Intervista a Pavel Řezníček a cura di Viki Shock, pubblicata su Babylon n.7, 05.
Quando e dove dove sei nato?
Sono nato il 30 gennaio 1942 a Blansko, porta d’ingresso al Carso moravo e all’abisso di Macocha (“Abyssus abyssum invocat”). Serbo una copia del Giornale popolare (Lidové noviny) di quel giorno. I Giapponesi fronteggiavano Singapore, che sarebbe caduta il giorno seguente, Hitler tenne un discorso al Reichstag. Come sottolineo, di sicuro disse: “Parteigenossen, attenzione! È nato Řezníček!”. La temperatura registrata quel giorno fu -27 ° C. Erano trascorsi nove anni dalla presa di potere del Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei.
Da dove venivano i tuoi genitori?
Mio padre dal paesino di Lažánky, oggigiorno parte di Blansko. Lì nacque anche il padre di Vítězslav Nezval, e mia nonna era fidanzata con suo zio Gustav. I parenti lo dissuasero dicendo: “Non te la prendere, è una miserella.” Mia mamma era di un altro paesino, Rudice, anch’esso credo sia oramai parte di Blansko. Non ci sono mai stato, ma a quanto pare c’è un mulino a vento interessante.
Come si conobbero?
I miei genitori non mi confidavano i loro ricordi erotici, quindi non so. Mio padre si sposò ormai trentatreenne, in quanto prima aveva vagato per la Francia e lavorato come meccanico in Corsica, ad Ajaccio. Una volta tornato a Blansko, si sposò subito. In seguito, è stato funzionario tecnico.
Che rapporto hai avuto con i tuoi genitori?
Di mio padre avevo paura e mi nascondevo per evitarlo. Era il dittatore della famiglia, avevamo paura di parlare in sua presenza. È per questo che oggi sono, segretamente, un anarchico. Mia madre era dolce e gentile, anche lei soffriva la dittatura di mio padre.
E il rapporto dei tuoi genitori con il sistema socialista?
Nella nostra famiglia, l’atteggiamento verso il sistema socialista fu sempre negativo. Fino alla sua morte, mio padre tenne sul muro di casa i ritratti di Masaryk e Beneš, ascoltava Radio Free Europe. Mi ricordo che nel 1952 ascoltammo alla radio la trasmissione in diretta del processo a Slánský.
Che scuola hai frequentato dopo le elementari a Blansko?
Dopo la scuola primaria e la scuola civica, come si chiamava allora, ho frequentato il blocco scolastico che durava undici anni, e che era l’equivalente dell’odierno ginnasio. La scuola era ed è tuttora situata in Via dei legionari a Brno. Prima della guerra la frequentarono anche Karel Čapek e Bohumil Hrabal, in effetti come punizione, a causa del loro scarso rendimento nelle scuole boeme, quindi posso dire che sono stati miei compagni di classe. Ottenni la licenza nel 1959: con un bel sei in matematica sul diploma.
Quando hai iniziato a scrivere e cosa leggevi?
In tutte le interviste sottolineo quale decisiva e vasta influenza abbiano avuto su di me i romanzi di Jaroslav Foglar “Il mistero del rompicapo” (Záhada hlavolamu) e “Il quartiere dei boia insorge” (Stínadla se bouří). Instillarono in me il senso del mistero, del grottesco e del romantico, che tuttora mi ossessionano. Anche adesso, se a volte mi sento giù, prendo a sfogliare gli albi con i racconti delle Frecce veloci (Rychlé šípy), erroneamente chiamati fumetti. Provo ancora gli stessi sentimenti di 55 anni fa, le stesse sensazioni visive, olfattive e quasi uditive come allora… e mi pacifico. Intorno ai quindici anni fui preso dalla letturomania. Come ci sono i grafomani, così esistono anche i letturomani. Nella sala lettura dell’Università di Brno, lessi tutta la letteratura mondiale a disposizione: Zola, Flaubert, Maupassant, Dostoevskij, Cechov, Thomas Mann, Stefan Zweig ecc. ecc. E qui mi imbattei anche nel libro di Vítězslav Nezval “Le correnti poetiche moderne” del 1937 ; che impressione mi fece! Si parlava di Tristan Tzara, André Breton e Benjamin Péret. Solo anni dopo ho scoperto che la traduzione di Nezval della famosa poesia di Péret “Me ne andrò, se vuoi” (J’irai veux-tu) è un po’ falsificata. L’ho letta in originale, e nella traduzione mancano dei versi, tipo: C’era una casa enorme, il cui proprietario era la morte violenta. C’era una casa enorme, il cui proprietario era mezzo culo. Maggiori informazioni su questo caso le si trovano nel mio romanzo “Stelle di una volta”. E, naturalmente, leggevo Světová literatura, la rivista della letteratura mondiale, diretta dal 1956 da Jan Řezáč, che oggi, a 84 anni, è mio amico.
Come sei arrivato al Surrealismo?
Quando svolsi il servizio militare a Pilsen (1961-1963), vivevo nella stessa baracca del poeta Petr Král, con il quale strinsi amicizia. Fu lui a prestarmi l’opera, in francese, di Nadeau “Storia del Surrealismo” (Historie du surréalisme), che portai nel carniere insieme alla maschera antigas per l’intera durata del servizio. Non ci capii troppo, né Petr ebbe su di me l’effetto di sviluppare una propensione per il Surrealismo. Eppure riuscii a leggere qualcosa del libro e ad ascoltare qualcosa da Petr. Dopo il servizio militare, tornai a Brno e mi iscrissi alla scuola per archivisti e bibliotecari, dalla quale venni espulso al secondo anno per le assenze. Avevo abbastanza tempo e decisi così di allestire una serata al teatro Convenzione dedicata alla poesia surrealista, intitolata “La coda del diavolo è un biciclo.” Cosa che avvenne. Presentai i testi di Breton, Tzara, Dalì e Péret. Uscì anche una breve nota sul Giornale Letterario (Literární noviny); ne inviai il ritaglio ad André Breton al famoso indirizzo 42, rue Fonatine, Parigi. Stranamente, viveva ancora lì in quel memorabile 1965. La mia lettera lo raggiunse. Anche se non mi rispose direttamente, pubblicarono un breve articolo sulla mia attività sulla rivista “La Bréche”, a firma del suo amico Radovan Ivsič, il surrealista croato che viveva a Parigi, al quale Breton aveva passato la mia lettera. Incontrai e discussi con Ivsič pochi anni fa al vernissage della mostra su Toyen. Iniziai, quindi, nel 1965 il mio percorso surrealista, a scrivere e a tradurre.
Ora sei in pensione, ma che lavoro facevi prima?
Per quarant’anni sarei voluto essere scrittore freelance. Il sogno è diventato realtà: da due anni sono un pensionato a piede libero. Come ho già detto, dopo il servizio militare e la scuola per archivisti, dalla quale fui espulso, ho fatto quello che ho potuto. Più di tutto, sono stato magazziniere. La migliore caratterizzazione del mio lavoro la pronunciò mia figlia a quattro anni “Papà di mattina fa il cassettaio e di pomeriggio lo scrittore.” Sono andato in pensione come subalterno postale.
Come hai vissuto l’agosto del 1968?
