Anselm Kiefer (1945)
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Il salto categoriale del Sublime. Osserviamo il celeberrimo quadro di Caspar David Friedrich “Viandante sul mare di nebbia” (1818), quella divina infinità del paesaggio osservato di spalle che evoca la profonda religiosità di un artista che vede con l’occhio interiore dello spirito: «Il divino è ovunque anche in un granello di sabbia», e riflettiamo sul salto categoriale della concezione del sublime dopo la rottamazione della Metafisica.
Come tornare a pensare, e riformulare, la categoria estetica del ‘Sublime’ dopo il novecento, là dove accantonata l’idea sette-ottocentesca della natura quale fonte di contemplazione estatica, il sublime si trasforma in iconoclastico o testuale, orientato sull’arte e la riflessione estetica? Là dove il senso del sacro e il provvidenziale sono quasi del tutto estranei al mondo secolarizzato dell’ipercapitalismo, l’imperativo mistico abdica ad un sublime critico e non più metafisico.
In certi casi il sublime è elevato a categoria critica del reale, si pensi a come J.F. Lyotard rivaluti il “sublime” quale categoria euristica della contemporaneità. Questo sublime desacralizzato del postmoderno teorizzato da Lyotard accantona definitivamente la monumentalità di valori come verità e assoluto, bensì conseguente alla democratizzazione dell’arte vige l’apertura illimitata (e vertiginosa) alle possibilità delle rappresentazioni.
Nessuna creazione artistica è oggi definitiva, nessuna risulta adeguata: «allo stesso tempo, gli artisti d’avanguardia conducono (noi) fuori dall’anelito romantico giacché essi tentano di rappresentare l’irrappresentabile non come un’origine o uno scopo perduti nella lontananza del soggetto della pittura, ma nella nostra prossimità, nelle condizioni dell’opera artistica stessa», infatti «la questione dell’irrappresentabile…è la sola su cui valga la pena scommettere vita e pensiero nel prossimo secolo». L’arte di avanguardia (compresa di suffissi e ismi) è un operare sperimentale e transeunte, reiterazione continua proiettata in un futuro prossimo, in un domani che è già presente. Allora il sublime è il propulsore di una serie interminabile di esperimenti, un sublime non più nostalgico ma «piuttosto indirizzato all’infinità degli esperimenti plastici ancora da farsi anziché alla nozione di un assoluto perduto.»
Vertigine della differenza, dell’istante, della precarietà della forma, dell’invenzione dello stile. Contaminatio e con-fusione quali superficiali input della modernità. Scrive Andrea Emo: «La poesia e l’arte in genere oggi purtroppo non possono essere che ridicole. Esse sono nate nel tempo in cui il lavoro, il trattamento della materia, in cui la storia (e la vita) erano condotte in maniera artigianale (…). Perciò il cosiddetto artista è una sopravvivenza ridicola dell’artigianato: egli si vergogna di quel glorioso passato.» In una fase storica di «mondanizzazione radicale postmetafisica», la fine dell’arte come rappresentazione va di pari passo con le possibilità infinite dell’invenzione senza regole/stile/pensiero legittimazione artistica di qualsiasi manufatto, scrittura, estemporaneità creativa. Il caos confina con la metastasi, «il complesso del mondo che tutto comprende cresce fino a diventare un mostro ontologico con una forma impossibile da capire».
Smisuratezza ed eccesso sformano e de-formano. Il «sublime tecnologico» rafforza un tipo di esperienza estetica riproducibile in forme programmate e seriali. Nel definire la nozione di «sublime tecnologico», Mario Costa riconosce «che l’irruzione e la pervasività delle tecnologie costituisce il vero nuovo eccesso del post-moderno», dove l’eccesso riguarda anche i gadget e gli oggetti tecnologici tarati su una obsolescenza programmata. Ma il sublime naturale arretra anche di fronte alla trasformazione fisiologica della modalità di percezione, l’occhio da medium dell’osservazione a distanza, si trasforma in «un organo dell’immersione in un milieu quasi tattile» (P. Sloterdijk) come nell’esperienza cinematografica stereoscopica in 3D o 4 D, ad esempio.
Fine del pensiero monoteistico. Il crepuscolo degli dei si è tirato dietro una moltiplicazione di crepuscoli intravisti già da Nietzsche: «Quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda dentro.» Scrive un artista del sublime contemporaneo come Anselm Kiefer: «La cosa più importante non è il risultato ma l’effimero, il sempre fluttuante, ciò che non arriva ad una fine».
