Jacopo Ricciardi, orizzonte 3, pastelli a cera su carta
.
Mario M. Gabriele
Si parla spesso in questo post dell’uso [https://lombradelleparole.wordpress.com/2021/08/08/kitsch-poetry-n-3-di-giorgio-linguaglossa-termopolio-kitsch-compostaggio-kitsch-di-mauro-pierno-remix-e-mash-up-quando-appare-una-nuova-%cf%86%cf%89%ce%bd%ce%ae-phone-sorge-anche-un-nuovo/#comments] del frammento, non sempre assimilabile dai vari operatori, Questo perché la traccia archeologica della tradizione è un deposito calcareo ancora in uso, che non si toglie neppure con la candeggina.
Bisogna transitare verso altre direzioni, assimilandone i contenuti morfologici e strategici, diventando anche un esperto del linguaggio dei social-media. Qualcosa di questo genere l’ho trovata nei testi di Giorgio Linguaglossa.
Non è una provocazione, ma una inevitabile mutazione che il tempo e gli eventi richiedono per evitare colonialismi lessicali. Ogni forma nuova, adottata in questo modo, detronizza le precedenti lasciandole in archivio.
L’arte di oggi è una galleria incentrata su eventi sociali ed economici, e di altri casi ancora, esposti in pubblico con scelte che azzerano l’estetica attraverso la grafica murale e il vocabolario da website. Non a caso la mia ultima poesia, da pubblicare ancora su Altervista, è caratterizzata da versi di questo stile, che mi trovano in completa attitudine, aprendo pagine di storia privata e pubblica, che diversamente non saprei fare se non tornando alle narrazioni.
Marie Laure Colasson
caro Mario Gabriele,
tu pali di rielaborare, assimilare e comporre la «storia privata e pubblica» e il lessico mediatico – giustissimo; scrivi: «la traccia archeologica della tradizione è un deposito calcareo ancora in uso, che non si toglie neppure con la candeggina. Bisogna transitare verso altre direzioni, assimilandone i contenuti morfologici e strategici, diventando anche un esperto del linguaggio dei social-media».
La tradizione aveva di vista il «senso» e il «significato», un macchinario infernale che spegneva ogni surplus di significazione. Quella tradizione è pleonastica, inficiata da ideologemi: il quotidiano, lo sperimentalismo, il panlogismo, l’orfismo, la scrittura unitemporale e unidirezionale… se non per via negativa, annullandola, bisogna sciacquarla la tradizione con la candeggina e l’idrossiclorochina, occorre riconoscere la sua inanità, prendere cognizione che quel «senso» e quel «significato» erano una macchinazione di ideologemi, una perversione di ideologemi, una costruzione delle ideologie che hanno abitato il novecento e questi ultimi lustri postruisti. Quegli ideologemi sono finiti nella catarifrangenza della implosione del simbolico, vanno semplicemente disattivati, disoccupati e abbandonati nella loro interezza. Per abitare poeticamente il nostro mondo occorre disfarsi degli ideologemi dell’io panottico e panlogico.
Il fatto è che noi abitiamo una scatola vuota con all’interno il vuoto, all’interno di questo vuoto c’è un altro vuoto, e così via… nominare il nulla o il vuoto non è affare di poca contezza, lì dentro non c’è più quella cosa catarifrangente e catafratta che va sotto il nome di «io», il mondo non lo si capisce più se lo leggiamo dall’angolino dell’«io», va letto dal punto di vista del «vuoto». Ed ecco che il mondo, improvvisamente, si anima, si popola di tante cose che non immaginavamo. La poetry kitchen (con le sue varianti instant e kitsch) ha dato il benservito alla poesia euforbica ed ergonomica che va di moda nella nostra epoca di autostrade digitali, di dittature sanitarie, di autovelox digitali, di no vax e di no tax e di «io» digitalizzati che ci narrano delle adiacenze dell’io postruista. Quello che mi colpisce nella poetry kitchen è la sistematica dis-connessione di tutti gli ideologemi, la de-pressurizzazione semantica, la de-costruzione sintattica e metrica del suo procedere linguistico, il non dar conto di nulla a nulla e a nessuno, e lo fa con una fragranza asciutta, terribilmente ilare… Se qualcuno dirà: ma voi siete privi di utopia, privi di progetto, privi di contenuto! Rispondetegli così: È l’account del «vuoto» che noi abitiamo, sono i nuovi avatar ciò di cui narra la kitchen poetry… la poetry kitchen si fa da sola, a strati, con la panna e la crème caramel… così facendo e disfacendo si nomina il «vuoto» che è in noi, attorno a noi, in ogni luogo e in ogni tempo.
Marie Laure Colasson
n. 47, da Les choses de la vie di prossima pubblicazione. «Io dipingo gli oggetti come li immagino, non come li vedo».
