La poetry kitchen ha una forza tellurica dirompente perché abita un pluripolittico di frasari di spuria e allotria provenienza, un mix e un mash up di polinomi frastici, un remix, un blow up, un rewind un gioco di citazioni dei linguaggi, Poesia di Vincenzo Petronelli, Fragmenta historica, Compostaggio di Mauro Pierno, Pseudo limerick di Guido Galdini, instant poetry di Lucio Mayoor Tosi

Vincenzo Petronelli

Fragmenta historica

Latte di mandorla con ghiaccio sui tavoli del “Cafè de la guèrre”.
Lamarmora e Mancini decidono la formazione per la trasferta di Magenta.
“Sarà importante mantenere l’equilibrio tattico.

Dal nostro ombrellone vista-mare sapremo guidarvi all’immancabile vittoria”.

“Se avessi previsto il Narodni Dom, non avrei dipinto “Il Bacio””
confidò Hayez alla Signora Päffgen in una camera del Chelsea Hotel.

Il caffellatte nello scaldavivande in un ufficio della Zentralstelle in Wien.
Eichmann arriva di primo mattino canticchiando “Rhapsody in blue”.
“Il grande bulino è già in azione. Non pioveva sabbia da secoli
sul Danubio,
ma abbiamo già fatto saltare in aria il rapido 904 con le rane a bordo”.
Mosè stava ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio.
A Theresienstadt in inverno si sta come in primavera.
“Si sieda rabbino; posso offrirle del latte nero?”

“Who by fire? Who in the night time?”

Sulla soglia della stazione di Rocchetta Sant’Antonio.
Alle spalle, Marcuse gusta dell’uva fragolina sotto un pergolato
in Abbey Road; davanti
il deserto del Negev: dobbiamo affrontarlo per intero
per approdare alla stanza-dimora di Mario Gabriele.
Da tempo ormai, non legge più “Satura”: ascolta heavy metal
e sorseggia Bourbon.
Tra poco, si festeggeranno le idi di marzo.

Il Signor Dobermann all’alba
accompagna i pochi vaccinati che si riuniscono nelle catacombe.
Pompei deflagrò quando chiuse l’ultimo cocktail bar.
“Le campagne sono tetre ed insicure signor generale: ci affidiamo alla Vostra guida”.
Un fax ingiallito del 476 D.C firmato Flavius Odovacer.
“Delenda Roma est”.

Lucio Mayoor Tosi

Prospettive invernali come in Utrillo.
Mancano dati sulle ballerine. Fotocopie sbiadite.

Ho registrato Il libro che mi avete chiesto.
Via camera. In definizione. Prego.

*

Respira due tre volte con coscienza.
Palpebre pesanti, occhi chiusi.

– Interno di antica costruzione. Ombre in controluce.
A muoversi è un gruppo di ballerini, in costume di plastica
o pelle blu, con brillantini.

*

Due filosofi mangiapreti (fermi al trauma
della prima comunione?), si dissero contenti
del cammino fin qui intrapreso.

Non capitava da anni, e nemmeno da giorni.

La poetry kitchen ha in sé una forza tellurica dirompente perché viene agita e agitata da un pluripolittico di frasari di spuria e allotria provenienza, un mix e un mash up di polinomi frastici, un remix, un blow up, un rewind, un gioco di citazioni dei linguaggi del mondo delle emittenti linguistiche («lo stato di cose esistente» di Marx in versione linguistica) che intende sovvertire la lettura normologante di quel mondo. Una sorta di remix e mash up di linguaggi radiofonici, telefonici, privati e mediatici, di voci interne e di voci esterne, di interferenze, di entanglement. Smash and mash up, potremmo riepilogare. La poetry kitchen contiene in sé una carica di libertà, di vivacità e di sedizione veramente rivoluzionaria, incontenibile, imprevedibile; mi fa piacere leggere questa magnifica espressione di libertà, intendo la poesia di Vincenzo Petronelli e di Francesco Paolo Intini, ma anche i panegirici minimal di Guido Galdini e di Mauro Pierno che mettono all’asta il minimalismo svendendone e svelandone l’arcano: che chi cerca il minimal prima o poi finirà con il trovarlo accontentandosi del minimo. Ma noi non cerchiamo il minimo, semmai, il massimo telluricamente esperibile e compossibile.

La poetry kitchen è una struttura complessificata che vede la simultaneità di spazi e di tempi (reali e immaginari). C’è una corrispondenza biunivoca fra la sintassi e la semantica: la semantica inaugura un movimento di sensi e di significati, costruisce una narrazione, una storia; la sintassi dipana un ordine, definisce uno stato, edifica una metafisica. La fine di una metafisica produce una lontananza, un distacco fra le cose, fra le parole e fra le parole e le cose; telos della poiesis è di stabilire un diverso ordine tra le cose, fra le parole e fra le parole e le cose. La fine della metafisica si preannuncia con grandi sommovimenti e rivolgimenti dello stato di cose esistente, e la poiesis non può che riflettere le forze soverchianti della storia che la producono. Così stando le cose, perorare la continuità della poiesis nello stato di cose esistente, significa accontentarsi di salvaguardare la funzione ancillare e decorativa delle opere minimal e decorative.

(Giorgio Linguaglossa)

1 M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit. p. 8
2 Ibidem

Mauro Pierno

A tarda sera. Una piccola mitragliata.
Dal buco della serratura colpita un ombra.

Una meritata avversione per gli aggiornamenti di sistema.
Dall’altra parte del video un camaleonte

con l’occhio mobile, Pippo Baudo sorride dietro la mascherina,
Colombina e le fasce laterali.