Perniola colloca Andrea Emo (1901-1983) tra i più incisivi pensatori italiani del sublime: filosofo «postumo», intellettuale solitario e aristocratico opposto all’ «intellettuale organico» integrato e funzionale alle ideologie, non pubblicato in vita e totalmente sconosciuto dall’establishment accademico coevo. Il sublime testuale di Emo è la vertigine delle quarantamila pagine manoscritte, raccolte in circa quattrocento quadernoni, per lo più frammenti e appunti di grande coerenza argomentativa e sistematica. Concordano i grandi interpreti del pensiero emiano, da Carlo Sini a Massimo Donà, Vitiello o Giovanni Sessa, come la crucialità dell’immagine sia il fulcro di tale «opera filosofico-musicale».
«L’immagine da parte sua non è l’identità col mondo: è la metamorfosi del mondo ed è, in quanto immagine, immagine di una metamorfosi.» e proprio sulla soglia dell’immagine è l’incontro con Kiefer, l’artista tedesco che omaggia il filosofo di un ciclo di opere «Für Andrea Emo» dove la tensione iconoclasta dell’artista si misura con «un pensare che si realizza negandosi» come quello del filosofo
Il sublime testuale (negli effetti di vertigine e smarrimento dell’Io codificati da Burke e Kant) è la poesia anti-sublime di Mario Gabriele, ibridazione di tutti i linguaggi e di tutte le interferenze, versi e distici dell’immensa chiacchiera dodecafonica dell’orda Homo Sapiens, ingerenza di miliardi di clic e voci insieme alla lettera silente dei libri chiusi. Archeologia fredda dell’affollato supermercato terrestre con Beethoven o Mozart in refrain di sottofondo ai surgelati e detersivi. La marcia trionfale della merce intacca l’armonia delle sfere: così il sublime testuale di Giorgio Linguaglossa (e la qualità dell’interrogazione dei poeti-ricercatori di una nuova ontologia e Poetry Kitchen) è lo sperimentalismo inesausto, la “performance in progress”: se l’intelligenza artificiale delle cose ruba il vocabolario ad un ‘Io disconnesso’ le cose giocano. L’infantilismo dell’umanità è acme del contemporaneo. Le cose, ciniche bambole dell’orrore, il ciarpame pop, mostrano l’insensatezza/negatività del mondo. Gli eventi ruotano, orbitano nell’astrazione senza scopo o finalità destinali in un presente immobile, allargato in istanti affiancati ad altri istanti: «L’abolizione dello scopo, della finalità, in una parola l’abolizione del futuro…è l’instaurazione di un presente eterno». (Emo) Se l’atto estremo della decostruzione concede piena libertà di parola e di anti-parola, evento ed epifania, funerale e battesimo, oppure nega la «possibilità stessa di accedere al senso dei testi», allora è come se iniziazione e necrosi viaggiassero insieme. Ogni teoria dell’insignificanza in fondo contraddice se stessa, aporia e danza dell’immagine. «Perché Socrate e Nietzsche, giunti presso la catastrofe, consigliano la musica e la danza?» Si chiede Emo.
«Io distruggo quello che faccio tutto il tempo. Poi metto le parti distrutte in containers e attendo la resurrezione.» (Kiefer.)
(Letizia Leone)
Anselm Kiefer
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Testi di Andrea Emo
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Perché Socrate e Nietzsche, giunti presso la catastrofe, consigliano la musica e la danza?
Le linee di una grande architettura esprimono l’infinito disegnando il limite.
La forma dell’arte è l’immagine del divenire. La rappresentazione del tempo.
L’arte è la sola unica e vera attività teoretica; la filosofia, come la religione, è pratica e cerca salvezza, consolazione, sollievo guarigione per l’anima perpetuamente malata e sofferente dell’uomo. L’arte rinuncia ad ogni consolazione, ad ogni salvezza; essa è pura visione, cioè pura teoria; e la visione pura senza scopo (rinuncia radicale ad ogni scopo) è appunto la più pura fantasia e, insieme, creazione.
Gli artisti sono grandi perché ciò che hanno scritto non è ciò che volevano scrivere; anzi, è forse il contrario, è ciò che in essi è diventato autonomo riducendo quasi a nulla l’autonomia dell’uomo.
L’arte, la cultura, come misteri di salvezza. Il più consistente dei poemi in lingua italiana, quello dantesco, è il poema dell’inconsistenza, del mondo dell’inconsistenza e delle ombre. Le ombre del male e del bene, le ombre degli uomini. Le ombre di un passato che vuol essere eterno, di una vita ridotta ad ombra per essere eterna.
