Francesco Paolo Intini
VENERE O MOLTO MENO
La faccia dell’idrogeno è scura. Dà brividi il ciano.
Il bambino nato nel letto sbagliato piange per tutto il giorno.
Una lanterna mangia insalata di carne
Ma non s’accorge della stella nana nel soggiorno.
Venere conferma la sua identità con un green pass
Tutti liberi i quark in cambio di un rossetto all’aragosta.
Calde entità dell’Ade invadono i tuoi occhi
Lasciando libero lo spazio tra i canini.
Lo schermo è a posto. Perché dici universo
Se si tratta di un cartellone?
Da qui è scappata persino la donna delle calze a rete
E gli angoli tristi diventano punti luce senza ritegno.
Vietata la crema da barba ci si rade alla carte,
nessuno ricorda dove è la taverna dei granchi.
S’accende la dea all’aprirsi della Borsa
Fa un tuffo e nella fodera allatta un cent.
Dal fiore di scarafaggio, cola mercurio
sulle vie di Bari.
Per frittura mista s’intende il Sud,
Giusto per somigliare a una stella del girarrosto.
Oh paura, mater generatrice d’ universi
Spasmo di parto che dissolvi cosa?.
Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti: Natomaledue è in preparazione.
Mauro Pierno
Altra cosa la morte
dal discorso sulla morte e oggi
Un’anima abita
e custodisce il bosco.
a pochi millimetri
dal nostro presepe
Non sappiamo che aver tempo
significa non aver tempo per tutto?
il fendente che non prende
la colla essiccata
Non sappiamo che aver tempo
significa non aver tempo per tutto?
Compostaggio
Calze rete Moulin Rouge
Tre-per-tre come eravamo
Dolores
Ci sembra un cielo senza tempo e
la stella che si dipana
Ogni mattina qualcuno ruba il mio pensiero
Qualcuno ferisce il mio cuore ogni giorno
Come Sharon Stone, indimenticabile in Basic Instinct
Portavo la mia immagine per la città
come un retrattile vessillo
Nell’orma del piede
giace un dinosauro
C’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”
E cercano il tutto in ogni frammento,
un seme di cocomero, un chiodo, un filo di spago.
Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
di appendere pipe
Facciamo silenzio per i prossimi vent’anni.
Facciamo rumore per i prossimi diecimila.
La verità della creazione ha uno sbuffo,un tuffo
senza sigillo
Una Olivetti 32 vuole
riscrivere la storia
dice di averla tutta nei tasti
Cara signora Schubert, mi capita di vedere
nello specchio Greta Garbo.
Ma la cravatta era ancora un destino
e la camicia di sicuro bianca
.
(compostaggio di versi di Guido Galdini, Raffaele Ciccarone, Gino rago, Ewa Lipska, Tiziana Antonilli, Francesco Paolo Intini, mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Mario Gabriele, Duska Vrhovac, Lucio Mayoor Tosi, Luciano Nanni)
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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”
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Poetry kitchen di Marie Laure Colasson
Dialogo con Giorgio Linguaglossa
La crisi del giudizio estetico coincide con la crisi della poiesis?
Domanda: Secondo Agamben il giudizio estetico come viene teorizzato da Kant (e che sta alla base della nostra nozione di estetica) è una sorta di “teologia negativa”, che fonda la bellezza sul negativo: piacere senza interesse, universalità senza concetto, finalità senza fine, e normalità senza norma. Ciò determina l’arte a partire da quello che essa non è. La conseguenza è che il giudizio estetico fa della non-arte il contenuto dell’arte.
Risposta: Il giudizio estetico è una sorta di ontologia applicata: non si dà alcuna «bellezza» né alcuna «certezza» nella poiesis. La poesia è un enigma che non può essere sciolto da un atto padronale dell’ermeneutica, mettiamo fine a questa vulgata buona per adescare i normologi. Il giudizio estetico deriva dal primordiale atto accusatorio, rimanda in origine alla pubblica accusa, vuole interdire ed escludere. L’atto della poiesis come noi l’intendiamo esprime una singolarità che non ha alcun interesse verso l’interesse, alcun concetto se non verso il fuori-concetto, alcun significato se non verso il fuori-significato e il fuori-senso. Il giudizio estetico come verdetto che pende sulla poiesis è una categoria poliziesca che respingo con decisione.