L’ossatura a ridosso degli scriba. Piegati
gli angoli, riposti gli orli. Il cartello chiuso per ferie.

Le voci poi continuano vanno da se. Ripercorrono
lo stesso pastore errante. Succhi eh!

*

Le auto, le stesse con una piccola modifica.
A succo di frutta. Vegane.

Che si assottigliano. Più piccole di un minuscolo
bulldozer. Bud corrugava la fronte e partivano.

Poi vennero quelle al the e alla camomilla,
in fronte portavano i segni inconfondibili,

Sparring partner con filo. Lividi.
Che tutti abbandonavano. Sulle autostrade,

in fondo ai vicoli, alle stazioni, nei parcheggi.
Le carcasse modificate senza neppure

l’accensione, manichini
da crash test.

Sulle sciovie sempre alla stessa distanza.

Resto dell’idea che sia la Instant poetry che la Kitsch poetry siano delle varianti del virus-base: la Poetry kitchen. E nella Poetry kitchen ci può stare anche la poesia post-liminal di Guido Galdini che azzera il minimalismo, e va oltre, ci può stare anche la “Ferula” di Giuseppe Talia, che annichila la poesia di paesaggio, per sempre, e la mette in soffitta; ci può stare anche la story telling di Gino Rago, che mette fine allo story telling del vero e del verosimile della tradizione novecentesca con tutte le adiacenze di riguardo, ci può stare anche il «compostaggio» di Mauro Pierno, che mette fine alla autorialità dell’autore e a tutto ciò che richiama la cellula monastica dell’io; ci può stare anche un guastatore del «significato» e del «senso» come Francesco Paolo Intini armato di cesoie e bombe incendiarie; ci può stare la Instant poetry di Lucio Mayoor Tosi; ci può stare una eretica della poesia francese come Marie Laure Colasson che fa della distassia e della dismetria la sua parola d’ordine sostituendole con un sinusoide iconico.
La Poetry kitchen mette un punto al teorema della specificità della forma-poesia, dichiarando quest’ultima quale genere specifico della poesia innica e della poesia elegiaca (Contini), tesi questa che è stata sconvolta dalla rivoluzione internettiana delle emittenti linguistiche. Nel mondo di oggi non ha più senso alcuno compiacersi di avere un linguaggio speciale o specialistico, quello della poesia (dotato di ambiguità e di ambivalenza qualsivoglia), a propria disposizione. Antiquata petizione, oltre che infondata filosoficamente anche palesemente superata dal corso degli eventi storici.
Nella Poetry kitchen ognuno deve cercare da sé la propria strada, non c’è alcun dogma, alcun verdetto.
L’unico assioma da seguire è che ciascuno deve porsi nella condizione di voler abitare stabilmente il vuoto. Il resto verrà da sé.

1 Wittgenstein, Tractatus Logico-philosoficus

pseudolimerick

di Guido Galdini

c’è una giraffa seduta sul sofà
che ha ordinato una coppa di Campari
a chi le chiede: dimmi, come va
risponde: mica male i miei affari
vieni a sederti un poco qui vicino
che ci facciamo un giro di ramino

ma la giraffa è animale assai ingombrante
per alzarla ci vuole un carro ponte
così il malcapitato che ha subito
l’onore di ricevere l’invito
si è dovuto ridurre alla metà
per non essere invaso e stritolato
da quell’ampia giraffa sul sofà.

Mauro Pierno

Mosè stava ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio.

C’è una pandemia in giro che vuole aiutare la Morte
nel suo lungo cammino per il Mondo.

è un’abitudine che diventa una teoria
man mano veniamo a patti con le maniglie

Agosto doveva essere il quadro nella camera da pranzo
“la maniglia, dov’è la maniglia?”

apro la porta, la spalanco. il pulsante rosso, a sx,
lo premo.
luce accecante.

Penso ai versi di Emily Dickinson :Heavenly hurt it gives us /we can find no scar / but internal difference / where the meanings are. ( da ‘ There’s a certain slant of light ‘ )

siamo al cospetto di una materialità di gusci vuoti (svuotati) accumulati in pile, due monticchietti di gusci del reale. Dove poggiano?

Essendo pastelli su carta e non acrilico ti chiederei se ti è possibile di sostituire la didascalia, altrimenti non fa nulla.

preferisce così, non parla alle parole perché
dice che scavano dei cunicoli nel sotto pavimento

Cosí, la pressione verso l’accelerazione porta a una dittatura dell’emozione e dell’emotività.

Vintage e design si arricchiscono di assurdi Puzzle packaging, creando il nuovo consumismo

“Il linguaggio è un labirinto in cui tutte le strade si perdono in direzioni entropiche.”

Un fax ingiallito del 476 D.C firmato Flavius Odovacer.
“Delenda Roma est”.

Sospetto che Franco Fortini, ma non solo lui, anche tutti gli intellettuali di fede comunista e materialista, avrebbero condannato seduta stante queste nuove poesie di Giorgio Linguaglossa

L’apparire del nano dal vuoto del salto di strofa in una frase continua, rende, quel vuoto bidimensionale e materico, tridimensionale

Non sei coinvolto, come se i tuoi pensieri fossero di qualcun altro. Capito questo, ci sta che l’io possa fare la sua parte.

Inizierò di qui per una compostaggio Kitsch…
Infondo questo è ora il comunismo…lo adopero sull’OMBRA come imbastitore di pensieri…

Une tour de livres placés dans le frigidaire
livrent un féroce combat avec des aubergines
un camembert et des cervelles gélatineuses.