L’arte antica è una celebrazione del mondo come è, mentre la moderna è sempre, dietro le apparenze, un appello al mondo come vorremmo che fosse, o, in altri casi, una dimostrazione della sua apparenza; per noi il mondo è solo apparenza. E quando si mostra che la realtà come è, è apparenza, è chiaro che si vuol giungere ad affermare che l’essenza delle cose è spirituale, oppure morale. Ma in questo modo l’arte, che deve essere pura ‘estetica’, non finisce per tradire se stessa e la sua funzione?
Ogni immagine è immagine del nulla. E in questo senso l’immagine è ontologica.
Mario Gabriele
Inediti da HORCRUX, Edizioni Progetto Cultura, 2021
Il nubifragio invase la città.
Non fu facile rialzare il quadrifoglio,
recuperare i fumetti di Moebius.
Le librerie rimasero senza Zerocalcare
smarrito tra i curdi nel campo di Makhmour.
Questa sera ti preparo il bilancio di giornata,
con La Doppia Indagine di Montalbano,
e le tessiture di maquillage.
Mi chiedi la differenza tra il Nord e il Sud,
con i santini sul parabrezza delle macchine
per Santa Cruz e Guadalupe,
tra i rohingya, e gli affiliati al K-pop,
contaminati dal pensiero debole.
Minouche Shafik, della London School
of Economics, vuole un nuovo patto sociale
dopo Rosseau e la CGIL.
Presenti in carriera,
le Good Girl si fanno in quattro
per andare nella serie Run the World.
Non rischio niente se rimango a casa
a sentire Radio Italia,
tutt’al più qualche perdita a Wall Street
per la crescita del virus.
Janette O’Brien,
conosciuta nelle dark room,
è una influencer di modelli Calzedonia,
ma per un set Apple Tv
le occorrono bikini e costumi di Jersey
di La Petite Robe.
Mister Din, dopo anni di publishing,
si aggiudicò il New Award
con un long seller su razzismo e pregiudizio.
Il brandy Hennessy è sotto il tappo
per i 90 anni di zia Evelina
che piange per nulla,
per il domani che rimane.
Inedito tratto da HORCRUX
Le ragazze di Kabul sognavano le Pussy Riot
per uscire dal Ramadan.
Crescere alla pari era il sogno
di Zaira Jasin.
Scriverò, lei disse, alle amiche
che hanno visto Shailene
nella Trilogia Divergent,
per dire che qui le strade sono senza Street Art
e Coverstory.
Questa sera tornerò ad essere poltrona,
sedia,
divano,
altalena di giardino,
e poi polvere,
sepolcro,
tristezza,
prologo ed epilogo,
e nessuno mi vedrà piangere
in piena estate e con i veli,
senza skin care, e le Beauty Stars
di Madison Square.
Ieri sera il mio compleanno è morto
mentre cercavo cappotti di lino e shorts
di MOI MIMI’ in WhyNot.
Tutte le volte che canto
brucia l’ugola,
con Don’t Be That Way,
di Norman Granz
riportato sul lato A e B
del long playing.
L’esagono domestico non ha le armi
per far fuori i regni mefistofelici.
Per questo leggo il Talmud,
prego Giuda e Maria
e l’inferno è come nei racconti
di Bulgakov e Gogol’.
Si può affermare che la Instant poetry e la kitsch poetry (componenti della Poetry kitchen) sono un atto linguistico performativo e rappresenta nella lingua una sua antichissima potenzialità, dormiente nell’uso che si fa oggi delle lingue, che viene rimessa in potenza, in atto.
Scrive Agamben:
«Ogni nominazione, ogni atto di parola è, in questo senso, un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s’impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che in esso si realizza» (G. Agamben p. 62). Con il passaggio al monoteismo il nome di Dio nomina il linguaggio stesso, è il logos stesso a essere divinizzato come tale nel nome supremo, attraverso il quale l’uomo comunica con la parola creatrice di Dio: «il nome di Dio esprime, cioè, lo statuto del logos nella dimensione della fides-giuramento, in cui la nominazione realizza immediatamente l’esistenza di ciò che nomina».1 Questa struttura, in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato, è quella che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» (speech act; (cfr. AUSTIN 1962); «io giuro» è il modello di un tale atto. Agamben sostiene che gli enunciati performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere».2
1 G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza. 2008, pp. 71-72 2 Ibidem p. 74-75.
Per poter agire, l’enunciato performativo deve sospendere la funzione denotativa della lingua e sostituire al modello dell’adeguazione fra le parole e le cose quello della realizzazione immediata del significato della parola in un atto-fatto.
La poetry kitchen è quindi un atto-fatto, un fatto-significato, un fatto-non-significato. La instant poetry è vera se legata ad un istante, se è il prodotto di un istante, dopodiché scompare nel non-istante che chiamiamo, per consuetudine, passato.