Domanda: La crisi del giudizio estetico coincide con la crisi della poiesis?
Risposta: La crisi della poiesis pone alla medesima l’assunzione come “propria” della crisi stessa.
Domanda: Ritieni che sia giunto il momento di dichiarare a chiare lettere l’esigenza di una rottura con la tradizionale forma-poesia del recente minimalismo europeo e italiano?
Risposta: Giunti al punto in cui è giunta oggi la poesia maggioritaria, ritengo che una semplice Riforma della forma-poesia maggioritaria, ovvero, il minimalismo romano-lombardo, sia del tutto insufficiente. Quello che c’è da fare è una drastica dis-missione della tradizione del secondo Novecento, ovvero, quell’area che va dalla Antologia di Berardinelli e Franco Cordelli Il pubblico della poesia (1975) ai giorni nostri. Una vera riforma linguistica e stilistica della poesia italiana comporta la «dis-missione» del modello maggioritario entro il quale è stata edificata negli ultimi decenni un certo tipo di poesia dotata di riconoscibilità. È un dato di fatto che una operazione di «dis-missione» determina necessariamente una solitudine stilistica e linguistica per chi si avventuri in lidi così perigliosi e fitti di ostilità. Ma, giunti allo stadio zero della scrittura poetica di oggi, una «dis-missione» è non solo auspicabile ma necessaria.
Il mio libro monografico sulla poesia di Alfredo de Palchi si situa in questa linea di pensiero: la necessità di aprire dei varchi nelle commessure degli studi accademici sulla poesia del secondo Novecento, correggere le macroscopiche omissioni e, fatto ancor più grave, le distorsioni dei valori poetici del secondo Novecento, indicare che è possibile e auspicabile individuare un diverso Novecento. Occorre un po’ di coraggio intellettuale.
Domanda: Tu parli di «dis-missione» della poesia italiana così come si è costituita dagli anni Settanta ad oggi, ne prendo atto. È un compito arduo quello di riscrivere la storia della poesia italiana del secondo Novecento, da Satura (1971) di Montale fino ai giorni nostri, non credi? Ritieni che i tempi siano maturi?
Risposta: Scrivevo in un post del 13 ottobre 2015:
Invito alla Rilettura del secondo ‘900 poetico
«Nel postletterario, tutto risiede nella postura, vale a dire nell’ignoranza della tradizione e nella fede nei poteri di immediatezza espressiva del linguaggio», o anche «postletteratura come confutazione dell’albero genealogico». L’autenticità data dall’immediatezza sarebbe quindi l’obiettivo dello scrittore post-letterario e prova della sua validità: «L’ignoranza della lingua in quanto prova di autenticità: ecco un elemento dell’estetica postletteraria»; «il romanziere postletterario scrive addossato non alle rovine di un’estetica obsoleta ma nell’amnesia volontaria che fa di lui un agente del nichilismo, con l’immediatezza dell’autentico per unico argomento». (Millet)
Con le dovute differenze, credo che possiamo estendere la categoria dell’immediatezza dell’estetica post-letteraria anche alla poesia contemporanea. Anch’io ho parlato spesso di «post-contemporaneo» e di «post-poesia», intendendo sostanzialmente un concetto molto simile a quello di Millet, ma nella mia analisi della poesia italiana ritengo di aver indicato anche la debolezza delle direzioni di ricerca di quello che ho definito «minimalismo», forse meglio sarebbe stato aggiornare tale definizione con quella di «post-minimalismo» delle scritture poetiche. Oggi in tutto ciò che accade sembra d’obbligo far precedere l’etichetta «post»: post-sperimentalismo, post-minimalismo, post-esistenzialismo, post-chatpoetry, post-del-post. Tutto ciò che avviene nella pseudo-letteratura del tempo mediatico sembra presentizzato in un post-presente; il presente diventa la dimensione unica, una dimensione superficiaria unidimensionale, ciò che sembra confermato dalle tendenze del romanzo di intrattenimento che dal fantasy e dalla fantascienza sembra spostarsi verso le forme ibride di intrattenimento di post-fantasy e di super-post-fantascienza delle tendenze cyborg. Tutte queste diramazioni di ricerca sono impegnate in una forma-scrittura dell’immediatezza, quasi che l’autenticità del romanzo e della scrittura poetica la si possa agganciare, appunto, con l’esca dell’immediatezza espressiva.
