Lucio Mayoor Tosi, Composizione in polittico
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Ascoltiamo le parole di un maestro della musica contemporanea, Salvatore Sciarrino, sulla «composizione»
«…è come se io partissi a rovescio, immaginassi il punto di arrivo e poi studiassi come arrivarci, e questo secondo me rovescia un po’ il modo di procedere della composizione così come la conosco io attraverso la scuola… per me l’immaginazione sonora è la prima cosa, il che non vuol dire soltanto immaginare un suono ma immaginare il modo verso il quale tu vai e dentro il quale tu vuoi visitare e che contiene delle cose che ti attirano e ti danno la voglia di prenderle con te e mostrarle agli altri… se non avviene dentro di noi uno sforzo molto forte di superare, non gli ostacoli, ma proprio di bucare i muri… aprire porte dove non ci sono porte, noi non otteniamo nessun risultato. Un pezzo di musica in più o in meno non ci serve, noi abbiamo bisogno di cose che ci sorprendono, che ci rapiscano e ci trasformino. Quindi, la prima fase ideativa, è decidere in quale parte dell’universo noi ci stiamo recando… dentro quale parte ci vogliamo avventurare, questa è la prima cosa, il resto è già scontato, perché se c’è la immaginazione di una nuova opera, il resto riguarda più i dettagli o come realizzarla».
Giorgio Agamben.
Che cosa resta?
1.
«Ho una tale sfiducia nel futuro, che faccio progetti solo per il passato». Questa frase di Flaiano – uno scrittore le cui battute vanno prese estremamente sul serio – contiene una verità su cui vale la pena di riflettere. Il futuro, come la crisi, è infatti oggi uno dei principali e più efficaci dispositivi del potere. Che esso venga agitato come un minaccioso spauracchio (impoverimento e catastrofi ecologiche) o come un radioso avvenire (come dallo stucchevole progressismo), si tratta in ogni caso di far passare l’idea che noi dobbiamo orientare le nostre azioni e i nostri pensieri unicamente su di esso. Che dobbiamo, cioè, lasciare da parte il passato, che non si può cambiare ed è quindi inutile – o tutt’al più da conservare in un museo – e, quanto al presente, interessarcene solo nella misura in cui serve a preparare il futuro. Nulla di più falso: la sola cosa che possediamo e possiamo conoscere con qualche certezza è il passato mentre il presente è per definizione difficile da afferrare e il futuro, che non esiste, può essere inventato di sana pianta da qualsiasi ciarlatano. Diffidate, tanto nella vita privata che nella sfera pubblica, di chi vi offre un futuro: costui sta quasi sempre cercando di intrappolarvi o di raggirarvi. «Non permetterò mai all’ombra del futuro» ha scritto Ivan Illich «di posarsi sui concetti attraverso cui cerco di pensare ciò che è e ciò che è stato». E Benjamin ha osservato che nel ricordo (che è qualcosa di diverso dalla memoria come immobile archivio) noi agiamo in realtà sul passato, lo rendiamo in qualche modo nuovamente possibile. Flaiano aveva allora ragione suggerendoci di fare progetti sul passato. Solo un’indagine archeologica sul passato può permetterci di accedere al presente, mentre uno sguardo rivolto unicamente al futuro ci espropria, col nostro passato, anche del presente.
3.