(Commento critico di Giorgio Linguaglossa)
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Le occasioni poetiche sono di diversa accumulazione frammentaria, all’interno di tempo e spazio nel fluire della nostra temporalità, che qui ha un carattere nicciano.
Rimane il problema del “genere letterario” a cui è abituato il lettore che, di fronte a questi versi, può conviverci o meno, considerato anche l’ingresso del linguaggio proveniente dal mondo del Web.
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L’artista è un iconoclasta, lui o lei distrugge tutto il tempo. C’è l’arte e l’antiarte. Se l’artista non è un iconoclasta allora non è veramente un artista. Puoi vederlo nel corso della storia dell’arte. Io distruggo quello che faccio tutto il tempo. Poi metto le parti distrutte in containers e attendo la resurrezione.
Uccidete l’arte: rinascerà.
Come regola generale, e per una sorta di immunità naturale nei propri confronti, l’arte si erge costantemente contro se stessa. Sembra poter esistere solo attraverso la propria negazione. Sottoposta all’autodistruzione, a quel “volere il male”, paradossalmente procura il bene.
C’è una tale proliferazione di cose, musica, messaggi, che non esistono più confini da infrangere. Non voglio dire che Duchamp abbia fatto male a esporre il suo orinatoio, la prima volta è stato straordinario, ma la seconda non lo era già più, la terza volta non era altro che un orinatoio. L’arte e la vita sono due cose molto diverse.
Il quadro in divenire, come l’essere, ha perso la sua forma definita per passare dallo stato di compiutezza verso il quasi niente. La tela e i colori sono lì…, e tuttavia esso ha già varcato una frontiera. Si è disfatto sullo sfondo omogeneo degli oggetti che lo circondano. Mi capita di fare questa constatazione, il giorno dopo, arrivando allo studio. Mi dico che ho sbagliato strada, che ho condotto il progetto contro un muro.
(Anselm Kiefer)
Giorgio Linguaglossa
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La poetry kitchen è quindi un atto-fatto, un fatto-significato, un fatto-non-significato. La instant poetry è vera se legata ad un istante, se è il prodotto di un istante, dopodiché scompare nel non-istante che chiamiamo per consuetudine, passato.
Ne risulta che il linguaggio dell’opera kitchen non può più dire qualcosa di sensorio e di sensato e sostenere che la letteratura non si lascia più comprendere ma fraintendere…Chiedo quale «Potere della Parola» può avere la parola in un contesto kitchen? E rispondo: nessuno.
Pura immediatezza e feticismo sono ugualmente non veri.
La coscienza infelice è la costruzione di una coscienza falsa. Ma la coscienza falsa è sempre il prodotto di una coscienza infelice.
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Inedito dalla raccolta:
La giraffa seduta sul sofà chiede un Campari
L’Agenzia per la sicurezza nazionale
ha dichiarato la liberazione dai trigliceridi
nel 740
La toponomastica fece un balzo verso il tapis roulant
il quale si sottrasse
e vergò un reclamo alla Agenzia dell’Erario
aggiungendo che Barabar fa rima con Bar e Bar Salem
noto affiliato ad Al Qaeda
ergo deve essere destituito
L’analisi vaccinale di Letizia Castà è risultata negativa
per deficit immunitario
E allora chiudiamo i bambini a scuola in una scatola di plexiglas
trasparente
prima di andare al termopolio a prendere il caffè
disse il sottosegretario Durigon
Il caffè è sul tavolo
Anche Sharon Stone è sul tavolo
ha le gambe accavallate
sulla famosa sedia del film “Basic Instinct” del 1992
nella scena dell’interrogatorio, dice:
«The capital gain is food
per quel film ho ricevuto un assegno da 500 mila $…
Fui ingannata sulla scena dell’interrogatorio,
in “The Beauty of Living Twice”,
svelo cosa è accaduto nel backstage prima di girare
la famosa scena in cui
accavallo le gambe senza le mutandine»
The Generation Q’ cast is caught between marriage and monogamy
in Season 2
«Perché in fondo la vita è un’infinita sliding doors come è scritto su un’insegna luminosa di Hollywood»,
disse l’aiuto regista durante la recitazione del movie
L’Agenzia dell’Erario ha dichiarato podcast tutti i reati contro il patrimonio
e anche quelli contro il matrimonio
«Il goniometro è il vero competitor del sinusoide in 4D.
broadcast»
c’è scritto nel n. 73 della rivista populista “Science and Fiction”
«La temperatura sulla superficie del pianeta Venere è di 600 gradi Celsius»,
ha detto la sindaca Raggi uscendo dal plenilunio,
aggiungendo che
«Il catamarano è una astronave che può viaggiare nello spazio intergalattico ad una velocità prossima a quella della luce»
Friedrich Nietzsche
(da Poesie e frammenti poetici– 1988, a cura di Giorgio Colli)
E il desiderio dei lunedì e dei giorni feriali.
