Poesie di Predrag Bjelošević
da Insieme con i muri, Progetto Cultura, Roma, 2021
Predrag Bjelošević è un poeta essenzialista, in tal senso è un poeta erede della civiltà del modernismo. Non lo interessa la poesia di paesaggio o la poesia sperimentale; la poesia per il poeta serbo è una situazione, uno stato di cose, un significato, o un non-significato, può essere tutto ma non può essere commento, glossa; la poesia è una parentesi che apriamo davanti ad uno «stato in luogo». Che cos’è la poesia essenzialista? È il presentarsi di un evento, un qualcosa che appare e che si rivela, un colpo di fulmine. Il poeta serbo è tutt’altro che un poeta istrionico o derisorio come potrebbe far pensare il titolo di una sua opera: »R Ž«; chissà, iniziali di parole inesistenti o, forse, di parole di uso domestico, non sappiamo. Bjelošević ha una spiccata consapevolezza della desertificazione significazionista che ha attinto il linguaggio poetico del Dopo il Moderno e della necessità di un profondo rinnovamento della forma-poesia; sa che il linguaggio poetico è situato in un non-luogo, uno Zwischen, un frammezzo, distante dai linguaggi della comunicazione. Il poeta serbo ha abbandonato l’idea di una poesia in relazione mimetica con il reale, sa che quella via non è più praticabile, dal momento che la mimesis è il modello che adotta la civiltà dei media. La poesia non ha più la funzione di rappresentare un mondo e neanche di purificare la lingua della tribù, come si diceva una volta, semmai ha oggi il compito di dentrificare il fuori e di fuorificare il dentro, proprio in virtù di quel suo situarsi nel «fra», nel «frammezzo», né di qua né di là, in un senza-tempo e in un senza-spazio, in una condizione precaria e instabile. Bjelošević fa poesia ultronea e intima: nomina una situazione verosimile per poi virare subito nel paradosso e nel sovra reale; la sua poesia scantona tra questi due estremi con naturalezza e ingegno, sa che l’ultroneo e l’intimo sono le sole condizioni di possibilità di sopravvivenza che oggi ha il linguaggio poetico non convenzionale. La poiesis non ha alcuna possibilità di sopravvivere se si consegna, bendata, alla ipocrisia dei linguaggi comunicazionali, questo Bjelošević lo sa ed opera di conseguenza, fa poesia essenzialista con una sensiblerie post-moderna, all’incrocio tra la modernità e classicismo lirico.
(Retro di copertina di Giorgio Linguaglossa)
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Predrag Bjelošević (Banja Luka, 29 maggio 1953) è poeta e drammaturgo, e direttore artistico del Teatro per bambini della Republika Srpska. I suoi principali libri di poesia sono: Malto amaro, (1977), Volto occipitale, (1979), Il linguagio del silenzio, selezione di poesie in italiano, (1982), Grid and Dream (1985), Dall’Interspace (1987), Discorso, silenzio (1995), Water Shirt, Selected Poems (1996), In Fear of Light (2001), Rye, canzoni selezionate in francese (2002), Shadow and Vault (2005), » R Ž « (2002). Ha vinto numerosi premi e riconoscimenti. Per il libro di fiabe Walking senza testa (2010), ha ricevuto il prestigioso premio per il miglior libro di fiabe serbo “Pavle Marković Adamov”; nel 2013 ha ricevuto la Gran Fiction “Flying Feather” al Festival internazionale degli scrittori sloveni “Slovenian Embrace” a Varna (Bulgaria).
Adesso, una volta ci penso
E il fuoco acceso dallo sguardo s’affievola
l’attimo di un volto in fiamme come vergogna è molto irreale
i bianchi colombi assomigliano sempre di più a gazze
una strada un tempo lunga adesso sembra corta
un passo un tempo veloce e leggero adesso sembra lento e assonnato
solo i pesci dai tempi che furono saltano fuori dall’acqua
con la stessa ghiottoneria divorano i disattenti insetti
E proprio i pesci nello stesso attimo fanno l’errore delle proprie vittime
presentando il proprio grandioso aspetto agli uomini
Il volto del mondo è ovvio – inespressivo
il volto non è necessario – le maschere lo sono
la fuga è impossibile
dappertutto intorno a noi
vigilano i nostri sogni avveratisi
Allora e adesso
Sono cresciuto nella città di BL accanto al fiume
poteva esssere qualsiasi altra città
ma mi sarei posto sempre la stessa domanda
ho corso lungo le rive ricoperte di erba alta
e di spesse e callose radici di faggi
mi sono nascosto con i ragazzini sulle mura della fortezza
ma raramente abbiamo visto i serpenti velenosi
solo i racconti su di loro ci facevano paura
e del resto anche loro sembravano evitarci
oggi quando sono andato a fare quattro passi con mio figlio
per le stesse rive e le stesse mura
al posto dell’erba fitta raccolta in alti fasci
s’intrecciavano i serpenti
sotto le radici callose
ansimavano le coronelle sonnolente
dalle mura della fortezza scuotevano le code
come bandiere del vincitore
ogni momento era buono per preoccuparmi da padre
– guarda avanti
– guardati intorno
– vedi quello su
finché mio figlio si è fermato
– esistevano questi serpenti
anche allora quando eri come me
in quell’attimo uno stormo di merli chioccolanti
ha coperto il cielo
– Forse pioverà – dissi
dobbiamo fare in fretta
(90)
Poesia patriottica
Il mio Paese è piccolo
il mio piccolo paese
ha un imene piccolissimo
ed incredibilmente elastico
Il mio piccolo Paese
nessun dolore terreno
lo può far piangere
il mio Paese è pregno
della sua resilienza
Il mio piccolo Paese
è orgoglioso
della proprio evidente verginità
E non c’è Alcuno….che potrebbe
soddisfare il suo popolo
non c’è alcuna forza che non si perderebbe
nella sua docilità
non c’è alcun cuore che batterebbe
l’ultimo suo sussulto
I suoi figli sono fatti
di lampo e di tuono
di falce e di martello
di sogno
sono stati fatti i suoi eterni figli
che allegramente spalancano le braccia
incontro all’amicizia
ora verso Oriente, ora verso Occidente
e solo le stelle luccicano eccitate
e solo le stelle vedono
l’amore ripagato di nascosto
e il rossore sulle gote del mio piccolo Paese
e il sangue che scorre e si aggruma
nella forma di una fetta verde d’anguria
A tutto ciò il cane furiosamente
abbaia dal cortile
a tutto ciò insopportabilmente miagola il gatto dal tetto
a tutto ciò turbamente suonano
le campane ortodosse dal cielo
(91.)
29. 12. 92
mi sveglio e non ci credo
di nuovo di fronte a me
il tè
fatto di sbobba lirica
sgranocchio una fetta biscottata di realtà
crocchiano i proiettili sul tetto
sento che è tutto un errore
non c’è una via fino all’unità nell’universo
schizziamo come sperma nel buio
ci trasformiamo in un Niente che parla
in un Niente che si soddisfa da solo
e si scuote dall’eccitamento
mentre beve il tè fatto di sbobba lirica
Аhi, sonetto
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(93.)
