Lucio Mayoor Tosi, Composizione in ambiente bianco – il termine «verità» risulta essere un’errata traduzione del concetto greco di aletheia, l’espressione si compone del suffisso privativo – α seguito dal termine lethe, che in greco antico significa “ombra”, “oblio”, “oscurità”, “dimenticanza”. In origine, quindi, la parola aletheia sta ad indicare il non-nascondimento, il venire via dall’ombra, ciò che è celato, ciò che è privo di ombra, e quindi interamente esposto alla luce.
.
Giorgio Linguaglossa
inedito da Distretto privato n. 18
La scena della “doccia” in “Psyco” di Hitchcock – girata con 78 differenti posizioni della macchina da presa e 52 tagli di montaggio – esprime bene quanto sia complesso il modo di riprodurre un oggetto da una pluralità di sfaccettature o punti di vista.
Analogo discorso in poesia. Il montaggio occupa un ruolo fondamentale per la nuova fenomenologia del poetico Poetry kitchen. Quanti tagli e quanti differenti posizioni della macchina da presa sono necessari per raffigurare una scena? Ecco una mia poesia di dieci anni fa, costruita da un numero molto alto di posizioni della macchina da presa (l’occhio) e di «tagli» del montaggio.
Omega
[…]
A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,
corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.
A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.
[…]
La prima porta, la apro.
Il sole tramonta su un mare nero.
[…]
La seconda porta.
Ci sono i morti che hanno inghiottito il buio.
Sono invisibili, ma io li vedo.
A tentoni… giro una maniglia.
[…]
Apro la terza porta.
Ci sono gli uomini che hanno mangiato la mela.
Adesso sono visibili.
«Davvero, che gioco è questo (!?)».
Avanzo con circospezione, nel corridoio… c’è un terrazzo.
Una ringhiera si affaccia su un mare nero.
«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari.
(2011)
Alle prime stesure della prima strofa di questa poesia (composta nel 2011, ben prima della nascita delle Poetry kitchen) mi saltava agli occhi che essa non era stata scritta con tutti quei punti a mo’ di spezzatino, ma era scritta come un’onda unica fonica e sintattica, alla maniera della ontologia estetica novecentesca. E la cosa non mi piaceva affatto, mi lasciava insoddisfatto. In seguito, nel corso degli ultimi anni ho iniziato a segmentare il testo con dei punti, togliendo i verbi e gli aggettivi (che confondevano e ostacolavano a mio vedere il colpo d’occhio della lettura). La stesura in distici è stata l’ultimissima e decisiva modifica che ho apportato al testo.
La poesia è stata costruita in feroce inimicizia con il «suono», con la poesia fonologica e sonora della tradizione italiana che va da Pascoli e D’Annunzio a Franco Fortini di Composita solvantur (1994). Quello che è avvenuto dopo l’ultimo libro di Fortini nella poesia italiana non lo ritengo, da questo punto di vista, decisivo… con l’eccezione di Stige di Maria Rosaria Madonna [1992 e adesso in Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, 2018, pp. 148 € 12], la quale opera uno strappo vistosissimo con la poesia della tradizione novecentesca in senso lato frantumando il verso e il metro, riducendoli ad ossi di seppia.
La poesia – dicevo – è stata costruita nell’ambito della nuova concezione estetica della «nuova ontologia estetica» ma circa dieci anni prima della poetry kitchen. Mi rendo benissimo conto che ad un orecchio abituato ed educato alla «vecchia ontologia estetica» la poesia possa sembrare brutta e cacofonica. Anzi, il fatto che venga recepita così mi convince sempre di più che mi trovo (ci troviamo) sulla strada giusta, la strada del rinnovamento di una stagnazione della prassi poetica che si è protratta per più di 50 anni. Innanzitutto, nel mio testo, la fonologia, il suono ha perso la sua centralità, anzi, è stata relegata in ultima posizione. Il suono complessivo delle parole, la Stimmung non è data dal suono del significante ma dal cozzo acustico della fonemica e dal cozzo dei significati.
Riflettiamoci un attimo: Il «suono» è stato spodestato dalla sua centralità e sostituito con un «vuoto»… e questo è evidentissimo se rileggiamo per esempio le poesie kitchen di Mauro Pierno, Alfonso Cataldi e di altri. È avvenuta una rivoluzione, e non ce ne siamo accorti. Chi non la vede è perché non ha occhi e orecchi per avvedersene.
Quando de Sassure scrive che «l’immagine verbale non si confonde col suono stesso», afferma un concetto importantissimo per la poesia della nuova ontologia estetica. Quando io ad esempio scrivo:
«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari
impiego una immagine che, ai fini della significazione, non corrisponde ad alcuna successione fonica, ad alcun «suono»; l’immagine deve essere recepita e decodificata non mediante la intercessione del «suono» ma ricorrendo ad una immagine eidetica che viene attivata da una immagine iconica. E questa utilizzazione della Lingua (Langue) è una tipica procedura della poesia della «nuova ontologia estetica». Leggiamo cosa dice un maestro della teoria del linguaggio, Ferdinand de Sassure:
.
«Le sillabe che si articolano sono impressioni acustiche percepite dall’orecchio, ma i suoni non esisterebbero senza gli organi vocali; così una “n” esiste solo per la corrispondenza dei due aspetti. Non è dunque possibile ridurre la lingua al suono, né distaccare il suono dall’articolazione boccale; reciprocamente, i movimenti degli organi vocali non sono definibili se si fa astrazione dall’impressione acustica.
Ma ammettiamo anche che il suono sia una cosa semplice: è forse il suono che fa il linguaggio? No, il suono è soltanto uno strumento del pensiero e non esiste per se stesso. Sorge qui una nuova corrispondenza piena di pericoli: il suono, unità complessa acustico-vocale, forma a sua volta con l’idea una unità complessa, fisiologica e mentale. E non è ancora tutto.
Il linguaggio ha un lato individuale e un lato sociale, e non si può concepire l’uno senza l’altro.
Inoltre, in ogni istante il linguaggio implica sia un sistema stabile sia una evoluzione; in ogni momento è una istituzione attuale ed un prodotto del passato.
[…]
Preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale… La lingua, al contrario, è in sé una totalità e un principio di classificazione».1
.
Quando de Sassure scrive che «l’immagine verbale non si confonde col suono stesso»1 afferma un concetto importantissimo per la poesia della nuova ontologia estetica. Ad esempio, quando io scrivo: «Questo è il posto del Re», dice il Re di denari, utilizzo una immagine che, ai fini della significazione, non corrisponde ad alcuna successione fonica, ad alcun «suono»; l’immagine deve essere recepita e decodificata non mediante la intercessione intermediaria del «suono» ma ricorrendo ad una immagine eidetica che viene attivata da una immagine iconica. E questa utilizzazione della Lingua (Langue) è una tipica procedura della poesia della nuova ontologia estetica.
(Giorgio Linguaglossa)
1] F. de Sassure, Corso di linguistica generale, Paris, 1922, trad it. 1967. edizione del 2001, pp. 1-19.
.
[Lucio Mayoor Tosi, Instant poetry]
Mauro Pierno
La caffettiera all’ultimo stadio della pazienza
un recipiente d’acciaio
di un’onda
la stessa filettatura sghemba
la protesi di un alveare
lo snodo inusuale all’attacco occipitale
gira e sorride ad un deltaplano che sta atterrando all’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma
Ma è tardi, la confraternita delle carmelitane scalze è occupata ad arrostire le caldarroste
proprio il giorno del ballottaggio
La verità della creazione ha uno sbuffo, un tuffo
senza sigillo.
Il sole in fronte come di domenica
il pane appena sfornato
Gino Rago
Letizia Leone va in tournée
con Duke Ellington
Mauro Pierno imballa messaggi
Per la Ditta Black Power&Ingranaggi
Con Louis Armstrong
François Paul Intinì scrive
Blues per Mirò
Giorgio Linguaglossa e Gino Rago
Sono al Terminillo
Bevono un succo di mirtilli
Nello chalet di Pitigrilli
“Sopravvissuto a Stalin, a Kruscev,
A Gorbaciov, a Eltsin e a Putin.