*
Tra voi io sono sempre
come olio nell’acqua:
sempre alla superficie
*
Le cose non sono forse appuntite
Per piedi di danzatori
Lenti, lenti come cammelli,
uomini e uomini passano davanti
*
Vuoi essere soltanto
La scimmia del tuo dio?
*
O saggi impettiti,
per me tutto divenne giuoco.
*
verità per i nostri piedi,
verità secondo cui si può danzare
spettri orrendi,
smorfie tragiche,
gorgoglii morali
*
Proprio un lupo testimoniò a mio favore
e disse: «tu ululi meglio ancora di noi lupi».
*
Piccola gente,
fiduciosa, espansiva,
ma porte basse:
solo ciò che è basso vi entra.
Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma. Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi, cioè un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry.
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Ciò che Lyotard chiamava il «sublime tecnologico» potremmo tradurlo con il nostro linguaggio come poiesis kitchen. La fine della metafisica ci pone davanti a questo nuovo orizzonte nel quale viene e cadere il confine che per duemilaecinquecento anni ha costruito la poiesis sulla nozione aristotelica di mimesis e sulla distinzione tra il possibile e l’impossibile. Prendere atto di questo dato di fatto implica prendere una direzione ben precisa per la collocazione della poiesis nell’ambito della civiltà della tecnica dispiegata. Il sublime si è desublimato, e questo lo ha dichiarato il trionfo della tecnica. Se la poetry kitchen adotta il linguaggio desublimato del mondo della tecnica, ciò deriva dalla presa d’atto che i nuovi linguaggi del mondo della tecnica sono i soli sopravvissuti della antica e nobile esperienza del sublime che è stata derubricata.
Oggi c’è l’estetica della poetry instant. ed è un bene conoscerla nelle varie esternazioni, brevissime sì, ma sempre collaudate, mai cocci del pensiero, ma pezzi da 90 con i testi poetici riportati. E’ sorprendente come la poesia di Linguaglossa, qui riportata, superi vari check-in e vada avanti per superstrade a scorrimento veloce. E’ cambiato tutto: linguaggio, stile, con vari personaggi, alcuni provenienti dal mondo del cinema, come Sharon Stone, indimenticabile in Basic Instinct, il tutto intervallato da immissioni lessicali in inglese e il quadro, a questo punto, può andare in pinacoteca.
F I N E
La luna raccoglie papaveri
in fondo allo stagno di sassi
quegli uomini erano stati soldati
Falene ubriache
sfondano specchi di ghiaccio
la strada è un rettangolo
La scuola turchese
è avvitata con chiodi di prugna
hanno scambiato l’ordine dei materassi
L’acqua ha una ruga in più
dalla cruna degli aghi
si intravede Kabul
Rocce arroventate
albe colpite alla schiena
dalle ali degli aerei
Il maniscalco parla al contrario
ha il becco dell’aquila
per cappello un mappamondo
Seduto sul divano uno spartito
sparpaglia tutt’intorno carte napoletane
l’utente è impegnato in un’altra conversazione…
Fine
La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire, ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per avv-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità.
La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coinplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che divideva essere e linguaggio, la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii.
Quando scrivo instant poetry non ho mai l’impressione di scrivere una poesia.
A volte torno a scrivere poesie che posso riconoscere come kitchen; aggiungo versi su versi, ma a quel punto non è più l’istante, e non può nemmeno dirsi tempo… o è il tempo di una esibizione, valutabile in qualità, bellezza e riuscita.
Quando scrivo instant poetry non ho mai l’impressione di scrivere una poesia.
Ho provato a pubblicare un verso “Instant” su Fb, più che altro una provocazione. Le diverse reazioni espresse nei commenti mi hanno fatto capire che un verso di poesia non lo si può commentare: sta su un altro piano del linguaggio. E che nel linguaggio, se opportunamente valorizzato, un verso (frammento) ha potenzialità insondabili. Si crea un conflitto tra linguaggi, anche in caso fossero tra loro similari.
Questo è forse anche il senso della poesia, la sua difficoltà a collocarsi nel mondo.
Perché scrivere ancora poesie?
Non si può dire in altro modo?
Caro Lucio,
condenso nella risposta alla tua osservazione appropriata ed intelligente, il mio intervento in quest’articolo propostoci da Giorgio.