L’agosto del ’68 l’ho vissuto a Brno. La cosa divertente è che la sera del 19 agosto ero tornato a casa dopo aver soggiornato per una settimana a Vienna. Se l’invasione russa fosse avvenuta mentre ero ancora sul treno Vindobona, sarei certamente rimasto lì, invece persi l’occasione. Almeno ho vissuto tutto in prima persona. Tutti i cechi divennero agitatori, con il loro russo incerto dicevano ai soldati dell’Armata: “Cosa ci fate qui, da noi la controrivoluzione no.” All’hotel Padovec, mentre spiegavo la cosa ad un sergente russo, qualcuno dal tetto gettò verso di lui un contenitore da cinque litri di cetrioli sott’aceto. Il sergente senza scomporsi prese la mira e sparò una mitragliata verso il tetto. Poi continuammo a parlare come se niente fosse. Al soldato che distribuiva volantini contro Dubček dissi: “Dammelo, lo uso quando vado in bagno!”; il russo mi rispose, “Leggi e vedrai, carogna!”. Lo usai al gabinetto.
Nel ’74 hai fondato quello che sembra essere il più antico samizdat ceco, Doutník (Sigaro). Eri già a Praga o abitavi ancora a Brno? E perché, in effetti, ti sei trasferito a Praga?
Sigaro lo fondai nel 1974 a Praga. Tuttavia, non è una rivista periodica, ma un’antologia che viene pubblicata una volta all’anno. Mi trasferii a Praga perché mi considero un cosmopolita e Brno mi andava stretta. Mi irrita la città e odio l’argot locale.
Hai avuto contatti con l’underground? Ne facevano parte anche i bohemién di Brno, che hai immortalato nella trilogia Stelle di una volta (Hvězdy kvelbu)?
Purtroppo, devo ammettere che la cosiddetta bohème di Brno non era affatto underground. Eravamo giovani arrabbiati, ma anche scrittori e pittori. Goldflam, J.H. Kocman, K. Fuksa, l’“anziano” Jiří Veselský, che chiamavamo vecchio anche se aveva solo 35 anni. Nel pub Koruna fondai l’omonima antologia samizdat. Il letterato Jiří Olič ripete spesso di aver esordito proprio su Koruna, quindi fui io ad introdurlo sulla scena letteraria ceca, ha ha… Nel 1987 conobbi a Praga Jáchym Topol, il quale pubblicò i miei scritti sulla rivista illegale Revolver Revue. Ho pubblicato anche su Lidove noviny, quando era illegale, Host, Komunikace e altrove. Anche su Svědectví (Testimonianza) di Tigrid e Listy (Fogli) di Pelikán. Ivan Havel pubblicò pochi esemplari del mio romanzo Il soffitto nell’edizione Expedice, Jiří Olič a sua volta i miei quattro libri nell’edizione illegale Fragment a Bratislava. Non ricordo tutte le mie pubblicazioni illegali.
In Cecoslovacchia, venivi pubblicato solo in samizdat, ma uscivi anche all’estero, anche se a volte era difficile contrabbandare il manoscritto attraverso il confine. Al traduttore italiano Giuseppe Dierna fu confiscata al confine la traduzione del tuo romanzo, che dovette ritradurre da capo. Hai avuto problemi per il fatto che i tuoi libri venivano pubblicati in Francia e in Italia?
Confesso che nonostante la prefazione di Milan Kundera alla mia pubblicazione per i tipi Gallimard di Parigi, qui non ebbi problemi a causa dei miei libri. Peccato… Ma nella primavera del 1989, fui interrogato due volte dal capitano Kysilka alla centrale della polizia segreta in via Bartolomějská per un famigerato samizdat.
La terza parte di Stelle di una volta ha luogo in un manicomio. Sei mai stato rinchiuso in un istituto mentale?
Ero spesso al manicomio, non come paziente ma come visitatore. Mi capitava spesso di visitare Karel Šebek a Kosmonosy, Bohnice e Dobřany. Questo poeta maledetto era un ingrato. Un giorno mia moglie gli cucì i bottoni dei pantaloni laceri. Gli spedii una cartolina a Bohnice, chiedendo “Karel, come va la nuova braguette?” (volevo essere garbato, per questo l’uso della parola straniera). Lui mi rimproverò chiedendomi di non scrivere più cartoline con volgarismi. Gli risposi che avevo volutamente usato la parola francese (braguette). Sì, obiettò, ma mi disse che la sua dottoressa parlava francese e si era sentita oltraggiata. Conoscevo più di un matto, e andavo a far loro visita. Tra questi un certo Fr. H di Černá Hora, vicino Brno. Mi raccontò che un giorno nel mese di febbraio era fuggito per 40 chilometri attraversando prati e boschi, solo in maglietta e stivali, fino a Brno, gridando “Dio, Dio!”. E i boschi rispondevano “Diavolo, diavolo!”. Sosteneva di essere il Signore del mondo. Raccontai questa storia a Hrabal, che la usò in uno dei suoi libri. Fr. H. diventò d’un tratto Tonda Hulík di Krkonoš.
E cosa mi dici di Hrabal? Negli anni ‘80 sedevi insieme a lui nella birreria La tigre d’oro (U Zlatého tygra). Che impressione ti ha fatto quel grande conversatore?
Con Hrabal iniziammo a vederci dal 1974 ogni mercoledì alla birreria U Sojků (Dai Sojka) di Letná. Era il giorno degli amici di Boudník (Merhaut, Hamer, Hampl, Michalek). Quando si scoprì che tra di noi c’era un agente della polizia segreta, ci trasferimmo dirimpetto al Plzeňský dvůr (La corte di Pilsen). Il poliziotto venne anche lì. Gli amici di Boudník cominciarono a raccogliersi altrove. Io presi ad incontrare Hrabal il martedì, alla Tigre, tra i suoi vecchi amici. Sotto le piccole corna vicino alla toilette c’erano tre tavoli. Ad uno sedevano i seguaci di Zahradník, all’altro quelli di Hrabal, e al terzo la Polizia segreta. Uno di loro, un colonnello ci disse: “Ragazzi, non fate caso a noi. Noi ci occupiamo del Sud America, voi non ci interessate”. Se leggi Frolík, i servizi segreti cechi davvero preparavano una rivolta in Sud America. Anche l’insurrezione comunista in Indonesia era stata cosa loro. Al pub, Hrabal non si comportava da affabulatore. Parlava dello Slavia, la sua squadra del cuore, della birra e malediceva la situazione politica. Di donne non si parlava, Hrabal, almeno in pubblico, sembrava non esserne interessato. Anche se in gioventù aveva avuto una dopo l’altra quattro amanti, le cui foto ho visto in qualche rivista, quindi di donne scriveva soltanto. Dopo il funerale della moglie, affermò di volersi portare a letto l’urna con le ceneri. Lo zio Pipin lo teneva in una cassetta di legno per le birre – così ci disse. Non era un cinico; andai al funerale della moglie, era sconvolto e disse: “Ora cambierà la poetica.” Sono stato anche al suo funerale, e vorrei correggere un errore radicato. Si dice che i Rom suonassero la canzone “Pianto gitano.” Conosco questa canzone, ma lì non fu suonata, piuttosto risuonarono le note della canzone di un film, “Fascination”. Era un buon uomo e gli volevo bene. Era un surrealista del popolo, come lo definì Oleg Sus.
