è evidentissimo in queste ultime due decadi, e deve essere ricondotto non soltanto ad un bisogno di ordine imposto da una situazione politicamente regressiva, ma deve anche essere letto come una sorta di auto-martirio spettacolarizzato, quasi per rendere evidenti i segni e le ulcerazioni dell’anima che una misteriosa legge fantasmatica e fantasmata infligge ai suoi abitanti, tanto più oppressiva quanto più invadente nella sua invisibile indiscernibilità dalla «nuda vita».

    Il fatto che le preoccupazioni poetiche di un Fortini e del tardo Montale, come anche quelle dell’ultimo Pasolini siano vissute come ambasce di un passato senza continuità con il presente, significa soltanto che siamo entrati in una nuova situazione politica e psicologica di massa, una condizione derubricante le conflittualità di massa permanente, una situazione che vede in vigore la legge della «nuda vita»: occhio per occhio e dente per dente.

  9. Mariella Bettarini

    Grazie sempre, di tutto cuore, e mille auguri a voi tutti/tutte per un sereno Natale e un anno nuovo speriamo migliore di questo.

    Un affettuoso saluto da

    Mariella Bettarini

  10. milaure colasson

    due parole sul “frammento” di Lucio Tosi.

    caro Lucio,

    con quest’opera hai raggiunto una tua classicità, hai inserito il quadrato all’interno di una “cornice” dipinta e così sei riuscito a mettere in valore il quadrato del tuo frammento. Mi piace molto.
    Il discorso sulla pittura è complementare a quello sulla poesia. Forse ci manca un critico d’arte kitchen… ma verrà, forse…
    Colgo l’occasione per augurare a tutti i lettori e tutti gli amici una serena festività in attesa di tempi migliori.

    • Grazie Marie Laure. Faccio arte poverissima, di molta artigianalità. Il piacere che ne ricavo è fisico, diverso dal momento di poesia. La mancanza di pittura, quando proprio non posso perché la mente sta su altre cose, la sento nel corpo. Ma è comunque arte concettuale, di ricerca ricerca all’origine, dove nascono le cose. E non vado oltre.
      In poesia sono rimasto indietro, sono ancora al frammento, al distico, alla questione ontologica. In quel periodo l’Ombra delle parole ha dato secondo me il meglio che poteva offrire. C’è anche un aspetto che mi piace considerare e condividere: il fatto che siamo parlati dal mondo, per cui è falso dire che serve ai poeti un impegno sociale, in qualche modo riferito ad una ideologia. Noi poeti siamo il mondo, siamo specchi non di noi stessi, narcisi, ma di altri, che nemmeno conosciamo personalmente. Maghi, veggenti, antiche figure ancora qui, armati di tecnologia ma ancora medium, semi coscienti, a tratti illuminati.
      Buon Natale a tutti. Come ogni anno non manca l’euforia, l’eccitante contagiosa trasmissione di sentimenti nebulosi. Il virus se ne sbatte di chi è contro e chi a favore dei vaccini.

  11. Alfonso Cataldi

    Tanti auguri di Buon Natale a tutti.

  12. Il signor Wang il laureato
    ride della mia povera prosodia.
    Non conosco la vita di una vespa
    tanto meno il ginocchio di una gru.
    Non riesco a mantenere i miei toni piatti dritti,
    tutte le mie parole vengono alla rinfusa.
    Rido delle poesie che scrive-
    le canzoni di un cieco sul sole!

    Hanshan ( IX secolo) è una figura associata a una raccolta di poesie della dinastia cinese Tang nella tradizione taoista e chan (Zen).

    Adotterò il verso “canzoni di un cieco sul sole!” per indicare la poesia del tempo della metafisica.

    Buon Natale.
    LMT

  13. Sul carattere eversivo della prassi kitchen

    Il Simbolico è strabico e sempre mancante in un punto, il Reale è la mancanza stessa, ma la sua natura spettrale non è comprensibile se non in rapporto all’immaginario, il quale costituisce la cornice entro cui il Simbolico può funzionare. L’ideologia è il supporto fantasmatico dell’ordine sociale, il suo immaginario. L’ideologia in quanto immaginario è la cornice fantasmatica invisibile che sostiene le fiction simboliche.
    La poetry kitchen adotta la fantasy dell’immaginario come supporto dell’ordine pubblico; ma questa è solo una finzione, un capovolgimento, in realtà la prassi kitchen agisce in vista del disordine pubblico. L’adozione di questa posizione è volta a far saltare gli ideologemi dell’ordine del simbolico come specchio dell’ordine sociale. L’ordo idearum diventa così lo spettro dell’ordo rerum, fa saltare come sulla dinamite l’ordo del simbolico con i corollari dei suoi ideologemi.
    La necessità di un supporto immaginario dell’ordine simbolico pubblico – secondo Slavoj Žižek – rende evidente la vulnerabilità del sistema: il sistema funziona se al suo interno conserva sempre una casella vuota: la casella X, appunto per questo il sistema «è costretto a dare spazio a possibilità di scelta che restano soltanto immaginarie, che non possono mai effettivamente avere luogo, in quanto il loro avverarsi determinerebbe la disgregazione del sistema simbolico, la cui funzione è proprio quella di prevenire e impedire l’attualizzarsi di queste scelte formalmente permesse dal sistema medesimo».1
    L’ideologia è un puntello del sistema sociale, così come la cornice fantasmatica un puntello della nozione stessa di realtà. Entrambe le formazioni si pongono lealmente al servizio del simbolico, ma questa loro posizione dimostra che il simbolico è fragile, vulnerabile, esposto per sua natura al non senso del Reale, in eterna, ineliminabile, dialettica con esso e rivela il carattere «spettrale», traumatico, della fantasy sociale come di quella individuale. Ecco perché questa lealtà immaginaria appare a doppio taglio e connotata da una posizione doppiamente ambigua, quella della
    «radicale ambiguità dell’immaginario [fantasy] all’interno di uno spazio ideologico: l’immaginario funziona in entrambi i sensi, chiude lo spazio concreto delle scelte (colma il vuoto fra la cornice simbolica formale della scelta e la realtà sociale impedendo quella scelta che, benché formalmente permessa, farebbe crollare, se compiuta di fatto, il sistema) e mantiene la falsa apertura, l’idea che la scelta esclusa avrebbe potuto avverarsi, e che al momento non ha avuto luogo solo a causa di circostanze contingenti».2
    Se in Lacan il Simbolico costituiva l’anello forte della catena che dominava il soggetto e lo costituiva, oggi è nell’inquietante moto pendolare tra Reale e immaginario che si gioca la partita del contemporaneo. Entrambi indeboliti, entrambi mancanti.