Come credo di aver già evidenziato nella mia “lettera aperta” della scorsa estate, è esattamente questa che tu individui mirabilmente la funzione salvifica, taumaturgica che a mio avviso la “Poetry kitchen” e come mi piace definirlo “il progetto Noe”, concedono alla poesia e che ho esperito nella mia parabola personale.
Per quanto mi concerne, avevo praticamente smesso di scrivere poesie; i miei scritti comparsi in quel primo articolo in cui Giorgio ha avuto la bontà di ospitarmi quattro anni fa, erano non solo distanti anni luce da un poetare all’altezza della dignità della Poetry kitchen, ma erano anche fermi a diversi anni prima, proprio per l’impossibilità di trovare un punto di riferimento adeguato alla necessità di una ricerca poetica intellettualmente fondata.
E’ stato l’approfondimento della Noe e delle declinazioni della sua visione poetica sino a giungere alla Poetry kitchen che mi hanno restituito l’idea di una fondatezza della scrittura poetica, incarnando perfettamente la mia idea di una poesia “antropologica”, una poesia lontana dagli strali dell’io e dell’intimismo mellifluo e fine a sé stesso, per riscoprire la radice antropologica dell’esperienza umana e restituire alla poesia la sua capacità entelechica nel rappresentarla mimeticamente.
E’ anche in questa peculiarità della poetica kitchen che percepisco la trasposizione dell'”evento” poetico, come lo definisce Giorgio, nella sua valenza che definirei trascendente, nel senso filosofico del termine.
Sempre più spesso ormai, sostengo di fare Poetry kitchen e non “semplice” poesia e come te, avverto la differenza già a partire dalla stessa fase di scrittura.
Buona serata a tutti.
perchè realizzi ancora grafiche?
caro Antonio Sagredo,
quello che tu chiami “grafiche” sono dei twitter oggi diffusissimi nel web, il testo, i testi poetici kitchen vivono e convivono con le grafiche, con le icone, con le gif, con le emoticon… sono testi in movimento. Il tuo concetto di testo poetico fa parte di un antico e nobile concetto umanistico di scrittura, una scrittura che vuole essere solo scrittura, tanto più una scrittura poetica che vuole essere solo scrittura poetica.
La scrittura che qui invece indaghiamo e inseguiamo è quella scrittura che viene contaminata, impura, neutra dove lo spazio si fa tempo e il tempo si fa spazio, dove le linee divergenti si confondono con le linee convergenti e la citazione si confonde con assiomi e aforismi… qui, nella scrittura kitchen vige il meccanismo del differimento e del rinvio di un segno all’altro.
caro Lucio,
io sono molto più pessimista di te, penso che dovremmo tacere tutti pe almeno 10 + 10 anni = 20 anni e forse ne rimarrebbero 80 da aggiungee ai venti: in tutto facciamo 100 anni.
Perché ormai il linguaggio della poesia non ha più nulla da dire, tantomeno il linguaggio dell’anima solitaria che sta in giardino a bere il the.
Il fatto di non avere nulla più da dire ci consegna delle perle di linguaggio, un linguaggio infungibile che non può essere trafugato né utilizzato o impiegato per edificare alcuna cosa. Questo è il linguaggio poetico kitchen dei nostri giorni, i linguaggi del lontano novecentismo sono linguaggi ad obsolescenza prescritta caduti in prescrizione.
Non abbiamo piu niente da dire.
Ci è rimasto da dire solo il niente.
Facciamo silenzio per i prossimi vent’anni.
Facciamo rumore per i prossimi diecimila.
Cari amici,
come ho detto molte volte, la poetry kitchen si situa in quell’essere-in-mezzo, quello “Zwischen” di cui ci parla Heidegger. Quel frammezzo che è il vero centro dell’essere, ovvero, del nulla. Se il poeta è il fondatore dell’essere, è anche il fondatore del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo. La poesia è il suo progetto aperto al futuro, è il futuro aperto al presente. È il presente aperto alla Memoria del passato. È insomma quella entità che sta al mezzo delle tre dimensioni del tempo. Ed è ovvio che in questo frangente, il linguaggio della poesia non può che situarsi nello “Zwischen”, cioè in un non-luogo linguistico, in un non-luogo dell’essere.
Al poeta è assegnato il posto nel “frammezzo”, egli è il mediatore tra gli dei e gli uomini, tra il «non più» degli dèi dipartiti e il «non ancora» del dio che ha da venire (Heidegger). Che io aggiornerei così: il poeta è il mediatore tra l’essere e il nulla, rivela il nulla dell’essere e l’essere del nulla. Per questo il poeta moderno non può che essere profondamente nichilista, anche contro la sua volontà e la sua intenzione. Il poeta è un Emissario del Nulla e un Commissario dell’Essere.