Come hai vissuto gli eventi del novembre 1989 e il periodo successivo, quando finalmente iniziarono ad essere pubblicati ufficialmente i tuoi libri?
Il novembre 1989 lo vissi con grande entusiasmo. Non credevo che il comunismo sarebbe un giorno caduto, forse che si sarebbe riformato, ma niente di più. Era come se la luna fosse caduta sulla terra – semplicemente impensabile. Naturalmente, accolsi con euforia la pubblicazione dei miei libri. Ma con la pubblicazione arrivò anche la congestione. Come su un tapis roulant, ogni settimana escono circa cinque libri superiori alla media. Secondo la mia esperienza, se il libro non vende entro una settimana, rimarrà in deposito. Nel giro di un mese, nessuno sa più che è stato pubblicato. Oggi non basta essere sopra la media, oggi devi essere sopra sopra la media! Forse questo è un bene. Non forse, sicuramente!
Di che confessione sei? Hai una tua visione del mondo?
Ai primi di febbraio del 1942, sono stato battezzato nella Chiesa cattolica di San Martino a Blansko. Quindi sono un cattolico, ma solo all’anagrafe. Verso la Chiesa e i preti ho forse lo stesso rapporto affettuoso di Jaroslav Hašek. Non ho nulla in contrario. Ho conosciuto alcuni cattolici, ed erano persone molto intelligenti. Io sono ateo … no, no, non è la parola giusta, io sono un deista, vale a dire che riconosco che il mondo è stato creato da una forza superiore, che poi si è allontanata, ha smesso di prendersene cura, e il mondo è governato da leggi proprie. Un deista simile fu, ad esempio, Voltaire o J. J. Rousseau. Ora pronuncio un’idea poco originale – Dio è grande burattinaio (che si annoia nella volta celeste), che per suo piacere gioca con noi il teatrino delle marionette. “To morón tu theu”, che è greco antico per “la follia divina”. O è un grande romanziere, scrive romanzi e fa quel che vuole dei suoi personaggi. Poiché non conosce il dolore umano, fa soffrire le persone nei suoi libri, perché ci considera letterariamente. Anche io occasionalmente ho assassinato qualcuno nei miei libri – e non mi ha fatto male!
E cosa ti dà fastidio al giorno d’oggi?
Oggigiorno mi infastidisce il concetto di “mercato” e che tutto viene convertito in denaro. Ammiro il capitalismo della Prima Repubblica, anche se sono di sinistra. È stato un capitalismo dal volto umano, non come oggi – selvaggio. Ma sai che anche nella Prima Repubblica c’era la censura? Quindi il principio è – non idealizzare nulla!
Pavel Řezníček Bohumil Hrabal
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Pubblichiamo qui alcune poesie di Pavel Řezníček, tradotte da Antono Parente.
Oggi, nelle società post-democratiche dell’Occidente parliamo una lingua balneare, l’esistenza dell’esserci è stata ridotta a «nuda vita», a vacuum, a vita vegetativa, biologica. Il cosiddetto «privato» riflette questa condizione di animalità diffusa, dove l’esserci è stato ridotto alla condizione animale, non per nulla la politica dei paesi post-democratici fa riferimento alla «pancia» non alla «testa» degli elettori. È la «pancia» quella cosa che rende evidente la degradazione sub-umana a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta. La «nuda vita» corrisponde alla «pancia» e ai suoi appetiti perfettamente comprensibili. Anche la poiesis che si fa oggi in Occidente è perfettamente commestibile perché si rivolge alla pancia. Nelle nostre società post-democratiche è la retorica che sa parlare alla «pancia», la retorica ridotta a sofisma, a «chiacchiera» a discorso da risultato. Ciò che si legge nella pittura, nel romanzo e nella poesia di oggi altro non è che «chiacchiera», discorso da risultato, «borborigmo della pancia», «ciarle» che si rivolgono al sistema simpatico e parasimpatico, al sottosuolo dell inconscio, alle esistenze ridotte a «nuda vita».
Pavel Řezníček (1942-2018)
Alla portineria dell’Hotel Kempinski
Un uomo in attesa
Inghiotte quelli che escono
Il poeta Byron ingoiava solo i diabetici
Dalla sua ultima vittima si emanò un fumo fosforescente
Byron fu immediatamente arrestato e impagliato sul posto
Questo accade alle persone che si gingilleranno vicino agli alberghi
Barcelò Kempinski Ritz e Alcron
E avranno desiderio di ingoiare i propri concittadini
Saranno impagliati vivi
Anche se cacceranno tutte le urla animalesche
Che vogliono
Solo Deus absconditus può ingoiare le persone
Oppure “La giovane guardia” del romanzo omonimo
di Alexander Fadejev
Non si può caricare la penna stilografica con il latte versato!
Penso che il criterio pertinente per interpretare un testo kitchen o come questi post-surreali di Pavel Řezníček non possa che essere il tasso di figuralità; niente affatto la destinazione letteraria del testo.
I discorsi referenziali, e tra essi il discorso scientifico, descrivono il mondo in termini tendenzialmente neutri, oggettivi, trasparenti (parola versus significato), ciò che chiamiamo discorso letterario è quel discorso che si caratterizza per caratteristiche figurali, quel discorso che altera la relazione di trasparenza, la directdness tra significante e significato. Una poesia kitchen, eminentemente poesia figurale, non deve essere letta seguendo il significato letterale, perché il suo significato è traslato, si trova in un altro luogo, in un altro piano, significa sempre qualcosa d’altro e di diverso.
Occorre ridurre il discorso kitchen come anche il discorso post-surreale di Pavel Řezníček al grado zero, portarlo da un piano letterale proposizionale ad uno figurale e polisignificazionista. Per esempio, la metamorfosi in insetto di Gregor Samsa, i suoi pensieri mentre sta a letto, oppure le parole della renna nella poesia di Pavel Řezníček, tutto ciò che ne segue è una macro figurazione che sta per qualcosa d’altro; si tratta di vicende che ci toccano a livelli transletterali, simbolici, profondi che suscitano in noi reazioni di identificazione e di repulsione… La poesia Alla portineria dell’Hotel Kempinski e stata pubblicata nel 2011 ma e stata scritta due anni prima, come ci informa il traduttore Antonio Parente, anticipando la poetry kitchen di ben 12 anni. (g.l.*
Parlò la renna
Siccome scoppiò la pazzia per la paura
della pazzia delle mucche malate
/Creutzfeld-Jacobs/
smisi di mangiare carne bovina
Partii per la Finlandia con una sostanziosa commessa:
Portare in Europa alcuni vagoni di carne di renna
La malattia delle mucche non riguarda le renne.
Arrivai in Finlandia e ne parlai
con una renna
Mi dette del lei si inchinò e asciugò la collottola
sudata con un fazzoletto a quadretti:
«Signore, lei pensa che la pazzia sia solo un getto di cenere e sangue,
o un colibrì imbrattato di bile, che nella tabacchiera
dell’eternità mette in ginocchio la memoria con un colpo
di porcellana?
No, l’anima della mucca, l’anima della renna e l’anima della pazzia è eterna, anche se
la vostra enfia lingua rossa avesse solo un occhio. La pazzia è
la pala del motore e il motore della regina Ecuba di compensato.