Nulla di più errato e fuorviante! Per quanto riguarda la mia tesi del paradigma moderato entro il quale la quasi totalità delle scritture poetiche contemporanee rischia di periclitare, detto in breve, volevo alludere non al concetto di «egemonia», fuorviante e inappropriato quando si parla di poesia contemporanea, ma al paradigma della riconoscibilità secondo il quale certe tematiche (della cronaca, del diario e del quotidiano) sarebbero perfettamente digeribili dalla lettura della post-massa acculturata del Medio Ceto Mediatico. Certo «professionismo dell’a capo» diventa l’arbitrio di un a capo che può avvenire in tutti i modi, con le preposizioni, con le particelle avversative, con i pronomi personali, e chi più ne ha più ne metta. Vorrei però prendere le distanze da una facile tendenza a voler stigmatizzare la «dittatura del Medio Evo Mediatico», questa posizione sottintende un approccio moralistico al problema del paradigma moderato e unidimensionale che sembra aver preso piede negli uffici stampa degli editori necessariamente impegnati in una difesa delle residue quote di mercato editoriale dei libri.
La situazione descritta sembra essere ancora più grave per la poesia, che vanta però i suoi illustri antenati e precise responsabilità anche ai piani «alti» delle istituzioni poetiche, voglio dire di quei poeti che negli anni Sessanta e Settanta non hanno più creduto fattibile una difesa della forma-poesia: Montale, Pasolini, Sanguineti e altri di seguito. Da questo punto di vista, paradossalmente, una difesa della forma poesia è più evidente nei Quanti del suicidio (1972) di Helle Busacca, il più drastico atto d’accusa del «sistema Italia», che non ne La vita in versi (1965) di Giovanni Giudici, il quale si appoggia ad una struttura strofica e timbrica ancora tradizionale, qui è in opera una difesa della tradizione in direzione di retroguardia, non di apertura all’orizzonte dei linguaggi poetici del futuro. È un po’ tutto l’establishment culturale che abdica dinanzi alla invasione della cultura di massa, credendo che una sorta di neutralismo o di prudente e ironica apertura nei confronti dei linguaggi telemediatici costituisse un argine sufficiente, una misura di sicurezza verso una forma-poesia aggiornata, con il risultato indiretto, invece, di aver preparato la forma-poesia recettizia della aproblematicità dei linguaggi telemediatici.
Quel neutralismo ha finito per consegnare alla generazione dei più giovani una forma-poesia sostanzialmente debole, minata al suo interno dalle spinte populistiche e demotiche provenienti dalla società della massa telemediatica. La storia della poesia degli anni Ottanta e Novanta sta lì a dimostrare la scarsa consapevolezza di questa problematica da parte della poesia italiana.
Domanda: A questo punto?
Risposta: A questo punto, ritengo che una vera poesia di livello europeo e internazionale la si potrà fare in Italia soltanto quando qualcuno sarà capace di sciogliere quel «nodo». Diversamente, la poesia italiana si accontenterà di vivacchiare nelle periferie delle diramazioni epigoniche della poesia del Novecento. Non escludo che ci possano essere nel prossimo futuro dei poeti di valore (e ce ne sono), quello che escludo è che finora nessun poeta italiano degli ultimi quarantacinque anni, cioè dalla data di pubblicazione di Satura (1971) di Montale, è stato capace di fare quella Riforma del discorso poetico nelle dimensioni richieste dal presente stato delle cose. Certo, ci sono stati l’ultimo Franco Fortini di Composita solvantur (1995), Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca (I quanti del suicidio del 1972), Alfredo de Palchi con Sessioni con l’analista (1967), un cammino poetico che arriva fino all’ultimo libro, Nihil (2016), e poi Maria Rosaria Madonna (con Stige, 1992 e Tutte le poesie del 2018), Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996), Mario Lunetta, con la sua produzione letteraria che va dalla poesia alla saggistica e alla narrativa, Anna Ventura con la sua antologia (Tu quoque 1978-2013),pubblicata nel 2015, Roberto Bertoldo (Pergamena dei ribelli, 2011 – Il popolo che sono, 2016), Mario Gabriele con i suoi ultimi libri dal 2015 da L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017), Registro di bordo (2018), Remainders (2021), a Horcrux (2022), Renato Minore con Ogni cosa è in prestito (2021), poeti di talento che si sono mossi nella direzione di una fuoriuscita dal novecentismo epigonico; ma resta ancora da fare la salita più ripida, c’è ancora da sudare le fatidiche fatiche di Sisifo. C’è da porre mano alla riforma di quel discorso poetico ereditato dalla impostazione in diminuendo e in pianura che ne ha dato il secondo Eugenio Montale.
