In questo appassionato monitoraggio della poesia italiana dell’epoca della stagnazione Linguaglossa ci dà il meglio delle sue capacità critiche (nota dell’Editore, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia contemporanea, Società Editrice Fiorentina, 2013 pp. 150 € 12)
.
«“Andiamo verso la catastrofe senza parole. Già le rivoluzioni di domani si faranno in marsina e con tutte le comodità. I Re avranno da temere soprattutto dai loro segretari”. Era l’aprile del 1919 quando Vincenzo Cardarelli scriveva queste parole. Era iniziata la rivoluzione della società di massa, la rivoluzione industriale era ancora di là da venire, e l’epoca delle avanguardie era già alle spalle, il ritorno all’ordine era una strada in discesa, segnato da un annunzio che sembrava indiscutibile. Oggi, a distanza di quasi un secolo dalle parole di Cardarelli, è avvenuto esattamente il contrario di quanto preconizzato dal poeta de “La Ronda”: oggi andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole. Le rivoluzioni di domani non si faranno né in marsina né in canottiera, né con tutte le comodità né con tutti gli incomodi: non si faranno affatto. Una poesia come questa del Dopo il Novecento non può che nascere in un’epoca in cui parlare di “rivoluzione” è come parlare di ircocervi in scatola. Non c’è opera della rappresentazione letteraria del secondo Novecento che non tenda, in qualche modo, al verosimile e, al contempo, non additi la propria maschera. La poesia e il romanzo dello sperimentalismo, rispetto alla poesia del post-ermetismo e dell’ermetismo, ha una sofisticata coscienza del carattere di “finzione” dell’opera letteraria, ha coscienza della propria maschera, anzi, c’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”».
Mario M. Gabriele
Oggi c’è l’estetica della instant poetry, ed è un bene conoscerla nelle varie esternazioni, brevissime sì, ma sempre collaudate, mai cocci del pensiero, ma pezzi da 90 con i testi poetici riportati. È sorprendente come la poesia di Linguaglossa, qui riportata, superi vari check-in e vada avanti per superstrade a scorrimento veloce. È cambiato tutto: linguaggio, stile, con vari personaggi, alcuni provenienti dal mondo del cinema, come Sharon Stone, indimenticabile in Basic Instinct, il tutto intervallato da immissioni lessicali in inglese e il quadro, a questo punto, può andare in pinacoteca.
Lucio Mayoor Tosi
Quando scrivo instant poetry non ho mai l’impressione di scrivere una poesia.
A volte torno a scrivere poesie che posso riconoscere come kitchen; aggiungo versi su versi, ma a quel punto non è più l’istante, e non può nemmeno dirsi tempo… o è il tempo di una esibizione, valutabile in qualità, bellezza e riuscita.
Quando scrivo instant poetry non ho mai l’impressione di scrivere una poesia.
Ho provato a pubblicare un verso “Instant” su Fb, più che altro una provocazione. Le diverse reazioni espresse nei commenti mi hanno fatto capire che un verso di poesia non lo si può commentare: sta su un altro piano del linguaggio. E che nel linguaggio, se opportunamente valorizzato, un verso (frammento) ha potenzialità insondabili. Si crea un conflitto tra linguaggi, anche in caso fossero tra loro similari.
Questo è forse anche il senso della poesia, la sua difficoltà a collocarsi nel mondo.
- Perché scrivere ancora poesie?
Non si può dire in altro modo?
Marie Laure Colasson
caro Lucio,
io sono molto più pessimista di te, penso che dovremmo tacere tutti per almeno 10 + 10 anni = 20 anni e forse ne rimarrebbero 80 da aggiungere ai venti: in tutto facciamo 100 anni.
Perché ormai il linguaggio della poesia non ha più nulla da dire, tantomeno il linguaggio dell’anima solitaria che sta in giardino a bere il the.
Il fatto di non avere nulla più da dire ci consegna delle perle di linguaggio, un linguaggio infungibile che non può essere trafugato né utilizzato o impiegato per edificare alcuna cosa. Questo è il linguaggio poetico kitchen dei nostri giorni, i linguaggi del lontano novecentismo sono linguaggi ad obsolescenza prescritta, caduti in prescrizione.