Dove non c’è olio di Aztechi e Maya, non c’è neanche la macuba
di Ecuba. I mammut non puliscono le bucce di uova sode
lasciate dalle renne, ma le renne sì!
E adesso vai via, burino!» mi gridò la renna all’orecchio e mi cacciò
in bocca due bistecche crude di manzo.
/Ne scrivo dall’altro mondo, oltre il fiume Lete, nelle gole di un cumulo di asfodeli,
fiori liliacei che crescono soltanto nel regno dei morti, e non son più capace di profferir parola./
(Scritto la festa di Natale, 25. XII. 2000)
Mattonificio
Quanti gabbiani
Volati via
Dalle stelle dimenticate nei mattonifici
In fila per la minestra
Le ortiche e Bukovjanová la bocciatrice
D’un tratto un rapido attraversò in volo il mattonificio
Da dove saltano fuori le stelle e il rapido nel mattonificio?
Riporre il treno nella naftalina
E lasciarlo nell’armadio
Quando verranno tempi duri nelle terre boeme
Spacchettate il rapido dalla sua carta pregiata
E lanciatelo a folle velocità
Contro la folla di cannibali
No non sono cannibali
Ma solo una torma di sarti
Che tornano dalla riunione del Movimento sindacale rivoluzionario
Gambero
Accanto a serpenti e cervelli
Accanto a cere e forchette
Che hanno torri
Un carrettaio cacodemonico
E il suo gambero con il dorso di cartone
Non è un cappello è un sottomarino
Forse è il guardabinari
Caduto sulle rotaie
Quello che appare sulle lenzuola
Una notte con i piedi bagnati
Una notte che pascola i suoi piedi
Sulle sue mani
Cosicché il cervello mangi il serpente
E quello a sua volta la stella della mucca
Quando si va facendo buio
(9. II. 2005)
Proibite loro di volare
La clavicola germina
Il guardiano delle ossa è una vedova
O Signore sottrai agli uccelli la loro facoltà
La facoltà di volare
Volano sopra di me
Come un riccio in gabbia o un brillante dietro il forno
Di sicuro eccedono gli uccelli per contenuto del proprio cervello
Di questo rompighiaccio Krasin
I cervelli
vuoti degli uccelli non meritano
Che i loro corpi futili siano premiati con le ali
E con il volo planato
Perché io non volo?
Perché o Signore hai donato questa facoltà
A qualcosa di disgustoso con piume e artigli?
O Signore proibisci loro di volare
E solleva me fino al cielo
Avvolto in piume e asfalto
Regent Street
No non sono stato io
A rompere il finestrino
Della Rolls Royce del principe Carlo e di sua moglie Camilla
A Regent Street mentre attraversavano il quartiere londinese di West End
E non ho nemmeno dato alle fiamme
L’enorme albero di Natale
A Trafalgar Square
Come sempre mi si addossa la colpa di tutto
Ma ho un alibi di ferro
In quel momento accompagnavo la dodicenne
Rapita Margherita B.
Nascosta sotto il piano del pick-up
A New York
In modo che poi i suoi organi
Venissero usati
Per l’operazione del magnate Bernard Madoff
Acrux
Con arroganza si piantò
E proclamò
Di essere un rinoceronte
Il guardablocco subito tirò i paletti
Passò il treno della Croce rossa danese
È vero che tuo zio era un lupo?
Si chiamava Nabuccodonosor
Eaveva una Croce rossa tutta sua
I lupi hanno una Croce rossa tutta loro
Un mattone
Quella finestra è come una lacrima
Una lacrima con la tuta
E una fionda sparata in un occhio
La stella più luminosa della Croce del sud
Si chiama
Acrux
E di nuovo un mattone
Portato al posto della rosetta della Legione d’onore
Attaccato al risvolto della giacca
Di Hercule Poirot
Come se fosse una fica
Semiramis
I cani fanno rotolare per strada davanti a sé
Il manichino di legno della vetrina
Dietro al vetro mimava dei movimenti lascivi nei loro confronti
Suggeriva che la loro esistenza è inutile
E le stelle? Le stelle?
Sono anche esse cani?
E com’è la loro esistenza?
Tra le scarpe
Il fantasma è shampoo
Quel rosso incandescente nel buio probabilmente sarà
Blastula morula e gastrula
Dalla scatola sbuca un venerando
E mangia la schiuma da bagno
Il carnefice giapponese misura le forze con il carnefice coreano
Con la valigetta piena di autunno vado al macello
L’angelo già in attesa del colpo di clava
Sulla nuca
Londra dimenticata tra le scarpe
La fabbrica brucia
Di meretrici
Flaubert è l’inventore dei flobert
La fellatio di Fellini
nel tunnel
che porta tra la mandria di cavalli Przewalsky
È soltanto un annaffiatoio
Queste parole categoriche non respingeranno l’entomologo
La luna di carborundum
sul tetto che scotta del lunapark
e il sole pieno di calze spiegazzate
Pavel Řezníček, Animali (Zvířata, 1993)
Due prose
La strada era innevata e Kadavý improvvisamente si sentì in pace con se stesso: la neve rasserena. Ampie e candide pianure sterminate, deserte a parte un cane eschimese. In piedi, si guarda intorno. Nessuno da nessuna parte. Nemmeno un iglù, nemmeno un eschimese. Il cane è felice, così aveva immaginato la sua vita. Kadavý si sentiva un cane eschimese, abbastanza da far penzolare la sua lingua rossa fino al gilet. Ma poiché vedeva la gente girarsi verso di lui, venne preso da un immediato imbarazzo e smise di giocare al cane eschimese. Si lasciò trasportare dalla folla fino in piazza, dove si svolge il mercato annuale. Altrove la chiamano fiera. Nevica sulle bancarelle in piazza: vi si trovano cervi con occhi vitrei, bambole con occhi di vetro, pon pon, trombette, miele, peli, sale, cenere di legni pregiati e gli stessi legni pregiati. A Kadavý piace tutto questo. Annusa la cenere dei legni pregiati, gli occhi vitrei dei cervi uccisi, le bambole con gli occhi di vetro, lecca il miele, i peli e il sale. Nessuno gli porta fretta, i negozianti dietro le bancarelle sono chiaramente felici del suo interesse. Il signor Kadavý si chiede come farli contenti. Comprerebbe un cervo, ma che farne? Come trasportarlo, dove metterlo? È vero, vive da solo, nella sua stanza da scapolo ci entrerebbe, ma come fare a portarselo via? Be’, ci penserà su, forse poi lo compra. Passando davanti alle bancarelle, espirò sulle sue mani intirizzite, guardandosi intorno con attenzione. Gli piaceva tutto. Il cielo! azzurro come la sciabola dei mauritani, le case basse come le paludi della Masuria, la neve, rossa come lo sguardo spaventato dello stufaio. Ma la neve non era rossa, e in un attimo il sangue irrorò Kadavý, il quale sbiancò notando che dal muso del cervo usciva del vapore. “È ancora vivo” pensò, “visto che gli esce il vapore di bocca, respira.” Si avvicinò per guardarlo meglio. Gli occhi vitrei del cervo suggerivano il contrario. Tuttavia, il muso esalava vapore. Nella bocca semi aperta c’era un uovo, come se Colombo l’avesse appena messo lì dritto. Era davvero dritto su entrambe le estremità quell’uovo orgoglioso, come se non dovesse nulla a nessuno. Kadavý osservava la bocca del cervo e l’uovo con crescente stupore. Come è finito quell’ovoide tra le labbra del re stecchito dei boschi? All’improvviso, il venditore emerse dal fondo con un secchio di acqua calda, e senza dire una parola la gettò sul muso del cervo. Si alzò una nuvola di vapore. Il venditore ripose il secchio, si inginocchiò, avvicinò l’uovo all’orecchio, poi lo picchiettò con un dito dicendo: “Sembra che sia già…”
“Cosa?”, chiese Kadavý attonito.