Incubo, Realtà, Ribellione della Poesia
Ho avuto un Incubo notturno
le poesie mi sputavano addosso
buttavano pietruzze fischiavano
Ero al parco giochi, legato nudo
non mi potevo muovere dal centro
intorno erano allineati come un viale alberato
guardie armate
Dal Sud si cantavano canzoni
dall’Ovest si urlava la poezia
dall’Est come una campana di chiesa
protestava la poesia
Ascoltavo con gli occhi
già circondato da una massa di spazzatura
già riempito di monetine
Allora i manganelli hanno iniziato a tenere
lunghi monologhi
allora i fucili hanno iniziato a recitare
versi sempre uguali
allora in ritornelli apparivano
gli aerei supersonici
insopportabilmente bombardando le mie orecchie
E quando tutto lo stadio era pieno di sudore e sangue
entrarono i pompieri di turno
spruzzando da tutte le parti
acqua acqua acqua…
con la quale in un attimo l’ardente spettacolo si spense
come la sete di labbra secche
Oddio – come è vera la notte
Оh – come sei reale Incubo
(94.)
caro Giorgio,
conosco e frequento da sempre, tra le altre tradizioni poetiche, quelle dell’affascinante mosaico dell’Europa orientale, dai Balcani fino oltre i confini geografici europei, scavalcando gli Urali fino ai monti ed alle valli dell’Asia Centrale; conoscendole approfonditamente, ho sempre pensato che proprio queste realtà poetiche, possano offrire un contributo notevole al rinnovamento, svecchiamento ed attualizzazione del linguaggio poetico della produzione poetica dell’Europa occidentale. La poesia balcanica in particolare – di cui Predrag Bjelošević si rivela essere uno dei suoi interpreti più cristallini – nella misura in cui storicamente quest’area è stata drammaticamente il crocevia e l’anticipatrice di tutte le crisi e le fratture che hanno caratterizzato la storia europea del XX Sec. può offrire un impulso particolarmente efficace in questo senso.
Predrag è inoltre del cuore della ex Jugoslavia, a sua volta cuore dei Balcani, di quella Bosnia che non a caso durante gli ultimi anni del secolo scorso, è tragicamente assurta al ruolo di baricentro della storia dell’Europa post-guerra fredda e post-duopolio Usa – Urss, salutato inizialmente come trionfo di libertà, ma rivelatosi ben presto una trappola peggiore dello status quo ante, poiché frutto in realtà dello smembramento di uno solo dei due attori – lasciando l’altro in una situazione divenuta ben presto di monopolio degli equilibri geo-politici mondiali – e per il pristino affacciarsi sullo scenario di nuovi inquietanti protagonisti. Non sono assolutamente un nostalgico dell’ancien règime, ma questo è semplicemente ciò che è stato della storia europea e ciò che l’Europa è divenuta oggi, in pratica la matrice della condizione politica, sociale ed esistenziale dell’uomo europeo ed occidentale odierno.
Tutto ciò si ritrova riassunto egregiamente nella poesia di Bjelošević di cui Giorgio Linguaglossa firma la prefazione, mediante la traduzione meritoria di Danilo Capasso, che costituisce senz’altro un esempio mirabile di Poetry Kitchen balcanica, appunto per la sua mirabile capacità di saper interpretare la rottura degli schemi, il disarcionamento dell’uomo odierno dalla selle delle sue certezze avite, emerse ineluttabilmente nella loro falsità.
Il “buio”, come giustamente evidenzia Linguaglossa, è la cifra, la metafora, l’incarnazione della crisi, dello smarrimento, della sensazione di “non luogo” (utilizzo volutamente in senso traslato questo famoso concetto della riflessione antropologica) che sembra essere la società oggi per l’uomo contemporaneo, una sorta di tunnel, in cui il soggetto si ritrova intrappolato, simboleggiato da quella felice intuizione che è RŽ (che richiama altre figure di alter-ego vaganti del poeta, tra i quali uno vicino geograficamente e se vogliamo anche per la sua irriverenza – sebbene di segno un po’ diverso – a RŽ che è il Petrica Kerempuh di Miroslav Krleža), il bardo di quest’umanità dolente, in grado di fornirle una bussola, essendo “un uomo/Senza peli sulla lingua”, “uomo coraggioso”, con le sue “Parole trasformate in oggetti” e che “Nel mare aperto/ O nelle fauci di un coccodrillo/Ugualmente/ Il mare avrebbe ondeggiato” e lui “Sarebbe rimasto ancora sulla riva”; e non può che essere lui infine e taumaturgicamente ad approdare al miracolo di una “poesia/Liberata/Dalla voce comune/ E dall’emozione effimera”.
Già: perché evidentemente la parola, ed in particolare la parola poetica, non può che rimanere arenata nello stesso magma che accompagna l’intero quadro esistenziale umano, dal quale il terapeuta RŽ riesce ad affrancarla, piallandola dell’effimero del quotidiano, del chiacchiericcio, dell’idioletto cui è ridotta dall’autoreferenzialità della maggior parte della poesia che circola oggi, la quale finge di non arrendersi alla crisi nel nome della tradizione: il risultato però è che non facendo i conti con la crisi stessa, finisce per istituire una poesia-feticcio, senza più alcuna pretesa di vera ricerca, ma funzionale solo ai meccanismi degli “idòla fori” baconiani.
Si avverte in Predrag Bjelošević, la necessità di depurare la lingua-strumento di comunicazione della vita umana e la lingua poetica dall’origine di tutti i mali che hanno afflitto l’Europa e l’occidente del XX sec. e che continuano a perseguitarla ancora e cioè il peso degli «idola» della storia, di un memoria, che ancorché teoricamente sostanza della personalità del soggetto, nella dimensione collettiva viene spesso piegata a strumentalizzazioni dannose e funzionali esclusivamente al sistema di potere.
Condivido la definizione data da Marie Laure Colasson della poesia di Predrag Bjelošević come di una “preghiera laica” in grado di esprimere l’istanza soteriologica che l’individuo avverte di fronte allo scompaginamento odierno e che al tempo stesso funga da antidoto contro la risposta apparentemente più semplice a tale malessere, rappresentato dai populismi e le dietrologie varie.
Per rimanere ad un parallelo con il nostro panorama storico attuale, potremmo definire la poesia di Bjelošević come vaccino per l’anima.
Un abbraccio e tutti gli amici dell’ “Ombra”.
(Vincenzo Petronelli)
caro Vincenzo,
la poesia in Italia è rimasta orfana della Politica, e si è de-politicizzata, si è privatizzata, è diventata una proprietà privata dell’io. Nel mondo balcanico invece no, la poesia ha ancora qualcosa di importante da dire, la poesia riveste un ruolo etico, di guida dei comportamenti e delle scelte, e quindi è eminentemente politica, ma non politica dal punto di vista dell’«impegno» quanto politica in quanto la vita stessa è politica, non può dividersi lo zoon dall’anthropos.
