di Mario M. Gabriele
poesia da frigobar mi sembra una dizione esatta. Anche Raffaele Ciccarone scrive poesia con un linguaggio aggiornatissimo, cioè da frigidaire con parole necessariamente conservate al freddo. Oggi non si può scrivere in altro modo, la purezza della lingua della tribù la si può trovare in frigo, tra i cartocci, la verdura arancione e la frutta. (Marie Laure Colasson)
Poesia di
Mario M. Gabriele da Registro di bordo (Progetto Cultura, 2019)
Hai lasciato la dimora e il Grande Gatsby
con gli oggetti che non ti parlano più.
L’anticiclone mise in pausa l’ira dell’inverno
senza passare sulle cime dell’Adamello.
Giorni si susseguono nel ritmo dell’hukulele.
Uno verrà col fiordaliso in bocca.
Buona parte dell’anno è passata
senza effrazioni sulla pelle.
Al Biffi Hotel rimanemmo
per conoscere la varietà dell’Essere.
Ora pensi a dicembre
segnando le date da riesumare
I vestiti autunnali
li abbiamo lasciati ai ragazzi del Bahrain.
Mister Wood agita mente e anima,
non sopporta i Concerti Brandeburghesi.
Torniamo in superficie
col rumore di fondo dopo Quickly Aging Here.
Dura il mese bisestile.
Barkeley canta Crazy.
da Horcrux in corso di stampa per Progetto Cultura
24
Cara, Helodie, anche Penn Warren
sdruciva la vita come Eliot ne Gli uomini Vuoti
e in The Waste Land.
Avevano un tessuto di cotone stretch
senza un chiaroscuro per il domani.
-Dici bene, Mister Holl! Qui stanno i suoi occhi
affacciati alla finestra-.
I Textual Works scivolano nel buio dell’Ombra
per non seguire Finnegans Wake.
A fianco di Emma Rey
abbiamo percorso The New England Primer.
Il fischio del corvo avvertì che era tardi
per una torta Masterchef.
Ci distrasse il profumo di Jessica
alle prese con lo strabismo.
Il mare esondava relitti di Kayak.
John ne prese uno rifacendo la prua.
Tra le increspature dell’anima
c’era un trolley senza fondo.
Il giardino non ha dato più fiori.
Le sorelle siamesi sono morte a Bunker Hill.
Non c’è terra alcuna che non abbia lapidi
da quando Elia naufragò nel mare.
Mario Gabriele obbliga il linguaggio ad esperire una torsione che possiamo esplicitare così: la pratica poietica serve a far emergere, seppur in modo obliquo e in controluce, il punto cieco di ogni significazione. È la différance dal significato ossificato che serve alla pratica decostruttiva del testo della tradizione. La decostruzione della tradizione non vuole semplicemente svelare dietro alla storia del senso l’operare silente di una traccia rimossa, non è un’operazione che ha come fine quello di porre il problema della différance, è esattamente il contrario: è porre il problema della différance dalla tradizione, è l’evocarla e il mettersi sulle sue tracce che ha il proprio fine; la de-costruzione della tradizione è intesa come ethos che sospende i significati ossificati per non frequentarli in modo irriflesso. La torsione diventa ripescaggio di frasari del registro convenzionale; mettersi sulle tracce della tradizione scomparsa è un espediente pratico-poietico Questo pensiero della pratica poietica è un esercizio di torsione, la si riconosce per il suo fare, le sue procedure, il suo orizzonte di fuori-senso.
Una poesia di
Marie Laure Colasson da Les choses de la vie in corso di stampa per Progetto Cultura di Roma
41.