“Come cosa, è già sodo… è pronto!
“Cosa?” sospirò Kadavý.
“Perdinci, lei è proprio lento di comprendonio. L’uovo, cos’altro? Preparo le uova sode o a la coque, come voglio io, o come vuole lei. “Cosa… lei le cuoce così le uova?”, replicò incredulo Kadavý.
“E cosa c’è di strano?”, disse il venditore sbadigliando. “Qui non ho né un fornello né una stufa, quindi le cucino nella bocca del cervo.”
“Ma guarda,” si stupì Kadavý “in bocca al cervo… e non può mettere le uova in quel secchio di acqua calda, non sarebbe meglio?”
“Non c’avevo pensato,” il venditore rimase per un po’ di stucco, “ma il problema è che l’acqua la prendo alla birreria “La Girandola”, che è abbastanza lontana. Ho bisogno che l’uovo conservi una certa temperatura, e la migliore garanzia perché ciò accada è senza dubbio il muso del cervo. L’acqua calda irrora di sangue la lingua, le gengive, e così via, fa le funzioni di uno scaldatoio o di una riserva di calore, o di un thermos, se vuole. Quando ho freddo, infilo la mano nelle fauci del cervo per riscaldare per benino le mie dita congelate.”
“Mica me lo venderebbe quel cervo?” implorò Kadavý.
Il venditore si pichiettò significativamente la fronte con un dito. “Il cervo non è in vendita. Le ho detto che lo uso per riscaldarmi. A casa invece per coprirmi, come una coperta. Non penserà mica che io sia disposto a venderle la mia coperta?! “Ma deve già emanare un tanfo penetrante” Kadavý tentò di suscitare disgusto per quel cervo. “E forse è anche già putrido, perché è chiaro che, visto che lo usa per coprirsi, lo deve avere da tanto tempo!”
“Da ottobre, giovanotto,” specificò il venditore con un sorriso soddisfatto. “Da ottobre, dalla stagione di caccia, e ora siamo già a gennaio. Ma a casa mia fa talmente tanto freddo che il povero cervo non ha nemmeno il tempo di decomporsi. Ho le finestre sfondate, ma io mi copro con quel testone e russiamo tutti e due, anche se fuori fischia il vento.”
“Arrivederla,” si congedò Kadavý un po’ stordito, dirigendosi verso la bancarella successiva. Il venditore lo ignorò. Prese l’uovo dal muso del cervo, lo picchiettò sul bordo del bancone e fischiettò felice. L’uovo era davvero sodo. Dette dei buffetti gentili sul muso dell’animale, salò l’uovo, e lo mordicchiò soddisfatto. Inghiottito l’uovo, rovesciò dell’acqua calda sul cervo a mo’ di ricompensa, e si sistemò dietro il bancone. “Fazzoletti da collo, foulard!”, si alzò il suo richiamo, e le signore si fermarono da lui, palpando la merce e chiedendo il prezzo. Il cervo fumava.
cari amici lettori,
chi non comprende che nelle società neoliberali a capitalismo cognitivo si è verificato un fenomeno bizzarro: il capovolgimento di ciò che era in posizione avanzata con la postazione di chi sta in posizione arretrata, non potrà che continuare una manifattura ortopedica, religiosa, conformista. Oggi l’Avanguardia è stata scavalcata dalla Retroguardia che è diventata avanguardia come nel nastro di Moebius dove i versanti si ribaltano nel loro contrario.
Oggi fare poesia senza tener conto di questo fenomeno nuovissimo significa fare poesia acritica, corporale, poesia fisiologica come quella confezionata in miliardi di esemplari, «poesia selfie» come argutamente scrive Francesco Paolo Intini.
Andrea Cortellessa,
articolo del 22 sett. 2021 su Nuovi Argomenti
Ininfinito Zanzotto
“… quanto più la poesia ci appare superflua, ineffettuale, marginale, tanto più la scopriremo misteriosamente necessaria. Più è eccentrica più è segretamente centrale. Sarà il caso di tenere a mente questo avvertimento di Zanzotto, quando saremo tentati di strumentalizzare le sue parole riguardo ai temi più “centrali” della nostra attualità. Per esempio quando discutiamo – come è sempre più sacrosanto fare – di ecologia. Non diversamente da quanto deliberò di fare a suo tempo Primo Levi, «usando» il proprio “caso” e la sua opera «come strumento» contro il pericolo di un nuovo fascismo (così, esplicita, un’intervista del ’73), è stato Zanzotto per primo a strumentalizzarsi, banalizzarsi e ridursi a slogan: quando per esempio ha coniato l’aforisma «prima c’erano i campi di sterminio, ora c’è lo sterminio dei campi ed è la stessa logica», che è oggi il suo ‘testo’ di gran lunga più citato sul web (c’è da chiedersi quanti, fra quelli che lo ripetono, conoscano la sua problematica matrice heideggeriana). Sarà bene ricordare sempre quest’altro suo caveat (pronunciato nell’80): «Il poeta suscita, piuttosto, dubbi salutari, segnala terreni scivolosi. Alcuni pensano che la poesia possa essere una forma di intervento politico; io non lo credo, almeno nella forma diretta, immediata. Nei tempi lunghi, sì».
Nella forma diretta, immediata “interveniva” Zanzotto, certo, come intellettuale e appunto cittadino. Il suo pensiero, e l’intonazione sempre inimitabile della sua voce, sono in tal senso efficacissimi: nelle interviste e negli interventi, in particolare, dei suoi ultimi anni. La sua poesia, invece e per fortuna, è del tutto irriducibile a quest’uso diretto e “frontale”, come piace dire oggi: perché, se la si legge davvero, proprio sui temi della “natura”, dell’“ambiente” e del “paesaggio” (tre nozioni assai diverse, peraltro, l’una dall’altra) si scopre che non c’è poesia, forse, più della sua scivolosa e piena di dubbi. Nei tempi lunghi anche la sua poesia getta un allarme: non con la comunicazione immediata – rispetto alla quale si pone agli antipodi – bensì, magari, col contagio. Cioè con la trasmissione, a chi venga dopo di lui, del destino di quel particolare individuo-specie che la poesia s’è trovato a pronunciare.”
Leggi il saggio completo qui: http://www.nuoviargomenti.net/poesie/ininfinito-zanzotto/
Zanzotto ha scritto in un’epoca che vedeva il mondo ancora con gli occhiali Avanguardia Retroguardia, oggi quelle categorie si presentano vuote, vuote di significazioni e vuote di contenuto, oggi fare uso «frontale» di quelle categorie vuol dire non comprendere che nella zona di mezzo, nel guado aperto in cui ci troviamo, occorre dismettere quelle categorie e, soprattutto, il lascito testamentario di quelle categorie duopolistiche e oligarchiche.