Predrag Bjelošević è figlio della storia della Repubblica Srupska, della piccola Serbia e della grande Europa, ha vissuto il «buio» della sua storia. Predrag Bjelošević e Duška Vrhovac sono due poeti serbi, entrambi condividono il senso della Crisi che attraversa il loro paese, la loro poesia è carica di «senso», la loro parola è «pesante» e pensante, la nostra parola invece è «leggera» e priva di pensiero, i poeti italiani non hanno nulla da dire tranne ciò che c’è nella loro presunta interiorità, e poiché lì non c’è nulla da dire non dicono più nulla, o al massimo si rifugiano nel commentino in margine.
Ecco Predrag Bjelošević:
Tutto questo buio acceca
Non si può guardare senza una pausa
Non si capisce
Chi ha un ruolo positivo echi quello negativo
Chi sono i dilettanti e chi i professionisti
In questo spettacolo macabro
Il regista è un allievo superficiale di Mondrian
Ed ecco Duška Vrhovac:
Fatti il segno della croce.
Taci.
Grida.
Muori subito.
Sopravvivi a tutto.
Cammina.
Vai.
Fermati.
Fotografati.
Entra nella storia
Rompi lo specchio.
Rifinisci l’aureola.
Oppure cancella il tuo volto.
Tanto fa.
Questo è il caos.
E tu nel caos solo un grido.
Sono parole «pesanti», la voce è impostata al centro del petto ed esce sonora e forte, baritonale. La voce dei poeti italiani invece esce in falsetto, miagola, squittisce a metà tra la glossa e l’ipocrisia, un connubio indecente che sa di argumentum, da dottor sottile.
(Giorgio Linguaglossa)
Caro Giorgio,
sottoscrivo appieno tutto ciò che scrivi. Uno dei valori aggiunti dati dalla frequentazione di altre tradizioni poetiche, oltre all’arricchimento dei propri orizzonti, stilistici ed espressivi, risiede proprio nel fatto di poter incontrare poetiche ancora calate nella lettura ed interpretazione critica della propria realtà contemporanea. La Poetry kitchen, rimettendo in discussione i dogmi connaturati ai codici d’espressione poetica, conduce in realtà una complessa operazione antropologica e politica, evidenziando i limiti non solo linguistici, ma sussuntamente politici, etici e morali che si celano dietro il processo di eccessiva intimizzazione dell’arte, dietro la pretesa che i limiti dell’”Io” debbano necessariamente corrispondere al territorio del “noi”. Che non sia un esercizio puramente stilistico od accademico, lo dimostra chiaramente il delirio cui stiamo assistendo con l’indecoroso spettacolo offertoci quotidianamente dalla galassia di queste schegge impazzite, ma purtroppo non isolate, che in nome di una presunta affermazione delle libertà individuali, conducono quest’assurda campagna oscurantistica verso la scienza ed il sapere, madre di tutti gli abominii della storia. Ed appunto, tutto ciò viene condotto in nome di una presunta libertà individuale, che intesa in contrapposizione alla libertà collettiva, ammanta di progressismo quello che invece è invece una direttricie dichiaratamente autoritaria, come peraltro dimostra chiaramente la matrice di tali movimenti. Il tutto avviene inoltre, laddove ci sarebbe bisogno di una reale mobilitazione per tematiche oggettivamente serie e rispetto alle quali il nostro pianeta è posto di fronte ad un momento di non ritorno, quali i cambiamenti climatici, le guerre sempre più dilanianti negli angoli più disparati della terra, le crescenti disuguaglianze economiche, gli squilibri nella distribuzione e nelle possibilità di attingimento delle risorse fondamentali per la vita umana (a cominciare da acqua e cibo); ma in questo caso, si sa, si tratta di battaglie effettivamente costruttive, che muovono in nome del sapere e del progresso, non per distruggere ed oscurare: ed in una società in cui ormai ci si indigna solo quando ci si nega la possibilità di fare quel ci pare, inevitabilmente e molto più seducente distruggere. La poesia di Bjelošević e di Duška Vrhovac, ci giunge da una ultra lunghezza d’onda, dalle onde dei Balcani, centro “realistico” ed ipostatico delle crisi almeno per quanto concerne l’Europa e la loro poesia (intesa non solo come produzione poetica dei due poeti citati, ma “loro” come inteso anche come aggettivo possessivo dell’area geografica di provenienza dei due artisti) non ammette fronzoli o indugi manierati o ripiegamenti asfittici sull’ “io”, ma necessita di orientare il periscopio dritto al fuoco, al cuore espressivo ed ontologico. E’ uno dei più grandi insegnamenti che ci proviene da quest’angolo di mondo ricchissimo di tradizione poetica (così come da buona parte di poesia latino americana, dell’Africa post-coloniale, del mondo persiano e dell’Asia centrale, come da altre latitudini) ed è la grande indicazione, la grande traccia poetica fornitaci dalle poesie di Predrag Bjelošević.
(Vincenzo Petronelli)
A proposito del concetto di realismo, il filosofo Žižek sposta il problema e parte, o meglio, riparte dall’oggetto, nel momento in cui il soggetto «incontra» l’oggetto:
Scrive il filosofo Slavoj Žižek:
I fantasmi presenti nella poetry kitchen hanno la consistenza di un buco, di un vuoto di senso, essi assumono appunto il carattere di una fantasy, di una story telling, qualcosa che non è semplicemente illusorio o ingannevole. Occorre dunque distinguere attentamente – cosa su cui Žižek torna ripetutamente – tra “realtà” e Reale: la prima è strutturata simbolicamente e costituisce la struttura reticolare in cui viviamo nel quotidiano, mentre il secondo è il trauma che interrompe questo normale fluire. Di più: la realtà simbolicamente strutturata non è un sistema dominante dispotico, ma una «fragile ragnatela» transitiva, fluida, ostacolata internamente proprio dal blocco del Reale traumatico – e proprio per questo sostenuta dalla fantasia, che quindi svolge anche un’altra funzione, quella di «sostegno ontologico».
Il capitalismo produce continuamente merci, cioè real things e ready made. È questa la sua forza. La ricezione degli «oggetti» nell’arte era un atto storicamente dovuto, prima o poi essi avrebbero fatto irruzione nell’arte. Anche una fantasia è un «oggetto» e, in quanto tale, essa produce un significato, più significati, un significante, più significanti. la catena dei significati e dei significanti non può mai essere arrestata, pena il crollo del Reale. La Fantasia può sì fungere da sostegno alla realtà, ma solo come cornice, come spazio vuoto ontologico intorno al simbolico. In questa accezione penso al vuoto ontologico della poetry kitchen, nel senso che tutto ciò che è contenuto in essa non può che ruotare intorno al simbolico.