In Lavori domestici individuo una diversa ontologia della relazione: Guido Galdini si appropria degli oggetti funzionali ai luoghi domestici per problematizzare il tema del rapporto con il mondo – in altre parole, con diverse parole, inusuale semantica –: i luoghi intimi, in particolare, dimostrano il basso continuo del tema che attraversa i millenni dell’individuo, dei gruppi sociali, delle più vaste società, per cui l’impiego di oggetti dell’uso comune per delineare il tema e il suo svolgimento nei modi partecipati dall’autore è la caratteristica che sovverte l’ordine fin qui consueto alla poesia dell’esistenza: l’inquietudine della domanda di senso è abbandonata, non è più quanto connota di dignità e invera il problema della relazione. Galdini frequenta in tal modo il vuoto della parola, ne porta le insegne e al tempo stesso ne dimostra la necessaria esemplarietà.

Nel Distretto n. 18 (di Linguaglossa) è evidente il distanziamento dal “soggettivismo esistenzialistico”, la chiara e inevitabile assunzione di conoscenza sulla frammentazione dell’intero (comprendo tutto ciò nei minimi dettagli), la denuncia che la polverizzazione non è tanto circostanza, quanto realtà diffusa: su di essa si principia – prima – il lavoro di ricognizione, – poi – la costruzione (non la ricostruzione!). Aderendo alla evidenza dei materiali detritici discende una forma versificatoria molto prossima alla sceneggiatura di un ambiente chiuso, procedendo secondo un crescendo nell’ordine della psicologia percettiva: dal distale (premo l’interruttore della luce) – la presenza fisica dell’oggetto –, al prossimale (luce accecante) – l’informazione – A mio avviso questo procedere poetico implica un fattore necessitato: eliminare dal reale ogni possibilità di illusione; porre il reale nella evidenza di tutta la sua materica consistenza, evitandogli la collusione con strutture di tipo metafisico.

(Adriana Gloria Marigo)

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.
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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.
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Vincenzo Petronelli, è nato a Barletta l’8 novembre del 1970. Sono laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiedo ad Erba in provincia di Como, dove sono approdato diciotto anni fa per amore di quella che sarebbe poi diventata mia moglie, ho una figlia di 14 anni.
Dopo un primo percorso post-laurea che mi ha visto impegnato come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e come redattore editoriale, ho successivamente intrapreso un percorso professionale nel campo della consulenza aziendale, che mi ha condotto al mio attuale profilo di consulente in tema di comunicazione ed export; nel contempo proseguo nel mio impegno come ricercatore in qualità di cultore della materia, occupandomi in particolare di tematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare e la cultura di massa. Dal 2018 sono presidente del gruppo letterario Ammin Acarya di Como, impegnato specificamente nella divulgazione ed organizzazione di eventi nell’ambito letterario e poetico. Alcuni miei scritti sono comparse nelle antologie IPOET 2017 e Il Segreto delle Fragole 2018 (Lietocolle), Mai la Parola rimane sola, edita nel 2017 dall’associazione Ammin  Acarya di Como e sul blog letterario internazionale “L’Ombra delle Parole”.

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Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018).

27 commenti

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27 risposte a “La poetry kitchen ha una forza tellurica dirompente perché abita un pluripolittico di frasari di spuria e allotria provenienza, un mix e un mash up di polinomi frastici, un remix, un blow up, un rewind un gioco di citazioni dei linguaggi, Poesia di Vincenzo Petronelli, Fragmenta historica, Compostaggio di Mauro Pierno, Pseudo limerick di Guido Galdini, instant poetry di Lucio Mayoor Tosi

  1. Infrangere l’ordine del discorso del sensorio e del suasorio costituisce un imperativo kantiano per un poeta kitchen

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  2. Mimmo Pugliese

    REBUS

    Ventimiglia
    Famiglia
    Bottiglia
    Pastiglia
    Scompiglia
    Briglia
    Conchiglia
    Ciglia
    Somiglia
    Poltiglia
    Biglia
    Siviglia
    Artiglia
    Maniglia
    Figlia
    Guerriglia
    Impiglia
    Triglia
    Meraviglia
    Miglia
    Fanghiglia
    Ciniglia
    Piglia
    Flottiglia
    Coniglia
    Marsiglia
    Consiglia
    Pariglia
    Quadriglia

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    • Nella «poesia» di Mimmo Pugliese non si rinviene davvero niente di ciò che pensavamo fosse una «poesia» tradizionale: è tutto crollato, tutti i ponti del discorso articolato sono caduti: i verbi con le loro declinazioni, le preposizioni, le articolazioni. Quello che resta sono una serie di costoni, di spezzoni, pezzi di architravi, schegge di colonne diroccate: parole scomposte e de-composte che non conservano più nulla di umano, dove non si rinviene alcun «pathos dell’autenticità», della lingua come «casa dell’essere» non è rimasto niente. Il che significa che qui valgono altre categorie ermeneutiche e valoriali, che ci troviamo nel bel mezzo di un sisma del 19° della scala Mercalli di cui la poesia maggioritaria e securitaria non si è accorta, direi che la pseudo-poesia kitchen di Mimmo Pugliese è la presa di cognizione di questo macroscopico dato di fatto.
      Davvero, Pugliese ha celebrato il funerale della poesia con rime sparse e alternate. Adesso, non è rimasto più nulla di quello che eravamo abituati a considerare come poesia del novecento o, come dicevamo con un eufemismo, poesia dell’umanesimo. la fine della metafisica ha portato con sé lo sgretolamento di tutto ciò che apparteneva un tempo lontano a quella metafisica.