Federico Rampini Festival nazionale di Filosofia 2021
Fermare Pechino La Grande Sfida dell’Occidente
Tentativo di
Instant poetry
Gino Rago
Roma-Circonvallazione Clodia n.21-
Marie Laure Colasson sente aria di maretta
Un gabbiano litiga con un cinghiale per una bistecca.
Madame Colasson toglie ombrello e bombetta
All’omino di Magritte
E va in Perù
Al concerto di Piero Pelù
Pavel Řezníček, oggi pro-posto da Giorgio Linguaglossa, è un grandissimo poeta e per buona parte delle sue poesie (di grande impatto immaginativo-emotivo il dialogo del poeta con una renna) sembra richiamare uno dei punti decisivi del Manifesto del Surrealismo di Breton, in special modo quando lo stesso Breton scrive: «[…] Surrealismo come automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale».
In virtù di tale “automatismo psichico” Pavel Řezníček quindi libera la mente da ogni freno inibitore, razionale, morale, stilistico, estetico, formale, eccetera, in maniera che il suo pensiero liberato dalla ragione può vagare secondo libere associazioni con immagini associative tra oggetti e soggetti in apparenza estranei fra di loro, come muovendosi tra veglia e sogno, come per esempio in questi versi:
“[…]La fellatio di Fellini
nel tunnel
che porta tra la mandria di cavalli Przewalsky”
E soprattutto in questi che seguono:
“[…]
Arrivai in Finlandia e ne parlai
con una renna
Mi dette del lei si inchinò e asciugò la collottola[…]”
Sento Pavel Řezníček assai vicino alla ricerca nostra, alla nostra poetry kitchen per l’ingresso della complessità del vivere nella quotidianità e per altro.
Di notevolissimo livello linguistico-formale sono i lavori di traduzione di Antonio Parente.
caro Gino Rago,
Ciò che distingue e separa la poetry kitchen dal post-surrealismo di Pavel Reznicek sta nel “luogo”, nella diversa ontologia modale; la poetry kitchen non agisce mediante la scrittura automatica teorizzata da Breton e seguita dagli altri surrealisti, noi perseguiamo una procedura che tenta di liberare il discorso poetico e la parola dalla gabbia del significato e del senso; noi non attribuiamo una importanza decisiva all’automatismo della scrittura, non crediamo più che sia possibile sfuggire al controllo della ratio mediante alcuna forma di automatismo, pensiamo invece che il super controllo della ratio sia indispensabile e ineliminabile, anzi può diventare un secondo motore di ricerca, se così possiamo dire, per sfuggire alla morsa del significato.
Un linguaggio non più debitore del referente e del significato stabilito e pattuito con il consorzio sociale è lo scopo della poetry kitchen. La scrittura kitchen svolge un ruolo politico di primaria importanza, perché smaschera la scrittura positivizzata e ne rende evidenti le lacune, le ambiguità positivizzate e l’ipocrisia.
La poetry kitchen nasce quando muore il linguaggio di Zanzotto.
La poesia kitchen sorge, può sorgere soltanto quando è mutata la costellazione delle categorie: Avanguardia Retroguardia, quando quel binomio-duopolio viene abbandonato. Oggi siamo fuori da quelle categorie che hanno dominato la scrittura del novecento. Essere fuori significa trovarsi in un campo largo e aperto…
Mario M. Gabriele inedito da Horcrux di prossima pubblicazione con Progetto Cultura
Violet era entrata in un’altra primavera.
Quella che lasciò
non le permise di vedere il panorama,
né di fare selfie ai ghost.
Il Pick Up offriva servizi a domicilio
con probiotici e superfood
lasciando depliants per le vie.
Nella casa di campagna
l’idropittura aveva perso colore,
così pure il cartongesso.
C’era acqua nel salotto
e sulla lettiera del gatto Miù.
Come spiegare a Jenny
che non c’è un New Deal
se si rompono i ponti?
Woody Allen non sa più dove cercare
Kerouac e Leonard Cohen.
E’ appena uscito Black Widow
con Scarlett Johansson,
rossa più di un Biopoint -Body Care.
Quello delle ombre
è un voodoo contro Lemor
per non fare incontrare Isabell
a Fort Knox.
Signor Winston,
domani chiude la casa di riposo:
“Villa Serena”.
Le conviene tornare nella mansarda
a parlare delle città in fiamme
nel Sud Dakota.
I videoclip
anticipano l’apertura della Biennale
con la pop art di Keith Haring
presentata alla Tony Shafrazi Gallery
di New York nel 1984.
Il mondo non è nostro,
ma è come se lo fosse.
Benson ci farà sapere
sui disturbi della vita.
Perché preghi? Non lo so.
Le figlie di Kromm
noleggiano taxi e risciò
per fare da filtro ai nativi del Bronx
su Nietzsche ed Heidegger.
Il buffet è vuoto.
Aspettiamo il rider.
Erano partiti dei live stream
unendo passato e presente
con l’etichetta
GOOD TIME.
La quotidianità
ha lasciato versi kitchen
in un solo Coup de Théatre.
Mi chiamo Giusy Bell,
ho 25 anni e sono bioestetista.
Di questa esperienza farò un pamphlet
ad alto rischio e basso rendimento.
C’è una coverstory su Nemat Shafik
che mette in subbuglio i vecchi patti sociali.
Giusy attaccò manifesti sui muri
con la scritta:
Dream like freedom
e fu un grande party con Banana Jhon
e gli Urban Bouquinistes.
BOOKMARK THE PERMALINK.
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One thought on “INEDITO DA HORCRUX”
Giorgio Linguaglossa says:
ottobre 11, 2021 at 8:49 am
caro Mario,
è che il nuovo quadro storico simbolico emerso dall’attacco del 11 settembre 2001 alle Twin Towers e giunto ad un epilogo con il ritiro dell’armata americana dall’Afghanistan ha comportato un cambiamento radicale della situazione geopolitica del mondo, del suo immaginario e del suo simbolico.
Il vecchio linguaggio poetico che abitava il mondo precedente alla distruzione delle Twin Towers oggi appare svuotato di significazione, appare un linguaggio plastificato, de-storicizzato, inabile alla raffigurazione del mondo di oggi. Il populismo e il sovranismo che hanno invaso il mondo occidentale (da Trump al governo Conte1 qui in Italia) ha reso evidente che il mondo di oggi richiede un nuovo linguaggio da parte degli artisti, un linguaggio da «campo aperto e largo» dove non hanno più vigore le categorie della antica letteratura, dove non siamo più in una situazione di duopolio e deuteragonistica: Avanguardia-Retroguardia, categorie di derivazione militare che appartengono ad un vecchio mondo ormai tramontato. Oggi non è più possibile poetare e scrivere e fare arte con un linguaggio «frontale», quello che usano gli autori di romanzi e di film gialli, quella cosa lì è propria della bellettristica letteraria. Un esempio evidente di questa de-letteralizzazione e de-simbolizzazione è fornito dalla tua scrittura poetica:
I videoclip
anticipano l’apertura della Biennale
con la pop art di Keith Haring
presentata alla Tony Shafrazi Gallery
di New York nel 1984.