Per Freud (1927) la comicità si configura come un’economia nel processo ideativo, la catessi, mentre l’umorismo si configura come trionfo del narcisismo. Freud promuove il comico e boccia l’umorismo in quanto mera esternazione dell’io.
Occorre ristabilire una netta linea di demarcazione tra il comico e l’umorismo. La poesia kitchen è comica come è comica la Commedia di Dante, la posizione comica è quella che permette la più ampia gamma di possibilità espressive entro un contesto serio-ludico, è quella che può accogliere il multilinguismo e la molteplicità dei punti di vista, un linguaggio parallattico che ciascuno può edittare in modo personalissimo.
La poesia del Petrarca non è mai comica, è seriosa e seria, prende tutto sul serio, sublimizza la materia e le vicende umane, distorcendole. Il fatto che nel corso dei secoli il petrarchismo abbia avuto la meglio e sia riuscito maggioritario, è un indizio che ci dice molto della influenza religiosa sulla poesia italiana. Una idea del religioso che ha promosso l’idea di una poesia seria e seriosa dell’io.
È davvero drammatica la condizione umana di non aver più nulla di serio e di serioso da dire.
Occorre tempo per meditare le tante questioni messe sul tappeto in questo post.
Lo spazio poetico kitchen inaugura uno spazio della soglia, una policentrica spazialità topologica rispetto alla quale il rapporto dentro e fuori, interno ed esterno, io altro, proprio e improprio, familiare ed estraneo non si definisce in termini oppositivi, bensì di complementarietà e di coabitazione. Questo spazio diventa il luogo proprio del «tra» e della tras-formazione, spezza la logica dividente dell’inclusione/esclusione, si pone quale paradigma di un nuovo rapporto, di una nuova relazione, un «in between» tra spazi poetici oppositivi, concretizzazione esperienziale della tensione ossimorica tra le varie micrologie, metonimia degli archetipici riti di passaggio e di introduzione dello spazio-soglia. Lo spazio poetico kitchen è un campo di tensioni contraddittorie in cui si appartengono, nella reciproca inclusione esclusiva, dominii e piani non isomorfi, anomici e anonimi. È anche spazio di eccedenze: dove si producono eccedenze e si riciclano indecenze, dove si produce l’oltre, si producono eterotropie e si distruggono utopie.
Il Reale è l’impossibile, esso sussiste al di fuori della simbolizzazione, è l’inconscio in quanto indicibile. Il Reale è il luogo che accoglie ciò che è
rigettato dal Simbolico ed è connesso col godimento (jouissance) (S. Žižek). Il reale è ciò che torna sempre allo stesso posto, ma è anche quell’impossibile che non può essere attinto se non per istanti privilegiati, per strappi kitchen, per sovra sensorialità o subsensorialità… (lasciamo da parte le agnizioni epifaniche e ipnagogiche), che è un concetto assiomaticamente determinato e filosoficamente posto, noi tutti in ogni momento del giorno siamo immersi in flussi di sovra sensorialità, di subsensorialità, il che comporta che siamo abitati da sempre e di continuo da forze, energie pulsionali, input percettivi, abreazioni, volizioni, involizioni…
(g.l.)