Mimmo Pugliese
F I N E
La luna raccoglie papaveri
in fondo allo stagno di sassi
quegli uomini erano stati soldati
Falene ubriache
sfondano specchi di ghiaccio
la strada è un rettangolo
La scuola turchese
è avvitata con chiodi di prugna
hanno scambiato l’ordine dei materassi
L’acqua ha una ruga in più
dalla cruna degli aghi
si intravede Kabul
Rocce arroventate
albe colpite alla schiena
dalle ali degli aerei
Il maniscalco parla al contrario
ha il becco dell’aquila
per cappello un mappamondo
Seduto sul divano uno spartito
sparpaglia tutt’intorno carte napoletane
l’utente è impegnato in un’altra conversazione…
Fine
ALLE SPALLE
Alle spalle della luce
una bocca si infuoca
Un secolo fa oggi
era un aereoplano la mano
Un orecchio sorrideva
al mandorlo e all’ippogrifo
Solleva un macigno
l’occhio davanti al mare
l’algoritmo di domani
è il binario del mento
La fronte porta lontano
fin dove cresce l’erba superba
Il fragile profilo francese
si riconosce in un vassoio azteco
Fucile che non sparerà mai
è il ginocchio divelto della collina
Si ferma al gomito
la sete dello gnomo
Nell’orma del piede
giace un dinosauro
Giorgio Linguaglossa
La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire, ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per av-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità.
La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coinplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che divideva essere e linguaggio, la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii.
Guido Galdini
Non abbiamo più niente da dire.
Ci è rimasto da dire solo il niente.
Facciamo silenzio per i prossimi vent’anni.
Facciamo rumore per i prossimi diecimila.
Francesco Paolo Intini
HIROO! QUEST’È
Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
Di appendere pipe.
Fumare è una passione in tempi di Luna sorella.
Ottobre passò con le ciminiere appassite
Giurò di impastare un Lenin al secondo
Se non avesse visto la Tabella sul senecio.
Prometeo scostò le tendine del salotto
E fece un esperimento di entanglement
Le madame si arrabbiarono quando videro
Il diamante bruciare in Paradiso.
Sarebbe riapparso a fine corsa:
Amore di mamma su katana.
Una cardo vantò l’offerta formativa di una rosa
La questione finì davanti a una bella di notte
Solo perché da una tubetto di smeraldo
Spuntò il soldato Oneda, baionetta e ramarro.
Un gioiello riappare sempre dal lato kitsch
Talvolta il vestito appende il volto blu
Carbonio o Plutonio?
Quello vero ha barba e occhiali ma vota PCI
e lo fa ogni giorno e lo fa ogni volta che ha una donna
Ma il tema sopravvive all’inganno.
E l’imperatrice?
Un haiku al giorno:
chi vinse la pandemia?
Hirohito Yeah!
.
La poesia kitchen è l’esempio più eclatante di una poesia senza parole. In realtà il poeta di oggi non ha nulla da dire, nessun messaggio, niente di niente tranne la scatola vuota del vuoto che è l’io, quell’io che è la quintessenza della metafisica della volontà di potenza e del mondo come rappresentazione e volontà. Quella metafisica è giunta al capolinea. E con essa tutta l’argenteria bella della poesia della tradizione. Quella argenteria è oggi inservibile, e un poeta consapevole lo sa, non può non saperlo.
DA SCEMI A SCEMI NELLA SCEMENZA
Venghi, venghi…
C’è posta per lei se è poeta!
Si sta scomodi in un’oliva
Come il porco a Natale
Di questi giorni mettersi i guantoni
puntellare beatitudine addosso ai corvi
Venga Pasolini, se avanza un po’ di merda
c’è questo Tempo per sistemarla.
(Francesco Paolo Intini)
caro Francesco, caro Mimmo, caro Mauro…
il fatto che non ci sia più niente da dire. ovvero, che la poesia sia stata defenestrata dal suo podio e sia stata costretta a traslocare è una autentica fortuna, perché:
Si sta scomodi in un’oliva
Come il porco a Natale
che altro può dire oggi un poeta dotato di senno e di humour?
La poesia è finalmente libera, libera di non dire niente a nessuno. Mi sembra un bel traguardo.
E poi: perché la poesia dovrebbe dire cose importanti? cose fondamentali? chi lo dice è uno sciocco o un furbo, il che è la stessa cosa.
cara Marie Laure,
trasmetto subito questa tua proposta, a nome de L’Ombra delle Parole, al Presidente del Consiglio italiano dr. Mario Draghi affinché voglia predisporre un Decreto Legge in conformità alla proposta. In questo modo potrà trovare soluzione l’ingente debito pubblico italiano che ammonta a più di 160 miliardi di euro.
di Raffaele Ciccarone
Non sono del tutto d’accordo che non ci sia più nulla da dire: il linguaggio ha possibilità praticamente infinite. Mi permetto di unire una mia poesia o sedicente tale: non so se è kitchen. In ogni caso vorrebbe avere un senso.
*
cadono i corpi dentro la luce
nel sonno sferico sarà
ferita, arboscello.
Con noi cantano
germoglio/coltello
ci sembra un cielo senza tempo e
la stella che si dipana
(ordet)
la parola
preme un sottile
strato, uccello labile
mutatur, la pietra
– Duska Vrhovac – Душка Врховац
poetessa serba
SOMEONE – Neko
Every morning someone steals my thought
Someone wounds my heart every day
Every night someone tricks my soul
Someone has made a pact with my time
Arbitrarily, roughly, without asking me.