    1 S. Žižek, The Sublime Object of Ideology, 1997 London, trad. it L’oggetto sublime dell’ideologia, Ponte alle Grazie, 2014, p. 50
    2 Ibidem p. 52

  14. La kitsch poetry

    Ne pas se pencher au dehors
    dice Madame Colasson all’uccello Pettì
    sul notturno Roma-Paris
    Un talebano dice Ohibò al pappagallo Totò
    e fa la pipì sulla moquette del wagon-lit
    Si salvi chi può dice da un oblò
    il Presidente Biden al nano Cocò

    (Gino Rago)

    Une tour de livres placés dans le frigidaire
    livrent un féroce combat avec des aubergines
    un camembert et des cervelles gélatineuses

    Eredia s’introduit dans une toile d’araignée cosmique
    pour décrypter le sens spécifique
    de six paires de mamelles d’une truie
    en transit pour Vénus en compagnie d’Antonin Artaud

    (Marie Laure Colasson)

    È stato detto che la poetry kitchen assomiglia pericolosamente al kitsch perché ne riproduce gli stilemi e ne ricerca gli effetti. Ebbene, rispondo di sì. Se osservata con le tradizionali categorie del sublime, del bello, del buono, del brutto, dell’armonico, del cacofonico etc., la poetry kitchen si presenta irrimediabilmente come kitsch; ma, se capovolgiamo il punto di vista, se osserviamo la poetry kitchen dal punto di vista del fuori-sublime, del fuori-bello, del fuori-buono, del fuori-brutto del fuori-armonia, del fuori-dis-armonico etc., ecco che essa ci appare come un nuovo modo del manifestarsi della poiesis. Ne viene fuori che il kitsch è un’evidenza programmatica, programmata, una evidenza del derisorio e della decostruzione, e della decostruzione di ciò che è già passato al vaglio della decostruzione. Qui sta la sua forza dirompente. Il kitsch è un ibrido plastificato di Hegel e Umberto Eco, è ciò che il postmoderno lascia in eredità alle generazioni a venire: un Moloch, una Torre di Babele che ha invaso i supermarket delle società post-democratiche ad indicizzazione di falso e similoro. Anche il concetto di «catastrofe» sembra esser stata attecchito da questo Ibrido, metà avatar e metà cyborg, indistruttibile e incorruttibile, essendo la vita quotidiana attecchita dalla rimozione della felicità, essa è già in sé catastrofica.
    Da rivalutare e riconsiderare sono i concetti di «falso autentico» e, addirittura, di «falso inautentico» che vengono acquistando la priorità rispetto al concetto tradizionale di «originale autentico» legato ad una concezione di poiesis che aspira al pathos dell’autenticità dell’io lirico. Non più quindi il kitsch come evidenza problematica, ma come evidenza programmatica, evidenza della catastrofe annunciata.
    La nozione di kitsch che nasce con l’ascesa della borghesia come classe dominante. Il postmoderno segna la dissoluzione della borghesia come classe egemone e il kitsch diventa un concetto liquido, anzi, gassoso perché avvolge proprio come un gas l’ecosistema delle società signorili di massa, cioè a democrazia limitata. Il kitsch diventa illimitato, la sua forza esplode, o implode, il che fa lo stesso, diventa il concetto centrale dell’estetica dei nostri giorni.

  15. raffaele ciccarone

    Forse è solo questione di mancanza di punti di osservazione, affidarsi a nozioni del bello non pienamente approfondite porta a riflessioni non adeguate. Buon Natale a tutti.

  16. La pseudo arte del sensorio, del corporeo, del proscenio

    Il gesto di Pollock di scagliare i colori contro una parete innocentemente bianca vuole distruggere il presente e futuro, ma anche il passato; Burri vuole rendere evidente che «ciò che resta» sono i sacchi di juta, le vernici, le toppe… vuole distruggere il presente e il futuro, ma anche il passato. E fin qui tutto bene. Fare tabula rasa ma in un percorso contrastivo e opposizionale alla propria epoca. Ma oggi?, che cosa resta oggi dell’Oggi? Il gesto vitale di Pollock mi fa sorridere per la sua ingenuità, mi fa addirittura tenerezza. Anche il gesto estetico di Andy Warhol mi fa tenerezza, e mi annoia.

    Oggi forse non c’è altra risposta che l’azzeramento di ogni linguaggio, sensato e sensorio, di ogni posizione-opposizione estetica che ponga un senso o che vada alla ricerca di un senso o che vada alla ricerca del non-senso. È che sono gli «oggetti» ad essere destituiti di oggettità, la «merce» è diventata insensata, si è de-fondamentalizzata. Oggi i barattoli di fagioli di Warhol andrebbero a ruba in Africa o nelle bidonville di affamati delle megalopoli di tutto il pianeta, quelle medesime megalopoli che sono diventate spazi de-politicizzati e che magari votano Trump, Bolsonaro, Orban, Putin, Salvini, la Meloni e Berlusconi…

    In fin dei conti, la poesia, la pseudo arte del sensorio, del corporeo, del proscenio, con tutti gli addendi di effetti speciali, tatuaggi, arte corporale, effetti fotovoltaici, effetti psichedelici, etc., quel sensorio, quel proscenio che si fabbrica oggi presso le officine degli editori beneducati e delle istituzioni culturali appropriate oltre che farmi tenerezza, mi fa soprattutto disgusto. Quel tipo di poltiglia dell’io liofilizzato ci parla di presunte esperienze denaturate e liofilizzate del corpo, esperienze-chat, ipo-esperienze, ipo-verità del profondo. Si tratta di una auto illusione nel migliore dei casi, e invece è un falso, una fake new. È incredibile come si possa prendere sul serio quella poltiglia liofilizzata, de-politicizzata e zuccherata!