Dalla teoria del caos di Ilya Prigogine
[…] ”L’irreversibilità del tempo è il meccanismo che determina l’ordine a partire dal caos”, sostiene Ilya Prigogine.
Da qui deriva che lo stato (A )di equilibrio, presto o tardi subirà l’influenza di un fattore disequilibrante, in quanto abbiamo detto che non esistono nella pratica sistemi completamente chiusi. Passando così ad un altro stato, diciamo (B), di squilibrio, il sistema tenderà spontaneamente ad evolvere nuovamente verso l’equilibrio, sicché si innesca un processo di caos progressivo.
Questo momento è decisivo sul piano della teoria del caos poiché, mentre il sistema assume sempre di più uno stato caotico, il sistema tende a raggiungere proprio quello che Prigogine denomina il «punto di biforcazione».
Vale a dire, quel punto in cui il sistema può evolvere verso una, tra due possibilità:
– o ritorna allo stato di equilibrio originario, così come prevede la termodinamica classica;
– oppure, abbandona il caos e inizia ad auto-ordinarsi ,o auto-organizzarsi, fino a costituire una nuova struttura, denominata struttura “dissipativa”, poiché consuma una quantità maggiore di energia rispetto allo stato di organizzazione anteriore e che ha sostituito[…].
Ecco, in sintesi estrema, l’ideologia che io porrei alla base sia della ricerca artistica di Marie Laure Colasson condensata nelle sue “Strutture Dissipative”, sia dell’approdo, ma sempre da intendere come lavoro in divenire, alla Poetry Kitchen della nostra ricerca poetica.
(Gino Rago)
Il quarto ballerino
Come lui danzava nei suoi calzoni
un uovo usci dalla cucina
a passi lenti
come una stella un fotografo
sino all’indomani usci
sino all’indomani danzò
con una collana
con un tascapane
e la barba gli crebbe
lungo i calzoni
tutt’intorno alla cucina intorno alla cucina
che non è forse nata
Scritta da Benjamin Péret 1922 movimento DADA
Scritta da Philippe Soupault 1917 movimento DADA
Ho visto il ricordo della tua voce fissarsi
Il mio corpo cullava i miei pensieri
E se ne andavano i fili telegrafici
L’urto d’un sasso suonò mezzodì
Ho sempre pensato che l’energia che accompagna il fare poetico sia una via per far tornare in gioco forze destinate a perdersi. Il calore che dalla stanza ritorna a riscaldare il frigo è la freccia che ispira i cocci a rinsaldare le pareti della bottiglia e dà il piccone in testa a Stalin. Il resto è calcolo matematico che fa giocare a scopone i chimici, i fisici, i business men e quant’altri e non fa parte della poesia.
Un caro saluto.
I SEMPREVUOTI
Dalle montagne scesero in città. Si trattava di Red shift
Ma si vedevano le braghe azzurre in trasparenza.
I vestiti contavano di riunirsi in piazza.
Mettere ordine nel suono delle campane.
Piantine d’oro sui campanili e sonno finalmente
Di quello buono a cotto a legna.
Le canne fumarie tempestarono di cemento il centro di Bari
Solo perché in banca un cent si cambiava con un bankomat
La nostalgia ebbe la parte di gravidanza
per essersi pronunciata davanti al girarrosto
Si può vincere il Nobel a costo zero
E dunque è un buon affare per lo scarafo di stoffa
Il rigato ha il morale abbattuto da un frigobar
Una cicca riavvolge la cartina di tabacco
E batte sul lungomare con gli occhi accesi.
C’è del catrame buono stamattina?
La siringa dell’ epatite eccita lo stantuffo.
Uno spermatozoo passeggia nella selva scura
Un rifugio, la taverna dei pruni neri.
Un passaggio da scroccare alla lupa
Passami lo smartphone, pago io.
Faccio scendere un po’ di gravità
Un minimo di densità elettronica,
qualcosa che incolli carne ai pantaloni.
MEMORIE
L’inferno si è seduto in una tela a piazza di Spagna
ha ordinato un cerchio e due porzioni di spigole al rettangolo.
Il sale ha servito un rosso fumè
tutt’intorno un furioso di toro si espande in Red shift.