***
NEKO
Svakog jutra neko krade moju misao
Neko ranjava moje srce svakog dana
Svake noći neko vara moju dušu
Neko je napravio pakt sa mojim vremenom
Proizvoljno, grubo, ne pitajući me ništa.
Qualcuno
Ogni mattina qualcuno ruba il mio pensiero
Qualcuno ferisce il mio cuore ogni giorno
Ogni notte qualcuno inganna la mia anima
Qualcuno ha fatto un patto con il mio tempo
Arbitrariamente, all’incirca, senza chiedermelo.
Nella poetry kitchen si rinvengono da un lato le linee di forza dell’irrazionalismo di cui il mercato delle economie neoliberali è un potente amplificatore; di ciò si trovano tracce evidentissime disseminate nell’habitat testuale; dall’altro si rinvengono anche le linee di forza della ratio che presiede ad ogni impegno tecnico di costruzione formale, laddove l’elemento formale non è il punto di arrivo posto fuori dal testo, ma meta processo di un processo di demistificazione in atto. Il modo in cui si struttura il significato (o il non-significato) viene ad essere demistificato nel processo stesso della testualità. Viene così a cadere il concetto di esperienza poetica auratica e individuale tipico della poesia lirica e elegiaca del novecento. La prassi del trobar clus viene esautorata e sostituita con un trobar poroso e aperto agli esiti psico linguistici che si costituisce nell’intreccio, nel compostaggio di ready language, nell’intreccio di precarie fibrillazioni tematiche e linguistiche, che si stratificano per poi subito tornare a dissolversi nella testualità; fra di essi uno dei più significativi momenti di demistificazione si fabbrica proprio nei momenti di passaggio dalla poesia lirico elegiaca a quella kitchen o con modalità kitchen. Quello che appare è un nuovo concetto del fare poesia.
Scrivere che non ci sia niente da dire è., a mio parere, una provocazione per creare uno scambio di idee. Come dice Luciano Nanni, il linguaggio è talmente plastico da avere potenzialità infinite. Mi piace anche quello che scrive Lucio Mayoor Tosi : il senso della poesia potrebbe essere proprio’ la ‘sua difficoltà a collocarsi nel mondo ‘, La sua inaddomesticabilità, aggiungo io. C’è molto da dire, conserviamo la voce per dire, almeno, Il Re è Nudo. Come dire la parola poetica è, invece, un dibattito quanto mai necessario. Forse i pittori sono stati più pronti a scardinare regole consolidate , a inventare nuovi alfabeti.
cara Tiziana,
ecco una poetessa polacca di oggi:
Ewa Lipska
Lo specchio
Cara signora Schubert, mi capita di vedere
nello specchio Greta Garbo. È sempre più simile
a Socrate. Forse la causa è una cicatrice sul vetro.
L’occhio incrinato del tempo. O forse è solo una stella
che sbraita nel vaudeville locale.
Le miroir
Chère madame Schubert, il m’arrive de voir
dans le miroir Greta Garbo. Elle ressemble toujours plus à Socrate.
Peut-être à cause de la cicatrice sur la vitre.
L’œil fêlé du temps. Ou peut-être est-ce seulement une étoile
qui hurle dans le vaudeville local
(traduzione di Edith Dzieduszycka)
Ogni linguaggio poetico ha una propria Grundstimmung (tonalità dominante). Ogni poesia ha una propria tonalità e ogni abitante nel nostro mondo ha un proprio modo di sperimentare la propria estraneità a noi stessi e ogni poeta espropria questa estraneità per trasferirla nel linguaggio poetico. Si tratta di un esproprio dunque, e non di una riappropriazione di alcunché. Il linguaggio poetico è lo specchio che ci mostra il vero volto della nostra estraneità a noi stessi, lì non è più possibile mentire e non è più possibile dire la «verità». Forse, in questa antinomia viene ad evidenza la scaturigine profonda della metafora silente: l’impossibilità di dire la «verità». Nella metafora silente si ha l’ammutinamento di tutte le metafore e la silenzializzazione di esse, viene ad esistenza linguistica il silenziatore della verità e della menzogna, l’essere la metafora silente e le metafore tutte, fumo linguistico, un segnale di fumo e nient’altro.
Da una fotografia in rete
Nomi e cognomi diciotto (quasi un Sgt. Pepper)
nella foto di gruppo del gruppo 63
tutti quasi giovani, quasi dinoccolati
qualcuno si arrischiava a sedere per terra
ma la cravatta era ancora un destino
e la camicia di sicuro bianca
non sollevava sospetti, mentre il sarcasmo
lo risparmiavano per confonderlo nel sorriso
si sono quasi tutti incamminati
verso luoghi di meno impervio sconvolgimento
la derisione negli occhi non ha impedito
di diventare anche loro una nostalgia.