La risposta data da Duchamp di riabilitare l’oggetto, il ready made, come oggetto d’arte rende evidente ciò che fino ad allora era rimasto occultato sotto le pastoie ideologiche e apologetiche del «bello». Siamo ancora oggi inchiodati al ready made di Duchamp. Tutta l’arte di questi ultimi decenni è appena un codicillo al ready made di duchampiana memoria, ma esserne consapevoli è già un piccolo passo per oltrepassare il ready made, per andare oltre la parola come segno.
Penso invece che lo scacco del capitalismo globale risieda nell’aver rimosso la pulsione di morte, averla addomesticata e averla cancellata e rigenerata sub specie del feticcio della «merce»; la merce sarebbe la resurrezione della pulsione di morte con segno invertito: da pulsione di morte a pulsione di vita. La pulsione di morte sarebbe il motore segreto di cui si alimenta il capitalismo che lo convoglia nelle merci come un mana, un sistema semantico, un sortilegio che accalappia tutti gli umani. Qui ci viene in soccorso un pensatore certo non marxista come Heidegger il quale scrive: «l’essere svanisce nel valore di scambio». E, aggiungo io, con l’essere, anche la pulsione di morte svanisce nel valore di scambio.
Già Marcuse nei tardi anni cinquanta affermava che oggi le categorie psicologiche sono diventate categorie politiche. Che io chioserei così: oggi le categorie del politico sono diventate categorie della nuova psicanalisi e dei versanti cognitivisti della psicologia contemporanea. Ad esempio che cosa sono i «negazionisti» (di Auschwitz, del Covid19, dello sbarco sulla luna etc.)? se non delle persone che hanno seri problemi di psicopatologia; queste persone sotto il regime del capitalismo diventano sempre più numerose, diventano una «massa» e, quindi, diventano una questione «politica». La politica fa leva sulle psicopatologie di massa diffuse un po’ ovunque.
La poetry kitchen ha questa chiarissima consapevolezza, questa auto evidenza, che «l’essere svanisce nel valore di scambio» e che tutte le categorie della retorica della vecchia poiesis sono diventate categorie della nomenclatura psicopatologica; psicopatologia ed estetismo si equivalgono e sono equipollenti nella inanità complessiva della prassi della politica deterritorializzata di oggi.
1S. Žižek Che cos’è l’immaginario, Il Sagiatore, 1999, p.32
Predrag Bjelosevic è senz’altro una voce poetica decisiva nel tracciare definitivamente alcune linee di demarcazione che per noi del gruppo Noe si sono charite ed appalesate già da tempo, ma che nella versificazione del poeta serbo-bosniaco trovano una sintesi di straordinaria e rara efficacia.
Come evidenziano Giorgio e Marie Laure, Bjelosevic sembra volerci comunicare inesorabilmente la fine del post-moderno (il suo sonetto è emblematico e – per quanto mi riguarda – entusiasmante in questo senso), in quanto possibile paradigma del moderno (ad esso opposto e speculare) per affermare perentoriamente il vuoto dello statuto ontologico che caratterizza il nostro tempo.
Inevitabilmente, la poetica di Bjelosevic, con la sua perentorietà e mancanza di qualsivoglia “gingillamento” dialettico e retorico, spalanca impulsi sugli stimoli e le istanze più profonde legate alla nostra riflessione poietica, che a sua volta trascina con sé varie concatenazioni con le istanze più profonde del nostro tempo, che non a caso sono emerse già dai precedenti commenti.
Inserisco il mio intervento in risposta a quest’inserto di Giorgio, poiché a mio avviso in questo “cameo” si situano alcuni passaggi fondamentali, non solo dell’ermeneutica poetica, ma anche cosmologica della Noe, che individuano alcune tra le problematiche più importanti della contemporaneità.
Ricollegandomi alla fine del postmoderno, la poesia di Bjelosevic come la Poetry kitchen e i pochi poeti in grado di leggere il contemporaneo, ci mostrano come proprio in questo senso il Covid, al netto dei disagi che ha indubbiamente comportato (e che sembra purtroppo ancora comportare) sia anche una grande opportunità teleologica per affrontare e comprendere il vuoto di senso ontologico di quest’epoca; d’improvviso, ci si rivela tutta la fragilità della nostra impalcatura simbolica e di valori, edificati sul ciarpame del mondo delle merci, assurto a dogma religioso. E’ proprio tra i rottami di questi feticci che la Poetry kitchen affonda la propria ricerca per ricreare un filo del discorso, mediante la poetica del frammento, per cui per noi si tratta di un procedimento acclarato e di una “Weltaschaaung” consolidata, a cui questa situazione aggiunge un nuovo incentivo per proseguire su questa strada e aggiungervi nuove istanze.
Tale opportunità di revisione critica dei paradigmi acquisiti, non è però percepita come tale (intendo come opportunità) dalla maggior parte dei nostri simili, troppo legati ai loro meccanismi abitudinari per rimetterli in discussione; in fondo la pandemia ha evidenziato un problema che appariva già palmare a causa dei vari motivi di sofferenze che affligono il mondo e che negli ultimi vent’anni si sono continuamente aggravati, dal devastante cambiamento climatico, all’accrescimento delle disuguaglianze e delle povertà (frutto anche di un inselvatichimento del processo capitalistico in particolare con l’apparizione delle nuove potenze finanziarie), alle guerre che dopo la conclusione del bipolarismo si sono moltiplicate negli angoli più disparati del mondo, in uno con il disinteresse dell’emisfero occidentale, reponsabile di queste situazioni, ma in cui la maggior parte della popolazione ha continuato a crogiolarsi nel proprio culto feticistico delle merci, sviluppatosi anche grazie alle depredazioni perpetrate in quegli angoli di mondo. Erano e sono questi i veri motivi di preoccupazione ed indignazione che costellano il nostro pianeta, senza che però quasi nessuno avesse mosso un dito nei nostri paesi. Su questo scenario si è abbattuto il Covid ed improvvisamente anche le nostre società hanno imparato che possono esistere incidenti di percorso, rispetto all’illusione dell’iperpianificazione e della plasmazione del mondo, nei confronti dei quali l’anima si ritrova nuda, posta di fronte ai limiti della condizione umana.
Trovo che la chiave di spiegazione sia proprio in un passaggio che Giorgio menziona nel suo intervento sopra, quando afferma che “che lo scacco del capitalismo globale risiede nell’aver rimosso la pulsione di morte, averla addomesticata e averla cancellata e rigenerata sub specie del feticcio della «merce»; in altre parole, si è venuta consolidando, nel corso dei degli ultimi 250 anni, una sorta di “religione delle merci”, succedaneo della sfera del sacro.
Ancora una volta l’antropologia – e la sua branca gemella della Storia delle religioni – ci offrono un quadro intepretativo interessante delle dinamiche ingenerate da questo processo.