47.
Rue de la Vieille Lanterne
Eredia assise sur le trottoir
au côté de Marcel Duchamp
ouvrent une boîte de pâté de canard
et regardent passer une roue de bicyclette
Que faites-vous ansi sur le trottoir?
demande l’ombre de la blanche geisha
voilée d’un burka couleur citron
Nous regardons les rayons du soleil
qui transpercent la cinétique d’une roue
sans rien comprendre c’est évident
Eredia je t’en supplie le désert des pensées
est une combustion sans étincelle
de l’indécent royaume de Facebook
Viens avec moi boire un panaché
pour écouter Frank Sinatra chanter “My Way”
chez “Zeyer” sur la place d’Alésia
avec mes amis Giacometti et Mohsen Makmalbaf
*
Via della Vieille Lanterne
Eredia seduta sul marciapiede
a fianco di Marcel Duchamp
aprono una scatola di pâté de canard
e guardano passare una ruota di bicicletta
Che fate così sul marciapiede?
chiede l’ombra della bianca geisha
velata sotto un burka color limone
Guardiamo i raggi del sole
che trafiggono la cinetica d’una ruota
senza capire niente è evidente
Eredia te ne prego il deserto dei pensieri
è una combustione senza scintilla
dell’indecente regno di Facebook
Vieni con me a bere uno spritzer
ad ascoltare Frank Sinatra che canta “My Way”
da “Zeyer” a piazza Alesia
con i miei amici Giacometti e Mohsen Makmalbaf
Francesco Paolo Intini
GIROTONDO QUASI OBLIQUO
Tutti intorno all’uomo nero.
Toh! Ecco un attimo di giornata,
trancio di tonno e chiusura lampo
è la mazurka di periferia…
E dunque la donzelletta vien dalla campagna.
Bella. Dolce e chiara la chioma di polpessa
E quest’è! Una lettera di presentazione.
Il curriculum di poeta o la chimica del Plutonio?
Hai fatto il master?
A cosa t’è servito il ginger?
Un Munch e due Van Gogh per penitenza
e dopo due molari un canino cariato.
Oppie apre un varco nella Bastiglia. Boletus Satana
senza riguardi per Cappuccetto Rosso.
Dov’è il lupo cattivo? E Gay-Lussac?
Einstein in porta. Filini tira al pioppino
Meglio se trifolato.
Meglio se occhialuto e palombaro.
Rimetti l’Artico al suo posto che poggio i piedi.
Ora sen va per l’Adriatico, un pied-à-terre il porto di Bari
Sbarcano Fantocci, saranno in mille, di sicuro a cento all’ora.
Nel blu dipinto di …fiu
Ulisse vide i proci mangiarsi gli archi
Cocca al dente e freccia del tempo.
Non c’è ordine a Itaca.
La punta si fa il giro del palazzo. Punge Polifemo
il sangue all’ occhio per un calcolo di millesimi.
La maggioranza al colesterolo.
Due o tre piume sollevano un coso ad Alamogordo.
Un Chianti un po’ più amaro in una botte.
Che colpa ha uno spaghetto scotto?
E l’elettrone rispetto al positrone?
“Il navigatore italiano è giunto nel nuovo mondo
E gli indigeni?
Ottima la pasta al dente.
Anche la melanzana è cotta e fritta.
.
Potremmo definire la poetry kitsch di Francesco Intini come s-montaggio, debunking della struttura della significazione, archeologia anarchica della superficie kitsch del mondo di oggi. Ecco la formula di Intini Kitsch + Caos = Anarchia – La lalangue di Intini proviene dall’Immaginario, non dalla mente, così è, giuridicamente, inimputabile perché sottratta alla categoria giuridica della imputazione che sottende tutto il nostro vocabolario; inimputabile in quanto proveniente da un soggetto incapace di intendere e di volere. Come noto, i pazzi sono inimputabili, e perciò non possono essere giudicati in base alle norme sanzionatorie del codice penale. È una strategia di sopravvivenza delle parole che si vogliano sottrarre alla categoria della imputabilità. Le parole diventano kitsch e basta, smettono di funzionare come funzionarie della imputazione e della logica della semantica, ritornano libere e volatili. L’Anarchia delle parole inimputabili salverà il mondo. Questo è il motto di Intini.
(Giorgio Linguaglossa)
Mario M. Gabriele
Entrammo nel Website
digitando climate change.
Le Baby Bull
portavano leggings di pizzo
e orecchini-fiori
nella prima di Starzplay.
Al Cora Hotel,
Whitney decise di lasciare il fast food
per fare un film psicothriller
dal titolo The Black Moon.