Caro Guido, apprezzo questa tua composizione / poesia “storica”, di puro discorso, come lo erano i tuoi Appunti precolombiani. Poi trovo ammirevole il fatto che ogni tanto si scriva senza tentare il poetico, in prosa, con quel che c’è da dire. Ricordo che un po’ lo faceva Milosz.
Seconda versione un po’ più amara
nella foto di gruppo del gruppo 63
tutti quasi giovani, quasi dinoccolati
qualcuno si arrischiava a sedere per terra
ma la cravatta era ancora un destino
e la camicia di sicuro bianca
non sollevava sospetti, mentre il sarcasmo
lo risparmiavano per confonderlo nel sorriso
si sono quasi tutti incamminati
verso luoghi più frequentati dall’ombra
la derisione negli occhi non ha impedito
di diventare anche loro una nostalgia.
L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
Il fatto di non avere nulla più da dire ci consegna delle perle di linguaggio, un linguaggio infungibile che non può essere trafugato né utilizzato o impiegato per edificare alcuna cosa. Questo è il linguaggio poetico kitchen dei nostri giorni, i linguaggi del lontano novecentismo sono linguaggi ad obsolescenza prescritta, caduti in prescrizione.
M.L. Colasson
Gino Rago, I platani sul Tevere diventano betulle, Progetto Cultura, 2020, pp. 130 € 12
Riflettevo sul «segreto» della nuova procedura poetica di Gino Rago e sono giunto alla conclusione che esso risieda in un mix ben orchestrato di conversazione e di colloquialità; un variegarsi di fraseggi musicali nello stile di una missiva indirizzata ad un interlocutore reale o immaginario, missiva mixata con dei linguaggi da bugiardino, da didascalie giornalistiche, da didascalie di prodotti commerciali, quasi dei referti fantasticamente redatti in stile gnomico, aforistico, dilemmatico, con acuti inversaggi e divagazioni apparentemente allotrie, che sembrano slegate dal contesto del testo, che sembrano uscire dal testo per poi invece ritornarvi con esilaranti invenzioni fantastiche. Rago utilizza un linguaggio apparentemente giornalistico, leggero che confligge però con lo stile gnomico e aforistico della tonalità dominante, una sorta di colonna insonora di base; il risultato è uno stile da Commedia che impiega il piano medio alto e quello medio basso dei linguaggi, con i seguenti addendi finali: continui attriti semantici e iconici, dissimmetrie, dissonanze, disformismi, disparallelismi lessicali, semantici e iconici. Il principium individuationis è fornito dalla peritropè (capovolgimento) di un attante nell’altro, di una «situazione» in un ‘altra, di un luogo in un altro.
C’è già nel titolo un esempio tipico della tecnica della inversione (i platani diventano betulle), A=B, B=A; le cose si scambiano di posto e di identità; le persone, gli oggetti, le situazioni sono tutte interscambiabili, tutto diventa altro e non c’è nulla che le tenga insieme, manca il legame, è come se mancasse il collante, nulla resta fermo ma tutto è immerso in un movimento peristaltico; il principio di individuazione diventa il principio di diversificazione e di moltiplicazione, il discorso poietico punta alla molteplicità e alla dissimmetria, al disformismo; gli elementi del polittico iconico tendono insensibilmente a polimorfosarsi; la morfologia delle cose diventa mutagena, diversificata, conflittuale. Il libro è diviso in cinque sezioni, ciascuna di esse è composta da un movimento progressivo e vari movimenti regressivi e laterali; ciascuna sezione impiega una tonalità diversa, ogni sezione è composta da una lessicalità particolare e tutte insieme rimandano alla parentela relazionale del diverso con il diverso, del familiare con l’estraneo. Il tutto obbedisce al principio della concordia discordante, della oppositività di tutto con il tutto.
Nulla a che vedere con gli antiquati principi della ontologia poetica novecentesca (da Sanguineti a Bertolucci) che puntava le sue fiches sulla ambiguità dei linguaggi o sul pluristilismo, sul racconto familiare o subliminale; nel libro di Gino Rago non c’è convergenza di stili ma semmai c’è «divergenza», «difformità», «diversificazione», «oppositività» tra varie morfologie e anatomie di linguaggi disparati e disperati… Ci troviamo in un nuovo demanio concettuale del fare poesia dove manca il principio speranza, dove non si dà ritorno ad alcuna terra emersa o sommersa o oboe sommerso. È il commiato di Gino Rago al continente poesia del novecento che è entrato nell’orizzonte dell’oblio e della disillusione. Ciò che resta è un lungo addio ad un mondo dopo il quale c’è un punto interrogativo.
“e cercano il tutto in ogni frammento,
un seme di cocomero, un chiodo, un filo di spago.”