Vera aspirazione della poesia è quello essere a casa e rendersi familiare (Heimischwerden) un’inquietante estraneità in cui comunque e dovunque ci troviamo spaesati (Unheimischsein), vero nocciolo della storicità dell’uomo nell’itinerario di un viaggio di ritorno, di un avanzare schembo andando a ritroso.1
Quello che vorrei dire è che oggi, nel nostro mondo-visione riesce davvero problematico riferire intorno ad una «esperienza», tanto più una «esperienza significativa», il linguaggio poetico che dovrebbe indicarla rimane invece «muto», cioè parla di «altro».
Oggi la poesia, quella più avveduta, si mostra refrattaria e indifferente alle «esperienze» (significative o non-significative). Com’è accaduto questo fatto storico-epocale?, io mi limito a registrare un fatto.
I 5Stelle hanno presentato una interrogazione parlamentare
al governo Draghi:
All’autogrill di Fiano romano una giraffa si reca al bar
sale sul cavallo a dondolo
il cameriere porta su un vassoio una porzione di camembert
e un crodino
il cavallo a dondolo si mette il rossetto
dice che è l’ippogrifo e che ha un appuntamento con l’Ariosto
che, per gelosia, lo ha spedito sulla luna…
Sono miei versi che non significano nulla di concreto, non hanno un significato, né attuale né remoto, né futuro, non hanno un referente, come è proprio delle poesie della nuova fenomenologia del poetico e della poetry kitchen: non c’è nulla del concreto, ma c’è del presente, forse, ma non ne sarei troppo sicuro. E forse questo è il modo migliore per poter essere concreti e presenti nel presente-passato e nel presente-futuro: non esser certi di nulla e non dare nulla per scontato. Questo non significare nulla è forse il miglior modo per significare qualcosa di impellente che non può essere detto con il linguaggio del presente, quello della comunicazione.
1 Cfr. M. Heidegger, Hölderlins Hymne “Der Ister” a cura di W. Biemel, in Gesamtausgabe, cit., vol.LIII, p. 22; tr. it. a cura di C. Sandrin eU. Ugazio, L’inno, Der Ister di Hölderlin, , Mursia, Milano 2003,
tutto sommato la strofa di Guiso Galdini afferma ciò che dico da 50 anni!
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“Chi ero quella notte di cui più nulla resta?”
Lesmian
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comunque scrivo da decenni oltre ciò che dichiarate con sicumera!
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….Ed entrai nella dimora anch’io acceso e accesa era anche la soglia che non conoscevo e che mi indicò il tragitto – le luminarie dei feretri avanzavano con le note cadenzate dei requiem e restarono per me un mistero che mi lasciò interdetto… mi guidavano e mi illuminavano il cammino quelle note dolorosamente dolciastre mentre penetravo una per una le stanze della villa accesa!
Mi si fece incontro Chinoneri e mi disse: Io sono la tua Guida, prendimi la mia mano e avanziamo insieme verso le Statue liberate dalla Poesia, ciascuna di esse è la Celebrazione del Canto e sono il passato che ci precede. E i libri che tu vedi ancora non sono stati scritti, e ognuno di loro già possiede i nostri destini: quanto più raccontano (il nostro) l’oblio tanto più sono i Signori della Parola.
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Stazioni
Come ci traversano i ponti e gli arcobaleni! Una volta il tempo aveva un senso, come in un’Arcadia quando all’infinito prestavi un idillio e di Asea miravo le costellazioni e il frivolo luogo di un cortile non contaminato sottratto all’interdizione di un terrestre passaggio… e qui, su una qualsiasi galassia, governo me stesso e un pensiero che mai è nato, e così il sogno… era altra l’attesa di una fluida serenità e dello scorrere di non so cosa! La realtà forse esiste e ha senso soltanto sulla terra come gli stermini: una arcadia per i carnefici!
Poi la pietas… una altra invenzione….
Antonio Sagredo
Brindisi, 04 settembre 2020
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Mancarono tutti i grandi Libri il bersaglio di una umanità meno dolente; ci ricorda invece che gli originari Misteri e Segreti sono presenti ancora nel nostro cerebro tant’è che non si ha l’idea o il riflesso di una idea di ciò che è orrore, terrore ecc. e dove la cenere che resta di noi – anche da viventi – è un avanzo di ciò che forse fu umano e quel che resta assume la fisionomia di una estetica da salvare.