Un gusto grafico portò Marie Watt
a creare magliette tessili
per i Natives di Toronto,
attivando posts
con Write Like Sherman,
Dream Like Billy,
Challenge Like John.
Le voci di wonder women
arrivavano oltre la pandemia
come anime allo sbaraglio.
Edgar Heap manda greetings
con twitter:
“Vivi per questo,
ama quanto hai fatto,
vedi il mondo in grande,
viaggia in un viaggio
e ciò che è”.
Alla fine dell’anno
tornano Kandinsky,
con la Geometria a colori,
e il Bacio di Klimt
Gutierrez ha messo la firma alla Fiber Art
per attivare Decolonize Feminism
con musica e film making
tra i ragazzi di TOMBOYS DONT CRY
nella folla di minoranze etniche
sempre alla ricerca di I Like You Now
e What you Say.
La showrunner Tatiana Polanski
ha formato un collettivo
per una Class-Action
contro la Fine o Death.
C’è chi fa scritture di frontiera.
Tarkovskij pensa a una nuova kitchen:
“La terra da sola ingoia sé stessa,
e caccia la testa nel cielo”.
Si direbbe lo stesso pensiero
del crossover Herman,
prima di passare a Taiwan
e dire a Kyoto:
“Come sei bella questa sera”
mentre brucia la città”-.
Leggere questa composizione di Mario Gabriele ci fa capire la distanza che abbiamo percorso senza che neanche ci muovessimo, ormai l’italiano è diventato una lingua affetta da secondarietà, l’inglese è passato da una penetrazione osmotica e lessicale ad una colonizzazione attiva dell’italiano, ad una lingua intessuta con la stoffa e l’ago degli anglicismi. La poesia di Mario Gabriele recepisce tutto ciò, ma nel cataclisma non c’è nulla di cataclismatico, come nella catastrofe non c’è nulla di catastrofico, è tutto normal, è tutto classic, anche il linguaggio di Mario Gabriele può essere considerato un classico, questo è il linguaggio che parlerebbe oggi il Principe di Salina de Il Gattopardo, un linguaggio fitto di twitter e di frasari sms e di facebook. È che oggi anche il papa s’è dovuto inchinare ai tempi e parlare un linguaggio terrestre abbandonando qualsiasi posa ieratica e chierucume.
Propongo una mia sintetica riflessione sulla poetry kitchen, tratta da un lavoro in via di formazione, dopo la lettura dei versi di Marie Laure Colasson, di Mario Gabriele, qui, oggi, e di Mimmo Pugliese e Giorgio Linguaglossa, di ieri.
Dalle metafore all’immondezzaio al riciclaggio
Gino Rago
[…]
Andando dalle metafore tradizionali all’immondezzaio e da qui al riciclaggio
il tema della “grande discarica” di concetti gettati alla rinfusa si evolve nel principio poetico del riciclaggio, poiché ogni prodotto è ambiguo e trasformabile in qualcos’altro.
Il poeta della poetry kitchen, cioè, inserisce i frammenti anche di poesie passate in componimenti nuovi e aderendo alle moderne tendenze ecologiste tenta di dare a quei versi un nuovo significato.
Ricompone il mondo disgregato, come se fosse un puzzle, accostando l’uno all’altro, frammenti del linguaggio contemporaneo anche se diversi fra loro nel tentativo di dare una nuova energia a ciò che già esiste.
Il frammento evoca l’assenza della totalità e nella coscienza della frammentazione del mondo il poeta tende a smascherare tutti i linguaggi unificati.