Gino Rago
Calze rete Moulin Rouge
Tre-per-tre come eravamo
Dolores (Tosy)
ci sembra un cielo senza tempo e
la stella che si dipana (L.Nanni)
Ogni mattina qualcuno ruba il mio pensiero
Qualcuno ferisce il mio cuore ogni giorno(D. Vrhovac)
come Sharon Stone, indimenticabile in Basic Instinct, (M.M.Gabriele)
Portavo la mia immagine per la città
come un retrattile vessillo.(Colasson)
Nell’orma del piede
giace un dinosauro
c’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”». (Linguaglossa)
Facciamo silenzio per i prossimi vent’anni.
Facciamo rumore per i prossimi diecimila.(Galdini)
Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
Di appendere pipe.(Intini)
La verità della creazione ha uno sbuffo,un tuffo
senza sigillo (Pierno)
…
una Olivetti 32 vuole
riscrivere la storia
dice di averla tutta nei tasti (Ciccarone)
Cara signora Schubert, mi capita di vedere
nello specchio Greta Garbo. (Lipska)
ma la cravatta era ancora un destino
e la camicia di sicuro bianca (Galdini)
Forse i pittori sono stati più pronti a scardinare regole consolidate , a inventare nuovi alfabeti.(Antonilli)
(La posto perché ho sempre timore di perdere il lavoro fatto. Tra po’ elimino gli “orpelli”…
Nell’orma del piede
giace un dinosauro(Pugliese)
Calze rete Moulin Rouge
Tre-per-tre come eravamo
Dolores
Ci sembra un cielo senza tempo e
la stella che si dipana
Ogni mattina qualcuno ruba il mio pensiero
Qualcuno ferisce il mio cuore ogni giorno
Come Sharon Stone, indimenticabile in Basic Instinct
Portavo la mia immagine per la città
come un retrattile vessillo
Nell’orma del piede
giace un dinosauro
C’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”
Facciamo silenzio per i prossimi vent’anni.
Facciamo rumore per i prossimi diecimila.
Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
Di appendere pipe.
La verità della creazione ha uno sbuffo, un tuffo
senza sigillo
Una Olivetti 32 vuole
riscrivere la storia
dice di averla tutta nei tasti
Cara signora Schubert, mi capita di vedere
nello specchio Greta Garbo.
Ma la cravatta era ancora un destino
e la camicia di sicuro bianca
Forse i pittori sono stati più pronti a scardinare regole consolidate , a inventare nuovi alfabeti.
Grazie OMBRA.
(Ora incorporo Rago)
Calze rete Moulin Rouge
Tre-per-tre come eravamo
Dolores (Tosy)
ci sembra un cielo senza tempo e
la stella che si dipana (L.Nanni)
Ogni mattina qualcuno ruba il mio pensiero
Qualcuno ferisce il mio cuore ogni giorno(D. Vrhovac)
come Sharon Stone, indimenticabile in Basic Instinct, (M.M.Gabriele)
Portavo la mia immagine per la città
come un retrattile vessillo.(Colasson)
Nell’orma del piede
giace un dinosauro
c’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”». (Linguaglossa)
e cercano il tutto in ogni frammento,
un seme di cocomero, un chiodo, un filo di spago.(Rago)
Facciamo silenzio per i prossimi vent’anni.
Facciamo rumore per i prossimi diecimila.(Galdini)
Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
Di appendere pipe.(Intini)
La verità della creazione ha uno sbuffo,un tuffo
senza sigillo (Pierno)
…
una Olivetti 32 vuole
riscrivere la storia
dice di averla tutta nei tasti (Ciccarone)
Cara signora Schubert, mi capita di vedere
nello specchio Greta Garbo. (Lipska)
ma la cravatta era ancora un destino
e la camicia di sicuro bianca (Galdini)
Forse i pittori sono stati più pronti a scardinare regole consolidate , a inventare nuovi alfabeti.(Antonilli)
(La posto perché ho sempre timore di perdere il lavoro fatto. Tra po’ elimino gli “orpelli”…
Calze rete Moulin Rouge
Tre-per-tre come eravamo
Dolores
Ci sembra un cielo senza tempo e
la stella che si dipana
Ogni mattina qualcuno ruba il mio pensiero
Qualcuno ferisce il mio cuore ogni giorno
Come Sharon Stone, indimenticabile in Basic Instinct
Portavo la mia immagine per la città
come un retrattile vessillo
Nell’orma del piede
giace un dinosauro
C’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”
E cercano il tutto in ogni frammento,
un seme di cocomero, un chiodo, un filo di spago.
Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
di appendere pipe
Facciamo silenzio per i prossimi vent’anni.
Facciamo rumore per i prossimi diecimila.
La verità della creazione ha uno sbuffo,un tuffo
senza sigillo
Una Olivetti 32 vuole
riscrivere la storia
dice di averla tutta nei tasti
Cara signora Schubert, mi capita di vedere
nello specchio Greta Garbo.
Ma la cravatta era ancora un destino
e la camicia di sicuro bianca
Forse i pittori sono stati più pronti a scardinare regole consolidate , a inventare nuovi alfabeti.