Il mondo non è nostro,
ma è come se lo fosse.
Benson ci farà sapere
sui disturbi della vita.
Siamo finalmente usciti dal «campo stretto» della poesia di uno Zanzotto e siamo entrati in un discorso poetico da «campo aperto e largo» tipico della tua poesia, dove, è evidente: manca un «luogo» attorno a cui sviluppare il discorso poetico, non c’è più un riferimento centrale, intendo l’io plenipotenziario con le sue adiacenze e le sue pertinenze ma ci sono innumerevoli punti di vista e di orizzonti che si aprono.
E’ sempre un piacere avere da parte tua, caro Giorgio, riscontri critici sui miei testi poetici, che si scrollano dalle spalle non per fare pubblicità, ma per rendere variabile il linguaggio, senza il quale si cristallizzerebbe in una azione comunicativa da replay. Da quando sono entrato a far parte della Rivista, ho inteso che qualcosa di nuovo c’era nella comunicazione poetica rivendicata con la Nuova Ontologia Estetica, e giustificata dalle tante mediazioni ermeneutiche da parte tua, che ne hanno reso validante la proposta. Non a caso i miei 5 libri di poesie, pubblicati con le Edizioni Progetto Cultura, ne sono un reiterato apporto cumulativo del tuo progetto. Essere statici non conviene, ma neppure essere rivoluzionari nel fare poesia. Cordiali saluti e grazie. MMG
Si è concluso ieri a Pieve di Soligo il convegno internazionale “Zanzotto, un secolo. Da Pieve di Soligo al mondo” organizzato per il centenario della nascita del grande poeta pievigino.
Molti gli argomenti trattati durante gli interventi della terza sessione del convegno ospitato al Cinema Careni: Dalla tradizione all’avvenire (Stefano Dal Bianco); Zanzotto e la tradizione letteraria italiana (Francesco Zambon); Del “materno e naturale”: Petrarca “e la madre norma” (Natascia Tonelli); Fra “gioia” e “ultrasolido nulla”: sul Leopardi di Zanzotto (Massimo Natale).
Nella tavola rotonda condotta da Gilberto Lonardi sono intervenuti Lorenzo Cardilli (In lotta col sacro: Zanzotto e l’Antico Testamento); Marco Manotta (Zanzotto pastorale e gli “umili virgili” della tradizione bucolica; Michele Bordin (“Nel farsi e disfarsi”: trenodie per Pasolini); Alberto Cellotto (L’occhio a Georges Bataille).
Le conclusioni sono state affidate al filosofo Massimo Cacciari che ha sottolineato come la poesia debba andare oltre il tempo storico, attraversando tutto il dolore e poi cercando di salire.
*
Leggendo l’intervista a Pavel Řezníček ho rivissuto i miei primi anni ’70 quando studente ero a Praga a perfezionare i miei studi di filologia slava e conoscere ancora più a fondo la letteratura ceca e la sua poesia. Ricordo che incontrai tanti poeti e scrittori e artisti proprio in quei ritrovi-birrerie dove
si creava ricreandosi la vera cultura poetica e artistica. Parecchi furono gli esponenti del secondo surrealismo ceco che conobbi… artisti come Kolibal (oggi più che novantenne) e fra questi quasi tutti quelli menzionati nell’intervista. Ma conobbi anche gli ultimi esponenti di quella corrente che fu detta “poesia cattolica”, in specie Josef Kostohryz , di cui divenni amico e che mi aiutò a districarmi nella difficilee complessa poesia del poeta simbolista Otokar Brezina (1868-1929): oggetto della mia tesi.
——-
Dunque che dire della poesia di Pavel Řezníček?
Essa come tutta la poesia del dopo guerra è infarcita di citazioni e descrizioni di varia natura con qua e là sentimentalismi e lirismi e innanzitutto descrizioni di vario genere, compreso il paesaggismo di maniera… il ritmo del verso e la sua intonazionie sono rotti e frammentati sia dal ricordo di un passato prossimo e dal presente che non riescono bene a decifrare e (de)codificare… si aggiungono gli ultimi residui di un secondo surrealismo spicciolo anche se ben organizzato in forme e contenuti ben collaudati… gli spostamenti geografici improvvisi che si celano a malapena tra i versi di tutti i poeti mi fanno ricordare quelli del poetismo esotico, come quello di Kostantin Biebl che scrisse del suo viaggio a Giava.
Certo la poesia ne risente pesantemente della poesia passata degli anni ’20 e 30 e d’altra parte : a quale poesia riferirsi oltre alla propria e a quella straniera? la poesia degli anni ’50 e ’60’ è chiusa fra le mura domestiche con escursioni esterne nelle taverne.
Con la poesia e la scrittura in prosa di Řezníček si assiste all’ultimo quadro di una commedia poetica che da tempo ha fatto il suo tempo! E nonostante eventi tragici e non (rivoluzione di velluto)…
ma Řezníček non è tutto: vi sono poeti come Ladislav Novák (morto nel 1999) , Jiří Kolář, Zbynĕk Hejda, e specie Kateřina Rudčenková (e questi ultimi due, da me tradotti ,hanno il mio plauso incondizionato).
————————–
A. M. Ripellino, morto nell’aprile del 1978 , aveva intuito già nel 1950,che dopo la presenza dei grandi esponenti della poesia ceca – Nezval, Holan, Seifert, Josef Hora e altri di pari imporanza – questa avrebbe iniziato una altra direzione, un altro percorso con tematiche completamente lontane e differenti che certo non avrebbero ripetuto i trionfi del poetismpo e del primo surrealismo… perchè intanto la situazione politica – il percorso sovietico -strozzava qualsiasi velleità di ripresa…
e allora la poesia si chiude in se ripetendo vecchi e usati e disusati strumenti…
…quando il comunismo cade – e sono passati già 30 anni- la poesia ceca ancora non si è ripresa del tutto, anzi testimonia tutto l’affanno di questa ripresa… e ripeto la nuova e speranzosa poesia ha in Kateřina Rudčenková una valida presenza europea, poiché riprende talentuosamente le poetiche dei grandi con nuovo linguaggio stilistico.
antonio sagredo
Un’ironia divertente e travolgente: anche nella prosa. Come non condividere l’affermazione che tutto oggi viene mercificato? Le indulgenze hanno fatto scuola.
Nel Manuale di letteratura italiana Alberto Casadei e Marco Santagata scrivono a proposito del secondo Montale:
« nel ’71 [Montale] passa a una lirica diversa
= Satura:
dal latino Satura lanx (piatto pieno) che allude alla varietà di argomenti trattati.-poesia comica, ironica = minore-allargamento tematico: aspetti più disparati della società contemporanea e della banale quotidianità borghese.- il poeta ama soffermarsi sul rovesciamento parodico dei motivi tragici di un tempo, a cominciare dalle rivelazioni venute con le epifanie e dal colloquio coi morti.- la caduta di tono è tale che gran parte delle nuove liriche assomigliano ad articoli in versi, a filastrocche, a epigrammi beffardi.- uso dei versi meno controllato e stilisticamente più basso (quasi più vicino alla prosa)
La poetica dell’ultimo Montale si basa sulla convinzione dell’impossibilità di un lirismo sublime al tempo della società dei consumi: lo stile tragico ha perso il suo pubblico, i suoi referenti, la sua ragion d’essere. [non troviamo più l’ethos, la carica morale del primo Montale, sempre
pronto a distinguere il bene dal male: la società di massa ha annullato le differenze,sprofondando ogni cosa in un composto fecale.]