      Storicamente, precipuo della moderna opera di finzione è lo sgretolarsi della possibilità di accedere al senso dei testi. Il carattere di finzione dei testi kitchen, la loro non-referenzialità ci dice che l’opera storicamente decostruisce attraverso la testualità ogni messaggio, ogni significato, ogni senso. Non potendo essere letterale, il testo possiede soltanto la pluralità delle letture come unica lettura, l’unità di senso diventa frattura, abisso del senso e del sensato, la figuratività ha il sopravvento rispetto alla referenzialità, che tenderà a scomparire, ad inabissarsi. Da Borges in poi la letteratura contemporanea si presta all’idea di perdita del senso e alla apertura di letture molteplici, essa non può più porsi come modello del logos o norma generale. L’anti-referenzialismo dà troppo credito al suo opposto, lo suppone vero, occorre uscire al più presto dallo schema referenzialismo-antireferenzialismo. Identificando la significazione con l’attribuzione di un referente e, parallelamente, la non-significazione con la non-referenzialità, l’opera di finzione storicamente si sottrae per forza di cose alla questione del senso e del sensorio e del sensato. Ne risulta che il linguaggio dell’opera kitchen non può più dire qualcosa di sensorio e di sensato e sostenere che la letteratura non si lascia più comprendere ma fraintendere… Chiedo, quale «Potere della Parola» può avere la «parola» in un contesto kitchen? E ti rispondo: Nessuno.

      Scrive Vattimo:

      «L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi».

      Ho citato apposta Vattimo per escludere una nostra definizione di ciò che possiamo intendere con il termine «ontologia». Ma parlare di «nuova ontologia estetica» implica e significa una accentuazione del sostantivo, noi sostantivizziamo il sostantivo e, parlando di ontologia estetica mettiamo in discussione tutte le categorie della antica e nobile ontologia estetica del novecento. Rimetterle in discussione non si esaurisce in una semplice «ri-appropriazione» di ciò che un tempo ci è appartenuto e che più ci piace, questo sarebbe un atteggiamento diminutivo del nostro argomentare e del nostro essere, rimettere in discussione le categorie su cui si regge la ontologia novecentesca implica la costruzione di altre e diverse categorie retoriche.

      In un mondo in cui «il progresso diventa routine» e la stessa categoria del «nuovo» è utilizzata in toto dalla tecnica, appare chiaro che la strada da seguire sarà quella non della «appropriazione» del «nuovo» o della «riappropriazione» del mondo un tempo antico e bello, quanto la dis-propriazione di quel mondo e la presa d’atto che si è definitivamente chiusa l’epoca del «pathos dell’autenticità». La poesia che tentiamo di fare si è liberata del «pathos dell’autenticità» e della allegria di naufragi, ovvero, l’allegria dell’inautenticità.

      1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 11

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    • milaure colasson

      caro Mimmo,

      però manca tenaglia e frattaglia e medaglia! Eh, no, io voglio continuare il serissimo gioco che stai facendo, e anche poltiglia! beh, la tua è un nuovissimo modo di fare poesia kitchen. Complimenti!

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  3. Non mi sto riducendo lo stipendio,
    faccio instant poetry. 7 in una saccarina.

    LMT

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  4. Lucio Mayoor Tosi
    1 agosto 2018 alle 10:29

    Agosto è il mese migliore per parlare liberamente, senza doversi tanto preoccupare di apparire presuntuosi – e per parte mia ve ne sarebbe motivo – quindi ne approfitto. E torno al fatidico verso di Tomas Tranströmer:

    Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
    giù nel profondo dove l’Atlantico è nero

    per dire che avrebbe anche potuto scrivere ” a destra, su una lapide nera le scritte d’argento”. E, a seguire, l’elenco delle immagini che volentieri accorrerebbero per subito partecipare al convegno. Ma sarebbe per l’appunto un elenco. Ecco, è più o meno questo che intendo dire quando parlo di rigidità.
    Come evitare la scarna elencazione, per quanto composta di elementi bizzarri e sorprendenti… Qui sta l’abilità del poeta, a mio avviso, il problema nuovo che si presenta. Ed è straordinario osservare come ciascuno, qui, abbia saputo darsi una propria soluzione stilistica.

    Giorgio Linguaglossa
    1 agosto 2018 alle 12:13

    Io un tempo lontano scrivevo poesie che avessero un «senso». Davvero, adesso un po’ me ne vergogno. Cercavo di dare un «senso forte» alle poesie che scrivevo. Ma sbagliavo. Un giorno incontro questa frase di Adorno tratta da Dialettica negativa, 1966 (ed.Einaudi 1970 p. 340):

    «Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione».

    Fu allora che abbandonai l’abitudine di scrivere poesie con un «senso», perché mi resi semplicemente conto che «esso sfugge alla questione».

    Detto questo per dire che allontanandomi sempre più velocemente dalla poesia con posizione e proposizione suasoria, assertoria, unidirezionale, unitemporale, innocentemente non dubitatoria, sono approdato, insieme ad altri compagni di viaggio, alla «nuova ontologia estetica» (che è una posizione davvero instabile!)… ma non per invaghimento del dubbio e della scepsi, posta così la questione sarebbe da superficiali, ma, per amore della verità, posto anche qui per scontato il concetto di «verità», cosa che affatto non è. In seguito, incontrai un altro frammento di Adorno che diceva:

    «la coscienza non potrebbe affatto avere dei dubbi sul grigio, se non coltivasse il concetto di un colore diverso, di cui non manca una traccia isolata nel tutto negativo». (op. cit. p. 341)

    Fu allora che mi resi conto che la poesia che si scriveva in Italia da alcuni decenni era una poesia ingenuamente assertoria, anti sceptica, semplificatoria… mi resi conto che le cose non stavano affatto così…

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  5. … mi è venuto in mente che ho dimenticato di dire qualcosa, che avrei voluto dire qualcosa di importante… ma forse non era così importante come pensavo; in fin dei conti, a chi si rivolge la poetry kitchen? Penso a nessuno.