Eredia la Pompadour et Madame Colasson
montent dans un cyclopousse conduit
par une girafe qui chante un lied de Haendel
La blanche geisha arrive de l’île d’Osaka
munie d’une petite malle en fer blanc
transportant Tristan Tzara à cheval
La Pompadour offre à André Breton
son “amour fou” au delà des mots
Eredia vole à Lucio Mayoor Tosi
son parchemin lézardé pour lui raser la barbe
Gino Rago et Mario Gabriele cherchent
des détritus aux couleurs chatoyantes
pour vacciner Madame Colasson
Hasard des hasards ils se retrouvent tous
au café des “Deux Magots” autour
d’un guéridon bancal et s’assoient sur
des chaises déraisonnables
Breton vêtu de son kimono à fleurs de lotus
s’altère avec Tristan Tzara descendu de son cheval
et proclame que le dadaïsme s’enfouit
dans la joyeuse poussière des temps
Gino Rago le critique Linguaglossa et leurs amis
assis sur des marmottes en rupture de métastases
interviennent et déclarent
que le surréalisme est dépassé
depuis que les zèbres ont perdu
leur merveilleuse géométrie générée par Malévitch
Désormais la poésie passéiste
est amplement remplacée par
l’indigeste cuisine de la poetry kitchen
Le cheval et la girafe pris au dépourvu
avalent des gélules électriques de toutes les couleurs
et vont se promener dans la rues de St. Germain des près
*
Eredia la Pompadour e Madame Colasson
salgono su un risciò guidato
da una giraffa che canta un lied di Haendel
La bianca geisha arriva dall’isola di Osaka
munita di un piccolo baule in ferro bianco
che trasporta Tristan Tzara a cavallo
La Pompadour offre ad André Breton
il suo “amour fou” al di là delle parole
Eredia ruba a Lucio Mayoor Tosi
la sua pergamena screpolata per radergli la barba
Gino Rago e Mario Gabriele cercano
dei detriti dai colori cangianti
per vaccinare Madame Colasson
Fortuna delle fortune si ritrovano tutti
al caffè dei “Deux Magots” intorno
a un tavolino traballante e si siedono su
delle sedie irragionevoli
Breton vestito con un kimono a fiori di loto
s’inalbera con Tristan Tzara sceso da cavallo
e proclama che il dadaismo se ne è fuggito
nella gioiosa polvere del tempo
Gino Rago e il critico Linguaglossa e i loro amici
assisi su delle marmotte in rottura di métastasi
intervengono e dichiarano
che il surrealismo è superato
da quando le zebre hanno perduto
la loro meravigliosa geometria generata da Malevitch
Oramai la poesia passeista
è stata ampiamente rimpiazzata dall’indigesta
cucina della poetry kitchen
Il cavallo e la giraffa presi alla sprovvista
inghiottono delle capsule elettriche di tutti i colori
e vanno a passeggio per le vie di St. Germain des près
Pensare ad una essenza originaria della poiesis è quantomai fuorviante; si può immaginare un’essenza della poiesis provenendo dal futuro, mai dal passato. L’urgenza del nostro tempo è mettere in questione il «senso» stesso dell’opera poetica, che deve avvenire attraverso la «dimenticanza» della poesia della tradizione in quanto divenuta intrasmissibile e contaminata dalla falsa coscienza; l’opera poietica torna così ad abitare il suo «luogo proprio», torna a parlare del luogo che conosce a menadito, con le persone, i sosia, gli avatar, le maschere, «proprie» e allotrie.
La poesia di Marie Laure Colasson abita il «proprio» in modo naturale, senza infingimenti e senza falsa coscienza. I suoi avatar sono degli estranei familiari, sono i suoi doppi, i sosia, i fantasmi con cui l’autrice entra in colloquio familiare. La poiesis torna all’originario guardando al futuro, anzi, provenendo dal futuro. Tornare all’origine significa qui andare avanti, fare una poiesis che abiti il futuro come luogo più proprio (e quindi più estraneo). Quella della Colasson è un’arte irrealistica in quanto realistica al massimo grado, in quanto inventa, trova il suo realismo a partire dall’irrealismo. Il realismo oggi è lo stato vegetativo permanente della poiesis. Oggi il realismo se vuole veramente assomigliare al reale deve diventare irrealismo al massimo grado, deve provenire dal futuro, non più dal passato. Deve dimenticare il passato.