Nicola Chiaromonte ha scritto una volta che la domanda essenziale quando consideriamo la nostra vita non è che cosa abbiamo avuto o non avuto, ma che cosa resta di essa (corsivo del redattore). Che cosa resta di una vita – ma anche e ancor prima: che cosa resta del nostro mondo, che cosa resta dell’uomo, della poesia, dell’arte, della religione, della politica, oggi che tutto quanto eravamo abituati a associare a queste realtà così urgenti sta scomparendo o comunque trasformandosi fino a diventare irriconoscibile? All’intervistatore che le chiedeva «che cosa resta per lei della Germania in cui è nata e cresciuta?», Hannah Arendt rispose «resta la lingua». Ma che cos’è una lingua come resto, una lingua che sopravvive al mondo di cui era espressione? E che cosa ci resta, quando ci resta soltanto la lingua? Una lingua che sembra non avere più nulla da dire e che, tuttavia, ostinatamente resta e resiste e da cui non possiamo separarci? Vorrei rispondere: è la poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative? (corsivo del redattore). Ricordo che Ingeborg Bachmann mi disse una volta che non era capace di andare dal macellaio e chiedergli: «mi dia un chilo di fettine». Non credo che volesse dire che la lingua della poesia è una lingua più pura, che si trova al di là della lingua che usiamo dal macellaio o per gli altri usi quotidiani. Credo piuttosto che la lingua della poesia sia l’indistruttibile che resta e resiste a ogni manipolazione e a ogni corruzione, la lingua che resta anche dopo l’uso che ne facciamo negli SMS e nei tweet, la lingua che può essere infinitamente distrutta e tuttavia rimane, così come qualcuno ha scritto che l’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto. Questa lingua che resta, questa lingua della poesia – che è anche, io credo, la lingua della filosofia – ha a che fare con ciò che, nella lingua, non dice, ma chiama. Cioè, con il nome. La poesia e il pensiero attraversano la lingua in direzione del nome, di quell’elemento della lingua che non discorre e non informa, che non dice qualcosa di qualcosa, ma nomina e chiama. Un breve testo che Italo Calvino usava dedicare agli amici come il suo «testamento spirituale» si chiude con una serie di frasi mozze e quasi ansimanti: «tema della memoria – memoria perduta – il conservare e il perdere ciò che si è perduto – ciò che non si è avuto – ciò che si è avuto in ritardo – ciò che ci portiamo dietro – ciò che non ci appartiene…». Io credo che la lingua della poesia, la lingua che resta e chiama, chiama proprio ciò che si perde. Voi sapete che, tanto nella vita individuale che in quella collettiva, la massa delle cose che si perdono, lo scialo degli infimi, impercettibili eventi che ogni giorno dimentichiamo è così sterminato che nessun archivio e nessuna memoria potrebbero contenerli. Quello che resta, quella parte della lingua e della vita che salviamo dalla rovina ha senso solo se ha intimamente a che fare col perduto, se sta in qualche modo per esso, se lo chiama per nome e risponde in suo nome. La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde. Perché ciò che si perde è di Dio.1
Queste note riproducono parte dell’intervento al Salone del libro di Torino il 20 maggio 2017.
(Giorgio Agamben, 13 giugno 2017)
1 Id., «Che cosa resta?», in http://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-che-cosa-resta [dicembre 2018]
Mario M. Gabriele
Le misture, tra parole semplici e additivi surreali, rivelano un disordine psicogeno. L’ES è in rotta con la sfera volitiva. C’è chi predilige forme e oggetti di varia natura, tra cui si annotano materassi, letti, tavoli, armadi, cassettiere, scaffali, divani, poltrone, sedie, carrozzine, girelli, culle, televisori, videoregistratori, lavatrici, frigoriferi, elettrodomestici da incasso, condizionatori, stufe e mascherine Covid, assieme a materiale chimico ed edile, come amianto, colori, vernici, bombole di gas e ossigeno, provette con idrogeno, elio, litio, boro, azoto, antimonio, argon, bismuto, cobalto, cripto, per creare un polittico? Una pala sacra? O una scuola primaria per poeti del futuro? Ciò significa mettere in scena figure e oggetti apocrifi nel tentativo di creare un camaleontismo linguistico di elevazione così bassa in cui il lettore si perde nel gioco smaliziato di significati e feuilleton. E chi lo pratica non abiura i propri solipsismi, e grovigli letterari e scientifici, che in molti casi si autodistruggono da soli, bloccando la poesia dalla sua funzione d’Arte. Svuota poesia? Sì! Ma anche svuota cantina!