  17. Condivido appieno il discorso su kitsch e poesia kitchen. kitsch è espressione del veleno esistenziale che accompagna il senso del piacere; il “mi piace” contiene una sotterranea rottura di scatole, dice dell’indifferenza, della noia, indica una blanda emozione estetica, rivolta non già a quanto è stato fatto di bello ma a quel che di bello si fa.
    kitsch da calibrare, che a me fa pensare alla pittura novecentesca di Matisse: parole tirate via come faceva l’artista con il colore che sceglieva scandito, ricco di contrasti e semplificato, in modo da sorvolare su dettagli e dare solo un’impressione, il riassunto di ciò che si vede, si è visto o vissuto. Ma anche no.

    “Un talebano dice Ohibò al pappagallo Totò
    e fa la pipì sulla moquette del wagon-lit ”

    Qui è messo in campo il davvero brutto, il brutto che offende perché segnato da indifferenza. Non volgare, diciamo perbene; non estremo, scritto da persona ai margini della società; no, è solo il già visto per come lo potrebbe considerare Jep Gambardella ne La grande bellezza. Di noia medio borghese.
    Non mi sorprende che abbia centro a Roma invece che a Milano.
    Milano non conosce la noia, Milano è il nulla nel qui adesso, posto frontalmente; rapporto nevrastenico con il consumismo che precede e guida ontologicamente ogni scelta individuale. Ai margini è povertà.

    Un mio Instant kitsch:

    Scambio per mobile barocco. Tinteggio pareti.
    Buoni pasto. Offro per Giorgio Morandi o Picasso.
    Toulouse Lautrec.

  18. caro Lucio,

    una volta chiesero a Federico Fellini dove avrebbe preferito abitare. Lui rispose candidamente: «a Cinecittà». Ecco, io direi che noi oggi siamo fortunati ad abitare in Italia. Ditemi, quale paese è più simile a Cinecittà del nostro martoriato Paese? Qui c’è di tutto. Nell’Immaginario del politico ci sono: mascalzoni, malvissuti, malmostosi, portaborse, corrotti, fraudolenti, tagliaborse, monatti, untori, mangiafuoco, stampellieri, domatori di giraffe, playboy da strapazzo, parvenu, paparazzi, voltagabbana e vomitevoli lustrascarpe. L’ideale per una poetry kitchen.

  19. ciò che comunemente si designa con «bello»

    La poiesis è organizzazione, apprestamento di lavoro e di tecniche attorno ad un punto cieco, ad un focus che inghiotte tutto ciò che ruota intorno ad esso. Pensare che si tratti di un varco che ci conduce in un luogo dove non siamo mai stati, è un pensiero attendibile; ciò che comunemente si designa con «bello» è una funzione di questo focus che inghiotte, una barriera, una soglia più vicina a Das Ding. È un’area di frontiera, pericolosa, indeterminata, imprecisa, foriera di conseguenze non piacevoli, inquietanti, che alludono alle perdite pulsionali che fanno dei buchi nel corpo e nei campi della memoria, zone costituite attorno alla perdita dei propri oggetti. È in questo senso che la sublimazione, la poiesis, ha a che vedere con il corpo.
    Siamo ovviamente lontani dall’affermazione di un io personale e panottico, di un io auto organizzatorio che guiderebbe la poiesis, un concetto da liquidare perché filosoficamente errato e improduttivo.
    In Funzione e campo della parola e del linguaggio Lacan ritiene che il«linguaggio umano» costituisca «una comunicazione in cui l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita». Un esempio relativo a quanto Lacan esprime sulla teoria della comunicazione è dato dal classico dialogo tra moglie e marito. Sia A il marito e B la moglie. Quando A (l’emittente) dice a B (il ricevente) tu sei mia moglie, tale atto di parola implica una risposta (implicita) in forma invertita, io sono tuo marito.
    La parola si configura, quindi, come una «domanda di riconoscimento».
    Più avanti nel testo sopracitato Lacan scrive: «La funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare. Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro».1

    1 J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio nella psicanalisi, in Scritti, vol. I, cit., p. 271.

    • milaure colasson

      Una poesia manierata quella di De Signoribus, e quindi manieristicamente condotta verso uno stile alto, non da Commedia, quindi. Electa una via non datur recursus ad alteram sostiene un noto brocardo latino, il che si può dire così: la via percorsa da De Signoribus è una strada lastricata di eccessi verbali, di sopra tono, di do di petto, di tratti sopra segmentali che alzano il timbro tonale del suo linguaggio. Mentre invece il linguaggio kitchen è un linguaggio da Commedia, basso, che pesca nei rigagnoli delle fogne linguistiche del mondo di oggi.

  20. È che dobbiamo guardare alla poesia come un mero «luogo di enunciazione», ovvero, come un «campo linguistico» al di qua del soggetto dell’enunciazione, come un «campo costellato di proprietà, di possibilità» .

    Se Sartre diceva che «il nulla immaginario, pur restando nulla, può produrre effetti reali», la trasduzione di questa ipotesi in termini žižekiani è risolta così: «il nulla immaginario, pure restando immaginario, può produrre effetti reali»; «il nulla del reale, pur restando nulla, può produrre effetti immaginari».
    Alla fin fine, gira che ti rigira, abbiamo a che fare sempre con il Signor Nulla.

    L’intuizione di Carlo Rovelli, circa un vero e proprio cambio di paradigma che si è verificato nel passaggio dalla relatività generale di Einstein alla fisica dei quanti, potrebbe essere applicata alla poesia sostituendo il concetto di forza semantica del linguaggio con quello di «campo sistemico semantico del linguaggio», con il che possiamo pensare al linguaggio poetico alla stregua di un sistema-linguaggio gravitazionale all’interno del quale non c’è il soggetto parlante (la phoné) come soggetto assoluto ma un «campo linguistico» (la phoné) nel cui interno la forza del linguaggio varia a seconda del punto nel quale si abita il linguaggio. Il linguaggio cessa così di essere pensato come un contenitore di forze per essere pensato come un «campo costellato di proprietà, di possibilità».