(Giorgio Linguaglossa)
Questa mattina, come faccio sempre ogni sabato, mi sono soffermato a leggere -Robinson-, in particolare la sezione STRAPARLANDO dove Fausto Curi, uno dei sopravvissuti del movimento Gruppo 63, alla domanda posta dall’intervistatore “Cosa pensa del nuovo”, così risponde: “Il suo avvento in letteratura incrina le fondamenta di quello che gli preesiste se provoca una serie di choc benefici. Il nuovo è ciò che abolisce lo stanco presente e rende presente il futuro”. Segue poi un’altra domanda “E la tradizione?”, Curi così risponde: “Non pretende che si parli di lei, la tradizione ha bisogno di essere coltivata e praticata. Esistiamo perché esiste la tradizione: E’ la nostra madre. Il nuovo non può cancellarla. Deve solo integrarla e mutarla.” E’ ciò che risulta nelle mie poesie senza creare “delitti letterari” e mialgie psichiche. MMG.
caro Mario,
Fausto Curi dice delle cose del tutto ragionevoli, dice bene, ma rispetto alla situazione storica del 1961 de I novissimi, quella attuale è molto più complessa e difficile da decifrare; inoltre, la poesia non conta più nulla, le persone più intelligenti non hanno mai scritto poesia e non scrivono poesia né si interessano alla poesia le cui questioni sono ormai diventate di super nicchia, del tutto trascurabili; voglio dire che non abbiamo dei corrispondenti in altre discipline intellettuali, che so, tra i filosofi dell’arte, i linguisti, i filosofi, i saggisti e i giornalisti. La poesia abbandonata a se stessa, cioè alle utility, ai diretti interessati, sopravvive in una situazione larvale, nelle caverne, nei cunicoli, occorre prendere atto che noi siamo uno sparuto drappello di persone che si trovano a scalare una montagna.
Piccoli letterati occupano tutte le istituzioni di potere ed agiscono come influencer, come addetti alle utility, pensano e agiscono con questa mentalità, sospettano di ogni nuova idea, sono morfologicamente dei normologi… sono guardinghi e attentissimi a non cedere un millimetro delle posizioni acquisite, Loro ragionano in termini militari, non sanno pensare in altro modo.
La nostra solitudine è la nostra forza ma anche la nostra debolezza, dobbiamo fare in modo di convertire la nostra debolezza in forza, in costruzione.
Occorre ribaltare il rapporto passato versus futuro, così: futuro versus passato
Pensare ad una essenza originaria della poiesis è quantomai fuorviante; si può immaginare un’essenza della poiesis provenendo dal futuro, mai dal passato. L’urgenza del nostro tempo è mettere in questione il «senso» stesso dell’opera poetica, che deve avvenire attraverso la «dimenticanza» della poesia della tradizione in quanto divenuta intrasmissibile e contaminata dalla falsa coscienza; l’opera poietica torna così ad abitare il suo «luogo proprio», torna a parlare del luogo che conosce a menadito, con le persone, i sosia, gli avatar, le maschere, «proprie» e allotrie.
La poesia di Marie Laure Colasson abita il «proprio» in modo naturale, senza infingimenti e senza falsa coscienza. I suoi avatar sono degli estranei familiari, sono i suoi doppi, i sosia, i fantasmi con cui l’autrice entra in colloquio familiare. La poiesis torna all’originario guardando al futuro, anzi, guardandoci dal futuro, provenendo dal futuro. Tornare all’origine significa qui andare avanti provenendo dal futuro, fare una poiesis che abiti il futuro come il luogo più proprio (e quindi più estraneo). Quella della modalità kitchen è un’arte irrealistica in quanto realistica al massimo grado, in quanto inventa, trova il suo realismo a partire dall’irrealismo. Il realismo oggi è lo stato vegetativo permanente della poiesis. Oggi il realismo se vuole veramente assomigliare al reale deve diventare irrealismo al massimo grado, deve provenire dal futuro, non più dal passato. Deve dimenticare il passato.
caro Giorgio,
pur apprezzando i tuoi commenti, dimenticare il passato, come tu dici, ci porta direttamente al “sonno della memorai”. Spostare ogni cosa verso il futuro, tra cui la letteratura, l’economia e la digitalizzazione, non significa salvarsi da un eventuale Big Crunch. In questo caso i sopravvissuti che avranno spostato tutto in avanti dimenticheranno il passato che è stato, a suo tempo, anche il futuro.