Quattro poetry kitchen di Gino Rago
Bubù de Montparnasse fa il gigolò
con l’amante di Jean-Luc Nancy
Domani torno a Paris avec Madame Batignolles
aspettami alle Tuileries
scrive madame Fru-frù all’ispettore Poirot
bisogna arrestare il poeta Iacopò Ricciardì
e tutti gli altri della kitsch poetry
*
Sul notturno Roma-Paris
Ne pas se pencher au dehors
dice Madame Colasson all’uccello Pettì
Un talebano dice Ohibò al pappagallo Totò
e fa la pipì sulla moquette del wagon-lit
Si salvi chi può dice da un oblò
il Presidente Biden al nano Cocò
*
A Parigi, sotto la finestra dell’atelier
di Marie Laure Colasson
in Rue du Lapin, près du marché aux puces,
un tenente de ll’Armée Française,
Edition par Lucien Rousselot,
arresta la danseuse étoile de l’Opéra.
*
Giorgio De Chirico guida il taxì,
Marcel Duchamp espone l’orinatoio a Trinità dei Monti
Ennio Flaiano ci fa la pipì,
prende al volo un colibrì
Lucio Mayoor Tosì entra nel “Notturno” di Madame Colasson
e invita l’uccello Pettì al Caffè de Paris
Google park
di Lucio Mayoor Tosi
Studenti all’uscita di scuola. Indossano grembiuli azzurri,
colletto bianco e sono di diverse altezze.
Tutti a vedere le acrobazie dell’aeroplanino rosso
dentro l’antebus del rifacimento televisivo.
“TV color 2020”. Buffi gelati, che si sbucciano all’aria.
Xi Jinping fa sparire monetine di simil oro in bocca.
Ride. Google park s’infetta di granellini e musica gialla,
che cambia colore quando finisce.
Quando meno te l’aspetti, se li metti in tasca
alcuni riprendono a suonare.
Il viceministro della scuola spiega come fosse possibile,
nel 1990, creare montaggi dove qualcuno appare a parla.
Con quelle giacche buffe di traverso.
Instant poetry – 12
È arrivato Hopper, il pittore in ombra. Prepararsi
a una serata di silenzio.
Tempo per insiemi a-metrici, casuali ma periodici.
Sulla tastiera manca il tasto di contatto.
Anche quello di arrivo.
Nota: questi tre Instant sono stati scritti di seguito, uno dopo l’altro, come in unica composizione. Ma che poesia è se manca di discorso… se manca del tutto anche la composizione? L’essere fenomenico è di per sé un fatto poetico, o serve dell’altro?
Eppure, la poesia futura io la immagino così. Fuori dal discorso, che è di tutti.
Non se ne potrà fare a meno.
Buon Giorno. Buongiorno a lei. A che ora il Latte?
Questo per chi legge. Altrimenti:
Domani porteranno le mucche al riposo alpino.
Non dimentichi l’accappatoio. W l’Alessandria sporting
club. / E dentro ti aspetta il gatto, il frigorifero, due passi
dove manca l’auricolare. Asparagi. L’Alighieri in giardino.
Osho. Batman. Il discorso, il discorso.
Instant poetry – 13
Drugs, la rosa alpina. Sei coriandoli.
Da Beethoven a Sinatra. Per far contenti
i bambini.
Francesco Paolo Intini
Brasileira
Ci vorrebbe un’orazione
Ma qui abbiamo solo versi di Marenco
Mon Dieu, quando ci sarai tu
senza contrasto nella Via Lattea.
Facciamo che si tratta di terrore?
Avanza un ramarro su uno dei poli.
E dunque si sta nudi al momento giusto.
L’elevazione a portata di mano
racconta un thè al Gadolinio.
Lanciarsi da un’ordinata all’altra, passione domenicale.
Così viaggiammo in compagnia di Dante:
Ci sono le istruzioni sul tiro dei Talibani
Ma poi è il tappeto di anni che fa giungla.
Dopo tutto si tratta di un primate -il figlio attaccato al pelo-
alle prese con un dentifricio.
I panzer che riavvolgono il primo settembre ‘39
Sono la pietà di Michelangelo nella schiuma da barba.
Vedi i goal di Rossi nella rete del Brazil?
Pertini dirige l’Inno alla Gioia
E nei particolari il nervo vago
Assale Laocoonte, re di Salò.
Trovare l’accordo finale sulle coordinate.
Un magro versare ascisse nelle casse dei G7.