Il poeta della poetry kitchen in questo mondo disgregato ha il ruolo di colui che mette a nudo il processo di corrosione del linguaggio, come direbbe T. Różewicz[…]
Un tentativo rivisitato di kitsch poetry
Gino Rago
Il critico George Linguaglossà,
convocato d’urgenza a Paris dal commissario Maigret
pour l’affaire «Belfagor sur le Metrò»
chiede a Monsieur Perrault
se ha una maschera di Pierrot,
risponde: «no»
e di nascosto beve un bicchiere di Pernod
con Madame Thérèsà Degas che chiede un Cointreau
Agli Champs Elisées con Monsieur Gautier
Marie Laure Colasson dice Parbleu
ma poi ci ripensa
e dice Ohibò
Un tentativo rivisitato di kitsch poetry
Gino Rago
Il critico George Linguaglossà,
convocato d’urgenza a Paris dal commissario Maigret
pour l’affaire «Belfagor sur le Metrò»
chiede a Monsieur Perrault
se ha una maschera di Pierrot,
risponde: «no»
e di nascosto beve un bicchiere di Pernod
con Madame Thérèsà Degas che chiede un Cointreau
Agli Champs Elisées con Monsieur Gautier
Marie Laure Colasson dice Parbleu
ma poi ci ripensa
e dice Ohibò
Due nuovi tentativi di kitsch poetry
Gino Rago
*
Italo Calvino dice a Marie Laure Colasson
Voglio portare la Poubelle agrée
in un hôtel meublé au Bois de Boulogne
Madame Colasson prende il Metrò
ma sbaglia la fermata e scende a Rue Guyot
*
Al Café de la Paix tra l’Arc de Triomphe
e l’Avenue des Champs Elisée
Madame Lafayette con una penna bic
scrive un biglietto a Madame Lepic
Ti aspetto au Moulin de la Galette
ci saranno Bubù-le-gigolò e Olympià-la-cocotte
E’ MERCOLEDI’
Sui gradini della pioggia
la lucertola abbandona il quadro
sul tavolo twitta la bustina di thè
Ha labbra antiche l’albero maestro
genitore di anfetamine
in vendita al mercato nero di Baku
I ricami delle farfalle
aumentano il contorno occhi degli zaini
domani le ore si conteranno al contrario di oggi
I bermuda a righe che hai comprato
fumano sigari cubani e la neve
cade solo davanti alla tua finestra
Sembra la luna crescente
la cicatrice sul lago
quando chiudono gli ombreolloni
La periferia del deserto
è una barca antropomorfa
scodella di sete e tamburi
E’ alto un palmo
il giardino dove giochi
la lingua trasuda tutti i sensi
Bellissimo componimento caro Mimmo, fatto di un’eidetica “fulminante” ed un incalzare di immagini che si fa ritmo, ma ritmo sincopato da grande pezzo jazz, come si confa alla poesia Noe. Mi piacerebbe assumere questo brano come risposta a coloro che lamentano la mancanza di musicalità nella nostra versificazione, laddove – al di là del fatto che una delle prerogative della Noe sia la varietà stilistica in quanto accomunati da una visione che ognuno persegue nel modo più confacente alla propria strutturazione poetica; è ciò che ci differenzia dalle sette da salotto – evidentemente il vuoto, Il silenzio è ciò che sublima la musica e dunque la poetica Noe, che ricerca la “Cosa” lavorando per sottrazione di materia o per riempimento del vuoto, intrinsecamente esalta il senso della musica. La questione è che se l’orecchio è abituato alla musica di Dylan (che amo per inciso) bisogna compiere un percorso di notevole affinamento per comprendere la musicalità di un Frank Zappa, ma è un itinerario di arricchimento che, una volta approntato – per chi vi riesce – conduce ad appropriarsi di una dimensione musicalmente innalzante.
Complimenti Mimmo!
Non so quanto rilevante sia, ma certo nelle poesie di non senso se ne va anche la metafora.
hai ragione Lucio,
la metafora intesa come sostituzione di una parola con un’altra vive all’interno del quadrante concettuale della omoiosis, della somiglianza universale tra le parole e le cose. Questo pensiero rientra nell’ambito della metafisica occidentale, ma noi oggi stiamo sondando un qualcosa che va oltre il concetto della omoiosis, stiamo esplorando le possibilità della metafora fuori da questo quadrante concettuale e abbiamo scoperto che la potenza del linguaggio aumenta nella misura in cui abbandoniamo il regolo della omoiosis. Quella che noi utilizziamo è un altro tipo di metafora, se così possiamo dire…
Ecco una mia Kitsch poem sortita fuori dalla libera manifestatività dell’essere.
La tgirl Korra Del Rio prende il caffè
La tgirl Korra Del Rio prende il caffè
before bondage banging
Le gemelle Kessler agitano le gambe
sul palcoscenico.
«Outbreak in Lombardy, Italy», titolano i giornali inglesi
Palazzo Chigi è assediato da una manifestazione di
crossdresser in calzamaglia
«Call to action and fuck me!»
grida la Signora Korra.
Il telefono senza fili è andato a prendersi un caffè,
la ladyboy Frenzy Star passeggia in via Sistina con collarino nero di pizzo,
stringatura in lacci di cuoio, borchie di metallo ai seni,
anello fallico vibrante,
nella valigetta 24 ore un set for bondage
e un kit sadomaso new style
per il leghista Pillon
“Guardiamo i raggi del sole
che trafiggono la cinetica d’una ruota
senza capire niente è evidente”
Quanto è forte questo verso della Colasson…
Nous regardons les rayons du soleil
qui transpercent la cinétique d’une roue
sans rien comprendre c’est évident…
gentile Vincenzo,
ringrazio per il lusinghiero commento al mio componimento. Quando scrivo dentro di me vi è una forza che non sono in grado di descrivere compiutamente, ma mi gratifica enormemente riscontrare tanto entusiasmo, tanto consenso ed anche curiosità. Avanti, kitchen!!!!
Un cordiale saluto..
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