Relativamente al discorso sulla poesia, ossia al realismo” se veramente vuole assomigliare al reale deve provenire dal futuro non più dal passato”, come tu asserisci, anche se i nostri sforzi realizzati con la poesia kitchen sono e saranno soltanto una frazione del Tempo nel grande mare della oggettività.
spiegò placido Italo Calvino nel 1978 al poeta marxista Franco Fortini
«Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»
chiosò il poeta Tomas Tranströmer
« La scena della “doccia” in “Psyco” di Hitchcock è stata ottenuta con 78 differenti posizioni della macchina da presa e 52 tagli di montaggio»
spiegò placido Italo Calvino nel 1978 al poeta marxista Franco Fortini
facendo proprie in qualche modo le osservazioni
del promotore della poetry kitchen
tale Linguaglossa
il quale asseriva che il Green Pass fosse una imposizione totalitaria
prodotto di una dittatura securitaria
Avvenne così che il Linguaglossa ingollò due bottigliette
di Amaro medicinale Giuliani
trasecolò
e venne ricoverato presso il pronto soccorso
dell’Opificio Nazionale dell’ex Pastificio Barilla
dove
era in corso una lettura di poeti orfici no vax no tax no fax
anche il poeta Mario Gabriele trasecolò e barcollò
e anche il pacifico Mauro Pierno
avvertì
un certo fastidio alla bocca dello stomaco
«Il diegetico però fa rima con aritmetico»,
commentò in un suo verso Mario Gabriele rivolgendosi
a un tal sarchiapone poeta leghista
mentre
usciva dal tubo del dentifricio
Mentadent Plus anti placca
dicendo:
«This is an advertisement»
Ora le cose sono più chiare. Mi avevi lasciato solò con le tue affermazioni su passato e futuro. Okay. Un saluto. MMG.
Linguaglossa scrive: ” Il realismo oggi è lo stato vegetativo permanente della poiesis”.
Infatti, è davvero impossibile pensare di fare una poesia alla maniera di Giudici o di Bertolucci. Quel tipo di realismo si è chiuso definitivamente. Oggi il vero realismo è dato dalla poetry kitchen. DAL PUNTO DI VISTA DELLA TRADIZIONE LA POESIA KITCHEN è INCOMPRENSIBILE, IRRICONOSCIBILE. Qui il realismo viene capovolto nel suo opposto, e l’opposto del realismo è l’irrealismo.
Non il futuro ma l’idea di futuro è sguardo retrospettivo verso l’epoca che stiamo vivendo. Lo sguardo in avanti, dove non siamo affatto, è gettare memoria di quel che siamo adesso. Si offre così una chiave di lettura per l’irrealismo della poesia kitchen: la gran confusione (tempi e luoghi), lo spaesamento, e aggiungo il grado di isteria rintracciabile qui e là nel tessuto verbale (inevitabile), sommate a ironia e sarcasmo, sono sintomatiche del passaggio di qua dalle Alpi di orde poetiche intenzionate ad uscire dall’inquietudine. E speriamo facciano presto! Sono perciò d’accordo con Giorgio: “Occorre ribaltare il rapporto passato versus futuro, così: futuro versus passato”.
caro Lucio,
mi piace quando hai scritto in un precedente post che con la tua poesia fai «gettatezza delle parole» e che tenti uno «slang del linguaggio materno». Un compito certo non semplice né accessibile a tutti.
Anche mauro Pierno fa «gettatezza delle parole». Per esempio in questa di Pierno:
Io toglierei i primi due versi e la prima metà dell’ultimo verso. Così:
Ho idea che la nostra gettatezza sia tributo alle acrobazie verbali di Tomas Tranströmer. È di quella scuola e ci si prova sempre. Dopodiché possiamo anche andare oltre. Anche perché è una via cieca. Ma farne esperienza è fondamentale: ci entri, fai conoscenza del non significato, e da lì non potrai più essere il poeta di prima. In questa poesia Mauro tentenna tra le parole e l’immagine; il fatto è che conta l’intenzionalità, con questa (forza) possiamo attraversare il tunnel (il non significato). Non si tratta di restituire intatta, tramite la non descrizione, una fotografia scelta nella memoria, ma di attendere il verso che si scrive innanzi, tanto che l’autore ne resterà sorpreso. Mauro adotta la metodologia kitchen (più punti nel verso lungo) e direi che potrebbe farlo con maggiore premeditazione; perché il punto non sempre è stop ma è anche accelerazione… Se compreso, allora avremo frammenti-continuativi (…) non di senso e significato ma di spazio e tempo; perché in fondo si sta cercando di fare discorso, ma un discorso privato della zavorra che, e che nemmeno riusciamo più a leggere.