    Questa domanda ci è stata rivolta l’altro ieri durante un incontro con il pubblico a San Basile di Calabria, organizzato da Mimmo Pugliese, era presente anche Marie Laure Colasson e il sindaco di San Basile. È stato un incontro significativo, il pubblico ci ha rivolto molte domande, del tipo: che cos’è il significato? la poesia kitchen non commuove, non produce emozioni, a chi volete mandare un messaggio, volete distruggere la tradizione?, e via di questo passo…

    Questo non dover nulla a nessuno e non rivolgersi a nessuno è forse una posizione privilegiata: non dover accordare nulla a nessuno, non dover venire a patti con nessuno, non dare credito a nessuna tradizione, essere liberi come uccellini nel bosco.

    Ho dimenticato di dire nell’Incontro che una «patria metafisica delle parole» la può costruire soltanto un uomo della tribù, non la tribù. Non sta al poeta, seppur di rango, costruire una patria metafisica o purificare la lingua della tribù, questi non può che accostumarsi ad impiegare le parole che trova già pronte, quelle della barbarie, le parole che un poeta non dovrebbe mai accettare di dover pronunciare.

    Mi chiedo se, nell’epoca della seconda barbarie, la nostra, sia ancora possibile costruire una patria metafisica delle parole. Con le parole di Marcuse:

    «È possibile che la seconda epoca di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».

    Vorrei citare la pagina finale di Dialettica negativa di Adorno (Verlag, 1966, trad it. Einaudi, 1970, p. 369), che recita :

    «Ciò che recede diventa sempre più piccolo… diventa sempre più impercettibile; per questo motivo di critica della conoscenza e di filosofia della storia la metafisica trapassa in micrologia. Questo è il luogo della metafisica come riparo dal totale. Nessun assoluto è esprimibile se non in materiali e categorie dell’immanenza, mentre tuttavia né questa nella sua contingenza né la sua essenza totale devono essere idolatrati. Secondo il suo stesso concetto la metafisica non è possibile come connessione deduttiva dei giudizi sull’essente. Altrettanto poco può essere pensata in base al modello di un assolutamente diverso, che irriderebbe terribilmente al pensiero. Quindi essa sarebbe possibile solo come costellazione decifrabile dell’essente, da questo riceverebbe il suo materiale, senza il quale non sarebbe, non trasfigurando però l’esistenza dei suoi lamenti, ma conducendoli invece ad una configurazione, in cui essi si comporterebbero in scrittura. A questo fine la metafisica deve intendersi del desiderare. Che il desiderio sia un cattivo padre del pensiero è fin da Senofane una delle tesi centrali dell’illuminismo europeo, ed essa vale ancora senza restrizioni di fronte ai tentativi di restaurazione ontologica. Ma il pensare, esso stesso un comportamento, contiene in sé il bisogno – e in primo luogo l’affanno. Si pensa a partire dal bisogno, anche quando si rifiuta lo wishful thinking. Il motore del bisogno è quello dello sforzarsi, che implica il pensare come fare. Oggetto della critica è quindi non il bisogno nel pensare, ma il rapporto tra i due. Il bisogno nel pensare esige però che si pensi. Esige la sua negazione per mezzo del pensare, deve scomparirvi, se vuole realmente soddisfarsi, e in questa negazione gli sopravvive, rappresenta nella più intima cellula del pensiero ciò che non gli è simile. I minimi tratti intramondani sarebbero rilevanti per l’assoluto, perché lo sguardo micrologico frantuma il guscio dell’impotentemente isolato in base al concetto superiore, che lo sussume, e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia meramente esemplare. Tale pensiero è solidale con la metafisica nell’attimo della sua caduta.»

    Qui c’è in evidenza l’aporia del pensiero nell’atto che si pensa, che pensa il suo oggetto, che esige la sua negazione, ovvero, il suo annullamento, il suo obnubilarsi, il suo inabissarsi per rinascere in un nuovo pensiero… Ecco, penso che la poesia debba pensare il suo oggetto, debba cercarlo con tutte le forze, altrimenti rischia di essere mera esternazione soggettiva del non-pensiero, del wishful thinking. Perché, sia chiaro, la poesia è pensiero, pensiero pensante, pensiero, come si dice oggi, poetante.

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    • Colgo l’occasione per ripostare un articolo di Alfonso Berardinelli pubblicato nel 2014 che fa il punto della questione novecento.

      «la Poesia ha cambiato casa, arredo, si è trovata una nuova sistemazione». (Lucio Mayoor Tosi)

      Il ’900 che si allontana:
      anche le Lettere sono finite? di Alfonso Berardinelli (2014)

      Con l’inizio degli anni Novanta si parlò di “fine della storia”.
      Tra società dello spettacolo, declino della politica e avvento dell’informatica, è mutata la figura dello scrittore: hanno vinto consumo e mercato. E ora siamo nell’epoca in cui tutti scrivono.
      Nessuno può dubitare che il Novecento sia finito. Ma quando e come è finito? Da quali segni e fenomeni si evince che la continuità è interrotta? L’edizione aumentata e aggiornata dell’ultimo volume della Storia della letteratura italiana di Giulio Ferroni è uscita già da un anno, ma continuo
      a sfogliarla e rileggerla cercando di capire che cosa contiene, che cosa rivela o nasconde quel nuovo sottotitolo:

      «Il Novecento e il nuovo millennio». A che cosa sostanzialmente fa
      pensare una tale formula, che sembrerebbe soltanto informativa? È
      certo che gli anni passano, che qualcosa di nuovo si aggiunge al passa-
      to. Qualcosa cambia, qualcosa si perde e si dimentica. Soprattutto se
      si tratta di un’intera letteratura, i cambiamenti sono molti e possono
      confondere le idee. Oggi c’è un clima generale diverso. Ma d’altra
      parte si ha o si vuole avere l’impressione che “tutto sommato” si vada
      avanti più o meno come prima. Gli autori hanno altri nomi, ma non
      cambia il nome di quello che fanno: si scrivono romanzi e poesie, si
      fanno recensioni, escono libri di saggistica e di critica. Ci sono, come
      prima, il premio Strega e il premio Campiello, che ogni giovane vuole.
      A Torino c’è la Fiera o Salone del libro. Poi c’è la Milanesiana, c’è
      Massenzio, e poi “Libri come” e “Più libri, più liberi”…

      Ma se devo interpretare il punto di vista di uno storico della lettera-
      tura, in questo caso Ferroni, mi sembra che sia lui per primo ad avver-
      tire la fine di un’epoca letteraria che aveva mantenuto per cinquanta o
      cento anni caratteristiche relativamente costanti, anche nel passaggio
      da modernità a postmodernità. Pubblicando nel 2012 un saggio su
      Giudici e Zanzotto, non sarà un caso se Ferroni lo ha intitolato Gli
      ultimi poeti, cosa che ad alcuni, specie ai più giovani, non è affatto pia-
      ciuta. Ultimi? Ma come? E noi chi siamo? La poesia continua a vivere.
      Il presente esiste, ha preso il posto del passato e guarda al futuro.
      La parola “ultimi” non credo però vada presa troppo alla lettera e
      in assoluto. Si dovrebbe intendere come: “gli ultimi poeti di un’epoca
      in cui i poeti avevano certe caratteristiche oggi più difficili da trova-
      re, perché loro appartenevano a pieno titolo al Novecento, un secolo
      finito”.

      Dunque: quando è finito il Novecento? La sua fine non mi sembra
      sia un fatto accaduto fra il 1999 e il 2000. Il Novecento ha cominciato
      a finire prima, è finito più volte, potrei dire che è finito tre volte. Si è
      trattato di un processo scandito in circa tre decenni, mentre per altri
      versi qualcosa di quel secolo vive tuttora. In questo o quel punto del
      sistema letterario la memoria della cultura novecentesca agisce ancora.
      Due critici nati negli anni Cinquanta e dotati di un notevole senso
      del passato e della storia (ma un critico smemorato non è un critico),
      come Giorgio Ficara e Raffaele Manica, intitolarono alcuni anni fa le
      loro raccolte di saggi rispettivamente Stile Novecento ed Exit Novecen-
      to. Non può essere una banale coincidenza. Credo che ci siano state da
      parte degli autori una precisa intenzione e una chiara intuizione di ciò
      che è avvenuto. Almeno nella letteratura italiana, uno stile è finito, uno
      stile che nonostante le sue varianti, ramificazioni e divaricazioni si spie-
      gava e si generava a partire da presupposti che da un certo momento in
      poi (nel corso degli anni Novanta, mi pare) sono venuti meno.

      Secondo alcuni pessimisti non si è perso “uno” stile, si è perso o è
      sempre più raro “lo stile”: almeno se si pensa che lo stile sia un valore
      e non un fatto che in arte si dà comunque, buono o cattivo che sia. Mi
      sembra che stia aumentando il numero di coloro secondo i quali tutto
      “a suo modo” è cultura ed è a suo modo arte anche l’intenzionale o
      inconsapevole negazione dell’arte intesa come lavoro sulla forma, ec-
      cellenza tecnica, abilità e originalità artigianale.
      Per chi crede che lo stile sia un valore, la critica non ha senso se
      non valuta e giudica. Per chi crede invece che lo stile sia un fatto, la
      critica è registrazione di eventi che esistono come puri eventi, tutti di
      pari dignità, per i quali viene rivendicato il diritto di ricevere atten-
      zione. Piacciano o non piacciano e quanto valgano, è allora del tutto
      secondario: ogni prodotto è artistico se si presenta come artistico e va
      quindi accuratamente descritto e interpretato.

      Le avanguardie novecentesche fondavano su questo principio la
      loro strategica e tattica forza d’urto. Non importa che molta lettera-
      tura futurista e surrealista risulti illeggibile: è indubbiamente un fatto
      e quindi anche un valore letterario. Non importa che molta pittura e
      scultura moderna (ammesso che la distinzione sussista) siano a mala-
      pena guardabili dopo un primo sguardo: sono prodotti esposti e con-
      servati nei musei e nelle gallerie d’arte, critici autorevoli si sono appli-
      cati a darne sofisticate o sofistiche interpretazioni e dunque guai a chi
      osa dire, ad esempio, che da un certo punto in poi Picasso ha prodotto
      solo merci artistiche facilmente realizzabili da vendere a caro prezzo,
      che Duchamp è stato solo un brillante provocatore e Andy Warhol un
      astutissimo mercante.

      Nelle arti visive il Novecento non è ancora finito, le repliche con-
      tinuano. In letteratura molta della qualità novecentesca si è perduta.
      Già con la seconda metà del secolo il romanzo, la poesia e la critica
      non hanno dato più niente di paragonabile alle opere di Proust, Joyce,
      Svevo, Mann, Kafka, Musil, Yeats, Apollinaire, Blok, Machado, Eliot,
      Lorca, Benn, Lukács, Spitzer, Šklovskij, Benjamin… La postmoder-
      nità ha prodotto Borges, Auden, Camus, Beckett, Nabokov, Gros-
      sman, Morante, Yourcenar, Celan, Calvino, Enzensberger, Barthes,
      Steiner… È con questi autori che il Novecento si conclude. Ognuno
      di loro è stato consapevole del suo venire dopo, del suo essere “post”
      rispetto ai classici di primo Novecento. Anche questa coscienza era un
      tipo di continuità.