Grazie OMBRA
frammenti secchi singhiozzi, turbinio
interno – mi ascolti
congelando alla parete una stampa
di olmi fiume e strada
– che ho perso –
mentre con sola immaginazione parlo
al compatto vuoto del soffitto
che dici, seccamente il tuo “perché”
frantuma il silenzio dell’ufficio
– la segretaria al telefono… –
oltre l’uscio lunedì all’una
risponde e a me sabato all’una
il dottore.. incredibile,
che ne so –
il “perché” è domanda stupida
– difficile –
impossibile estrarlo, rimane una cava
paleolitica,
impossibile cauterizzarlo e ancora il tuo “perché”
non ho colpe,
altri, i complessi
del paleolitico superiore –
“che fa la segretaria”
si tratta d’isolamento
incompiutezza –
(stesura del 1964, poi pubblicata in Sessioni con l’analista, 1967)
Ed ecco come commento questo testo in un paragrafo della mia monografia dedicata alla poesia di Alfredo de Palchi, Quando la biografia diventa mito, (Progetto Cultura, 2016, pp. 150 € 12):
“La poesia inizia con il termine «(incomunicazione)» messo tra parentesi e finisce con la parola «incompiutezza», senza parentesi. C’è un dialogo, ma del tutto slogato, dissestato, de-territorializato, che non obbedisce più alla legislazione della sintassi. Qual è l’oggetto?, non si sa, ci sono «frammenti», «singhiozzi», compare un «mi ascolti», ma non sappiamo chi sia l’interlocutore che dovrebbe porsi in posizione di ascolto. Si progredisce nei tre quattro versi seguenti a tentoni, fino ad incontrare: «parlo al compatto vuoto del soffitto». Si cerca un «perché», si va alla ricerca di un «perché» come un commissario va alla ricerca delle tracce del delitto; nella composizione sono inseriti spezzoni di dialoghi, dialoghi espliciti e dialoghi impliciti, proposizioni implicite di un monologo pensato. C’è una «segretaria al telefono», ma non si capisce bene se sia lei ad inserirsi nel dialogo o se stia tentando di «cauterizzarlo», come si cauterizza una escrescenza. Il dialogo (o meglio il monologo) non va alla ricerca del senso, piuttosto lo fugge con tutte le sue forze, vuole divincolarsi dal legame col «senso», vuole liberarsi dalla soggezione del «senso», così come parimenti vuole liberarsi dalla «soggezione della sintassi», dal potere estraneo e impositivo della logica, suprema inerenza della sintassi”.
Questa è davvero una straordinaria poesia di Alfredo de Palchi, e pensare che è stata scritta nel 1964 e pubblicata nel 1967. A leggerla ora nel 2021 il tempo trascorso sembra che non sia mai trascorso, è fresca di bucato,
altra mia instant poetry dedicata a Mauro Pierno
Palline da ping pong che sorrisi rimbalzano
Mademoiselle Eiffel.
🤹 Grazie.
dedicata a Mario Gabriele “il Capostipite della poetry kitchen”
Gentile M.L. Colasson,
grazie della tua dedica. I tuoi acrilici colorano questo mondo portandoci nell’ampia area delle ricerche informali con la stesura dei colori di ampio valore estetico.
dédiée à Lucio Mayoor Tosi
set 4
un ingresso esclusivo
per mascherine e green pass
Giacometti ritorna
mortificato sui suoi passi
…
le illusioni infrante
non fanno bestseller
il vintage invenzione
di nostalgici revival
…
la vecchia geisha
canta con malinconia
la Madama Butterfly di Puccini
…
set 5
…
Modì ha ritratto
Virginia a Montmartre
coscia lunga intrigante
…
con l’uncino di Hook
Wendy ha fatto un piercing
da mettere al naso
per sorprendere Peter Pan
…
il raggio verde infilato
nell’arcobaleno è sfuggito
al magnetismo terrestre
ora lo troveranno nella galassia
…
In effetti oggi siamo circondati di parole; la nostra è per antonomasia la società della comunicazione, perché si tratta di una comunicazione massificata (che è cosa ben diversa dal concetto di comunicazione democratica) condotta come strategia di marketing per ragioni consumistiche: la stessa platea che pensa di partecipare ad un confronto attivo è in realtà assoggettata, asservita ad un meccanismo da circuito consumistico, tendente allo slogan corrivo.
Ciò ha condotto ad una invasione, ad un furore orgiastico di parole, che di fatto ne sviliscono lo spessore, il valore comunicativo.
Naturalmente, a questo processo non può essere estranea la poesia, l’espressione artistica regina degli esponenti dei “parolifici”,con l’inevitabile risultato dell’annientamento della funzione critica e potenzialmente palingentica, rivoluzionaria della parola poetica, sempre più imbavagliata dal potere. E’ in questo senso secondo me, che va intesa la critica insita nello spirito di quest’articolo di Giorgio sull’annullamento del linguaggio poetico e le osservazioni connese di Lucio Tosi e MIlaure Colasson.