Sono qui! Eccomi! Non ho più una lingua, ma bocca, non ho più un cerebro capace di voltarsi indietro, perciò tutto il suo futuro ha perduto… non si sanno le condizioni temporali e spaziali per cui il tutto è avvenuto.
Lo specchio crolla se è Giano a specchiarsi.
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Si fa poesia, ma della vecchia non deve restare nulla!
1975
HIROO! QUEST’È
Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
Di appendere pipe.
Fumare è una passione in tempi di Luna sorella.
Ottobre passò con le ciminiere appassite
Giurò di impastare un Lenin al secondo
Se non avesse visto la Tabella sul senecio.
Prometeo scostò le tendine del salotto
E fece un esperimento di entanglement
Le madame si arrabbiarono quando videro
Il diamante bruciare in Paradiso.
Sarebbe riapparso a fine corsa:
Amore di mamma su katana.
Una cardo vantò l’offerta formativa di una rosa
La questione finì davanti a una bella di notte
Solo perché da una tubetto di smeraldo
Spuntò il soldato Oneda, baionetta e ramarro.
Un gioiello riappare sempre dal lato kitsch
Talvolta il vestito appende il volto blu
Carbonio o Plutonio?
Quello vero ha barba e occhiali ma vota PCI
e lo fa ogni giorno e lo fa ogni volta che ha una donna
Ma il tema sopravvive all’inganno.
E l’imperatrice?
Un haiku al giorno:
chi vinse la pandemia?
Hirohito Yeah!
(Francesco Paolo Intini)
In questo appassionato monitoraggio della poesia italiana dell’epoca della stagnazione Linguaglossa ci dà il meglio delle sue capacità critiche (nota dell’Editore, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia contemporanea, Società Editrice Fiorentina, 2013 pp. 150 € 12
““Andiamo verso la catastrofe senza parole. Già le rivoluzioni di domani si faranno in marsina e con tutte le comodità. I Re avranno da temere soprattutto dai loro segretari”. Era l’aprile del 1919 quando Vincenzo Cardarelli scriveva queste parole. Era iniziata la rivoluzione della società di massa, la rivoluzione industriale era ancora di là da venire, e l’epoca delle avanguardie era già alle spalle, il ritorno all’ordine era una strada in discesa, segnato da un annunzio che sembrava indiscutibile. Oggi, a distanza di quasi un secolo dalle parole di Cardarelli, è avvenuto esattamente il contrario di quanto preconizzato dal poeta de “La Ronda”: oggi andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole. Le rivoluzioni di domani non si faranno né in marsina né in canottiera, né con tutte le comodità né con tutti gli incomodi: non si faranno affatto. Una poesia come questa del Dopo il Novecento non può che nascere in un’epoca in cui parlare di “rivoluzione” è come parlare di ircocervi in scatola. Non c’è opera della rappresentazione letteraria del secondo Novecento che non tenda, in qualche modo, al verosimile e, al contempo, non additi la propria maschera. La poesia e il romanzo dello sperimentalismo, rispetto alla poesia del post-ermetismo e dell’ermetismo, ha una sofisticata coscienza del carattere di “finzione” dell’opera letteraria, ha coscienza della propria maschera, anzi, c’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”».
Caro Giorgio,
e hai ragione, come invece ha torto Caldarelli… questi appartiene a quei poeti che hanno sempre torto a cui gli affianco la triade scellerata: Ungaretti, Quasimodo e Montale, seguiti questi tre volpi dai loro figli, nipoti nipotini, pronpoti… ecc.
Non potevano “indovinare” perchè sprovvisti di visioni, come invece ne era provvisto Dino Campana che nemmeno li vuole al tavolo dei POETI!
Zanzotto aveva una visione “linguistica”, Ripellino una visione teatral-magica con tratti da finzione pessimista, poi Ceronetti si vestiva da raffinate visioni, lo stesso Bene realizza materialmente quella di Ripellino.
Manca a quei tre “minchioni” il DUENDE poiché non sapevano cosa fosse, e né erano visitati: tempo perso!. Due Nobel sprecati suggeriti agli svedesi da critici della peggior specie !!!
Migliori le poetesse, ma la Merini tranne qualche ben finale per il resto aveva visioni sessual-manicomiali da stufarci fino alla sua fine…
invece la Valduga è di tutta altra pasta e sa la visione clinica (Medicamenta dell’ossario!) delle cose umane, ma a ruota le migliori in assoluto la Helle Busacca, la Madonna, e la De Pietro (questa davvero inarrivabile!
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-Giorgio hai ragione, non sempre, ma quando ci azzecchi è al 100 per cento!
a. s.
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