Evgenij Evtushenko è un poeta
Buono per tutte le stagioni”,
Dice Italo Calvino ad Angelo Maria Ripellino
Giorgio Linguaglossa
dalla raccolta inedita Una giraffa seduta sul sofà chiede un Campari
receipt 77873
«Posso portare il caffè, fare fotocopie,
accendere il forno elettrico
lo scaldabagno, parlare con Google,
posso preparare newsletter, sandwichs, stages,
gestire l’immagine
e i backstage
camminare con il collarino al collo e i tacchi a spillo sul linoleum
del corridoio
del Palace Hotel di Holliwood
Sono la squillotravgender Mary Quinn
la più amata dagli italiani»
– disse la tgirl
Mary Quinn uscendo dal bagno avvolta
nell’accappatoio
in una nuvola di Elixir Aromatique de Clinique –
receipt 77875
La cyborg femboy Molly Blum e il Colluttorio M.14
si incontrano sull’altalena
oscillano per un po’
«I never signed up to be on this list»
dice Molly Blum
«This email is spam and should be reported»
le risponde a tono il Colluttorio M.14
Detto ciò si stendono sul pavimento del 37 piano dello skyscraper T.19
di Manhattan
si scambiano baci in lingua “hurgh”
si sfilano i guanti
in topless
salgono sulla pedana di linoleum
Sfidano al fioretto il Mago Woland appena uscito dal romanzo di Bulgakov
Sul chiosco degli stagni Patriarsci c’è un cartello
con su scritto:
«Il cervello ospita 86 miliardi di cellule nervose suddivise in 10.000 tipi diversi»
«Ciascuna delle quali comunica con migliaia di altri neuroni e neutrini»
opina preoccupato il Mago Woland
mentre attraversa la porta girevole del Trafalgar Square Hotel
di Los Angeles
avviandosi sulle scale nobili
«Do you really want to unsubscribe?»
Gino Rago
Marie Laure Colasson scrive un messaggio
A Breton, a Dalì e a Mirò.
C’è scritto:
«Aldo Palazzeschi e Luigi Pirandello
Domattina a Villa Borghese
Si sfideranno a duello…
Liolà vuole entrare nel Codice di Perelà»
«Madame Colasson, sono fake news
Messe in giro da Cacciari, Agamben e Pedullà,
Pirandello è a Bogotà,
Palazzeschi è a Paris, beve pernod e mangia supplì
con il Piccolo Principe
Di Antoine de Saint-Exupéry».
Mario Gabriele chiama al telefono
Il Direttore dell’Ufficio Affari Riservati
di via Pietro Giordani, n.18,
Il critico Giorgio Linguaglossa.
Dice: «La gallina Nanin è ad El Alamein,
Prepara uova a la coque
Al figlio del re Faruk
Che da Roma è scappato a Tobruk…».
Il Direttore Giorgio Linguaglossa convoca d’urgenza
L’investigatore Tom Ponzì
Il quale prende un taxì
Ma sbaglia direzione e si trova a Giarabub…
Poi fa la pipì sotto un baobab.
La questione della poiesis come positura di «significati»
Per l’ermeneutica contemporanea, sapere è porre in luce significati a partire da presupposti che restano velati. Ogni «significato» (da intendersi in un senso molto ampio: concetto, definizione, interpretazione, rappresentazione, visione del mondo, teoria) si staglia su uno sfondo, ciò che l’ermeneutica chiama «pre-comprensione»: pregiudizi impliciti, tacite assunzioni, impressioni inavvertite, condizionamenti grammaticali, sociali e culturali che orientano e pre-determinano ogni nostra percezione e conoscenza del mondo. Gli oggetti e i contenuti del sapere sono dunque sempre storicamente determinati, relativi a categorie e paradigmi che ne forniscono la cornice invisibile e il contesto di senso implicito. Questa rete di rimandi e sottintesi, che costituisce la «pre-comprensione», non solo è ineliminabile ma è la condizione di possibilità della conoscenza in quanto tale: come non vi è figura senza sfondo, così non vi è significato, o contenuto di conoscenza che si stagli in piena luce se non a partire da un insieme di premesse sulle quali il nascente bagliore proietta la propria ombra.
Con l’ermeneutica, il sogno di una conoscenza priva di presupposti, in grado di esibire il fondamento, il proprio terreno di validità, si è dunque definitivamente infranto, portando a ridiscutere la natura e il senso del sapere stesso. L’esercizio del sapere viene si delinea, in accezione heieggeriana, come uno svelare velando: la luce della ragione che, illuminando, svela è la stessa che getta l’oscurità dietro di sé, velando la propria origine e condizione di possibilità. Questo gioco di luce e ombra è, per l’ermeneutica, il modo in cui il sapere accade, è cioè il movimento di fuga, la dinamica stessa del conoscere. Anche l’esercizio della poiesis è iscritto nella stessa struttura: è un porre «significati», un mobilitare «significati» nuovi, uno smobilitare «significati» pregressi, un destituire «significati» costituiti.
Porre in luce dei «significati» a partire da presupposti che restano in ombra, le conclusioni che la poiesis mette in luce, proprio in quanto messe in luce, sono evidentemente un significato, il cui fondamento, retrocedendo sullo sfondo, non può essere esibito. Anche l’attività ermeneutica accade a partire dall’ombra e anche laddove essa volesse far luce dietro di sé, sulla propria zona in ombra, di nuovo, illuminando, proietterebbe l’ombra dietro di sé. Le conclusioni dell’ermeneutica si trovano dunque catturate entro la stessa dinamica che vorrebbero indicare e chiarire. Questo paradosso è la sfida che si pone al pensiero contemporaneo e con cui si trova a doversi confrontare la riflessione teoretica successiva a Heidegger.
Verso una critica della economia poetica del segno
Per esempio, il design moderno si struttura secondo relazioni metonimiche che rimandano ad una struttura semiotica del tutto priva di trascendenza metaforica e simbolica tipica della casa del premoderno. L’oggettistica passa da un significato di fondo ad una codificazione autoreferenziale basata esclusivamente sulla logica dei segni. L’interno degli appartamenti moderni, un tempo focalizzati verso il centro dalla presenza degli specchi e del focolare, perde la propria anima unitaria nella separazione delle unità frastiche di ogni stanza, perde il proprio battito cardiaco, il proprio significato metaforico profondo. Il battito segnato dal rintocco dell’orologio da muro del tempo antico del pre-moderno implicava il valore positivo della storia che si rifletteva nel successo sociale e simbolico della famiglia borghese. Nella casa moderna invece l’oggetto antico non significa il tempo reale, della storia, ma quello della storialità, il tempo della moda e del design, il tempo del cellulare. Qualsiasi trascendenza è abolita, sostituita da un gelo funzionale, freddo, asettico. È questa per esempio la logica di significazione dei colori nel design di interni, una logica di differenze strutturali proprie del sistema stesso, una catena di significazione costruita sulla superficie dei segni.
Anche nella «nuova poesia» il sistema relazionale dei significanti non si struttura più secondo la logica della colonna sonora ma tende ad assumere la relazionalità tipica dei segni: la semantica tende a retrocedere a semiotica, a sistema di segni freddi e autoreferenziali. Questa economia politica del sistema poetico è qualcosa a cui la nuova poesia non può sottrarsi, anzi essa tende sempre più a posizionarsi in base al sistema raffreddato dei segni come l’habitat della storialità delle moderne società post-democratiche, in una sorta di spaesamento strutturale dei significanti che tendono a retrocedere a segni, a sistema semiotico. In quanto sistema semiotico è ovvio che in quest’ordine ogni tessera segnica può essere sostituita da un’altra tessera segnica. Cambiando gli addendi il risultato complessivo non cambia. La mancanza di senso del segno è così pienamente visibile. Analogamente, la mancanza di senso del sistema-poesia è reso evidente.
Adesso l’Elefante s’è fermato.
Quello che mi colpisce e mi sorprende leggendo innumerevoli prefazioncelle dei libri di poesia editi è l’assenza totale di inquadramento storico critico e stilistico, nonché l’assenza totale della messa a fuoco della Crisi e delle cause della crisi della poesia italiana. Questa cautela, anzi, direi questa ipocrisia profonda tradisce nella sostanza la paura, anzi, la non-volontà di dire qualcosa che possa suonare come una nota stonata.
L’elefante sta bene in salotto, rompe le suppellettili, fracassa i piatti di porcellana e i bicchieri di cristallo, ma tant’è, si fa finta di non vederlo, così si può sempre dire che non c’è nessun elefante, che i bicchieri sono a posto, le teche di cristallo anche, le suppellettili anche, che la poesia italiana gode di buona, anzi, ottima salute, che non c’è niente da cambiare, che la poesia da Omero ad oggi non è cambiata granché, che da quando mondo è mondo la poesia è sempre stata in crisi… ed altre quisquilie consimili. A me qualche volta mi dicono persino che la butto in filosofia, come dire che il mio filosofese è il riparo perché non ho niente da dire. Ed è vero, non ho niente da dire dei compitini poetici che si redigono oggi.
Come dire. A me sembra che la poesia italiana che si fabbrica in giro non abbia veramente nulla da dire perché evita accuratamente e con tutte le proprie forze di vedere l’elefante che passeggia in salotto e con la sua proboscide fracassa tutto ciò che c’è da fracassare.
Ma, paradossalmente, adesso l’elefante si è fermato, è rimasto disoccupato perché non c’è più niente da fracassare, perché è già stato fracassato tutto.