  21. Nell’economia dell’Aufhebung il «superamento» del «nuovo» mediante un altro «nuovo» che sostituisce il precedente, corrisponde al regime metaforico. C’è un nesso che lega inesorabilmente la moneta alla metafora: il valore crea il disvalore come prodotto di scarto. La devalorizzazione così ottenuta è un elemento strutturale di ogni «mercato» e di ogni filosofia del «superamento», ciò che trova collocazione nei ripostigli delle case borghesi che, quanto più sono ordinate e linde, tanto più hanno sgabuzzini, cantine, anfratti, soppalchi, contro-soffitti colmi di cianfrusaglie, suppellettili dismesse, bauletti contenenti oggetti démodé, antiche foto, lettere d’amore, oggetti rotti e inservibili, orologi guasti. L’ordine del significante produce strutturalmente il disordine dei rifiuti.
    E che ne è dei rifiuti nel regime economico macchinico e libidinale? Ovvio, la discarica è il regno dei rifiuti. In questo regime è la moneta che, parametrandosi nello stesso tempo con l’universale, funziona da connettitore sullo stesso piano di realtà disparate, dei beni simbolici e dell’immaginario che gli corrisponde. Non c’è oggetto-a che non possa essere valorizzato tramite la moneta e, per ciò stesso, positivizzato e metaforizzato nel linguaggio, posto sullo stesso piano-superficie dei valori simbolici. Tutto viene messo in circolo dalla moneta e positivizzato.
    Ma c’è un piccolo incidente di percorso: nell’economia monetaria ci sono sempre più scarti e rifiuti che non possono essere reimpiegati nel circuito della produzione e del consumo, c’è sempre un residuo che non può essere reimpiegato. La nuova poesia è lo spettro speculare, per contrasto, del macchinismo celibe del «mercato» e della dimensione mediatica che ingoia e tritura le parole consumate dall’uso e dall’usura, le parole commestite, le parole deiettate dal consumo.
    In questa direzione si muove necessariamente la nuova poesia, verso un mistilinguaggio compostaggio dei linguaggi deiettati, dismessi e tolti.

  22. Tiziana Antonilli

    La società italiana è già abbastanza dilaniata dai temi legati alla gestione della pandemia, a mio parere non è il caso di proporre quest’argomento altamente divisivo sulle pagine dell’ombra. Alcuni giorni fa abbiamo letto parole molto dure in uno scambio di battute tra due amici della nostra rivista. Lungi da me l’idea di demonizzare il dibattito, anche il più aspro, ma sinceramente non mi aspettavo di leggere sulla mia amata ombra le solite frasi che si sentono e si leggono sui media sempre più allineati. Colgo l’occasione, comunque, per dire che condivido pienamente le idee espresse da Cacciari e da Agamben..

  23. https://wordpress.com/comment/lombradelleparole.wordpress.com/76197
    HuffingtonPost del 27 dic. 2021
    Intervista ad Alfonso Berardinelli
    by Nicola Mirenzi

    Per Alfonso Berardinelli questa intervista è come se non esistesse. “Se un testo non lo vedo stampato – dice – per me è come se non ci fosse”. Forse è per la stessa ragione che ha accettato di parlare con un giornale che pubblica solamente online, nonostante non ami particolarmente essere intervistato: “Ho imparato a scrivere bene le cose che penso e non capisco perché dovrebbe essere un altro a farlo al posto mio”. La prova che non mente quando autostima la propria scrittura è in ‘Giornalismo culturale’ (Il Saggiatore), il libro che finalmente raccoglie un’ampia selezione degli articoli che ha scritto dal 2013 al 2020, centinaia di piccoli saggi che sono allo stesso tempo dei gioielli letterari e delle felici testimonianze di intelligenza, spesso anche umoristica, della realtà culturale del nostro Paese. “Le idee” mi dice mentre camminiamo per Piazza Navona, a Roma, per raggiungere un posto che conosce e dove crede che potremo stare tranquilli, “non stanno nel mondo delle idee, non possono essere separate dalle persone che le pensano, anzi le idee sono anche le persone che le pensano”.

    Nel suo caso, non sono chiacchiere. È l’unico docente italiano a essersi dimesso dall’Università perché riteneva incompatibile la sua idea di cultura con quella dell’istituzione che gli pagava lo stipendio. “Ho lasciato l’insegnamento a Ca’ Foscari perché non sopportavo di essere chiamato ‘professore’. Non me ne sono pentito. Mi sono stupito semmai di essere rimasto lì dentro così a lungo”. Spesso gli capita di giudicare i suoi contemporanei con lo stesso metro, misurando attentamente la distanza tra le parole che dicono e le cose che fanno. Difficilmente sbaglia. Già sette anni fa criticava Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, i due filosofi che più hanno denunciato il governo (secondo loro) tirannico della pandemia e per questo sono stati anche parecchio criticati, almeno quanto ieri erano stati celebrati. Del primo aveva colto chiaramente dove sarebbe andato a parare: “Il solo vero nemico di Agamben – scriveva – sono sempre e comunque le democrazie capitalistiche, il loro essere ‘sistema’. Secondo questo metodo critico il primo e unico compito è smascherare queste democrazie mostrando che in realtà sono dittature”. Del secondo aveva descritto precisamente la funzione scenica della sua maschera: “A Cacciari va comunque riconosciuto un merito. Come icona e parodia dell’intelligenza ha raggiunto la perfezione”.

    Lei è l’unico che non si è stupito.

    Devo ammettere che però non credevo che sarebbero arrivati a questi livelli di stupidità. Li consideravo entrambi abbastanza scaltri da non cadere nella trappola della propria logica. E invece in questa occasione hanno rivelato l’inconsistenza della loro stessa attitudine filosofica.

    Perché lei, critico letterario, si occupa raramente di letteratura?

    Perché gran parte dell’attuale letteratura non è più un oggetto che abbia interesse critico, né gli studiosi che la leggono sono interessati a esprimere giudizi. Per questo la critica letteraria è in via di sparizione.