Grumi di tempeste magnetiche e palla al centro.
Il tempo di saltare su una mina e raccontare il trionfo in una scheggia.
Tra talamo e ipotalamo sguazza Perez
C’è una coppa da impiccare.
Che sorga con i raggi a spighe su un ripiano dell’ipercoop.
Alla risoluzione l’ultima parola.
Alta vuol dire che Toro Seduto sarà presidente degli States
E anche l’anidride carbonica avrà un ruolo nel parlamento.
Si avvicina il branco. La mascella più potente
La tenacia in un ghigno d’ alfa. Una pacca sulle spalle di Pelè.
Re, regina e discendenza. Così semplice la gravità.
Tutt’attorno una dentiera a stelle e strisce.
*
La poesia di Francesco Paolo intini è in diretta rotta di collisione contro il muro del rumore delle parole, eretto dall’homo sapiens per chissà quale maledizione o veredizione… È che immessi in questa condizione ontologica il poeta di oggi non ha altro scampo che inoltrarsi oltre quel muro del rumore delle parole per provare a vedere cosa c’è là dietro… (g.l.)
L’abbiamo bevuta l’onda chiara
alla salute della città intera.
I passanti fischiavano
da un lato all’altro del boulevard
per sentirsi meno pelle e ossa.
Bastava il sole
cibo a sazietà
tutti ai suoi pedi.
Ci consegnarono le chiavi della città
rispondevamo cosa?
Insistevano
una mail dopo l’altra.
Tiziana Antonilli
di Tiziana Antonilli
di Mauro Pierno
di Lucio Mayoor Tosi
Leggo sempre con molto interesse tutto quello che mi invii e sempre più mi accordo quanto sia rimasta indietro… Mi ritengo “passato” statico e irremovibile! Porta pazienza, sono comunque una persona che ti stima molto, e di più! Ciao Giorgio, un caro abbraccio Baci Luigina
Forse la peculiarità del linguaggio poetico è quella di nominare le cose.
Il nominare le cose non distribuisce nomi, non applica parole, ma chiama all’interno della parola stessa. Ecco il “tempo interno” delle parole abitate dal poeta. Di fronte all’orologio, alcuni poeti hanno vegliato e si sono messi a osservare le lancette come misuratrici di tempo; altri, vegliano a ascoltano il ticchettio dello stesso orologio (ecco il tempo interno secondo Prygogine).
Ma cosa è il “nominare” per il poeta della NOE?
E’ qualcosa di simile a un chiamare ciò che nella sua lontananza chiama lo stesso poeta, è forse anche un rimanere accanto a ciò che per lungo tempo è stato posto lontano.
Il nominare le cose è uno dei compiti della poesia ma non nel senso di dare un nome nuovo o nel senso di ri-nominare le cose, bensì probabilmente nel senso di portarle o richiamare alla vicinanza del poeta ciò che merita di stargli accanto.
Heidegger, sul tema centrale del poeta della NOE che è poi il rapporto tra essere e linguaggio, scrive:
«È la parola che conferisce la presenza, cioè l’essere, l’essere nel quale qualcosa si manifesta come essente […].
Il poeta deve rinunciare alla pretesa di che gli venga […] fornito il nome per ciò che egli ha posto come il realmente essente».
Il che significa, come abbiamo affermato con lo stesso Giorgio Linguaglossa nei numerosi “Editoriali” per il Trimestrale Il Mangiaparole, che la poesia non prende mai il linguaggio come un materiale già presente, ma è invece la poesia, la poesia stessa a rendere possibile il linguaggio.
M. Heidegger scrive: «La la poesia è il linguaggio originario di un popolo storico. È quindi viceversa l’essenza del linguaggio che va compresa a partire dall’essenza della poesia».