«Il libro, il romanzo, la narrazione sono il posto migliore per vivere, quello che ci serve per ricreare il senso di che cosa è vero, quello che ti fa provare piacere, o amore. Non importa quanto bizzarro o addirittura folle possa essere», ci diceva qualche tempo Salman Rushdie a proposito di Quijote, il suo ultimo romanzo, uscito agli albori della pandemia senza forse tutta la fortuna che avrebbe meritato: perché è un libro straordinario, una prova quasi muscolare di virtuosismo fantastico che parte, come dice il titolo, dalla nascita del romanzo moderno, ovvero da Cervantes (ma nella versione di Massenet) e arriva al Pinocchio di Collodi.
(MARIO BAUDINO)
Se scrivo immaginando e pensando, come posso occuparmi anche del suono delle parole?
La poesia “Omega” ha svolgimento da videogame, è scritta in soggettiva. La risposta potrebbe essere: Gianni Godi. Le sue voci meccaniche. Immaginare partiture adatte.
C’è sgomento, finché appare il Re di Denari. Non ci troviamo sul lettino dello psicanalista… Ma per ben due volte appare un “mare nero”. Nero.
Sur l’identité de genre de la poésie Kitchen
Le thème de l’identité de genre de la poésie kitchen repose sur une idée fondamentale plutôt simple: la poésie kitchen ne possède aucune identité, n’offre aucune certitude, n’est ni masculine ni féminine, pas même transgender, elle ne veut être ni transgressive ni rassicurante, elle méconnait les concepts d’avant-garde et d’arrière-garde, concepts du siècle dernier qui n’ont plus citoyenneté à l’époque du Covid 19 e de la souveraineté du peuple: en outre elle se sent à l’aise dans le présent, dans ce présent qui est le nôtre, confus et contradictoire, laissant chacun libre de lui attribuer l’étiquette qui lui plait le plus.
La poésie kitchen ne tient pas à être définie à travers les stéréotypes et les categories du passé. Elle se présente comme un genre hybride, fluide, en proie à mutations, instable, ni prose ni poésie, encore moins prose poétique ou poésie prosastique; elle ne s’appuie sur aucune certitude, ne garantit aucune identité, il n’existe aucune distinction entre le genre dédié à l’hymne et celui dédié à l’élégie, categories dérivées da Contini pouvant dans le meilleur des cas s’appliquer à la poésie du siècle passé; elle refuse le concept d’identité, elle ne se présente pas comme nouveau “modèle”, elle n’est pas le gardenia de Dorian Gray, ni la pipe de Magritte ou le fer à repasser de Duchamp, elle ne recherche pas l’identité de genre; tout au contraire, elle ne recherche aucune identité, sa seule identité est la promiscuité et le genre hybride, l’infiltrazion et la perméabilisation du texte; elle est à la fois hilare et dramatique, idéologénique et mythologénique, elle s’exprime per axiomes privés de fondement et per aphorismes dérubriqués; la poésie kitchen est consciente de sa responsabilité lorsqu’elle s’applique à promouvoir l’inclusivité mentale de tous les points de vue; elle ne prétend pas être reconnue mais seulement oubliée après avoir été lue, elle ne revendique que sa propre inautenticité, sa propre symptomaticité; faites attention: il s’agit d’une maladie exanthématique et contagieuse, démocratique et révoluzionaire en ce sens qu’elle bouleverse les stéréotypes et les catégories qui voudraient l’enrégimenter, elle est en outre allergique à la poésie de salon et aux salons télé-hygiénisés du politiquement correct littéraire, pour finir elle plait aux plus jeunes. C’est ainsi, que cela vous plaise ou non!
Le moi n’éxiste plus, pas de pathos, comme dit Nietzsche: «être superficiel par profondeur».
La belle intériorité? Beh, mettons les choses en clair et regardons-les bien en face: tout le pseudo-art de nos jours pourrait se résumer dans les couleurs qui stagnent au fond d’un lavabo sale, c’est la poubelle avec du miel autour pour attirer les abeilles, et les nigauds.
(Marie Laure Colasson)
Sulla identità di genere della poetry kitchen
Il tema dell’identità di genere della poetry kitchen si basa su un concetto piuttosto semplice: la poesia kitchen non ha identità alcuna, non dà certezze a nessuno, non è né maschio né femmina, e neanche transgender, non vuole essere trasgressiva e neanche rassicurante, disconosce i concetti di avanguardia e di retroguardia, concetti del secolo trascorso che non hanno più cittadinanza nell’epoca del Covid19 e dei sovranismi; inoltre si sente a suo agio nel presente, in questo presente confuso e contraddittorio, e lascia libero ciascuno di assegnarle l’etichetta che più aggrada.
La poetry kitchen non vuole essere definita da stereotipi e da categorie del passato. È un genere ibrido, fluido, mutevole, instabile, né poesia né prosa, tantomeno prosa poetica o poesia prosastica, non poggia su alcuna certezza, non garantisce alcuna identità, non v’è distinzione tra il genere innico e il genere elegiaco, categorie continiane che possono applicarsi ben che vada alla poesia del novecento; rifiuta il concetto di identità, non si presenta come un nuovo «modello», non è la gardenia di Dorian Gray e neanche la pipa di Magritte o il ferro da stiro di Duchamp, non ricerca la identità di genere, anzi, non ricerca nessuna identità, la sua sola identità è la promiscuità e l’ibrido, l’infiltrazione e la permeabilizzazione del testo; è insieme ilare e drammatica, ideologenica e mitologenica, si esprime per assiomi infondati e per aforismi derubricati; la poetry kitchen avverte la responsabilità di promuovere la mental inclusivity di tutti i punti di vista, non chiede di essere riconosciuta ma soltanto dimenticata dopo averla letta, non rivendica che la propria inautenticità, la propria sintomaticità; fate attenzione: è una malattia esantematica e contagiosa, e poi è democratica e rivoluzionaria perché sconvolge gli stereotipi e le categorie che vorrebbero irreggimentarla, inoltre è allergica alla poesia da salotto e ai salotti teleigienizzati del politichese letterario, infine piace ai giovani e ai giovanissimi. Così è se vi piace. Ed anche se non vi piace.
L’io non esiste più, neanche il pathos, come ha detto Nietzsche: «essere superficiali per profondità».
La bella interiorità? Beh, mettiamo le cose in chiaro e guardiamo le cose bene in faccia: tutta la pseudoarte dei giorni nostri ha il valore dei colori che giacciono al fondo di un lavabo sporco, è pattumiera con del miele intorno per attirare le api, e i gonzi.
(Marie Laure Colasson)
le statut secondaire du mot
Dans la poetry kitchen, le statut secondaire du mot, sa fonction purement instrumentale-fonctionnelle à la restitution fidèle du ready language prend le premier rôle. C’est le langage impersonnel qui tient la position d’originalité par rapport au caractère secondaire du mot. Le langage impersonnel devient le guide de la poiesis. L’aléatoire du parcours linguistique et l’arbitraire du compostage des langages impersonnels de la publicité et du monde médiatique, assument un rôle primordial à l’égard duquel l’auteur peut partager le regard étonné du lecteur, de ceux qui sont témoins la révélation dans l’écriture de l’inattendu, de l’impensé et de l’anormal.
lo statuto di secondarietà della parola
Nella poetry kitchen lo statuto di secondarietà della parola, la sua funzione meramente strumentale-funzionale alla fedele restituzione del ready language assume il ruolo guida. È il linguaggio impersonale che detiene la posizione di originarietà rispetto alla secondarietà della parola. Il linguaggio impersonale diviene la guida della poiesis. La casualità del percorso linguistico e l’arbitrarietà dei compostaggi dei linguaggi impersonali della pubblicità e del mondo dei media, assumomo un ruolo primario rispetto ai quali l’autore può condividere la prospettiva meravigliata del lettore, di chi assiste alla rivelazione nella scrittura dell’imprevisto, dell’impensato e dell’abnorme.
Caro Giorgio,
la poesia, del 2011 è molto bella, inizia con il tentativo di percorrere uno stretto spazio evolutivo per la rarefazione, il bianco, fin da subito la dicotomia appare chiara e dichiara la chiusura del testo con la stessa dicotomia, nero-(Re) denari dell’ultimo distico. Farei a meno del concetto topologico, di questo gruppo di versi: “D’istinto, mi dirigo a destra [a destra (!?)],
[perché a destra (!?)]” in quanto la domanda sebbene sia un gradino della scala che inizia con il distico precedente, “a destra e a sinistra”, non trova prosieguo nella successiva narrazione, l’io si svela da dove solitamente si nasconde e il verbo di movimento indica una scelta, dunque non per il valore della scelta, o per lo svelamento dell’io l’ipotesi della scelta rende partecipe conseguentemente alla domanda: e perché dovrebbe, e perché dovrebbe in questi termini?
Le opposizioni e le dicotomie si collegano l’una all’altra, mare nero- archi di trionfo, altri esempi non mancano.