    E quindi si occupa di politica?

    Ma per me la politica è un tema letterario.

    In che senso?

    Nel senso che ascolto i personaggi che la interpretano perché mi interessa chiarire ciò che accade nella realtà e che spesso è sconosciuto anche a loro stessi. Non scrivo certo per influenzare la politica o per essere preso in considerazione. So bene che è impossibile, scrivendo, ottenere effetti pratici. Per questo mi fanno ridere i giornalisti politici, gli editorialisti, gli intellettuali che invece si illudono di contare politicamente.

    A lei basta essere letto?

    In realtà ambisco a essere letto solo dalle persone che possono capire quello che scrivo. Mi rendo conto che è un pubblico in costante diminuzione, ma lo preferisco comunque alla massa.

    È vero che scriveva poesie?

    L’ho fatto intorno a vent’anni. Era un esperimento per capire come funziona la testa di un poeta. Partivo da un’immagine o da un verso e poi continuavo. Lasciavo per un giorno il testo lì e poi ci tornavo nei giorni seguenti. Rielaboravo e correggevo in continuazione. Finché non arrivavo alla conclusione che non mi interessavano i miei stessi enunciati e buttavo via tutto.

    Cosa ha capito della testa del poeta?

    Ho capito che almeno per me era una pratica così iperselettiva che sconfinava nella distruttività.

    Ma questo era il modo in cui funzionava la sua di testa.

    Certo. Ma come qualsiasi esperienza umana – la guerra, l’amore – anche la poesia non può che essere sperimentata di persona.

    Cosa non le piaceva dei suoi versi?

    Che mi venivano fuori più degli aforismi che dei veri e propri versi. E l’aforisma, si sa, è l’inizio del saggio.

    A casa sua si leggevano più poesie o più saggi?

    A casa mia si leggevano soprattutto romanzi russi. I miei genitori erano operai comunisti che non facevano parte del Pci ma avevano comunque il mito della Russia e dei suoi scrittori. Il primo libro di Cechov me l’ha regalato mio zio, che faceva il meccanico. A Testaccio gli amici lo chiamavano “il re della lima”.

    E i suoi genitori che facevano?

    Mia madre ha fatto anche la lavandaia in un albergo di lusso di via Veneto. Mio padre da giovane fu assunto come manovratore nelle Ferrovie dello Stato grazie all’intercessione di un prete a cui aveva chiesto una raccomandazione mia nonna che era, come si diceva una volta a Roma, una bizzoca, una bigotta. Ma non durò tanto.

    Perché?

    Perché a ventidue anni partecipò allo sciopero generale dei sindacati contro lo squadrismo e venne immediatamente licenziato. Tornò a fare il mestiere del padre, lo scalpellino, un lavoro massacrante con il quale si producevano sanpietrini come quelli che vediamo in questa piazza.

    Niente intellettuali in casa?

    Ma mio padre era in realtà più intellettuale di molti intellettuali. Alla sua età aveva capito che il fascismo era il fascismo mentre Pirandello e un po’ anche Croce non lo avevano capito. Difficile a quell’età essere più consapevoli di così. Per questo mi viene sempre naturale chiedermi quanto siano davvero intelligenti gli intellettuali.

    Ma anche lei è un intellettuale o no?

    Lo sono, ma allo stesso tempo detesto le categorie generali, le corporazioni, comprese quelle che presumono di possedere l’intelligenza in esclusiva, come le categorie degli intellettuali e dei professori.

    Per questo non sopportava di essere chiamato ‘professore’?

    All’università i professori fanno tutti parte della categoria degli intelligenti, anche se sono degli stupidi. Io credo che l’intelligenza debba essere giudicata di volta in volta, in base alle cose che si dicono e si scrivono. Non sopportavo di essere chiamato professore perché in generale non sopporto che l’autorità culturale venga certificata burocraticamente da un’istituzione. La mia, se c’è, voglio che venga soltanto da me stesso. Me ne prendo tutta la responsabilità.

    L’autorevolezza di suo padre da dove veniva?

    Gli operai di allora amavano veramente la cultura, ne avevano il mito, proprio perché non avevano potuto averla. Mio nonno, scalpellino anche lui, per esempio chiamò i suoi quattro figli Socrate, Omero, Dante e Virgilio. Incredibile, eroico e comico nello stesso tempo.

    Sì, ma in lei mi sembra ci sia anche dell’altro, un sentimento anti borghese.

    È vero che sento odore di borghesia anche da lontano. Per farle capire, ho provato a lungo una forte curiosità erotica per le ragazze borghesi ma quando in loro la borghesia veniva fuori, il mio desiderio sessuale diminuiva.

    Cosa c’è nella borghesia che la respinge?

    Direi il senso del denaro come privilegio e la tendenza a trattare gli esseri umani che svolgono lavori gerarchicamente inferiori come persone inferiori. Odio chi tratta male le donne di servizio e i camerieri, credendo che sia normale farlo e che anzi questo rafforzi la propria identità.

    Ci sono borghesi che, invece, li trattano molto bene.

    E infatti ci sono anche borghesi intelligenti. Non è meccanica la coincidenza tra l’individuo e la classe sociale d’appartenenza, altrimenti non avrei mai potuto fare una rivista come ‘Diario’ con Piergiorgio Bellocchio che viene da una famiglia integralmente borghese.

    Lei che cos’è?

    Io sono estraneo a entrambe le classi, perché non faccio più parte della mia classe di provenienza, quella operaia, né sono mai davvero entrato a far parte della classe sociale d’arrivo. Ho preferito non “fare carriera” e non diventare una “persona seria”.

    Cos’ha contro la serietà?

    Niente. Mi sono solo reso conto nel corso del tempo di quanto poco serie siano, spesso, le cosiddette persone serie.

    Per esempio Umberto Eco?

    Eco mi considerava il suo miglior nemico. Era un uomo dotato di una forma di intelligenza che io ritengo minore, ovvero un misto di efficienza mentale e di furbizia.

    Perché furbo?

    Perché era un intellettuale di élite che per avere successo ha abbracciato la cultura di massa. O meglio, per essere più precisi: era un intellettuale mascherato di élite la cui vera passione era la cultura di massa.