Il contributo della Storia delle religioni in questo senso è stato di connotare l’essere umano non come homo faber, come aveva fatto il materialismo storico, ma come homo religiosus, affermando dunque il primato antropologico del sacro.
Tra gli storici delle religioni il cui pensiero ha inciso in questa direzione, va sicuramente considerato Ernesto De Martino, la riflessione si impernia proprio attorno al tema della morte, che assume una fisionomia fondamentale non solo e non tanto come fenomeno in sé, ma soprattutto come rappresentazione ontologica del sacro: per molta parte del pensiero antropologico e della Storia delle religioni infatti, il sacro è sostanzialmente un meccanismo che «si è sviluppato nel corso dell’evoluzione dell’uomo come difesa contro l’angoscia dell’Evento per antonomasia, cioè della morte appunto.
In particolare, per De Martino, come si evince nel suo celebre lavoro “Morte e pianto rituale” del 1958, i processi legati all’elaborazione del lutto, partendo dall’esame del pianto rituale – che egli pone in diretta discendenza con il lamento funebre praticato nelle antiche culture agrarie del mediterraneo – altro non siano che un tentativo di superamento del momento critico della morte, attraverso l’attribuzione al defunto di una “seconda morte”, culturalmente connotata, che in pratica celebra il processo di separazione, per attribuirle un senso si potrebbe dire, filologico.
De Martino, come tanti antropologi e storici della religione, comprende che la morte, al di là dell’essere un dato biologico inevitabile, esiga però una risposta vitale umana, è il fulcro della riflessione demartiniana.
Ricollegando questa considerazione ad altri nodi del lavoro condotto negli anni da De Martino, emerge chiaramente come la prospettiva di questa concettualizzazione sia in realtà ancora più ampia, assumendo un valore paradigmatico del superamento di quella che De Martino stesso, in una delle sue più celebri formulazioni ha definito la “crisi della presenza”; di quei momenti critici cioè, del percorso esistenziale individuale, così come della vita comunitaria.
L’idea della morte e le modalità con cui storicamente l’uomo l’ha fronteggiata, diventano strumenti chiave per affrontare il fondamento dell’esperienza umana, vale a dire lo sforzo di oltrepassamento di ogni momento critico, che impone all’uomo una separazione da ciò che è stato e una riproposizione del proprio esserci. La presenza nel mondo come essere umano dotato di senso non è dunque un dato acquisito una volta per tutte, ma una sfida trasformativa continua.
In definitiva, il paradigma dell’esperienza storicamente e culturalmente tramandata della morte è la bussola che informa il percorso esistenziale dell’uomo, verso l’individuazione della soluzione alla prospettiva problematica che contrassegna la sua vita e che trasforma ogni frattura, ogni crisi, in un’opportunità.
La storia umana è dunque, per De Martino, un percorso di evoluzione e trasformazione. Non è e non può essere pensata come ritorno indietro, ciclico ripresentarsi di situazioni già date, né a livello collettivo, né tanto meno a livello individuale.
Il delirio dell’onnipotenza e del possesso materiale, come sottolinea Giorgio, hanno privato l’uomo di questo rapporto rigenerante e determinante con la prospettiva della morte, intesa come cornice naturale di tutto il suo cammino, poiché quella funzione qualificante è stata totalmente delegata alla simbologia della merce.
La conseguenza è che evidentemente l’uomo occidentale odierno non può contemplare l’idea del dissolvimento fisico, ma in concreto ciò significa non accettare la condizione naturale della vita, cercando di ricorrere alla soluzione autodeterminante per il tramite del controllo tecnologico e scientifico. Di fronte alla presa di coscienza della mancanza di una soluzione reale – che semplicemente non può esistere nel momento in cui non si accetta l’esito della naturale della morte – si addita la scienza ufficiale di compiacimento nei confronti di presunti blocchi di potere soverchianti e ci si affida all’unico appiglio che rimane disponibile nella conoscenza per evitare l’abisso, cioè quello di una conoscenza storica “pret-à-porter”, che rassicura con la sua promessa dell’approdo ad un presunto passato incorrotto, delle “origini”, concetto che nella mancanza di riferimenti delle menti che si affidano a questo percorso, conduce ineludibilmente alle “fughe dalla libertà” che è esattamente – ed il cerchio si chiude – quel che sta accadendo oggi di fronte alla pandemia
De Martino, così come Bjelosevic, ci orientano invece a guardare avanti, essendo la storia umana, storia di evoluzione e trasformazione, che non può essere pensata come ritorno indietro, ciclico ripresentarsi di situazioni già date, né a livello collettivo, né tanto meno a livello individuale.
caro Vincenzo,
“Lo strumento fondamentale per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se puoi controllare il significato delle parole, puoi controllare le persone” ha scritto Philip K. Dick, talento visionario del romanzo fantascientifico.
L’epoca del Covid segna fine del post-moderno. Le parole imbruttite, le parole smargiasse e ipoveritative che pronunciano i politici italiani e le massaie di pordenone, le parole erranee dei filosofi italiani (Cacciari e Agamben), le parole dei cabarettisti dei media e delle televisioni a pagamento pubblicitario, le parole pubblicitarie, le parole zambracche stanno seminando una zizzania malefica e obbrobriosa. La Commedia kitchen è appena agli inizi, è appena agli indizi.
Caro Giorgio,
Riprendo con piacere la tua sollecitazione, scusandomi per non averlo fatto prima.
Concordo decisamente con la tua posizione e penso anzi che, come tu stesso evidenzi, chiunque ed a qualsiasi livello, si occupi oggi di comunicazione, debba in qualche modo fare i conti consapevolmente con il problema del rischio della manipolazione delle parole ed in definitiva della comunicazione stessa.
Non parliamo evidentemente di un problema che nasca oggi: sappiamo come la comunicazione e le arti, nelle loro varie forme, siano sempre state sotto la lente della manipolazione politica, in.quanto formidabile strumento di propaganda. In particolare negli ultimi vent’anni poi, il moltiplicarsi dei veicoli di comunicazione con l’avvento del mondo digitale ha determinato una straordinaria dilatazione dei campi di intervento per i manipolatori della comunicazione, mediante la mancanza di controllo e la creazione di meccanismi autoreferenziali che creano un corto circuito rispetto al criterio della competenza che è sempre stato un filtro regolatore, che pur non potendo ovviamente garantire rispetto all’onestà intellettuale dell’informazione (i prezzolati e gli arruffapopolo sono sempre esistiti anche fra gli intellettuali di professione) rimaneva un criterio di attendibilità, nel rispetto della legittimità del confronto tra posizioni diverse.