E’ il finale a destare stupore, a far rimanere il lettore stupefatto. La surrealtà della conclusione-non conclusione, che va oltre la realtà, fuori da ogni ragione.
Mi piace molto questa tua prova, ne sento la freschezza, forse dovuta alla prima stesura, l’onda unica fonica e sintattica di cui parli, chissà.
Un abbraccio.
Giuseppe
Grazie Giuseppe,
per i suggerimenti che ho accolto in toto.
Omega
[…]
A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,
corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.
A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.
[…]
La prima porta, la apro.
Il sole tramonta su un mare nero.
[…]
La seconda porta.
Ci sono i morti che hanno inghiottito il buio.
Sono invisibili, ma io li vedo.
A tentoni… giro una maniglia.
[…]
Apro la terza porta.
Ci sono gli uomini che hanno mangiato la mela.
Adesso sono visibili.
«Davvero, che gioco è questo (!?)».
Avanzo con circospezione, nel corridoio… c’è un terrazzo.
Una ringhiera si affaccia su un mare nero.
«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari.
Ho tolto i due versi rilevati da Giuseppe Talìa. Sì, la poesia può andare anche così (perderebbe sotto il profilo narrativo ma guadagnerebbe in concinnitas), anzi, io suggerirei di fare una prova, di togliere anche il verso: “Archi di trionfo. Templi diroccati. Colonne.” La poesia sarebbe così ridotta all’essenziale, senza elementi di pittura, di sfondo, diciamo. Il verso finale è il vero colpo di coda («Questo è il posto del Re», dice il Re di denari): si presenta come un Enigma, un Estraneo, però noi sentiamo che in qualche modo esso è un elemento-risultato che promana da tutta la poesia che precede, la porta a conclusione con una non-conclusione, che invece di chiudere la poesia, la apre all’ignoto.
La composizione è un tentativo che sta a metà tra una poesia a tematica esistenziale e una a tematica post-surreale. La poesia si posiziona a metà, si nota che l’autore ha ben digerito la lezione di Transtromer ed è andato oltre, si sta muovendo in direzione di una poetry kitchen, una poesia ad armamento leggero, con bagaglio portatile. Considero anch’io questa poesia particolarmente riuscita, anzi direi irripetibile, che marca un territorio stilistico, dopo di che si apre un altro territorio.
Non saprei dire quale sia la versione più riuscita: se quella di Talìa, quella dell’autore o la mia ultima, alleggerita dei versi in esame. Fatto sta che la poesia di Linguaglossa è in movimento…
Altra cosa sono le composizioni instant poetry di Lucio Mayoor Tosi, qui siamo nell’ambito di una poesia che considera il polittico come un insieme dis-connesso di istanti, Qui Lucio eccelle come nessun altro, ma deve fare molta attenzione ai silenzi, ai vuoti che intervallano i singoli sintagmi.
La poesia di Mauro Pierno è una delle sue migliori in assoluto perché coniuga l’inaspettato all’orizzonte di attesa tradendolo appena può con sintagmi abnormi, improvvisi. E’ una poesia dell’inaspettato.
Considero importante il richiamo che questo post fa a tutti gli sperimentatori della poetry kitchen alla funzione ineliminabile del “montaggio”. Senza montaggio la poesia perde di molto la sua potenza dichiarativa.
La poesia kitchen di Gino Rago è la riproposizione in chiave moderna e kitchen dell’idillio campestre della poesia ellenistica. Un modus, una posa, un gesto linguistico che si auto celebra e si auto annulla nella insensatezza del mondo. E’ una poesia totalmente disimpegnata perché il mondo è disimpegnato, ma lo fa con una ostinazione e un impegno ragguardevoli, il disimpegno non lo si raggiunge così, con un salto… Rago lo fa mentre si reca al bar a bere il caffè, i suoi personaggi sono gli amici della letteratura e gli amici dell’accampamento tribale. Tribale-kitsch. Quello che rimane per Gino Rago è un gesto, dei gesti, delle pose, non resta nulla del capitalismo finanziario di oggi e delle sue merci, la sovrapproduzione delle merci ha prodotto la sovrapproduzione di poesie accademiche che parlano delle malcelate idiosincrasie dell’io. Rago taglia con un colpo di forbici il filo di quella poesia di accademia, e lo fa senza rimpianto o esitazione.
L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
Giorgio Linguaglossa
dalla raccolta inedita Una giraffa seduta sul sofà chiede un Campari
receipt 77873
«Posso portare il caffè, fare fotocopie,
accendere il forno elettrico
lo scaldabagno, parlare con Google,
posso preparare newsletter, sandwichs, stages,
gestire l’immagine
e i backstage
camminare con il collarino al collo e i tacchi a spillo sul linoleum
del corridoio
del Palace Hotel di Holliwood
Sono la squillotravgender Mary Quinn
la più amata dagli italiani»
– disse la tgirl
Mary Quinn uscendo dal bagno avvolta
nell’accappatoio
in una nuvola di Elixir Aromatique de Clinique –
Se analizzate separatamente, alcune sequenze della scena dell’omicidio nel film “Psyco” di Hitchcock potrebbero sembrare irrilevanti. Ad esempio il getto d’acqua che fuoriesce dal soffione. Ma il regista, ponendo in unico piano la visione interna ed esterna, assicura drammaticità all’evento. Capolavoro!
Oggi forse solo Scorsese riesce a fare altrettanto. Ma non è questo il punto, è che scrivendo con frammenti non sempre abbiamo contezza di assistere a un singolo evento. Singoli eventi sono soggetti al fattore tempo e allo spostamento, voluto e cercato, dell’attenzione. Dice bene Marilaure Colasson, che bisogna prestare molta attenzione “ai silenzi, ai vuoti che intervallano i singoli sintagmi”. Questa vale per me, e vale per Mauro Pierno, di cui apprezzo la gettatezza delle parole ma a volte davvero non vedo e non capisco. Anch’io però apprezzo la poesia di Pierno postata oggi: vedo la caffettiera, Il sole domenicale, il pane appena sfornato. Quindi, nel contesto, anche i voli della mente, e apprezzo la scrittura a 360 gradi della noe.
Nel modus operandi, un po’ Mauro ed io ci somigliamo. Soprattutto nel linguaggio, che è quello familiare, d’origine, non ancora evoluto in altro. Per parte mia ho ben presente l’insegnamento di Pavese, in “Lavorare stanca”, non le poesie scritte in seguito (il seguito di Lavorare stanca lo si trova nei suoi romanzi, non nelle poesie). Pavese si era inventato uno “slang” italiano, del tutto inedito, certo positivamente influenzato dalla letteratura americana. Io penso di fare slang del linguaggio materno, di volta in volta migliorato, soprattutto grazie all’abolizione di aggettivi e verbi, e non ultimi gli articoli.
Intervenendo sui testi, a distanza di tempo, molte sonorità se ne vanno perdute. Impossibili da ricostruirle. Capisco quindi il discorso di Giorgio sulle sonorità, e ho già detto la mia nel commento precedente sulla “meccanicità” della resa. Ma osservo ad esempio, nel mio instant “Un treno di pensieri transita alla stazione / dove manca da scrivere. Troppo velocemente.” Le parole “pensieri, transita e scrivere” sono foneticamente collegate. Quel che resta da fare è capire, all’istante, se le parole in arrivo per associazione e inconscio, siano da ritenere utili oppure siano fuorvianti. Il poeta noe di solito accetta la “fuorvianza”. E l’eventuale fallimento.
È vero caro Lucio, a proposito della fuorvianza e della familiarità del linguaggio… è un po’ come saltare in groppa a diversi cavalli lanciati al galoppo.
Assecondandoli un po’ tutti. Molte volte ci si ritrova a capitombolare nella polvere delle parole fine a fine corsa. Le parole hanno una loro velocità che il pensiero conducono fino ad arrestarsi. Il linguaggio della poesia è un indiano Apache in metropolitana. Augh! (Abbraccione)
Ciao Lucio.
Sulla bava simmetrica le due biforcute vie, l’inizio
permanente di una porta socchiusa.
L’ombra si allunga sulla strada ad incontrare un cipresso, smart working che compare e scompare.
Le stesse fibre ad asciugare di colorati asciugamani sfilacciati oltre la colonna dei caravanieri.
Lo sgombero poi avvenne in un attimo. Furono smontate le pareti ed i mobili.
Le carte a riposo ricomparvero nella polvere del full
di alcune sedie ricomposte. Il re sorrise.
Tutt’intorno il cielo dipinto di una carta da parati
svolgeva volute sorprese da un piccolo drone.
Grazie Ombra.