A proposito riporto quanto scrive Franco Ferrant
Nel primo racconto dell’opera di Borges, Finzioni (Tlön, Uqbar, Orbis Tertius) si rievoca un pianeta immaginario Tlön, dove accadono strane cose, e i cui abitanti hanno una visione del mondo diversa dalla nostra. La loro lingua non prevede sostantivi, ma solo verbi impersonali ed aggettivi. Proviamo a pensare come loro. Il nostro mondo di “cose” si squaglia davanti ai nostri occhi. È solo una successione fluida di stati impermanenti. percepiti nel loro mutare incessante. C’è la qualità ma non c’è soggetto e non c’è oggetto. E, a rigore, non c’è neanche il predicato. che, nella sua natura di participio passato, sarebbe predicazione di nulla. Un filosofo di Tlön ipotizza che vi sia un solo soggetto universale e che i singoli esseri non siano altro che maschere od organi, frammenti di coscienza di quest’unico soggetto. Gli abitanti di Tlön hanno potenziato a tal punto le loro facoltà percettive da combinare nelle loro espressioni letterarie termini di sfere sensoriali diverse in simultaneità sinestesiche. A Tlön è sbarrata la strada che porta da causa ad effetto, perché la percezione di due eventi non può mai essere correlata come consequenziale, in quanto non è garantito il perdurare nel tempo della spazialità. Ogni evento trova il fondamento in se stesso e nella percezione che lo registra. Tentare di fermarlo con un atto di nominazione “id est” è gia falsificarlo. Nella geometria di Tlon un corpo che si sposta modifica la forma dello spazio che lo contiene. Una delle scuole di pensiero di Tlon si spinge fino a negare il tempo.
Nel racconto di La ricerca di Almotasim
compare un tema che è presente in altri luoghi di Borges come, ad esempio, in una poesia-metafora sul gioco degli scacchi. E che si adatta perfettamente all’ossessione umana della ricerca dell’Origine. Lo era nella ricerca della Causa Prima. Lo è oggi nel mito scientifico contemporaneo del Big Bang e della singolarità originaria.Riassumendo il concetto: i pezzi degli scacchi non sanno che il loro destino dipende dalle scelte del giocatore ed è regolato da un rigore adamantino che non possono controllare; ma anche il giocatore è prigioniero della sua scacchiera di notti e giorni e qualcuno dietro a lui manovra il suo destino, come lui quello dei suoi pezzi. E forse dietro a questo manovratore superiore c’è un altro dio che manovra pure lui. E così via, all’infinito.
Il terzo racconto (Pierre Menard, autore del Don Chisciotte) narra di unmediocre poligrafo francese che tocca la genialità solo in un suo incompiuto lavorosegreto, la scrittura di due capitoli del Don Chisciotte. Non si tratta di una versionemoderna dell’opera, ma della scrittura vera e propria di un frammento del don Chisciotte, che non differisce in nulla dal testo di Cervantes. Il paradosso consistenella convinzione che quel testo scritto, coincidente parola per parola, riga per riga, con quello di Cervantes, sia di fatto diverso dall’originale, e si presti a una diversa indagine ermeneutica, in quanto scritto di un romanziere francese degli anni trenta del ventesimo secolo.
L’ultimo racconto della prima parte si intitola Il giardino dei sentieri che sibiforcano ed anticipa, come invenzione letteraria, un tema che è di attualità neldibattito scientifico contemporaneo della meccanica quantistica. Nel racconto sisviluppa un’altra delle ossessioni ricorrenti di Borges, quella del labirinto. Stavolta il labirinto, immaginato come immenso tentacolare percorso, dispiegato in vasti territori, si rivela invece come un labirinto in miniatura, non un labirinto fisico, maun labirinto di simboli e coincide con un romanzo. E il suo autore lo lasciò agli eredi con una dedica “Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano”. E il libro appare come un racconto infinito. La primai potesi, per spiegare la sua infinità, è che si tratti di un racconto ciclico che in qualche modo ritorni continuamente al suo inizio, come certe filastrocche infantili. Ma la natura del libro è, invece, diversa. Citando il testo: “le parole ‘ai diversi futuri (non a tutti)’ mi suggerirono l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio… in tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative, ci si decide per una e si eliminano tutte le altre… in quella invece… ci si decide simultaneamente per tutte. Si creano così diversi futuri, diversi tempi, chea loro volta proliferano e si biforcano ”Compare in queste righe il motivo delle “sliding doors”, quegli svincoli deldestino che possono, attimo dopo attimo, modificare in modo decisivo le nostrevite e il nostro futuro. Ma in questo caso nessuna direzione viene esclusa e tutte le biforcazioni vengono percorse; ad ogni bivio il racconto continua autonomo inentrambe le direzioni, generando storie diverse e diversi infiniti universi. Perquanto possa sembrar strano vi è una seria ipotesi scientifica che sposa questa visione. È la teoria de multiverso o degli universi paralleli, accettata da una parte non trascurabile della comunità scientifica. Secondo uno di questi modelli ogni universo si dividerebbe in una serie di nuovi universi, ogni volta che viene effettuata una misurazione quantistica.