    Lei detesta la cultura di massa?

    Non la detesto, ma non la mitizzo e non mi attira. Contesto l’atteggiamento degli intellettuali italiani verso la cultura di massa, di cui Eco era un macrosintomo, ossia l’idea che sia un valore in sé, una meta trasgressiva, un feticcio estetico che va accettato acriticamente.

    Questo anche nell’Università?

    Anche all’Università. I miei la consideravano il luogo supremo della cultura e per questo credevano fosse una gran cosa essere professore. Invece l’Università può essere, e a volte è, il luogo della sottocultura.

    Ma ai suoi è dispiaciuto quando l’ha lasciata?

    Poco prima di morire mia madre aveva capito che stavo per dimettermi e mi ha chiesto spaventata cosa avevo in mente. Le ho mentito. Perché non volevo addolorarla e sconcertarla.

    Ma lei non sarebbe potuto essere se stesso anche da professore?

    Non ci riuscivo. Perché per essere uno di loro bisogna essere come loro. Bisogna crederci, trovarcisi bene. Io ero a disagio.

    Non sopravvaluta troppo le persone rispetto alle idee che hanno?

    No. Perché le idee non possono mai essere separate dalle persone che le hanno.

    Perché no?

    Perché la verità non può essere detta da una persona che ama la menzogna e la pronuncia per mentire meglio.

    Nemmeno occasionalmente?

    No. Perché chi dice la verità conta quanto la verità stessa. La verità non è una formula verbale, è una presenza reale. Un testo medievale apocrifo riferisce questo dialogo. Ponzio Pilato domanda a Gesù: “Cos’è la verità?”. E Gesù risponde: “È l’uomo che ti sta davanti”. Questa risposta va intesa anche in senso laico.

    Quindi se io sono un peccatore è escluso possa dire una cosa vera?

    Non è detto.

    E come potrei farlo?

    Dicendo la verità. Cioè che lei è un peccatore e perché lo è.

    Praticamente una confessione.

    Ma senza assoluzione, perché i preti non c’entrano.

    Allora chi c’entra?

    C’entrano gli individui reali.

    Perché l’ha detto al plurale?

    Perché è questa la verità. Tutti abbiamo dei peccati! Anche se capirlo non è facile, anzi è la cosa più difficile. Ma oggi vogliamo sentirci tutti innocenti. Lo consigliano i terapeuti. Ma se si hanno delle colpe non sarebbe normale e sano sentirsi in colpa?

    Suppongo di sì.

    Ecco.

    Le sue quali sarebbero?

    Non ci penso nemmeno a dirglielo. Questa è un’intervista. Non una confessione.

  24. Non possiamo uscire fuori dal sistema simbolico ma non possiamo neanche starci dentro se non mediante la proprietà privata di un immaginario…

  25. gino rago

    La poetry kitchen, come afferma Marie Laure Colasson nella sua nota, intende mostrare la “vera faccia del mondo”, al di fuori di ciò che comunemente viene detta la “storia”, ben oltre ciò che chiamano la geografia e soprattutto al di fuori della “geo-politica”.

    Qui la vera questione è la differenza fra ricchi e poveri, non fra nord e sud, o fra oriente ed occidente. Il vero problema è la presenza anche nei cosiddetti paesi opulenti di milioni di scartati che non hanno nemmeno il necessario non per progettare una sorta di futuro, ma che non hanno nemmeno presente, è sufficiente affacciarsi verso mezzogiorno di ogni giorno verso la Comunità di Sant’Egidio per averne coscienza…

    Nelle Storie di una pallottola, è la pallottola che diviene il soggetto delle composizioni, sceglie lei liberamente come e dove muoversi come un vero dis-locato e come un dislocato non si pone più la domanda della vecchia poesia: “chi sono?”, ma a mala pena accenna a chiedersi: “dove sono”.

    Propongo dal libro di prossima pubblicazione, per le Edizioni romane Progetto Cultura, Storie di una pallottola e della gallina Nanin la
    storia di una pallottola n.16.

    Gino Rago

    n. 16

    All’Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani n.18
    il titolare,
    il poeta Giorgio Linguaglossa, riceve il commissario Belfagor
    che ha sostituito gli incompetenti Ingravallo
    e Montalbano.

    Belfagor dice:
    «Dopo mesi di indagini, intercettazioni, pedinamenti
    e appostamenti
    quei due incapaci non hanno ancora detto una parola chiara
    sul revolver calibro 7,65 e sulla pallottola
    di Marie Laure Colasson.
    All’Ambasciata di Francia di Piazza Farnese
    c’è aria di maretta».

    Piazza Cavour.
    Davanti al Palazzaccio scoppia una rissa.
    I poeti del “Verri” e di “Officina” si avventano contro i nuovi scrittori
    di “Nuovi Argomenti”:
    Luciano Anceschi è furioso con Moravia, Roberto Roversi aggredisce
    Enzo Siciliano.

    Alfredo Giuliani vuole strangolare un tizio della “parola innamorata”,
    un celerino prova a separarli.
    Arriva il commissario Belfagor.
    Scappano tutti verso il circo alla Circonvallazione Clodia
    per confondersi con la folla degli avvocati
    e degli assistenti alle udienze.

    Luna Park dell’Eur.
    Dal tiro a segno un colpo va a sbattere sulle montagne russe
    entra nell’atelier di Madame Colasson.
    La pallottola squarcia la Birkin posata su un divanetto rococò
    e buca la gonna della pittrice
    che sta terminando il collage Notturno n. 14
    in acrilico.
    Fa volare pennelli, tele, vinavil, tubetti di colore, limature di ferro,
    cartoncini, risme di carte, cartoline illustrate,
    album di foto, macchine fotografiche, cavalletti
    ed entra
    nel sogno del poeta ceco Karel Šebek.

    La pallottola viaggia così lenta che il commissario Belfagor
    riesce a seguirne la traiettoria sempre nello stesso sogno.

    Infine, si spiaccica sul busto di bronzo di Eugenio Montale.
    E qui finisce la storia.