«Fare esperienza della gettatezza delle parole», è una idea sensazionale, chi se ne appropria non può più tornare indietro, intendo: alla premeditazione delle parole. Mauro Pierno l’ha fatta propria ma forse la impiega in modo discontinuo e diffratto; a volte, a mio avviso, usa verbi in eccesso o fraseologie in eccesso. Il fatto è che Pierno ha fatto esperienza della non-premeditazione delle parole e delle frasi, e questa è la sua personale metodologia per decostruire la tradizione e la sintassi (che è poi nient’altro che la legislazione di quella tradizione), e qui vengono utilissimi gli spazi bianchi e anche i punti (gli stop and go), che costringono alla economia del discorso poetico.
Mauro, se ci sei batti un colpo!
Raffaele Ciccarone invece preferisce fare il costruttore di immagini gettate, una sull’altra, una dopo l’altra… e così ottiene delle immagini ad incastro…
E’ davvero difficile trovare una poesia non riuscita tra quelle pubblicate in questo post.
Davvero, i poeti kitchen ormai hanno acquisito una manovalanza della materia e della procedura kitchen che ormai la pubblicazione di una Antologia della Poetry kitchen è matura.
E complimenti al nuovo operaio della poetry kitchen Raffaele Ciccarone.
Alcune poesie kitchen sembrano essere, per scelta o per vocazione, un distillato del surrealismo qui da noi inesistente. L’ombra delle parole ne ha trattato a lungo, di Pavel Řezníček ad esempio, la sua poesia “Parlò la renna”. Bisogna qui pensare a Federico Fellini e alla romanità, o La grande bellezza il film di Paolo Sorrentino. E continuare per quella via. Ma naturalmente non siamo tutti di lì.
Questa citazione di Giorgio dall’Antico Testamento è ready language, vera kitsch poetry, non c’è che dire.
Ottima scelta.
La poetry kitchen è anche questa cosa qui.
Quanto di più antico viene ribaltato in novissimo e superlucido. In questo modo la poetry kitchen o kitsch poetry invera la tradizione, cioè la rende vera, attuale, la attualizza. E la nullifica.
Certo, per scrivere così, occorre essere atei, non vi pare?
Variante dal Salmo 33,2-4
Lodate il Signore con la pipa
Con la grattuggia a dieci corde da lui dipinta
Gettate il Signore in un buco nero
Con arte scegliete la zucca e i peperoncini
Perché curva è la pentola del Signore
e ambigua ogni Sua parola
…Toc toc.
Rinsavito. Non scriverò più poesie!
Grazie Ombra.
Ho trovato in questi interventi alcuni punti fondamentali della poetica kitchen. nonché aspetti per me all’origine del mio incontro e coinvolgimento nel progetto Noe.
Il mio primo motivo di afflato e di attrazione verso la Noe è stata fin da subito la capacità del modello proposto da Giorgio, di scandagliare liberamente l’espressione poetica, senza le forzature della linearità convenzionale, di tempo, di spazio ed espressiva.
Ero infatti alla ricerca di un riferimento che mi permettesse di incarnare, riflettere, in poesia la totale articolazione della mia formazione, che proprio nell’antropologia ha trovato a suo tempo l’elemento unificatore e che volevo trasporre in poesia come vettore principe di creatività artistica: mi colpirono da subito, le formulazioni di Giorgio sulla poetica del frammento, con la sua trans-temporalità alla ricerca delle stratificazione profonde dell’espressione della voce umana e della testimonianza dell’esperienza dell’umano e del suo rapporto con il cosmo, esattamente come avviene nella ricerca antropologica.