      Con l’inizio degli anni Novanta si parlò di “fine della storia”. Tra
      società dello spettacolo, declino della politica e avvento dell’informa-
      tica non cambiò solo la società letteraria, cambiò l’idea di letteratura,
      la figura dello scrittore e il modo di produrre, consumare, interpreta-
      re la letteratura. Generi lungamente e anche proficuamente messi in
      discussione, come il romanzo e la poesia, riacquistarono una forma
      convenzionale, quella che permette oggi al romanzo di “fare mercato”
      (a dominare è il modello del best seller narrativo, reale o potenziale)
      e che permette alla poesia di entrare in una circolazione fluida, fra
      letture pubbliche e presenza in rete, una circolazione che quasi non
      prevede più una vera e propria lettura, il che mina la stabilità formale
      dei testi, dati per poetici perché si presentano come poetici.

      Una simile situazione non è più neppure postmoderna, non pre-
      suppone la modernità, la ignora e quindi non può che mettere in diffi-
      coltà il lavoro e il ruolo della critica. Anche uno storico e critico molto
      informato e militante come Ferroni da anni parla ripetutamente di
      “angoscia della quantità”. Il post-Novecento è dunque, come disse
      Cesare Garboli, l’epoca in cui “tutti scrivono” rivendicandone anzi-
      tutto il diritto. La scena letteraria è affollata di decine e centinaia di
      nuovi autori in cerca di “visibilità”, mentre la qualità dell’atto di leg-
      gere tende gradualmente a scadere in “lettura distratta”. Dilatandosi
      enormemente, la nozione di letteratura perde la fisionomia che aveva
      conservato ai più alti livelli nel corso del Novecento, quando l’idea
      di testo letterario e della sua priorità, le tecniche di analisi formale
      e linguistica, l’enfasi sull’importanza della lettura avevano provocato
      riflessioni e discussioni ininterrotte e appassionate.

      Dagli anni Novanta e con l’inizio del nuovo millennio è cresciuta
      piuttosto l’importanza del mercato, del consumo librario come che
      sia, della presenza del personaggio-autore nei festival e nei media di
      massa vecchi e nuovi. Per tutto il Novecento, anche nelle sue ribellio-
      ni e turbolenze, la letteratura viveva tenendo presente la storia della
      letteratura. Oggi si va verso una letteratura o postletteratura che vive
      in uno spazio non più storico e che sembra “non fare storia”. Per que-
      sto, sebbene priva dell’autorità che ha avuto in passato, la critica sta
      diventando il solo luogo in cui la letteratura continua almeno in parte
      a prendere coscienza di se stessa, dei propri precedenti e del proprio
      passato.

      Se mi si chiedesse quali sono stati gli ultimi scrittori italiani anco-
      ra pienamente, esemplarmente novecenteschi e con i quali il secolo
      scorso si è chiuso, credo che farei i nomi di Raffaele La Capria, Cesare
      Garboli, Piergiorgio Bellocchio. Scrittori al di là dei generi letterari,
      che hanno praticato tuttavia in prevalenza il genere saggistico. Eppu-
      re in tutti loro agisce sotto la superficie una vocazione e attitudine di
      narratori superiore, mi sembra, a quella che si trova in molti autori
      di romanzi. È la narrazione autobiografica, è la critica in senso lato
      culturale (“critica della vita”, direbbe Massimo Onofri) che fanno la
      sostanza e l’energia della loro scrittura.

      La Capria ha scritto romanzi, il più famoso e apprezzato dei quali,
      Ferito a morte (1961), è però già un romanzo più autoriflesso e poetico
      che propriamente narrativo. In quel libro La Capria sembra influenza-
      to dalla tessitura musicale e saggistica dei Quartetti di Eliot più che da
      altri romanzieri. Tutta la seconda metà della sua opera, da L’Armonia
      perduta (1986) in avanti, è saggistica autobiografica per episodi ed em-
      blemi (Guappo e altri animali), autobiografia di un lettore (Letteratura
      e salti mortali) e critica sociale.

      Cesare Garboli ha sempre negato di essere un critico letterario, pur
      essendo stato colui che ha più modificato lo stile della critica, i temi
      della critica negli ultimi vent’anni del Novecento: accentuandone a
      volte scandalosamente il carattere soggettivo. Come quella di Roberto
      Longhi o di Giacomo Debenedetti, la sua prosa è una delle più com-
      plesse, analitiche, perfettamente scandite e visionarie della nostra tra-
      dizione novecentesca. Scritti servili (poi Storie di seduzione) e Falbalas
      sono indagini sulla fisiologia dell’invenzione letteraria e diagnosi delle
      patologie che legano ogni autore al suo habitat.

      Piergiorgio Bellocchio è uno scrittore morale e satirico, viene da
      una lunga tradizione che va da La Rochefoucauld a Flaubert, da
      Kraus a Kubrick. I suoi libri sono fatti di aforismi, microracconti, re-
      censioni e pirotecnici pezzi comici sull’inaridimento e le parodistiche
      deformità della vita nella società contemporanea. Il modo borghese
      di un tempo era certo affliggente e ipocrita, ma quello postborghese
      è l’apoteosi della stupidità fatta metodo. È così, secondo Bellocchio,
      che il Novecento è finito.