    Il commissario Belfagor telefona al poeta Giorgio Linguaglossa
    all’Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani.
    Dice:
    «Dottor Linguaglossa, ho risolto il caso,
    la pallottola dell’egregio poeta Gino Rago ha finito la sua corsa,
    si è spiaccicata sulla statua di bronzo
    di Eugenio Montale…
    Dia la notizia all’Ambasciata di Francia».

    Gare de Lyon.
    Louis Malle gira l’ultima scena del film Zazie dans le métro
    e festeggia con Queneau e Philippe Noiret.

    Madame Colasson beve un Pernod con ghiaccio.
    Telefona a Madame Philoméne Rago:
    «Finalmente tutto è finito. Era diventato un incubo.
    Madame Rago, accetto il Suo invito.
    Questa estate verrò in vacanza
    all’Antica-Dimora-Palazzo-Rovitti».

    • La voce narrante si disperde nella descrizione accurata delle ipotiposi di una pallottola che viaggia lenta, così lenta che lo sguardo della voce narrante la può seguire nelle sue vicissitudini e nelle sue performances. Lo sguardo penetra tra le superfici delle situazioni, tra i ribaltamenti di piani narrativi e dei personaggi che vengono man mano sostituiti da una mano fuori scena, un vero e proprio deus ex machina che interviene qui e là, a suo piacimento, a modificare l’assetto della narrazione e gli eventi. Di chi è la narrazione? Di chi è questo sguardo? È uno sguardo neutro, neutrale, fuori scena, che si limita a prendere atto della sequenza di eventi del tutto irragionevoli che si incrociano e si sovrappongono. Il lettore rimane sbalordito, sorpreso, spaesato, non conosce l’identità di questo osservatore privilegiato che sembra presiedere alla inverosimile sarabanda degli eventi. Ci si muove in un luogo-non-luogo, una scena della ribalta, una superficie continua che non è abitata ma neppure disabitata; la pallottola si muove lentamente, personaggi reali e personaggi inventati entrano ed escono di scena, sono marionettizzati, sembrano dei pupi tirati da fili invisibili maneggiati da un regista invisibile. Tutto è apparentemente in disordine, ma tutto ritorna in ordine, il disordine estremo appare ordinato per via dell’intervento demiurgico dei commissari Ingravallo e Montalbano e per gli uffici dell’Ufficio Affari Riservati che agiscono ope legis e propria sponte.

      La sequenza cronologica deraglia subito: interni ed esterni, fantasia e realtà si sovrappongono e si elidono, situazioni reali e sognate sono sullo stesso piano, che è quello della superficie continua sospesa tra passato, presente e futuro senza soluzioni di continuità, che rimangono sullo stesso piano, indistinguibili tra di esse; il filo della narrazione anche è spezzato: senza interruzioni si passa da una scena all’altra dove la scena è illuminata dai riflettori della ribalta, la struttura temporale salta del tutto, e così la struttura spaziale, ciò che è già accaduto si insinua in ciò che potrà ancora accadere, tutto sembra aleatorio, sul punto di non accadere o di accadere, senza ragione sufficiente o insufficiente. È il principio di ragione che sembra venir meno.
      Alla fine, è evidente che è crollato un mondo o stia lì lì per crollare, e la scena finale con la pallottola che si spiaccica sulla statua in bronzo di Montale è inequivoca, ci vuole dire che quella poesia è giunta al capolinea, è stata inesorabilmente affondata dal moderno iper moderno:

      la pallottola dell’egregio poeta Gino Rago ha finito la sua corsa,
      si è spiaccicata sulla statua di bronzo
      di Eugenio Montale…

      In Gino Rago, e in genere nella poesia kitchen, è del tutto assente la funzione provocatoria, proprietà delle avanguardie novecentesche. La poesia ha cessato di essere provocazione, il reale è diventato già di per sé una provocazione che non richiede l’ausilio di altre strutture provocatorie.
      «Tramite il coraggio delle avanguardie artistiche, dal futurismo a dada, dal surrealismo al ready made, sino al loro prolungamento nel dedalo dell’arte concettuale post-bellica, la provocazione è divenuta oggi una pratica non più provocatoria e una forma codificata. […] in grado forse di darci
      qualche segno, qualche storta sillaba intorno alla nostra contemporaneità»1

      3 I. Pelgreffi, Slavoj Žižek, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2014, p. 32.

  26. milaure colasson

    L’interrogante chiede ad Alfonso Berardinelli:

    Perché lei, critico letterario, si occupa raramente di letteratura?

    Perché gran parte dell’attuale letteratura non è più un oggetto che abbia interesse critico, né gli studiosi che la leggono sono interessati a esprimere giudizi. Per questo la critica letteraria è in via di sparizione.

    La risposta è disarmante ma salutare. E fa bene Berardinelli a non leggere più opere letterarie, non c’è nulla che valga la pena di essere letto. Centinaia di romanzieri che scrivono romanzi, centinaia di poeti che scrivono poesie, centinaia di pittori che fanno pittura. E’ terribile. Questa non è più cultura di massa ma siamo entrati nel Museo immaginario dell’immaginario, il condominio del protagonismo dove ciascun condomino è alla ricerca dei suoi 5 minuti di celebrità.