Scrive Andrea Cortellessa in un saggio dedicato ai rapporto antagonista che ha legato Fortini e Zanzotto:
“Che l’ironia, la gestione ironica del patrimonio letterario tradizionale, sia unica possibile via d’accesso al sublime lo dice proprio la dittologia
«sublime» e ridicolo destino attribuita al Barone di Münchhausen e, lui tramite, all’universale condizione. Si tratta di quella che in retorica si dice preterizione e, in psicoanalisi, formazione di compromesso (anche se Zanzotto, come s’è visto, preferisce parlare di su-blimazione), ma che Giorgio Agamben ha recentemente ricondotto alla suavalenza religiosa – la più adatta, tutto sommato, a definire l’atteggiamento di Zanzotto.
Se la poesia moderna, secondo il filosofo, è caratterizzata da una dimensione complessivamente parodica è perché essa ha perso il suo legame originario, naturale, con il canto : cioè appunto col carmen, la celebrazione del nume. In un tempo secolarizzato, o come egli preferisce dire profanato – con gli dèi estinti o fuggiti, cioè –, all’artista non resta chela «parodia» come «forma stessa del mistero»: in quanto «essenziale alla parodia è la presupposizione dell’inattingibilità del suo oggetto». In questo senso la «parodia» è «paraontologia»: perché «esprime l’impossibilità della parola di raggiungere la cosa e quella della cosa di trovare il suo nome»1
Io penso che la poesia «odierna», la poesia con modalità kitchen, reduce della guerra che la poesia moderna ha fatto al mondo, abbia del tutto abbandonato l’idea della dimensione parodica e/o ironica, che in qualche modo – lo dice anche Agamben – dipendeva dal legame ombelicale che la legava al canto, al carmen. Nell’orientamento della NOe non c’è, se mai c’è stato, più alcun collegamento con il carmen, c’è stato il passaggio del Rubicone, il carmen è alle spalle, come è alle spalle tutto intero lo Zanzotto da Dietro il paesaggio (1951), a Ecloghe (1962) a La Beltà (1968) in quanto erede del «canto» e quindi ancora in qualche misura la poesia zanzottiana dipende da ciò verso cui pende prendendone la misura: dalla impostazione neoermetica.
In questa mia composizione, invece, che è del 2011, siamo fuori del «canto», siamo fuori dal Petrarca e da Zanzotto, e siamo fuori anche dagli anti petrarchisti come Mario Lunetta. Ormai il «canto» è dato per sepolto e morto. Negli autori della poetry kitchen non si dà più alcuna dimensione parodica, questo è un fatto storico. Il derisorio, se c’è, è in re, non sopra la res. Al posto del significante si dà il fuori-significante, al posto del significato si cerca il fuori-significato. Elementi essenziali della NOe kitchen sono il «montaggio» e i salti spaziali e temporali, in mancanza di questi Fattori la poesia rischia di tornare (inconsapevolmente) verso il significato ironico o parodico che dir si voglia. E Amen, si torna indietro. Qui e là io lo vedo questo pericolo.
AA.VV. Andrea Cortellessa in Andrea Zanzotto un poeta nel tempo, è. 118
Anche a me piace la poesia di Giorgio del 2011.Mi ha dato i brividi. Ho visualizzato la nursery room di ‘ Brave new world ‘ in cui Huxley descrive il condizionamento a cui sono sottoposti i bambini delle classi inferiori. Anche lì il bianco annichilisce, devasta. Aprire porte sprangate, vedere gli invisibili, andare a tentoni , sapendo però dove andare. lo spezzone di in film. Noir?
Grazie a tutti gli intervenuti per i consigli. Li ho accolti. La versione definitiva è l’ultima, quella dalla quale ho cancellato i tre versi inquisiti.
Milaure, mia cara,
non ti crucciar per la tua non presenza nel mio ultimo poem kitchen.
E’ bene che tu sappia, però, che sei invece presente, anzi presentissima, nella Antologia poetica che Mauro Limiti ha magnificamente approntato, e che sarà presentata in Roma la sera del prossimo 27 novembre 2021, nei locali rinnovati del Caffè Letterario Il Mangiaparole.
Questo è uno scoop!
Grazie Gino.
caro Mauro,
non so di quale antologia poetica parla Gino Rago, non ne sono a conoscenza.
Ho notato in alcuni artisti di oggi la tendenza ad eseguire magnificamente qualcosa che con la storia dell’arte non avrebbe nulla a che fare. Iperrealismo con esaltazione per il risultato da raggiungere. Ovviamente il soggetto è quel che è. Domandare è da stupidi.
È un’arte semplice, solo difficile da realizzare. Rococò in tempo di democrazia, realpolitik e disincanto.
Non si notano rovine, la paura è passata.
LMT
“Riflettiamoci un attimo: Il «suono» è stato spodestato dalla sua centralità e sostituito con un «vuoto»…: questo è scritto più sopra.
—
…in effetti è così, ma soltanto apparentemente perché il suono non è affatto scomparso… (scrivere “spodestato” è improprio)…
… si accerta che il vuoto ha un suo suono, dunque il suono è stato “sostituito” con un altro suono, che è il suono del vuoto. Questo già lo sapevano gli antichi che il vacuum è dotato di suono!
E allora se ne deduce che la centralità si appropria anche del suono del vuoto… la centralità fagocita ogni cosa.
La POESIA è dunque quella centralità che non ha confini spaziali e tanto meno temporali e che sia lirica, semtimentale, romantica e infine poetry kitchen rientra nella sua NATURA, direi MATRIARCALE.
Noi POETI,che siamo per antonomasia AMORALI e IMMORALI allo stesso tempo possiamo essere nello stesso tempo assoolutamente ll contrario; chi ce lo impedisce?
Liberi da qualsiasi genere di restrizione e di impedimento, con la sola attività creatrice che ci guida e ci caratterizza siamo in grado di battere qualsiasi potere coercitivo: io sono qui e non posso altrimenti, diviene :
IO SONO LA POESIA E NON POSSO ALTRIMENTI e per quanto mi riguarda questo per me ha un VALORE assoluto, e da questo non mi sposto e dunque il mio fondamento originario è quella CENTRALITA’d i cui dicevo sopra, e questa centralità non ha limiti temporali e spaziali essendo ovunque centro e periferia allo stesso tempo.
Tutte le teorie, tutti i pensieri di tutte le epoche passate presenti e future sono le retroguardie e le avanguardie… qualsiasi PAROLA ANCORA NON DETTA E NON PENSATA E NON SCRITTA E’ GIA’ INCLUSA, QUALSIASI SUONO, COMPRESO QUELLO DEL VUOTO E’ GIA’ INCLUSOE QUALSIASI GENERE DI ESCLUSIONE Eì GIAì INCLUSA: SIAMO IMMERSI NELLA DIMENSIONE BEATA…
INTENDEVA FORSE QUESTO DANTE!
E QUESTA DIMENSIONE NON E’ L’ETERNO RITORNO, SE MAI E’ IL RITORNO DELL’ETERNO.
AS
MANIFESTO BREVE DEL REALISMO TERMINALE*
La Terra è in piena pandemia abitativa: il genere umano si sta ammassando in immense megalopoli, le “città continue” di calviniana memoria, contenitori post-umani, senza storia e senza volto.
La natura è stata messa ai margini, inghiottita o addomesticata. Nessuna azione ne prevede più l’esistenza. Non sappiamo più accendere un fuoco, zappare l’orto, mungere una mucca. I cibi sono in scatola, il latte in polvere, i contatti virtuali, il mondo racchiuso in un piccolo schermo.
È il trionfo della vita artificiale.
Gli oggetti occupano tutto lo spazio abitabile, ci avvolgono come una camicia di forza. Essi ci sono diventati indispensabili. Senza di loro ci sentiremmo persi, non sapremmo più compiere il minimo atto.
Perciò, affetti da una parossistica bulimia degli oggetti, ne facciamo incetta in maniera compulsiva.
Da servi che erano, si sono trasformati nei nostri padroni; tanto che dominano anche il nostro immaginario.
L’invasione degli oggetti ha contribuito in maniera determinante a produrre l’estinzione dell’umanesimo. Ha generato dei mutamenti antropologici di portata epocale, alterando pesantemente le modalità di percezione del mondo, in quanto ogni nostra esperienza passa
attraverso gli oggetti, è essenzialmente contatto con gli oggetti.
Di conseguenza, sono cambiati i nostri codici di riferimento, i parametri per la conoscenza del reale.
In passato la pietra di paragone era, di norma, la natura, per cui si diceva: «ha gli occhi azzurri come il mare», «è forte come un toro», «corre come una lepre». Ora, invece, i modelli sono gli oggetti, onde «ha gli occhi di porcellana», «è forte come una ruspa scavatrice», «corre come una Ferrari». Il conio relativo è quello della “similitudine rovesciata”, mediante la quale il mondo può essere ridetto completamente daccapo.
La “similitudine rovesciata” è l’utensile per eccellenza del “realismo terminale”; il registro, la
chiave di volta, è l’ironia. Ridiamo sull’orlo dell’abisso, non senza una residua speranza: che
l’uomo, deriso, si ravveda. Vogliamo che, a forza di essere messo e tenuto a testa in giù, un po’ di sangue gli torni a irrorare il cervello. Perché la mente non sia solo una playstation.