https://www.academia.edu/42719098/Finzioni_eccezionali_Agamben_il_coronavirus_e_luomo_della_strada_?email_work_card=title
LA VENTUNESIMA STELLA
La ventunesima stella ha fianchi di latte
l’aspettano tutti
sui ponti sui tetti
I piedi del letto
sporgono su trapezi intatti
tracce di nuvole distrutte
Baratta libri e ritratti
con un gilet a quadretti
la posidonia che insegue la notte
Per arrivare in vetta
Cappuccetto Rosso stipula un contratto
con uno sciame di cavallette
In città bambini moltiplicano per sette
la lunga fila di linee rette
che sposano le palafitte
Il vinaio di Barletta
ha tulipani sul petto
e tasche colme di confetti
Nel cortile piove a dirotto
danzano scatenati folletti
gli occhi di un gatto
FORMIDABILE
Formidabile è il laccio delle scarpe
il mare ha cambiato spiaggia
starnutisce l’ala nord del castello
Sei in ritardo per la partenza
la curva degli alberi
fa esplodere le ringhiere
Evade un vento poliedrico
Gianna aveva un coccodrillo ed un dottore *
tacciono gamberi e ortiche
Dorme poco l’inchiostro simpatico
la polvere del selvaggio West
si è posata tutta sui motori ibridi
il canarino inala un analcolico
Troppe sere attorcigliate
per arrivare dove vuoi tu
intorno al dorso della mano
navigano alte ciminiere
Svolazzi di Pentotal
sul cornicione del Pantheon
migrano nelle balere. Nel vulcano
e nessuno ne sa più nulla
* Gianna ( cit. Rino Gaetano,1978)
Che cosa resta?
Restano solo i resti.
*
Madame Colasson scrive un biglietto a Madame Lavoisier
Madame respingo le sue insinuazioni
Il mio atelier di Roma
Circonvallazione Clodia n. 21
N’a pas de secret
Ne vend rien
N’est soumis à aucune autorité exterieure
Fait de la recherche pure
N’a de rapport ni avec le centales nucléaires
Ni avec Armées
Scrive Marie Laure Colasson a Madame Lavoisier
Madame Colasson la invito a Paris
Chez boulangerie La Flûte Gana
193 Rue des Pyrénées
*
E aggiungerei un’altra confessione, a quelle precedenti:
sulla mia scrittura in stile kitchen avverto su ogni strofa sempre il rischio del monolinguismo e del monostilismo…
caro Gino,
un augurio che faccio a me stesso e a tutti: È indispensabile spezzare, frantumare il monolinguismo e lo Stile Unico. Una scappatoia dal senso e dal significato lo possono dare le sliding doors… Aprire una porta dietro l’altra, aprire una parentesi dietro l’altra, aprire una finestra dietro l’altra… – senza mai richiuderle. Altrimenti si ricade nel monolinguismo e nel mono stile.
Per esempio: il pezzo di Salvatore Sciarrino Introduzione all’oscuro postato sopra è ancora allineato ad un mono stile di matrice neosperimentale.
Un nuovo tentativo di poesia kitchen
di Gino Rago
*
Madame venga a Paris pour du jambon
Dans la baguette
Dice a Marie Laure Colasson
Lo chef Gustave Lafayette
Non merci
Je préfère vino cotto e omelette
caro Gino,
hai colto nel segno, adoro deglutire i sandwich al jambon con la baguette, di solito mi reco, in compagnia del Mago Woland nel bistrot sito in rue des aubergines presso le Batignolles.