  27. Le nuove forme di soggettività post-edipiche generano un costante bisogno di assoggettamento e dominazione a fronte della perdita del grande Altro; la libertà viene ad essere derubricata a semplice libertà di scelta, da condizione e modo di essere del civis nella polis diventa incondizionata, da mediata diventa immediata, incardinata nella riflessività della soggettività alienata. Il soggetto evanescente del Dopo il Moderno risulta essere sempre più dipendente dal racconto del grande Altro. Le coordinate entro le quali il soggetto si muove creano processualità psicopatologiche contrassegnate dalla crescente dismisura delle psicopatologie del quotidiano (tic, lapsus, manie, disforie, dismetrie emotive, fobie ossessive, intemperanze improvvise, desessualizzazione di parti del corpo, fissazioni etc.). Una libertà che diviene incondizionata genera angoscia nei soggetti che si trovano a dover fare delle scelte che comportano esigenze vitali senza poter più contare sulle tradizionali certezze (Chiesa, Religione, Stato, Famiglia etc.); i soggetti, coinvolti nella necessità di prendere delle decisioni e compiere delle scelte senza poter far riferimento ad alcuna certezza, si scoprono vulnerabili, manchevoli. È ciò che determina la costante ricerca di un Altro dell’Altro nel Reale da ergere a responsabile o colpevole della propria condizione. Senza un’autorità di riferimento non c’è più proibizione e di conseguenza trasgressione, c’è solo una società in cui la Legge viene sostituita da un Super-Io che legittima la narrazione della egoità quale unica e indiscussa via versus il godimento.
    Questa paranoica ricerca di un Altro dell’Altro nel Reale sfocia sempre di più in smarrimento, in angosce coscienzalizzate da parte del soggetto, che adesso può pescare nel vuoto della propria soggettività le ragioni della soggettività stessa. La soggettività così intrisa di psicopatologie reagisce con un più di soggettività e di delirio della soggettività che hanno il fine di delegittimare le narrazioni del grande Altro e sostituirle con i propri deliri allucinatori.

  28. raffaele ciccarone


    il segno l’allegato alla parola
    sprizza raggi di sole
    la gibigiana salta di palo in frasca

  29. vincenzo petronelli

    Ringrazio, come mi capita di fare spesso, Giorgio Linguaglossa per essere riuscito a creare – tra difficoltà che sappiamo bene essere state immani, specie per le resistenze oppostegli dal contesto circostante – un “contenitore” di confronto intellettuale a 360° come l’Ombra delle Parole. Articoli come questo, fanno comprendere appieno, semmai ce ne fosse stato bisogno, la preziosità di uno strumento come l'”Ombra”, tra i pochi che contengano oggi un approccio, una visione olistiche della ricerca culturale, né segmentate in campetti specifici in cui ognuno coltivi le proprie piccole piante senza alcuna capacità di guardare all’insieme e neppure rintanate in un mero, esclusivo, auto-compiacimento estetizzante; del resto l’intero progetto Noe poggia all’origine, proprio sull’idea di restituire alla poesia (e con essa evidentemente alla cultura tutta per traslazione) la sua collocazione nella nostra epoca storica e non con un intento classificatorio, regolatore, ma al contrario per rivitalizzare il consunto spirito di lettura critica della società e del mondo circostante, stintosi nella prassi della scrittura autoreferenziale di questi ultimi decenni.
    La collocazione della poesia, ma direi della riflessione intellettuale tutta, è evidentemente nei seminterrati, laddove ci si può ancora “beatamente” isolare per ripararsi dal frastuono esterno, per osservare il mondo in controluce e laddove i relitti della quotidianità ci rivelano i meccanismi profondi, viscerali del nostro vivere e cercare di rimettere insieme i flutti del naufragio. E da questo osservatorio privilegiato, le sollecitazioni contenute in quest’articolo ci illuminano su uno dei motivi principali della deriva di questo nostro tempo, cioè la pervasività della dimensione individuale: il concetto di “privacy” ormai dilagante ha finito per diventare, da strumento di definizione protettiva del diritto dei singoli, elemento di contaminazione della vita collettiva, dove l'”io” prevarica il “noi” isterilendo di “ipso facto” la possibilità di una vita collettiva democratica, che viene fraintesa come libertà per l’individuo di fare quello che gli pare: sarà pure imperfetto il meccanismo della democrazia e si è prestato storicamente a varie interpretazioni distorcenti, soprattutto di malversazione verso i confini esterni all’ambito del potere emanante, ma non è possibile pensare di vivere in un meccanismo che non preveda regole: non si tratterebbe più di democrazia, ma di anarchia, non più di libertà ma di disfacimento. E’ ciò che ormai contamina la nostra vita da almeno vent’anni, questa deregolamentazione per cui in nome della libertà personale, ognuno si sente in diritto di far ciò che vuole e non a caso il nostro panorama quotidiano somiglia sempre più ad un orizzonte di “fine impero”, come i dibattiti surreali di questi giorni ci mostrano chiaramente. Come evidenzia Giorgio, questa “cura del sé”, altro non è che uno dei meccanismi camaleontici del “mercato” per rinnovare e perpetuare il sistema di condizionamento, indirizzamento delle coscienze, per cui il paradosso che ne deriva è che proprio coloro che più intensamente proclamano di battersi per farneticanti diritti di libertà personale, in realtà non fanno altro che rendersi veicoli di tale andamento.
    La cultura, l’arte, la poesia, hanno inevitabilmente risentito a loro volta di tale e/in/voluzione che come spesso abbiamo evidenziato, nella poesia in particolare si è tradotto nel proliferare di produzioni autoreferenziali, terapeutiche, effusive, totalmente incapaci di leggere ed interpretare il mondo reale ed ancor meno di offrire quel contributo che storicamente le arti dovrebbero essere in grado di fornire e funzionali solo all’autconsolazione del singolo: i risultati sono quelli a cui assistiamo tutti i giorni, con la decadenza non solo della poesia, ma della produzione dell’intelletto tutta, che nella loro espressione prevalente sono ormai ridotte ad una sorta di reificazione del nulla. Come brillantemente sostiene Belardinelli nell’intervista riportata, bisogna dubitare spesso dell’intelligenza degli intellettuali, poiché molti non sono in grado di fuoriuscire dai limiti della teoreticità.
    La poesia può dispensare un contributo importante verso un rinnovamento in questo senso, perché potenzialmente obbligata a decifrare nitidamente la contemporaneità per potersi dotare di senso, ma deve necessariamente a sua volta districarsi dalle sabbie mobili dello svilimento che ha subito in questo quadro sconfortante.
    Il progetto Noe, con il frammento, la Poetry kitchen – così come pochi altri tentativi in atto in questo momento – paiono garantire un supporto fondamentale in tale direzione e l’attenzione crescente che sta riscuotendo lascia senz’altro ben sperare.
    Un saluto a tutti gli amici dell'”Ombra”.

  30. Pingback: Stefanie Golisch – Alessandria today @ Web Media. Pier Carlo Lava

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.