Il mondo della comunicazione digitale, che più ancora di altri strumenti della tecnologia umana, è sottoposta ad un immane rischio di “eterogenesi dei fini”, si è purtroppo incrociato con il riflusso del populismo di questi ultimi quimdici anni che sembrano riportarci pericolosamente indietro a momenti tra i più infausti della nostra storia e neanche così lontani da noi, sconfinando nel regno del messianismo, settarismo, dogmatismo e complottismo più bieco, in cui per prima cosa ovviamente viene sradicata qualsiasi competenza, in quanto nemica della narrazione suasiva di questi nuovi satrapi, per i quali è più conveniente sbandierare la colossale e pericolosissima baggianata dell’ “uno.vale uno” le cui scaturigini negative abbiamo già potuto verificare in ambito politico. L’insidiosità di questa situazione è emersa ancor più nitidamente con la pandemia, che sembrava da un lato aver affievolito la tracotanza dei diversi “uomini soli al comando” affermatisi nel frattempo (penso a Trump,Bolsonaro e per certi versi anche a Johnson, solo per fare qualche nome) le cui farneticazioni sono effettivamente state smentite inesorabilmente dal virus, ma solo agli occhi di chi già possedeva preventivamente strumenti di lettura critica, per essere addirittura rimpiazzati da ancor più perniciosi ed inquietanti santoni del complottismo, terrapiattismo, negazionismo et similia, con la conseguente apparizione dei vari movimenti no-vax, no-green pass, no-fax, no-sax e così via; tutto ciò con il benestare ed il coinvolgimento di filosofi disorientati che sollevano interrogativi che potrebbero anche essere legittimi in un altro contesto, ma che in questo modo finiscono per offrire una sponda di legittimazione ad una paurosa operazione di sovvertimento populistico della realtà. Quest’ultimo aspetto in particolare, chiude il cerchio della questione, poiché dimostra come la maggior parte della riflessione intellettuale attuale, rappresenti ormai un sistema stratificato e mistificatorio, incapace di essere organica ad un’interpretazione funzionale alla lettura reale dell’oggi, essendo peraltro quella attuale, un’epoca dai mutamenti spiazzanti. In realtà, la maggior parte degli intellettuali odierni non fa altro che replicare un ruolo immodificabile, quasi uno status ormai e per lo più orientato a distruggere più che a proporre un modello di palingenetico del vivere sociale; per cui è più conveniente continuare a reiterare il proprio profilo ed a seconda dei casi individuare tracce utili a discussioni trite e ri-tritw sull’ anti-globalizzazione, sull’anti-europeismo, sull’anti-capitalismo, sull’anti-sistema, anche laddove sarebbe il caso di proporre invece soluzioni pro una nuova visione del mondo. Il problema è che le prime richiedono competenze ed una conoscenza delle dinamiche reali, che molti intellettuali invece non possiedono essendo la loro conoscenza spesso (evidentemente fatte le doverose eccezioni) solo il frutto di teoreticità ed elucubrazioni astratte, tant’è vero che il problema dei problemi, cioè quello ambientale, continua a rimanere pendente sullo sfondo, poiché richiede la capacità di saper esprimere delle soluzioni vere ed è pertanto poco spettacolarizzabile e troppo rischioso mediaticamente.
L’arte in questo processo dovrebbe svolgere un ruolo ancor più importante come antidoto contro tali storture, per il semplice motivo che l’artista dovrebbe avere un’ancor maggiore libertà di giudizio rispetto alle discipline che inevitabilmente vivono del riflesso diretto od indiretto del mondo accademico; ma in realtà anche la maggioranza dei movimenti o dei collettivi artistici ed in primis direi nel cosmo della poesia, sono ormai pressoché totalmente isteriliti, funzionali solo al mantenimento del piccolo.meschino status in cui ognuno di loro giace beatamente. Magari dagli stessi contesti scaturiscono veri e propri fiumi di parole di deplorazione sui processi di degenerazione sociale, politico e civile del recente passato, perché assimilati dalle loro letture, incapaci invece di intravedere quella che Leonard Cohen chiamava la “nuova pelle per le vecchie cerimonie”, laddove si annidano realmente i nuovi rischi.
Per questo motivo, una poetica come quella di Bjelosevic e come quella dei poeti Noe o comunque di tutti coloro (non molti in verità) che cercano di guardare avanti, proponendo una vera ricerca poetica ed una vera innovazione, rivestono un’importanza fondamentale per cercare di contribuire ad ammonire criticamente questa societá smarrita.
Il sonetto fatto solo di + ricorda i linguaggi di programmazione esoterici, inventati per divertimento o per sfida, nello specifico il Brainf*** (il nome vero è meno leggero), in cui ci sono solo otto codici operativi, ciascuno individuato da un carattere, compreso il +.
Qundi il sonetto è a tutti gli effetti un programma scritto in questo linguaggio.
Chissà cosa ne verrà fuori a eseguirlo.
Fenomeno con poca entropia può mostrare inversione temporale
Giulia Rubino, ricercatrice dei Quantum Engineering Technology Labs (QET labs) dell’Università di Bristol, spiega, nel comunicato pubblicato dalla stessa università inglese, che per un fenomeno che produce molta entropia è pressoché impossibile osservare l’inversione temporale. Quando si prendono invece in considerazione fenomeni con poca entropia, esiste una probabilità che non può essere trascurata di intercettare l’inversione temporale.
L’entropia
L’entropia è un concetto che vede qualunque processo naturale evolvere, ossia cambiare stato. I fenomeni naturali passano da uno stato con meno disordine ad uno stato con più disordine e ciò sembra accadere sempre. Proprio questo fenomeno viene usato per definire la freccia del tempo: esso scorre dal passato verso il futuro parallelamente all’aumento del disordine. Tuttavia nel regno quantistico le cose non sono più così ben definite.
L’esempio del dentifricio
“Possiamo prendere come esempio la sequenza di cose che facciamo nella nostra routine mattutina. Se ci mostrasse il nostro dentifricio che si sposta dallo spazzolino al suo tubetto, non avremmo dubbi che si tratti di una registrazione riavvolta dei nostri giorni”, spiega la ricercatrice. Se si schiaccia però il tubo dell’edificio in modo che poi ne fuoriesca solo un piccolissimo quantitativo, allora non è più improbabile osservare quella piccola quantità rientrare all’interno del tubo (a causa di un effetto di decompressione del tubo stesso il dentifricio può essere risucchiato).
Si tratta di un esempio efficace per farci comprendere che la quantità di entropia, che può essere variabile, ha un ruolo per quanto riguarda l’idea che possiamo avere della freccia del tempo a livello quantistico.
Tempo può evolversi sia verso il futuro che verso il passato
I ricercatori hanno scoperto che nel regno quantistico il tempo può evolversi sia verso il futuro che verso il passato e può farlo contemporaneamente: un sistema quantistico può evolversi simultaneamente lungo entrambe le direzioni del tempo.
Apparentemente sembra un’idea priva di senso, spiega la Rubino, ma ciò è da spiegare con il fatto che ragioniamo sempre in base alla nostra esperienza quotidiana e quest’ultima non afferisce al mondo quantistico.