La parola poetica è certamente ancora viva, ma nella misura in cui si venga espressa in modo rigenerante, fuori dagli schemi logori di questi ultimi quarant’anni – come intende il progetto Noe culminante nella Poetry kitchen – al punto che come scrive Lucio – cosa che provo anch’io nella mia scrittura – nel momento in cui si compone Poetry kitchen, non si ha neppure la sensazione di scrivere poesia nel senso classico del termine. Ed è sempre nel in relazione a questo linguaggio poetico cloroformizzato che va intesa a mio avviso, l’affermazione di Marie Laure, sulla necessità del silenzio per “bulinare” il linguaggio poetico.
La forza propulsiva della Poetry kitchen è invece ben viva e lo dimostra quest’articolo stesso, corredato dagli scritti di alcuni dei nostri esponenti più incisivi, a partire dal nostro capostipite, Alfredo De Palchi.
Un caro saluto a tutti gli amici dell’ “Ombra”,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2021/01/16/inediti-da-horcruz-di-mario-m-gabriele-francesco-paolo-intini-soluzione-blu-picasso-poetry-kitchen-il-soggetto-mancante-di-slavoj-zizek-langoscia-dei-nostri-giorni-di-giorgio-linguaglossa/
A proposito del soggetto mancante
Il soggetto per Žižek viene situato all’interno dello spazio vuoto (tra Simbolico e Reale) che viene a crearsi, spazio vuoto privo di contenuto in cui emerge un soggetto a sua volta vuoto, che però è fondamentale per il passaggio da un ordine all’altro. È questo divario il luogo della soggettivazione, se non ci fosse alcuna discrepanza tra un oggetto e la sua rappresentazione simbolica (la parola), allora non ci sarebbe nemmeno il soggetto perché ci sarebbe totale identificazione.
Il soggetto si caratterizza come la risposta del Reale alla domanda del Grande Altro; è il vuoto dell’impossibilità di rispondere alla domanda che l’Altro pone.
Se non ci fosse un vuoto da colmare non ci sarebbe nemmeno la possibilità di un processo di soggettivazione, se ci fosse piena coincidenza tra i due ordini che cosa si dovrebbe soggettivizzare? Nulla. Žižek riprende un saggio di Aron Bodenheimer dal titolo Perché? Sull’oscenità del domandare.
La tesi che qui viene sviluppata ci mostra come nell’atto del domandare ci sia qualcosa di osceno, indipendentemente dal contenuto della stessa domanda. È il contenuto ad essere chiamato in causa, è la forma in quanto tale ad essere oscena: la domanda denuda il suo destinatario, invade la sfera della sua intimità ed è per questo che spesso la reazione è quella di un sentimento di vergogna. Anche se una domanda si riferisce ad un dato di fatto, rende sempre il soggetto formalmente colpevole: colpevole per la sua impotenza di fronte a questo dato di fatto.
Se dunque la domanda ha il potere di esporre la vulnerabilità del soggetto significa che, nel momento in cui viene posta, ha il compito di mirare al punto di impotenza presente nell’individuo. Ne segue il fatto che è nella sua stessa natura generare un sentimento di vergogna nel momento stesso in cui viene posta; questo accade perché mira al nucleo più intimo del soggetto.1
Scrive Slavoj Žižek:
«È necessario far riferimento al fantasma fondamentale, inteso come concetto presente in Freud e Lacan, e da questi definito come la più intima essenza del soggetto, come la definitiva cornice proto-trascendentale del mio desiderare che proprio in quanto tale rimane inaccessibile alla mia comprensione soggettiva; il paradosso del fantasma fondamentale è che l’essenza stessa della soggettività, lo schema che garantisce l’unicità del mio universo soggettivo mi è inaccessibile. Nel momento in cui mi avvicino troppo, la mia soggettività e auto esperienza perdono consistenza e si disintegrano».
«Più reale del reale, il fantasma è nell’oggetto più dell’oggetto stesso».2
La poesia kitchen che noi facciamo, o che tentiamo di fare, ha a che fare con il «fantasma» più che con le muffe alle pareti dell’io, viviamo in un mondo di spettri e di fantasmi. C’è il Reale perché c’è il fantasma del reale. Il Reale è popolato di fantasmi.
1 S. Zizek, L’oggetto sublime dell’ideologia, tr. it. a cura di C. Salzani, Ponte alle Grazie, Firenze 2014, p. 218
2 S. Žižek, Lacrimae rerum, cit., p.217.
Cover Tiziana AntonilliMauro Pierno Compostaggi
«Svelare l’arcano della fattura del plusvalore»
Sta in questa piccola frase di Marx il destino del capitalismo e, quindi, anche di noi.