Da francese amo la légereté, Un baiser et un vol de piegeon.
Merci.
Ecco un mio esempio di procedura a sliding doors:
Il segnale GW190521
Un ippopotamo saltò sul deltaplano che era in volo
verso il pianeta azzurro
K. prese la funivia del San Gottardo,
si sporse dal finestrino e disse:
«Il segnale GW190521 è stato generato da una enorme collisione di due o tre buchi neri 66 e 85 volte più densi del nostro sole, si sono avvinghiati l’uno sull’altro e hanno prodotto un buco nero 142 volte più denso del nostro sole»
Dopodiché K. si sistemò alla meglio sulla seggiovia
ingoiò una pastiglia di Maalox e accese un sigaro italiano.
«La catarifrangenza del nulla è il nostro cibo quotidiano»,
gli rispose Z.
dalla carlinga del motopattino
«È come passare un dito attraverso la fiamma di una candela
che brucia a 1000 gradi Celsius
– disse K. –
è la singolarità debole
potremmo trovarci d’un balzo proiettati in un’altra galassia…»
Azazello chiamò in causa il Maestro Woland
obtorto collo
Il Mago, con un completo glitterato
fece ingresso nella hall dell’Hotel Excelsior,
indugiò presso il termopolio a bere un caffè
cincischiò, tossì, si sistemò le mollette delle bretelle a righe
che sospendevano dei pantaloni con sbuffi
da cavallerizzo
ingurgitò tre pillole di Fripass da 100 milligrammi
e una confezione di Fernet Branca
poi disse semplicemente:
«Giacché non è possibile saltare al di là della propria ombra
– e qui fece uno sgambetto –
stiamocene tranquilli
in fin dei conti, la nostra galassia viaggia alla considerevole
velocità di 600 kilometri al secondo in direzione
del Grande Attrattore
ovvero il Nulla
inoltre, siamo giunti a 1 milionesimo di grado dallo zero assoluto
e, sorpresa, sotto lo zero assoluto fa più caldo!…»
Z. tirò fuori dal taschino interno della giacca
un rotolo di qualcosa
disse che era il protocollo dei No-vax
a base di aspirine, anticoagulanti, antibiotici, idrossiclorochina
e bicarbonato di sodio purissimo
Aggiunse
che c’era anche della polvere di fard e della polvere pirica
e che si trattava di un preziosissimo salva vita
«Costui è un acchiappafantasmi!,
confonde i prodromi con i pronomi, la toponomastica
con la chiroplastica, il che non è educato affatto,
ergo, potete convocarlo!»,
proclamò il Mago Woland apparso nel telegiornale della sera il TG1
Così, una nuvola di borotalco fuoriuscì
dal balcone
Si dà lo spazio qui per un po’ di immaginazione, che non sia esibitiva solo per chi ne scrive. Non è fattore di poco conto. Anche la prosa va migliorando, come anche quella di Gino Rago.
Troppo buono, vero? Detto così, a voi che mi siete maestri…
caro Lucio,
non so se sono riuscito a tenere una poesia lunga, è difficilissimo tenere il tono in una poesia così lunga, ci ho provato con una serie di digressioni “sliding doors”, che, per una poesia kitchen è indispensabile, occorre rifugiarsi nella immaginazione, che è quello che una poesia kitchen deve fare.
L’ho messa qui come prototipo di una Kitsch poem.
La realtà, intendo quella storica dei nostri giorni, rimbalza in una surreale macchinazione. Ne riceviamo il colpo, che però dimostra il nostro disorientamento e l’impossibilità di giungere a qualsiasi verità. Dietro il tono disinvolto (frequente nella narrazione kitchen) leggo una dichiarazione di impotenza.
Ti leggo da anni, noto che hai abbandonato la frammentazione posta (secondo me) con rigido elenco. I testi – kitchen, quindi disarticolati, non facili da concepire – sono ben tenuti nella lunghezza, abbastanza da armonizzare il patchwork. Ma accade già da diverse settimane. E la chiusa è bella forte. Ci sta, visiva e significante (non facile discostarsi dal significato per poeta filosofo).