Il concetto di flusso temporale
Il concetto di flusso temporale che abbiamo, e che proviene dalla nostra realtà quotidiana, potrebbe non essere così ben definito. Il flusso del tempo solo apparentemente è semplice: in realtà fisici e scienziati stanno da tempo cercando di comprenderlo e per ora hanno capito che, ai livelli più fondamentali della materia, non è più possibile distinguere così bene tra la direzione temporale del futuro e quella del passato.
Il fatto è che nel mondo quantistico i processi possono essere posizionati in una sovrapposizione quantistica. Questo vuol dire che la nozione di freccia del tempo termodinamico, quello della nostra realtà quotidiana, produce variazioni opposte nel livello di entropia. Questo a sua volta pone il problema di come sia possibile stabilire una freccia del tempo ben definita a livello quantistico nel momento in cui ci sono tali sovrapposizioni.
L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
sgranocchio una fetta biscottata di realtà
crocchiano i proiettili sul tetto
sento che è tutto un errore
non c’è una via fino all’unità nell’universo
Predrag Bjelošević
Predrag Bjelošević è un poeta innovatore, il suo Riszisme è una piattaforma di poetica molto innovativa, un sentiero che conduce, presumibilmente, fuori della poesia modernista del novecento, un tentativo ragionato e scientemente perseguito di tracciare un percorso nuovo. E qui vengono a proposito i tanti post messi sull’Ombra che riguardano la posizione della tradizione rispetto al nuovo, il rapporto tra passato e futuro, o futuro passato. Non c’è passato senza futuro e non c’è futuro senza il sentiment del passato.
Qualcosa si muove in Europa, C’è del nuovo, ci sono ancora poeti di valore.
Il passato è stato il futuro di un altro passato.
Il futuro sarà il passato di un altro futuro?
caro Guido,
con il Covid è finito il postmoderno. Sei d’accordo? E con il postmoderno è finito un certo modo di considerare il passato, cioè la tradizione… ed è finito anche un certo modo di guardare il futuro. Nell’epoca presente c’è qualcosa che ci sfugge, come sfugge ai radar dei filosofi della «libertà», Cacciari e Agamben. Ebbene, la loro filosofia non è più in grado di leggere il presente, parlare del Green Pass come di un passaporto sovietico per il controllo dei cittadini mi sembra una enormità, io mi sento privato della mia libertà dal Covid, non dallo strumento di protezione denominato Green Pass. Ma se Cacciari e Agamben avessero letto un poeta come Predrag Bjelošević si sarebbero accorti che il poeta serbo da almeno venti anni parlava di «buio», tutta la sua poesia ruota intorno a questa macro metafora per spiegare il nostro presente. Viaggiamo, camminiamo, ci scambiamo strette di mani e insulti nel «buio», siamo semplicemente nel «buio», dove non c’è filosofia che ci possa illuminare. E la poesia non può fare altro che indicarci la necessità di un altro paio di occhiali e magari l’aiuto di una torcia elettrica: occorre vedere bene, molto bene il «buio», guardarlo bene in faccia. E la poetry kitchen, se ha ancora senso parlare di poiesis, scommette tutta la propria integrità nello scandaglio di questo «buio».
Non credi?
Cito Umberto Eco dall’articolo sopra indicato nel link:
E chiedo: ma veramente il postmoderno è finito là dove comincia il Covid?
Quando temo sia in gioco la sopravvivenza della nostra specie, o perlomeno della nostra civiltà (quante mutazioni saremo in grado di reggere?), parlare del green pass come limitazione alla libertà mi sembra un discorso da vecchie zitelle al tè delle cinque.
… poco zucchero, grazie…
La citazione ininterrotta è segnale di vuoto. Forse lo stile nominale è un passo avanti. In ogni caso si è dato un freno al lirismo, che ha portato a dire di sé… altro vuoto!
L’esperienza Covid porta il messaggio di vivere in salute. Il totem del bicchiere in mano con sigaretta non regge più. Vorremo vivere, e vivere bene. Tutti. E vivere è poter-abitare il vuoto. Comincerei da qui.
“PER AVERE QUALCOSA DA INSEGUIRE CAMMINANDO?” Predrag Bjelosêvic
Potresti essere piccola così. Una virgola ha un impatto corroborante. Il punto il buio assoluto.
Difatti nelle simmetrie delle similitudini insieme coi muri si sovrappongono i polmoni ed i pomodori.
A sera, quando viene la sera, nei tubetti si ritraggono tutti i libri, piccole quantità di sedie,
tuti gli apparecchi televisivi, i ricettari, i cuochi,
le fiammelle, tutti i tg, i sorrisi RZ.
La domenica poi è sempre così, seguirà sempre il lunedì, il venerdì a Bari è sempre pesce, però.
Grazie OMBRA
Mettiamo il caso che sia veramente finito il postmoderno, che conseguenze avrà questo evento sulla fenomenologia della poesia?, sulla fenomenologia della politica? sulle nostre esistenze?, sul nostro modi di essere? La forma-poesia si gioca su questo punto. E’ molto semplice. Un poeta avverte subito, percepisce subito che il lontano battere delle ali di una farfalla procura un tornado a migliaia di chilometri di distanza. Vorrei chiedere a tutti i lettori che scrivono poesia di esprimere il proprio pensiero su questo punto. Con il Covid è veramente cambiato il mondo? O è solo una fantasticheria di giornalisti in cerca di allarmi?
Predrag Bjelošević è un poeta che immediatamente precede la crisi del Covid, con la sua macro metafora del “buio” anticipa il buio che sarebbe venuto. Predrag Bjelošević lo ha avvistato prima di noi con i suoi cannocchiali acutissimi. Il fatto è che siamo transitati oltre il buio, e non possediamo nemmeno una torcia tascabile per illuminare i nostri passi. Linguaglossa dice che dovremmo mischiare l’intimo con l’ultroneo? Galdini dice che dobbiamo dire: “Non è”? – Penso anch’io che la poesia è rimasta senza parole, non ha più nulla da dire… c’è qualcuno che grida all’orrore, che grida al tradimento, che la nuova ontologia estetica gira a vuoto nel vuoto, che dovremmo fare un passo indietro e tornare alle cose comprensibili e comprensibilitate, che, insomma, abbiamo fatto il passo più lungo della gamba. Qualcuno mostra delle timidezze, e si ritira nel guscio. E’ comprensibile, ma non rispettabile, la ricerca sulla forma-poesia non può essere arrestata. Il lucidissimo intervento di Umberto Eco ci incita ad andare avanti, oltre il postmoderno. Chi ha timori può tornare indietro, è lecito.