La memoria ha un rigato nel comò
Albero di Giuda nato da un nodo con rifiniture olivastre.
Ci costruirono i piccoli nervi
accorgendosi che assomigliavano a fantasmi nel frigo.
Nell’albero dei discorsi c’è un lapsus per bambini
Nell’alveo dei fiumi c’è come portarsi gli ebeti e insabbiare gli esuli.
Il fumo compete con l’acqua,
il gorgo spara addosso alle bolle fuggiasche
Il freddo, una costante newtoniana senza alcuna giustifica, serve omissis
Ma tira giù, sempre più giù nel sospetto che sia anche il su
D’ora in avanti si misura a nodi di filo spinato e il mercato
Cavallo di razza nitrisce carati.
Madeleine in un calice di Champagne
Per ricordare la Stella in Blu shift
TOROIDE
Il mazzo mischia le carte, muscolo dopo muscolo
compone le mani. Una: tok, tok!
Un vetro della finestra resta sorpreso.
Il diesel, cavallo bizzarro scalpita nel serbatoio.
Segreto?
Questo lento svegliarsi di Toro.
Sono qui, ammasso sogni nei teepee.
Come è la minestra del Re?
Trotzkij piccona Stalin.
Al largo il cormorano vince la lotteria.
Che ci stai a fare sul pontile?
Il tagliaerba ha un ruolo preciso.
L’erba rivela al basilico il posto dei fucili.
Si attacca al balcone una mano di cavolo.
Coltello in bocca e verde borraccia.
Sobilla i gerani un lilla di tromba.
E dunque cosa resta del capitolo ‘17?
Il prossimo avrà una pista ciclabile. E il lecca-lecca
un colore migliore al traguardo.
C’è il patrimonio dell’insurrezione da riscattare.
Non si può sognare. Vietato il nervo che produce il viola.
Fiamma e brace studiano la danza di ratto.
A quando il fuori coda?
Bandito uno stage nell’intestino:
Imparare il bubbone insegna a competere.
In tutù da barbiere si governa la piazza
Mao cammina sulla lametta.
Un flash appena per vendere
una trincea con poltrona e sofà.
Due al prezzo di un gelato fritto.
In marsina e cappuccino, schiumato sul lungomare.
L’occhio è aperto. La finestra apre le gambe
Una proboscide deposita il Sole.
Irriga il vetro uno starnuto.
Un vibrione abbronzato in Terra la Lanza:
A bocca aperta, cara Luna non si è protetti
e poi è il massimo della maleducazione
mostrare la gola a tavola come un rondinino.
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Francesco Paolo Intini
Grazie Ombra
Trovo estremamente interessante questi elementi di discussione improntati sulll’analisi del valore innovativo e palingenetico della destrutturazione nella costruzione poetica rispetto al modello tradizionale, che Giorgio sta portando avanti in questi articoli: lo considero un vero marchio di fabbrica, oltreché un valore aggiunto che la Noe e la Poetry kitchen possono apportare al panorama poetico attuale, svecchiando e restituendo legittimità intellettuale alla poesia, nel senso della possibilità di farne uno strumento per poter leggere l'”oggi”.
In particolare questa riflessione sul comico va ad intercettare un’articolazione incisiva, nella misura in cui – come ho già scritto in alcuni altri interventi precedenti – considero il comico una delle espressioni più alte della creazione artistica, dal momento in cui “deformare” il reale, vuol dire essere in grado di possederlo in modo talmente approfondito, appropriato, da riuscire a disarticolarlo e rimodellarlo.
Questa stessa istanza, mi porta a considerare la dimensione del comico, del riso, dell’ironia, del “ludico”, come una delle chiavi privilegiate dell’operazione di scardinamento della realtà poetica convenzionale operata dalla Poetry Kitchen, grazie alla componente abrasiva, corrosiva che l’accompagna, come dimostrano anche i tentativi “dissacranti” delle poesie di Guido Galdini e Gino Rago, l’ironia dello stesso Giorgio Linguaglossa, di Francesco Intini, di Mauro Pierno.