La stessa concezione di “tradizione”, riveste a mio avviso un’importanza strategica in tale senso, trattandosi di una teorizzazione basilare della storia antropologica e che ha segnato la differenza fra l’antropologia “progressista” – in grado di valorizzare questa scienze nel senso di un suo contributo reale e fattivo alla comprensione delle dinamiche storico-.sociali – e quella “conservatrice”, legata semplisticamente a teorie passatiste alla “buon selvaggio” rousseauiano per intenderci, che in realtà hanno poi costituito il sottofondo di tante storture novecentesche.
Fin dalle prima concettualizzazioni, apparve chiara la centralità dell’idea di “tradizione” nella ricerca antropologica, come una bussola importante da un lato cui le comunità umane hanno sempre guardato per orientare il proprio percorso, ma che al tempo stesso dovesse avere la giusta “malleabilità” per poter essere orientata secondo indirizzi mutanti in base all’evoluzione dei tempi. Le ricerche condotte dall’antropologia funzionalista, più di stampo inglese, che a differenza della culturologia americana ha sempre privilegiato, – nella fase di definizione dello statuto del sapere antropologico – la correlazione tra l'”interno” (la sfera del pensiero, dell’intimità, dello spirito, dell’immaginario, in una parola di quella che definiamo “cultura”) e l’ “esterno”, cioè l’organizzazione sociale, ha dimostrato come le società di interesse antropologico, non conoscevano l’attitudine passatista da cui discende il concetto occidentale di “tradizione”, essendo piuttosto il patrimonio che soliamo chiamare “tradizione”, una proiezione mitopoietica, mediante la quale rinnovare di volta in volta l’interpretazione del mondo e degli eventi, in una dimensione continuamente mutante. La spiegazione di tutto ciò è legata al fatto che rispetto alle culture occidentali, esse non avevano la visione dello scorrere lineare del tempo, non interpretando la propria esistenza in base al concetto di “storia”, ma mediante il rinnovarsi quotidiano della dimensione mitica; era in definitiva un lavoro di continua destrutturazione e ricostruzione di quell’eredità del sapere geneticamente trasmessa, proprio come dice Giorgio in quest’articolo.
Il completamento inevitabile di tale evidenziazione, era l’osservazione opposta e speculare secondo cui le società non in grado di attuare tale ri-attualizzazione di quella che definiamo “tradizione”, fossero inevitabilmente destinate all’estinzione, di fronte alle continue minacce che in tal caso avrebbe finito per costituire il mutamento.
Credo che tutti noi della Noe, della Poetry kitchen, conduciamo tale operazione nella nostra prassi poietica: lo vivo quotidianamente nella mia scrittura, ma lo percepisco chiaramente nella tensione che sottende gli scritti di tutti i poeti del nostro collettivo, che vedo sempre più precisarsi nel senso di una ricerca che non è – e siamo gli unici in Italia a proporre un tale approccio alla poesia – mera scrittura autocompiacente, ma che sempre più si concreta come ricerca intellettuale a tutto tondo, fino ad approdare alla filosofia ed all’antropologia, senz’altro le scienze umanistiche più complesse.
Personalmente tutto ciò mi entusiasma e mi coinvolge totalmente, in quanto riflette esattamente il mio disegno di poesia come una sorta di pan-espressione, in grado di abbracciare il mondo.
In questo caso più che mai è d’obbligo congedarmi con un sentitissimo: “Grazie Ombra!”.
caro Vincenzo,
ti ringrazio per questa attestazione di stima e interesse verso la ricerca che abbiamo messo in piedi… so che qualcuno non riesce a capire che tutte le frasi che pronunciamo non sono nostre ma di tutti i parlanti e di tutti gli scriventi… ricordo che Mandel’stam in uno dei suoi saggi diceva: la tradizione non è un «patrimonio che passa dalla proprietà del defunto ai suoi eredi, non è un concetto monetario, non passa automaticamente dai padri ai figli», ma un concetto dialettico, soltanto chi si pone in modo dialettico e critico di fronte alla tradizione può farsi carico della tradizione, può essere un degno erede della tradizione; soltanto chi la tradisce in realtà la continua.
Io penso che chi non ha il coraggio di criticare la tradizione non può continuarla in alcun modo, se non in modo epigonico, la tradizione non la si possiede con un copia e incolla…
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