Lo scopriremo scrivendo. Ma, presumibilmente, assisteremo all’ulteriore abbassamento del livello di complessità, specie nel linguaggio (sbrigativo, con terminologie internazionali), la qual cosa era già profetizzata da Jean-François Lyotard. Linguaggi dettati da bisogno di semplificazione e immediatezza indurranno la critica a considerare gli stessi, come per indagine semiologica, per il valore creativo: impatto, originalità di segno e gradevolezza. Si andrà quindi nell’ombra della significazione: nel dettaglio, nella cura e nella valutazione del ben fatto. Ciò che per Andy Warhol aveva sottile significato di denuncia (es. la banana gialla in copertina per l’album dei Velvet Underground, o i suoi Flowers), potrebbe diventare oggetto di ammirazione. Cosa per altro già avvenuta. L’artista, senza infingimenti, diverrà gioioso produttore di merci. Ma questa semplificazione, tolta l’ambizione di addivenire a messaggi leader, dovrebbe riportare l’arte, e la poesia, al mondo. Il mondo poi deciderà cosa farsene. L’epoca del Covid avrà breve durata ma lascerà il segno. Tutto questo era già nell’aria a fine anni Novanta, quando il livello artistico, oltre a quello del dibattito politico, dovette incanalarsi nei talk show. Inutile stracciarsi le vesti.
Nasce da queste considerazioni l’idea della Gallina Nanin. Ma l’idea non tiene conto del tumultuoso progresso tecnologico, per cui andrebbe ascritta nel primitivismo; che, però, vorrebbe essere un fiore nato nell’azzeramento concettuale.
Barzelletta:
Il poeta kitchen Giorgio Linguaglossa in libreria. Il relatore sta leggendo quanto scritto nella recensione di copertina del suo nuovo libro. Giunto a ““dentrificare il fuori e di fuorificare il dentro” incappa nel lapsus e dice «Dentifriciare il fuori…». Le persone in sala non capiscono… ma subito Giorgio interviene: «…IL FLUOR0, dentifriciare il fluoro!»
Ah ah!
Questa poesia del ’93 è un mirabile esempio di poesia rimasta senza parole:
Аhi, sonetto
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(93.)
con la poesia postata sopra di Predrag Bjelošević, il poeta serbo è andato d’un colpo, al di là dell’avanguardia, l’ha scavalcata, ha ridotto il testo a una serie di crocette con segno più. E la poesia è fatta. E’ andato oltre per un semplice motivo: che non si dà più nessuna avanguardia e nessuna retroguardia, la sperimentazione che si fa nella poesia kitchen è FUORI da questi binari, è deragliata. Per sempre.
Questo è un punto che contraddistingue la nuova poesia, comunque la si voglia nominare.
La poesia che si farà, se si farà, ne dovrà tenere conto.
E se il tempo fosse un anello e se dopo il postmoderno ritornasse il primitivo?
Da venerdì ho la caldaia rotta e il pezzo di ricambio arriverà forse domani: mi sto allenando.
E’ lo stesso Predrag Bjelošević a dichiarare in pochi versi le sue intenzioni di poiesis, eccoli (a pag. 64 del suo libro Insieme con i muri, la cui prefazione è stata ben curata da Giorgio Linguaglossa):
“Per scrivere la poesia
smetti di scrivere poesie
sulla poesia[…]”
E questi versi sono già nella esperienza poetica del poeta serbo un cambio di passo (“E’ il passo che detta il ritmo e il ritmo detta il tipo di versificazione, non viceversa”, diceva Giorgio Linguaglossa nell’Editoriale del n.10, Il Mangiaparole) verso quella macro metafora del “buio” che, come ha ben evidenziato Marie Laure Colasson, nel suo commento che precede il mio, è il nucleo centrale della poesia di Predrag Bjelošević, nucleo intorno al quale tutto ruota nel superamento definitivo del post-moderno. Anche per questo, nella presa d’atto della morte della metafisica, “Gli spazi visibili si stanno spegnendo negli occhi” scrive Predrag Bjelošević al primo verso della poesia E’ ora (pag. 67) della sua raccolta (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2021).
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Nuovo tentativo Poetry kitchen
Gino Rago
Marie Laure Colasson dice a Mario Lunetta:
“L’elefante sta bene in salotto”.
Ennio Flaiano lo dice alla luna:
“Il marziano sta bene in cucina”.
Maria Rosaria Madonna parla con una baguette:
“La giraffa di Brodskj si è chiusa in toilette”.
Sull’importanza del titolo nelle sue raccolte, si sofferma Andrea Zanzotto nell’Autoritratto del 1977, dopo avera ccennato alla maniera in cui si formano le sue opere di poesia:
«Si accende allora il titolo, il quale per me ha un significato di estremaimportanza; la semantica del titolo è rivelatrice e decisiva. Il titolo nasce perme come individuazione di una struttura in mezzo a un coacervo».
Illustrando il medesimo tema, questa volta nell’ Intervento del1981, Zanzotto sottolinea la profonda valenza che assume la distribuzione dei testi nell’ambito del libro di poesia:
«Io scrivo, poi butto nel cassetto […]. Dopo cinque o sei anni tiro fuoriquesti appunti e frammenti e vedo che si incastrano l’uno nell’altro come inun
puzzle, che quasi si calamitano l’un l’altro e tendono a formare un libro. È importante il momento della costruzione del libro, del suo “montaggio”.Una poesia, collocata prima o dopo di un’altra, può cambiare il significato dell’insieme. L’essenziale, comunque, è che ci sia una specie di necessità»
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Poste l’una accanto all’altra, la prospettiva “genetica”, propria del poeta e quella ermeneutica, del “montaggio”, formano una una specularità, cioè una «forma-poesia»; un circolo ermeneutico all’interno del quale l’incipit e l’explicit (con tutto quello che c’è in mezzo) rientrano nella sfera del caso, ovvero, il progetto viene affidato al caso; il che è un modo bizzarro per dire che la forma-poesia viene affidata ad un dio minore che decide, in vece dell’uomo, come dove e quando i membra disiecta formeranno un insieme.
In questa procedura non c’è alcuna «specie di necessità» che vincola (o dovrebbe vincolare) entrambi i fattori. Siamo giunti quindi nel regno della aleatorietà e alla casualità del poetico. Il poetico è diventato un qualcosa che resiste e si ribella al progettualità. D’ora in avanti, questa irrazionalità interna al poetico assumerà la funzione centrale e prioritaria, tutte le altre funzioni risultano defenestrate nella secondarietà.
Jacopo Ricciardi scrive:
«Il mio caso è quello di trovarmi a scrivere una sola poesia che non finisce, che si può continuamente arricchire, senza alcuna certezza di un termine. C’è, da una parte il trovarmi spaesato in un oceano senza nome, senza coste in vista, e dall’altra il non sapere, il poter andare ovunque, il poter inventare qualsiasi cosa, il non essere schiavo di uno stile, mi entusiasma, come l’avventuriero nella sua avventura, che qui ha molti reali, che mi appaiono ora dalla posizione in cui mi trovo inesauribili.»
Set 23
…
l’interrogativo si perde
dietro la lingua nuda
l’avatar si ritrova
l’io che pesa e ripesa
sì scotta con dianetiche
voci di crocicchi
…
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