I diari
=> poesie dove forma e contenuti di Satura vengono riproposti in forme ulteriormente radicalizzate
scelta di disporre i componimenti nel loro mero ordine cronologico, rifiuto di preoccupazioni strutturali(sceglie il diario), il mondo come catalogo di merci ridicole che merita solo frecciate satiriche».
Zanzotto debutta nel ’51 con le poesie di
Dietro il paesaggio, segnate da un linguaggio prezioso e difficile,un codice vicino a quello ermetico (vs periodo a lui attuale di poesia realistica e immediata) => la vicinanza all’Ermetismo è anche ideologica: viene certamente dalla tradizione della poesia pura (daMallarmé soprattutto) l’idea della inautenticità e insignificanza della lingua della comunicazione ordinaria. (L’ideale di un linguaggio poetico qualitativamente diverso dal linguaggio usuale rende Z. insensibile alla moda postbellica dell’abbassamento prosastico e della poesia civile. )
Proprio negli anni in cui il Neorealismo si propone di usare in poesia le parole comuni e di raccontare realisticamente le vicende collettive, Z. opera una rimozione della realtà storica,privilegia le metafore, gli emblemi colti e difficili. => la fiducia nella saldezza del lessico lirico tradizionale è più precaria di quello che sembra: in questi testi è evidente una sottile nevrosi dell’io lirico, che sente impossibile una piena adesione all’idillio, naturale e letterario insieme. (Come dice il titolo, chi scrive tende a ritrarsi dietro il paesaggio in un rifugio ideale, destinato a infrangersi negli anni seguenti)-
Vocativo:
opera matura, incentrata sul tentativo di mettere in comunicazione io e mondo, fin qui separati dallo schermo della rappresentazione letteraria. C’è un soggetto lirico preciso anche se in crisi (disperso/presente) e il delinearsi di un paesaggio sul cui sfondo la storia affiora, anche se solo a tratti è tuttavia sul piano della forma che vanno registrate le novità più interessanti: Z. ripropone il codice petrarchesco e leopardiano del debutto, rendendolo anzi ancora più solenne di prima.-
IX Ecloghe:
componimenti costruiti sui modelli stravolti delle bucoliche virgiliane e del poemetto idillico-pastorale. La novità della raccolta è una più ampia inclusione di fatti e parole del mondo contemporaneo, che si giova della presenza di personaggi letterari (gli interlocutori delle varie ecloghe): si intrecciano voci letterarie segnate da un lessico iperletterario, a volte inclini all’uso di lingue morte come greco e latino, e voci gergali, quotidiane.Numerose le citazioni tratte dalla Bibbia a Orazio, da Dante a Leopardi, fino alle parole delle canzonette di consumo degli anni ’60, alle immagini pubblicitarie e televisive => risultato:
rappresentazione del cosmo lirica, scientifica, filosofica.-
La Beltà:
siamo nel ’68. La raccolta segna il passo decisivo: il protagonista della poesia è il linguaggio stesso, nel suo formarsi. La ricerca di Z. si orienta infatti verso un’idea di versificazione come flusso e regressione linguistica. => La Beltà muove dall’elaborazione di due importanti modelli scientifici: > principio di arbitrarietà del segno, fissato da De Saussure che vede nel linguaggio un sistema autonomo>idea dello psicanalista Lacan di un’egemonia del significante sul significato (applicazione del principio di De Saussure)=> Z. sceglie di privilegiare il lavoro del significante come strumento creatore di poesia: ad essere privilegiate sono le esperienze linguisticamente estreme, ricercate nel discorso del sogno o della follia, nel gioco di parole o nell’universo infantile (in quegli ambiti regressivi e creativi dove la parola più si avvicina alle profondità dell’Essere.)
Di qui il ricorso di alcune liriche della Beltà al petèl, termine dialettale che indica quel balbettio, idealmente vicino alla struttura originaria del linguaggio, con cui le madri si rivolgono ai bambini per imitarne la parlata. => tensione verso la dimensione pregrammaticale della lingua (influenza di pascoli=> onomatopea)-l’apparato retorico dipende dal tentativo di sollecitare il più radicale dei plurilinguismi – tecniche di montaggio, citazioni, figure retoriche (allitterazione, doppio senso, scomposizione verbale, figura di matrice psicanalitica come l’accostamento di termini fonicamente affini=>derivano effetti di inventività lessicale e gioco etimologico spesso suggestivi.)
Scrivevo a proposito di Zanzotto nel mio libro Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia contemporanea del 2013:
In Italia, Andrea Zanzotto è la migliore esemplificazione della cultura
dello sperimentalismo che assume, ipercriticamente, come un dato inconcusso il presupposto di quella cultura: la irrazionalità del linguaggio non relazionale che punta sul significante staccato dalla significazione e dalla cosa significata. La poesia di Camillo Pennati tenterà una via di uscita mediante l’aggancio alla lingua relazionale-referenziale per approdare ad un linguaggio poeticoaperto alla osmosi e alla diplopia vocabologica.
Il discorso poetico zanzottiano viene caricato di tutti i sensi plurimi, iperlaicizza la parola «numinosa» (nell’accezione semantica del termine), privilegiala delimitazione della connotazione al denotatum, alla dis-locazione, allo spostamento, alla dispersione dei segni nella segnaletica universale del «paesaggio»: tutta la poesia zanzottiana da Dietro il paesaggio del 1951 passando per La beltà del 1968 fino a Sovrimpressioni del 2007, insegue l’utopia del significante e del «paesaggio» intonso, esentato dalle funeste conseguenze del Moderno
non sono d’accordo con il giudizio liquidatorio dato da Antonio Sagredo della poesia di Reznicek, trovo la resa in italiano delle poesie del poeta ceco fatta dal traduttore Antonio Parente semplicemente eccellente, sembrano poesia kitchen scritte direttamente in italiano.
La voce del padrone attraverso il telefono in telecomunicazione. Sermoni in scatola.
Poi quando la striatura e azzurra la misura ha il colmo del tricolore. Hai visto?
Quale strumento stanno affinando con le castagne
appena appena tolto dal fuoco?
Nella misura del Covid una piccola percentuale di verità. Siamo assuefatti anche al green pass.
Storia di un Trump da una Gabanelli,
la fine della storia ha una data certa.
Grazie Ombra.
Signora Colasson “non sono d’accordo con il giudizio liquidatorio”…
il mio giudizio non è tale signora Colasson.
Ho davanti a me tutta la poesia ceca del secolo trascorso e so quello che dico e che lei non può dire; e non solo la poesia ceca.
E poi non ho dato alcun giudizio sul valore della traduzione fatta dal Parente.
Poeti che liquidano altri poeti ci son sempre stati perchè è meglio che sia così: il critico letterario che critica la poesia è un falso, come dire una crosta in pittura! – dovrebbe criticare invecce le lettere, non la Poesia di cui non comprende nulla, perchè non possiede il “duende”, che è solo prerogativa del Poeta.
adieu
as
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