Del resto l’implicazione antropologica e sociale del comico, in termini anche di potenziale sovversività dell’ordine – quanto meno culturale – costituito, è una dinamica già approfondita da vari studiosi nel campo della semiologia, della critica e della teoria letteraria, della linguistica, della filologia, della filosofia e dell’antropologia stessa.
In particolare, nella celebre analisi condotto dal grande studioso russo Michail Bachtin sul comico nell’opera di Rabelais (“Творчество Франсуа Рабле и народная культура средневековья и Ренессанса; Trad. it.”L’opera di Rabelais e la cultura popolare”, Einaudi, 1965) da molti considerato il pioniere del senso moderno del comico, emerge chiaramente come il riso, per quanto appunto elemento strutturale della cultura – perciò di interesse antropologico – in realtà non sia solo un fenomeno psicologico o biologico, bensì sia storicamente condizionato; il riso, in altri termini,
entra in gioco solo se pienamente collocato nella sua concreta realtà storica.
Bachtin considera il riso (che è il comportamento da cui prende le mosse più direttamente la sua dissertazione, avendo però logicamente il comico – ossia la creazione artistica che sussume il riso – come terminale concettuale) un comportamento, un’attitudine che fa parte pienamente dello spirito oggettivo hegeliano, categoria che sottende l’idea della piena realizzazione della libertà, laddove a sua volta la libertà è la coincidenza del volere razionale con il volere del singolo; non è dunque l’arbitrio, ma è la volontà che si adegua a ciò che prescrive la ragione, ossia alla legge.
Ne consegue che il riso, il comico siano, in rapporto con la totalità dell’esperienza storico – culturale dell’individuo, costituendone anzi una spia fedele e che la piena comprensione del comportamento sociale nei confronti della sfera del comico sia possibile solo partendo dalla lettura dell’intreccio delle relazioni tra le varie articolazioni della compagine sociale, relegando in secondo pianp il dibattito su un’essenza puramente biologica o psicologica del fenomeno. Il riso e quindi la comicità non hanno un’esistenza astratta ed immateriale, ma vivono attraverso le produzioni artistica che l’esprimono: di conseguenza hanno sua volta una genesi storica, connessa alla contestualizzazione storica della creazione artistica stessa ed al conteporaneo sviluppo storico della sensibilità artistica e della coscienza ideologica, così come al divenire dei rapporti di produzione e di classe.
L’analisi di Bachtin culmina poi nell’esame del crollo delle rigide gerarchie del Medioevo e sull’inizio del Rinascimento, cercando d’individuare la fase e le dinamiche con cui le forme popolari della cultura hanno teso a prevalere sulla cultura ufficiale, soffermandosi in particolare sulle manifestazioni carnevalesche di piazza e sulle forme di comicità che le caratterizzavano, con i riferimento ambigui, dove il doppio senso era creativamente funzionale alla ridicolizzazione del potere e dei suoi emblemi, al capovolgimento delle gerarchie, alla desacralizzazione fino alla celebrazione degli eccessi del corpo.
Secondo Bachtin, come per molti critici e studiosi, Rabelais innalza per la prima volta il comico alla dignità della forma d’arte, giungend a valorizzare anche gli aspetti più triviali della “eversività” della cultura popolare, rifiutando e sovvertendo le tematiche ed i codici espressivi canonici della letteratura “alta”.
L’opera di Rabelais per Bachtin oltre ad essere una mirabile creazione letteraria, è la proposta di una nuova filosofia della storia, in cui l’atteggiamento satirico viene visto come la trasposizione, pulsione intellettuale della necessità di trascendre l’inadeguatezza della realtà contemporanea. Il grottesco rivela la potenzialità di un mondo completamente diverso.
Bachtin è tra i grandi studiosi del novecento che hanno legittimato il valore assoluto del comico nell’arte, evidenziandone a sua connotazione quasi metafisica, potente strumento di destrutturazione, di critica e di sovversione.
Direi che dall’analisi di Bachtin si evinca come il comico sia per antomasia una risorsa “kitchen”, validissimo mezzo di rovesciamento e di palingenesi della creazione poetica, rispetto al dominio del lirismo e dell’ego,strumenti caratterizzanti il logoro modello della poesia dominante di questi ultimi decenni.
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