Firmato
Guido Oldani
Giuseppe Langella
Elena Salibra
* https://biblioscalo.wordpress.com/tendenze/realismo-terminale/
Ben fatto Giorgio!
Si avvierà un bel confronto.
Usciamo, usciamo dalla nostra nicchia. Il confronto è rigenerante.
Ben fatto.
Grazie Ombra.
“Analogo discorso in poesia. Il montaggio occupa un ruolo fondamentale per la nuova fenomenologia del poetico Poetry kitchen. Quanti tagli e quanti differenti posizioni della macchina da presa sono necessari per raffigurare una scena? Ecco una mia poesia di dieci anni fa, costruita da un numero molto alto di posizioni della macchina da presa (l’occhio) e di «tagli» del montaggio.”
Ecco, riflettevo su questo concetto fondamentale per la Poetry Kitchen. Non so nemmeno quanti tagli, ricuciture aggiunte e innesti siano stati necessari per confezionare l’ultima mia. Ad ogni modifica corrisponde una nuova inquadratura. Non conservo mai la prima stesura e dunque il foglio di WORDS è un cimitero di parole in cui l’ultima spinge quella che l’ha preceduta nel nulla. Della prima stesura, nata da un’ispirazione o aspirazione a significare qualcosa non esiste più nulla. Il rimanente è un patchwork o meglio il totem del significato padre che voleva essere ma non poteva farlo, non avendo cittadinanza nella città dell’ utile, del commerciabile, del valore di scambio, del calcolabile. Ciò che si vede leggendo è dunque la registrazione di un delitto che la mano ferma del vuoto ha dovuto concludere per tornare appagata nell’ ombra da cui è scaturita. E dunque, mi chiedo, la Poetry Kitchen è in definitiva Poetry Totem?
PASTA D’AUTUNNO IN TUBETTO
Il Beethoven che non t’aspetti bussa allo sportello.
Pasta dentifricio e scimitarra al dito.
Ci sono nuvole che cavalcano labbra
Novembre le incupisce
ma evita le pieghe ai denti.
Abbassa il finestrino
Vedi Totò che fa il ciompo.
Il piano ha tasti di nicotina e stamattina
meraviglia una mosca con le dita al naso
Dov’è la caccia?
Ottobre Rosso batte un colpo
risponde infreddolita una lucertola.
Lascia al viola la sua parte .
Seduce il nero per fare autunno
ma nasce un giallo che sa di camicie brune.
Noi non abbiamo dormito questa notte
perchè il leone ci ha assaliti
E il clown girava il suo Fellini
Vestito come un fico.
Mentre l’audience russava
La scena ‘75 sfuggiva di mano.
Nessuno spettatore è stato in grado
di dare un colpo alla cinepresa.
I violini stendono calze al balcone e nelle vie del frigo
Il burro innalza barricate contro il bronzo.
Dal cilindro esce il 2021:
La donna taglia a blocchi Houdini
Ma un carro armato è fermo su Pasolini.
E dunque perché lo scoglio
s’arrampica sul granchio?
(Francesco Paolo Intini)
caro Francesco,
ho fatto leggerela mia poesia ad un critico [Omissis] che legge moltissima poesia contemporanea per dovere di ufficio, l’ha letta e non ha detto nulla. Alla mia domanda se avesse notato qualcosa nella poesia, ha risposto di no, «è una poesia normale, molto scheletrica».
Non mi meraviglia affatto queste risposta perché quando sei abituato a leggere centinaia, migliaia di poesie con epicentro un punto di vista (l’io) e con gli effetti di superficie della scrittura unidirezionale, va a finire che non riesci più a «vedere» una scrittura diversa, una scrittura poetica complessa, a «polittico», basata esclusivamente sul «montaggio» di «scene» e di «immagini» che non dipendono più dal’occhio che guarda. Al critico è sfuggita la complessa operazione (frutto di innumerevoli riscritture) di s-composizione che era stata fatta. Se la parola e il significato coincidessero ci sarebbe una verità assoluta, ma nel mondo delle cose nel quale noi esistiamo parola e significato non possono mai coincidere, e quindi ci troviamo nel campo delle verità transitorie.
Rileggiamo l’inizio della mia poesia:
A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,
corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.
A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.
[…]
La prima porta, la apro.
Il sole tramonta su un mare nero.
Ho aggiunto una gif che raffigurava un uomo che corre in un corridoio bianco di un albergo per rendere evidente che si tratta di una poesia «cinetica» dove il movimento e il cambiamento di posizione del punto di vista svolge un ruolo fondamentale. Ci sono mutamenti di scena rappresentati da porte che vengono aperte. Ma il critico ha letto la poesia come una poesia tradizionale che si svolge ad andamento sinusoidale con un unico punto di vista. Gli era sfuggita la macroscopica novità perché abituato a leggere poesia per abitudine e con passività mentale ed ha scambiato una poesia «prospettica» per una poesia «lineare».
A maggior ragione la tua poesia è una operazione complessa (frutto di molte riscritture e correzioni e complessificazioni) che ha come presupposto la definitiva scomparsa dell’io e del punto di vista unico e dello sviluppo fonico-sintattico della poesia della tradizione da Sanguineti a Zanzotto e postremità minori. Dalla tua poesia è stato espunto non solo il «messaggio» ma anche e soprattutto i «destinatari» e, finanche, oserei dire, il «mittente», così facendo la poesia diventa ancora più «scheletrica», direi quasi schizoide se la parola non fosse offensiva. Ma è che l’habitat nel quale viviamo oggi è schizoide nella sua intima essenza. È stato calcolato che una persona del XXI secolo vede in tutta la sua vita 40 miliardi di immagini, e c’è ragione di prevedere che un abitante del 2070 sarà bersagliato da 4000 miliardi di immagini, obtorto collo e contro la sua volontà. È questa la dimensione nella quale ci troviamo tutti, ed è con essa che dobbiamo fare i conti. Penso che Sanguineti e Zanzotto se leggessero la tua e la mia poesia inorridirebbero.
… e quanto riguarda il MONTAGGIO della \nella POESIA così scrivevo nel 2014:
—-
a V. Š. e S. E.
(Citazioni capricciose)
Il pensiero della storia non mi lascia indenne e minaccioso anche quando Vera morì su un vecchio tappeto. Ma fui attratto dal trionfo di ciò che ancora non era nato… penne di struzzo oscillano nel mio cervello, diceva Alessandro. Un’attrazione scenica è la musica dei nostri sentimenti. Non deluso, non sconfitto, se ne tornò dall’America…
…insanguinato il regista, ma dalla Poesia non si può scartare della Poesia per ricostruire le stagioni cominciando dall’inverno, diceva Viktor. Pensava che quando si fa un verso si deve tener conto sempre del fallimento dell’inazione che alligna dietro ogni parola, recitava Antonio… che necessario ora, più che mai, è il montaggio della Poesia.
Si fa poesia, ma della vecchia non deve restare nulla! E negarle l’indifferenza è pensarla e farla in modo nuovo e duraturo. Il Poeta ha creato un Dio e come uno sciamano recita, canta e danza come un ossesso! Entro e fuori le mura sproloquia come la bibbia e i testi sacri di tutte le religioni, e come i morti diverranno polvere!
Mosca per il Cremlino prese a modello le mura di Milano… pezzi di fessi questo non lo sapevate! E si chiamava Incendio la piazza sotto il Cremlino: anche questo non sapevate: fessi! E su questo Incendio fu costruita la cattedrale di san Basilio, il calzolaio ingenuo, voce di Dio! Cristo ha giurato sulla sua… finzione! La croce è un palco, e il palco
una colpa!
A. S.
Roma, 23 nov. 2014
L’Epoca della stagnazione stilistica si profila
Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza, diventa semplice insieme di sintagmi molecolari; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso (un senso implausibile ed effimero), si scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre «senso» e «valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila la Grande Crisi che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «vuoto» della forma-poesia (altro concetto dimenticato)!. Che cosa si intende oggi per forma-poesia? Che cosa si intende per dismetria? Che cosa è rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti?.
La poesia non ritiene più indispensabile cercare di edificare su Fondamenta solide, equivoca, prende l’abbaglio di credere che si possa costruire su Fondamenta instabili o, addirittura, sulla mancanza di Fondamenta. La poesia italiana contemporanea sembra aver perso energie, non crede più possibile ricreare le coordinate e le condizioni culturali per una poesia che voglia comunicare con parole «nuove» al pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?). La poesia parla del non-senso?, del senso?, del vuoto tra le parole?, del vuoto dopo le parole?, del vuoto prima delle parole?. Si ha l’impressione di una gran confusione. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche della protesta e del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?, la poesia degli oggetti?, la poesia del mito?; il campo appare disseminato di mine, è un campo minato di rovine del pensiero. È vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci hanno detto queste cose?, che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un medio pubblico mediamente acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della materia combusta, dei materiali esausti, degli isotopi delle parole decadute, dei detriti per riutilizzarli in una composizione emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo destino. È questo il suo télos.