Giorgio è un gran manigoldo…
ho capito, il suo ideale è il Mago Woland, vorrebbe insinuarsi nel romanzo di Bulgakov Maestro e Margherita, per prendere il posto del Mago, e di lì fare il bello e il cattivo tempo.
Ma il suo tipo ideale di macho resta sempre Clint Eastwood!
RESONANCE EFFECT
Davvero una curiosa sensazione trovarsi in una di queste macchine. Sembra la vendetta di qualcuno a cui hai offeso il cuore e che adesso ha l’occasione di dirti chi sei e sputarti in faccia l’evidenza di un ammasso di nervi e relais. La musica di segheria semina il panico tra talamo, ipotalamo e cervelletto. Assomiglia al distico persino un colpo di martello su una porta. Strida si susseguono a squittii. Ogni gruppo organizzato di suoni sembra mandato a delinquere per le strade del cervello o ad organizzare lo sciopero generale delle parole contro lo sfruttamento del significato. Da un usignolo ti aspetti la serenità di un nido su un pesco in fiore ma ricevi un colpo di pistola. È così che s’interferisce nei fatti altrui? Sembra che però funzioni a meraviglia. Inutile a questo punto protestare la propria innocenza, lo scopo nobile del ricercatore che interroga la natura è messo alla gogna da questo Robespierre in camice verde. Si ha la sensazione a tratti che la cuffia da palombaro intorno al cranio tiri fuori la lista dei nuclei di idrogeno tormentati in questi anni dal Torquemada, per svelare le loro intimità, le riunioni segrete, la capacità di adattarsi a tutte le circostanze, il sale della terra. Che ne hai fatto del carbonio? Speriamo che non mi chieda del platino? Non ho tracce di azoto e fosforo da molti anni e dunque almeno loro dovrebbero star zitti. Eh si, l’odore di resina versata mi riempie le narici di peccati contro l’umanissima tavola periodica e il passato è un macigno sulla testa di elementi calpestati in nome dell’ingenuità e del significato ultimo di questo abitare l’universo. Che peccato è tradurre l’universo in una lingua indistruttibile? Invoco l’autorità della pagina scritta col lavoro di mani e fuoco vivo, ma mi accorgo che i meriti adesso sono diventate colpe. Leonora vede il Monitore ritorcersi contro lo stesso dito che incoraggiò la penna. Una pace serena di parecchi secoli prende però piede adesso tra occhi e orecchie. I nervi cranici si sono messi d’accordo ed è bastata qualche scaramuccia per risolvere la questione. Metternich non è mai morto e ora minimizza tutto. Mai una Marengo, nessuna Austerlitz soltanto Waterloo e sant’Elena. Ma detta tra noi qual era in fondo? Diplopia che vuol dire? Che c’è un difetto nella visione. L’Io e il suo doppio alle spalle. Se guardi Caino non sei certo che Abele stia fuori dall’obiettivo , ma anche il poeta sguazza nel cuore di Faust. Un fiammeggiare di imprevedibilità circonda il Sole ed osservare non risolverà il mistero di essere osservati. Almeno per questa volta.
Si affacciò come una ragazza curiosa
di uno stallone sopra la giumenta.
D’altro canto la Terra è calva
e nessuno sbuffo esce dalla marmitta.
L’NMR posò il becco e cominciò a mangiare.
Di geco il sapore in bocca.
Tutti all’inseguimento di Mengele. E Pasolini?
Dove sono i rimasugli del 68?
In qualche Bar c’è un messo dell’ottocento.
La caffettiera, poeta maudit, alza il vapore.
A quella marmaglia sopravvisse Robespierre.
Dove lo metti uno che non sa fare il dolce?
Una nuvola parla a nome di un’aquila.
Un dito solleva una questione interno all’uovo.
E dunque cosa nascerà da questi manufatti senza fondo?
Se la crema da barba vale un bombardamento
Al massimo avremo una diagnosi col casquè.
Tra le grondaie germogli di senecio.
E l’autunno? Urla di camoscio spinto in giù.
(Francesco Paolo Intini)
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