Anche l’angoscia Ci si presenta sotto la veste di un «arcano», non sappiamo da dove viene né dove è diretta. Di fronte a lei Ci scopriamo disarmati. Ella va e viene, passeggia su altissimi trampoli, mostra le sue seduzioni, ci seduce in definitiva, Ci ammalia. L’angoscia è il nostro «arcano», svelarla sarebbe come svelare la nostra forma di vita, la nostra nuda vita. Essa ci soprprende a tergo quando beviamo il caffè al bar o quando parliamo d’altro con commensali. A me è capitato di udirla in occasione della presentazione di un libro di cui scoprivo che non avevo niente da dire. Ecco, in quel niente, si affacciava l’angoscia. L’angoscia Ci è fedele. Non Ci tradisce mai.
Nella misura in cui cresce l’infelicità generale e particolare, cresce corrispettivamente anche l’angoscia.
Nella misura in cui cresce la libertà delle merci, cresce corrispettivamente anche l’angoscia.
Nella misura in cui cresce il plusvalore, cresce corrispettivamente anche l’angoscia.
Nella misura in cui il mondo ci appare immodificabile, cresce corrispettivamente anche l’angoscia.
La claustrofobia per il chiuso e l’agorafilia per l’aperto, sono l’espressione dell’angoscia come dato immodificabile.
È cosa nota la determinazione heideggeriana dell’essenza della metafisica come oblio della differenza di essere ed essente, nonché la contrapposizione del pensiero metafisico ad un pensiero più originario che che viene individuato da Heidegger nei detti dei pensatori aurorali presocratici. Si presenta così un contrasto: un’immagine della storia dell’essere che comincia con il pensiero autentico aurorale per poi cadere nell’oblio della differenza con l’avvento di Platone di contro ad un’immagine che pone la stessa storia dell’essere come storia dell’oblio – togliendo, allora, ogni compiuto riferimento autentico all’essenza dell’essere.
Come va, allora, intesa la differenza, se si vuole negare che Heidegger sia incappato in una così evidente ed ingenua contraddizione, e se si vogliono dunque tenere insieme le due immagini indicate? Come intendere, poi, la Seinsvergessenheit – l’oblio dell’essenza dell’essere?
Come questo medesimo Wesen? È qui in questione l’inizio della Metafisica – la quale resta pur sempre il pensiero dell’oblio.
Forse, azzardo, questa «angoscia indebolita» che coglie tutti noi abitanti del secolo XXI ha origine in questa Seinsvergessenheit, una sorta di asettica nostalgia di quella dimenticanza dell’essere da cui siamo sorti e da cui continuamente sorgiamo.
Forse, azzardo, è questo il nostro «plusvalore», altrimenti saremmo degli scimmioni che sconoscono la dimenticanza dell’origine.
Ogni parola che noi abitiamo è la patria di un’altra parola dimenticata e/o rimossa. Così noi abitiamo sempre, inconsapevolmente, una dimenticanza, una rimozione.
Caro Giorgio,
trovo molto interessante la tua teoria dell’angoscia come nostro plusvalore; la trovo convincente nella misura in cui la mistura delle varie scaturigini attuali del panoramo economico, sociale e politico che ci troviamo ad affrontare, abbia modificato lo statuto ontologico del soggetto di fronte ad un oggetto che è a sua volta caratterizzato da una maggior vacuità ed indecifrabilità.
A ben vedere, riprendendo uno dei paradigmi fondanti il progetto Noe, l’angoscia potrebbe essere uno degli elementi portanti l’individuazione della reversibilità dall'”oggetto alla “Cosa”.
Un grande abbraccio.
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Per Marie Laure Colasson
Smettere di scrivere per un certo numero di anni va bene. “La carta è stanca” asseriva Guido Ceronetti e, io aggiungo, il monitor lo è ancora di più, avendo fatto peraltro pochissimi sforzi.
“L’anima solitaria che sta in giardino a bere il the” ha un linguaggio? Ne possiede potenzialmente più di uno. Dipende. Guardiamo, una volta per tutte, la poesia alla prova dei fatti, senza anticipazioni preclusorie sull’identità e sulle prospettive del poetante.
La frase “il linguaggio poetico dei nostri giorni” mi atterrisce. Perché solleticare il moderno, sia pure in chiave disperata, dissacrando la “sacralità” del non sacro, ad esempio, significa iscriversi alla combriccola. Attenzione all’imbroglio delle avanguardie, passate e future, che sono esse sì cadute, e da tempo, in prescrizione. Ho l’impressione che in un modo o nell’altro si voglia certificare il presente. E invece non dobbiamo seguire su nessun itinerario l’irrealtà odierna, che si combatte caso mai con un recupero intelligente della tradizione, cioè con una vera e giustificata novità. O con una poesia irriconoscibile che può esistere solo mettendo radici nell’esile striscia del reale, autoesiliandosi, estraniandosi dai domini di una “realtà” che non è affatto tale.