«dissolvenza» di tutti i concetti «forti»
Oggi va di moda un referenzialismo
Oggi va di moda porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dalla letteralizzazione delle proposizioni, si procede sulla strada della de-metaforizzazione. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dopo Satura (1971), l’opposizione fra il letterale e quotidiano (Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stata espulsa la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna (Stige, 1992) che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile (almeno a chi è abituato al modello segmentale del verso lineare). Certo, la poesia di Helle Busacca (I quanti del suicidio, 1972) come quella di Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato la poesia all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.
Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo
Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da Satura in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio
Eugenio Montale
Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1971), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.
La de-fondamentalizzazione del discorso poetico
Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e inconsapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che ingloba la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
positivizzazione del discorso poetico
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.
(2016)
Scrive Umberto Eco:
«I Poeti assumono come proprio compito la sostanziale ambiguità del linguaggio, e cercano di sfruttarla per farne uscire, più che un sovrappiù di essere, un sovrappiù di interpretazione. La sostanziale polivocità dell’essere ci impone di solito uno sforzo per dar forma all’informe. Il poeta emula l’essere riproponendone la vischiosità, cerca di ricostruire l’informe originario, per indurci a rifare i conti con l’essere».1
Nel nuovo mondo di oggi dominato dalla tecnica, la filosofia tende a diventare un discorso antropologico e la poesia diventa un discorso sulla storia nascosta e indecifrabile (indecidibile) della mutazione antropologica.
La tecnica cessa di essere un problema filosofico, in quanto è essa stessa il problema principale perché modifica irrimediabilmente le strutture categoriali e antropologiche, così come i nessi tra le varie ontologie regionali. Questo per tre motivi principali, in primo luogo, perché il mondo in cui oggi viviamo è un mondo tecnico, costituito da immagini e fantasmi, in secondo luogo, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa ha radicalmente mutato la nostra esperienza del mondo trasfigurando il cosiddetto mondo reale in immagini già date, già elaborate dalle emittenti mediatiche; in terzo luogo, lo stesso concetto di «esperienza» subisce una radicale modificazione, se l’esperienza era un tempo il risultato intellettuale di una elaborazione di dati sensoriali, la tecnica è intervenuta modificando proprio le strutture concettuali e i limiti della nostra percezione sensibile: l’esperienza tende a diventare una abreazione di pressioni inconsce che pulsano alla coscienza e chiedono udienza. L’esperienza artistica tende così a diventare inconscia, tende a sottrarsi alla coscienza e la poiesis tende a trasformarsi in (mi si passi il termine) antiprassi inconscia in rotta di collisione con la ratio del conscio. Al mondo ridotto a mondo artificiale della tecnica corrisponde una poiesis diventata un manufatto artificiale interamente tecnico, che della tecnica ne impiega il lessico e l’orizzonte mondano. Il che equivale a dire: orizzonte della tecnica. La poiesis odierna dell’età della tecnica non può che oscillare tra metafisica e giornalismo senza poter mai trovare un abito proprio ed esser costretta ad indossare abiti e lessici presi in prestito e adottati per l’occasione, per le festività dell’occasione.
Scrive Manlio Sgalambro:
«Oggi il filosofare non ha più la possibilità di seguire una linea dritta, perfetta, precisa, perché altrimenti diventa geometria – e non ci sono filosofie geometriche, adesso. Questa parte iniziale del Duemila non ha filosofie, o ha filosofie meramente accademiche. E quindi non resta che accentuare il capriccio, accentuare la variazione. E richiamarsi all’epifania joyciana. Ho fatto una specie di piccolo duello con questo altro tipo di filosofare, privilegiando il non-senso, il non-significato. E’ come se a un tratto il cavallo si fosse sbrigliato, avesse perso le redini – ma volontariamente – e se ne andasse al galoppo cercando di entrare e di uscire, qua, là… Un pensiero “sbrigliato”»2
Scrive Franco Fortini ne L’ospite ingrato (1966):
«La menzogna corrente dei discorsi sulla poesia è nella omissione integrale o nella assunzione integrale della sua figura di merce. Intorno ad una minuscola realtà economica (la produzione e la vendita delle poesie) ruota un’industria molto più vasta (il lavoro culturale). Dimenticarsene completamente o integrarla completamente è una medesima operazione. Se il male è nella mercificazione dell’uomo, la lotta contro quel male non si conduce a colpi di poesia ma con “martelli reali” (Breton). Ma la poesia alludendo con la propria presenza-struttura ad un ordine valore possibile-doveroso formula una delle sue più preziose ipocrisie ossia la consumazione immaginaria di una figura del possibile-doveroso. Una volta accettata questa ipocrisia (ambiguità, duplicità) della poesia diventa tanto più importante smascherare l’altra ipocrisia, quella che in nome della duplicità organica di qualunque poesia considera pressoché irrilevante l’ordine organizzativo delle istituzioni letterarie e, in definitiva, l’ordine economico che le sostiene».
Commenta Erminia Passananti:
“Nei saggi sparsi poi raccolti in Verifica dei Poteri appare chiara la visione critico-dialettica che Franco Fortini aveva della poesia. Per Fortini la forma-poesia deve stabilire un rapporto marxisticamente dialettico con il lettore, spingerlo ad assumere una posizione di critica del testo (e del reale), sollecitarlo a prendere una posizione di opposizione alla forma-poesia del genere lirico. L’«opposizione» che Fortini richiede al lettore è di tipo transitivo, dialettico, svolge una funzione insostituibile perché soltanto nell’esercizio continuo del mestiere dell’«opposizione» marxisticamente orientata si può affinare il senso estetico-politico di critica dei prodotti culturali e della poesia nelle condizioni avverse delle società di massa. C’è in Fortini l’idea marxista propria del suo tempo secondo cui la poesia deve essere capace di esercitare un ruolo di guida e di educazione dialettica dei lettori di poesia verso i prodotti di poesia nella prospettiva escatologica della lotta di classe (del conflitto finale) e del rivolgimento totale dei rapporti di produzione esistenti tra forze produttive antagonistiche. Quel «conflitto» ben attivo e rinvenibile anche all’interno della forma-poesia. Di qui il rifiuto della poesia elegiaca (che prevede il ruolo passivo del lettore e dell’autore).
Quindi, si tratta di un compito marxisticamente inteso come educazione attiva del lettore, dei lettori, della «massa». In attesa della modificazione delle condizioni esterne alla forma-poesia, si tratta di far convergere nella forma-interna della poesia quelle tensioni e quelle stratificazioni stilistiche antagonistiche che conferiscono al genere lirico quella sua inconfondibile forma di «resistenza dei materiali poetici» alla fruizione acritica e passiva del testo poetico (in opposizione alla letteratura come snobismo al servizio del privilegio borghese «che perpetua la ricostituzione di un’ideologia per dirigenti», «aroma spirituale», «vino di servi»).”
1 Eco U., Kant e l’ornitorinco (1997), Milano, La nave di Teseo, 2016, p. 51.
2 Da un’intervista di Maurizio Assalto tratta dal sito del filosofo: http://sgalambro.altervista.org/
caro Francesco Intini,
è interessante ricordare quanto diceva Zanzotto a proposito del «montaggio» in poesia nell’Autoritratto del 1977:
«Io scrivo, poi butto nel cassetto […]. Dopo cinque o sei anni tiro fuori questi appunti e frammenti e vedo che si incastrano l’uno nell’altro come in un
puzzle, che quasi si calamitano l’un l’altro e tendono a formare un libro. È importante il momento della costruzione del libro, del suo “montaggio”. Una poesia, collocata prima o dopo di un’altra, può cambiare il significato dell’insieme. L’essenziale, comunque, è che ci sia una specie di necessità»
Il De Sausure non è invocato invano dal Linguaglossa, anzi ha una sua giustificazione specie quando l’oggetto principe della POESIA è il montaggio, il suo montaggio da parte dei poeti, ma poi bisogna dare atto che la POESIA si “automontaggia”, e i poeti sono straniati, nel senspo anche che non sono più capaci di sostenere la caduta della parola stessa a causa della gravità
che la rovina.
La POESIA è una creatura che usa spesso lo specchio affinchè si realizzi il proprio montaggio. De Saussure, uno delle basi fondanti del formalismo russo, sapeva che ” l’ immagine verbale non si confonde col suono stesso” , negando allo specchio la “riflessione” più che la visione “altra”…
lo specchio che riflette soltanto il suono della parola nega alla parola stessa qualsiasi significato e significante, e l’entrata in scena dei “tratti distintivi” (Roman Jakobson) che sono prima della parola e oltre la parola hanno la funzione di sospendere tutto ciò che rappresenta il mondo della parola… che oggi non esiste più… e allora altri mondi si affacciano per sostenerla, per sostenere infine l’inconsistenza, l’assenza di gravità fa crollare tutti i riferimenti a cominciare dal fatto che qualsiasi suono che apparteneva alla parola, non esiste più. E come dare alla parola un nuovo suono se il suono stesso è crollato? E dire ancora qualcosa sul montaggio della parola poetica (ma anche di tutte le parole altre”) è vano se assente o mancante è qualsiasi suono! Bisogna abituarci a una poesia priva di suono. Come a una orchestra
che non emetta alcun suono, perchè questo è tutto assorbito dalla partitura!
Che suona di per se e non bisogna di alcun strumento.
Riccardo Muti direbbe: fandonie!
Questo è il punto.
a. s.
Giuseppe Talia
Caro Germanico,
oggi il sicomoro ha fatto frutti: cachi belli e rotondi.
Teofrasto, stupito, ne ha salvato l’immagine
in uno screenshot da pubblicare su facebook.
“Una simile piantaccia polverosa ha fatto frutti?”
Immediatamente la cia, la cei, il cicap
hanno rilasciato tutti un’agenzia.
Per la cia il fenomeno è probabilmente dovuto
alla velocità dei dati delle reti 5G, all’efficienza spettrale
della velocità di trasmissione della banda larga per cui
tra la radice del sicomoro, i rami in fibra convergente
si è creato un cloud e quindi Parmenide aveva ragione:
“una che “è” e che non è possibile che non sia…”
La cei ci va cauta. Per caso i frutti sanguinano?
Qualche cachi, in verità, presenta una maturazione
precoce: gli acidi, gli zuccheri e gli aromi rilasciano
una poltiglia dall’esocarpo crepato.
Non si registrano volti wanted dell’iconografia globale
se non per quel cachi in alto a destra che pare
assomigliare a San Carpoforo.
Comunque, nel dubbio, i fedeli hanno acceso alcune candele
sotto l’albero e l’industria dei gadget è già in opera.
Il cicap sguazza nella melma scivolosa della polpa.
Ne acquisisce campioni. Il Diospyros kaki desta sospetti.
Teofrasto continua a dire: “una simile piantaccia polverosa?”
(poesia postata il 26 novembre 2018)
Raffaele Ciccarone
set 1
…
gli era difficile trattenere
il taglio delle mezze lune
il sauro montato da Holden
saltava senza posa
il ritmo market movers
gli permetteva di schivarle tutte
…
Adalgisa senza ombrello
incontra una pioggia
vestita d’argento fuligginoso
il cappello a punta nero
montava piume di struzzo
omaggio del suo pappagallo
…
set 2
…
dell’allegra brigata
il piscio del gallo
del barbecue impietoso
la cruda condanna
tutto in cornice dorata
…
Max crede al fuoco, al cielo
all’acqua, alla terra
l’amico dei gavettoni
neppure lo vuole nominare
…
un fiacco esercizio
lo schizzo di Van Eyck
visto il misticismo
della camera oscura
nello scippo del contorno
…
set 3
…
giocava al rabdomante
un close-up che viene
da incolti deserti
…
Tiresia non vede più
in HD quello che vorrebbe
forse si dovrebbe risintonizzare
…
una Olivetti 32 vuole
riscrivere la storia
dice di averla tutta nei tasti
Vorrei complimentarmi con Raffaele Ciccarone per queste sue brevi composizioni: con ironia e intelligenza annulla il superfluo (di sé, della poesia), che oggi è tanto, davvero troppo.
alla Terra
Portavo la mia immagine per la città come un retrattile vessillo.
Il tripudio dei miei passi scavava un sentiero di note austere,
non avevo con me una reliquia da barattare con la santità
e nemmeno una nicchia mi era data per un conforto da accattone.
Gli svolazzi della mia mente erano capricci di stiletti spuntati a malincuore,
da una accidia di laguna vedevo un puntino azzurro come tanti da Saturno
– era la Terra che miravo! – e non sapevo il suo millennio quel giorno estivo
di lei che mi sorrise con Cassini. Quale gioia la conoscenza che compresi
dai miei occhi, e come Dio fosse a sua volta una creazione della Rota,
l’emorragia di una clessidra ai tempi della mia innocente trasparenza.
Le contrade come una sinfonia d’infanzia in quel sarcofago: tabernacolo pinto
da epitaffi e necrologi… per fissare, in una partitura, gli anelli della Storia.
(antonio sagredo)
Roma, all’ora terza del 29 gennaio 2014
Antonio Sagredo, poeta in vita postumo a se stesso. Non esattamente un simulacro (non si è mai visto un simulacro gradire la buona compagnia e il vino, pure che si tratti di ottimo Primitivo di Manduria). Ma fa bene a scegliersi un punto di vista insolito, che sia abbastanza vasto e distante dalle cose del mondo. Ogni cosa sembrerà insolita e stupefacente. Non tiene conto del fatto che l’ego del lettore è altrettanto vivace, sì che alla lunga potrebbe stancarsi di applaudire. Penso si tratti della parte infantile, che ognuno ha.
Polisindeto composto da 3 quartine per un complessivo di 12 versi. Componimento la cui struttura giustappositiva ed elencativa si estende dal primo verso al verso successivo, a indicare nel medesimo tempo l’onnipervasività della scrittura dell’io e il suo poter solo lambire, circoscrivere l’ineffabile «oltranza» e l’insondabile «ultroneo» che contraddistingue la scrittura poetica di Antonio Sagredo dove l’onnipervasività dell’io sta per antonomasia ad indicare la scrupolosa auto cancellazione dell’io ad opera dell’io. È il gioco freudiano del «fort da» che non ha fine né termine, che risuscita dalle proprie ceneri, giocattolo eterno con il quale il bambino Sagredo si diletta, alla pari di un dio minore infante che espone i suoi prodigi.
Dominante è qui la dimensione dell’io lirico, riconosciuto ormai come puro effetto linguistico-grammaticale al limite dell’inconsistenza e dell’insostanziale.
Se non siamo nella poetry kitchen, siamo nella modalità kitchen che Sagredo adotta inconsapevolmente e a priori.
anche questi versi sono un esempio di polisindeti
Ho sempre considerato la costruzione poietica come un’operazione fabrile e da figlio del mondo contadino, cresciuto tra contadini ed artigiani, da persona che ha sempre saputo coniugare il suo amore per il sapere umanistico con il “fare”, mi affascina l’idea dell’artigianalità che sottende la creazione artistica. Non è un caso se, pur avendo avuto sempre interessi variegati, le prime forme d’arte per la quale ho nutrito un amore “maniacale” siano state il cinema e la musica – pur essendo abituato a “girare sempre con un libro in tasca” come soleva dire un mio cugino più grande di me ed avendo sempre amato infinitamente la poesia – proprio per la capacità di queste arti di ritrarre matericamente il cosmo; per questa stessa ragione, il mio primo grande amore scientifico è stata la geografia, trait d’union filofogica tra scrittura e geo, teoria e prassi e per la medesima ragione, pur non avendo una grande cultura personale specifica, ho sempre amato la scultura come metafora stessa di quella che è la mia concezione del lavoro artistico come “sottrazione di materia”, attività di suggimento della materia tellurica.
Ho sempre concepito il lavoro di produzione culturale come un lavoro da artigiano di laboratorio e per questa ragione, nonostante la passione sempre provata per la poesia, me ne ero allontanato, in quanto mi sembrava ormai un’espressione artistica legata a puro autocompiacumento intellettualistico e probabilmente non mi ci sarei riavvicinato, quanto meno a livello di esercizio di scrittura, se non fosse intervenuto l’incontro prima con l’opera di critico del nostro instancabile Giorgio Linguaglossa e poi con questa sua straordinaria creatura che è l'”Ombra”. Il concetto di frammento e poi della sua filiazione e completamento che è la Poetry kitchen, restituiscono alla poesia la propria componente artigianale che sola, le può consentire di riappropriarsi della sua capacità di ricostruire, ridefinire il mondo, individuandone le sue dinamiche profonde. E’ davvero l’unico modo di sovvertire la poesia della linearità, dell’intimismo melenso, del salotto come meta d’arrivo o anche dell’intellettualismo fine a sé stesso, del gingillamento onanistico: la poesia dello scialbore della traduzione sterile del quotidiano da un lato e del tecnicismo dall’altro.
Ne approfitto per complimentarmi con voi amici, per le splendide poesie che ho letto in quest’articolo, che vede tutti i poeti della Noe presenti in forze: una felicitazione particolare vorrei indirizzarla a Raffaele Ciccarone, del quale non avevo ancora letto nulla e che mi sembra perfettamente immerso nell’alveo della Poetry Kitchen.
Buona serata a tutti.
Pingback: Stefanie Golisch – Alessandria today @ Web Media. Pier Carlo Lava