      [Alfonso Berardinelli è uno dei critici più originali della cultura contemporanea, con una profonda esperienza della poesia e del romanzo. Collaboratore di diverse testate, tra le sue opere ricordiamo: La poesia verso la prosa (1994); Casi critici (2007); La forma del saggio (seconda ed. 2008); Poesia non poesia (2008); Non incoraggiate il romanzo (2011); Leggere è un rischio (2012).]

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  6. “Il finale del canto quarto dell’Inferno è un’autentica orgia di citazioni. Io ci trovo una dimostrazione allo stato puro della tastiera rammemorativa di Dante” (…) “Il fisico che, dopo avere scisso il nucleo dell’atomo, volesse ricomporlo, diventerebbe l’immagine dei fautori d’una poesia descrittiva ed esplicativa per la quale Dante resta, nei secoli dei secoli, peste e minaccia”.
    (Osip Mandel’stam)

    Canto IV, nel quale mostra del primo cerchio de l’inferno, luogo detto Limbo, e quivi tratta de la pena de’ non battezzati e de’ valenti uomini, li quali moriron innanzi l’avvenimento di Gesù Cristo e non conobbero debitamente Idio; e come Iesù Cristo trasse di questo luogo molte anime.

    Ruppemi l’alto sonno ne la testa
    un greve truono, sì ch’io mi riscossi
    come persona ch’è per forza desta;3

    e l’occhio riposato intorno mossi,
    dritto levato, e fiso riguardai
    per conoscer lo loco dov’io fossi.6

    Vero è che ’n su la proda mi trovai
    de la valle d’abisso dolorosa
    che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.9

    Oscura e profonda era e nebulosa
    tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
    io non vi discernea alcuna cosa.12

    “Or discendiam qua giù nel cieco mondo”,
    cominciò il poeta tutto smorto.
    “Io sarò primo, e tu sarai secondo”.15

    E io, che del color mi fui accorto,
    dissi: “Come verrò, se tu paventi
    che suoli al mio dubbiare esser conforto?”.18

    Ed elli a me: “L’angoscia de le genti
    che son qua giù, nel viso mi dipigne
    quella pietà che tu per tema senti.21

    Andiam, ché la via lunga ne sospigne”.
    Così si mise e così mi fé intrare
    nel primo cerchio che l’abisso cigne.24

    Quivi, secondo che per ascoltare,
    non avea pianto mai che di sospiri
    che l’aura etterna facevan tremare;27

    ciò avvenia di duol sanza martìri,
    ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
    d’infanti e di femmine e di viri.30

    Lo buon maestro a me: “Tu non dimandi
    che spiriti son questi che tu vedi?
    Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,33

    ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
    non basta, perché non ebber battesmo,
    ch’è porta de la fede che tu credi;36

    e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
    non adorar debitamente a Dio:
    e di questi cotai son io medesmo.39

    Per tai difetti, non per altro rio,
    semo perduti, e sol di tanto offesi
    che sanza speme vivemo in disio”.42

    Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
    però che gente di molto valore
    conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.45

    “Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore”,
    comincia’ io per volere esser certo
    di quella fede che vince ogne errore:48

    “uscicci mai alcuno, o per suo merto
    o per altrui, che poi fosse beato?”.
    E quei che ’ntese il mio parlar coverto,51

    rispuose: “Io era nuovo in questo stato,
    quando ci vidi venire un possente,
    con segno di vittoria coronato.54

    Trasseci l’ombra del primo parente,
    d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
    di Moïsè legista e ubidente;57

    Abraàm patrïarca e Davìd re,
    Israèl con lo padre e co’ suoi nati
    e con Rachele, per cui tanto fé,60

    e altri molti, e feceli beati.
    E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
    spiriti umani non eran salvati”.63

    Non lasciavam l’andar perch’ei dicessi,
    ma passavam la selva tuttavia,
    la selva, dico, di spiriti spessi.66

    Non era lunga ancor la nostra via
    di qua dal sonno, quand’io vidi un foco
    ch’emisperio di tenebre vincia.69

    Di lungi n’eravamo ancora un poco,
    ma non sì ch’io non discernessi in parte
    ch’orrevol gente possedea quel loco.72

    “O tu ch’onori scïenzïa e arte,
    questi chi son c’ hanno cotanta onranza,
    che dal modo de li altri li diparte?”.75

    E quelli a me: “L’onrata nominanza
    che di lor suona sù ne la tua vita,
    grazïa acquista in ciel che sì li avanza”.78

    Intanto voce fu per me udita:
    “Onorate l’altissimo poeta;
    l’ombra sua torna, ch’era dipartita”.81

    Poi che la voce fu restata e queta,
    vidi quattro grand’ombre a noi venire:
    sembianz’avevan né trista né lieta.84

    Lo buon maestro cominciò a dire:
    “Mira colui con quella spada in mano,
    che vien dinanzi ai tre sì come sire:87

    quelli è Omero poeta sovrano;
    l’altro è Orazio satiro che vene;
    Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.90

    Però che ciascun meco si convene
    nel nome che sonò la voce sola,
    fannomi onore, e di ciò fanno bene”.93

    Così vid’i’ adunar la bella scola
    di quel segnor de l’altissimo canto
    che sovra li altri com’aquila vola.96

    Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
    volsersi a me con salutevol cenno,
    e ’l mio maestro sorrise di tanto;99

    e più d’onore ancora assai mi fenno,
    ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
    sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.102

    Così andammo infino a la lumera,
    parlando cose che ’l tacere è bello,
    sì com’era ’l parlar colà dov’era.105

    Venimmo al piè d’un nobile castello,
    sette volte cerchiato d’alte mura,
    difeso intorno d’un bel fiumicello.108

    Questo passammo come terra dura;
    per sette porte intrai con questi savi:
    giugnemmo in prato di fresca verdura.111

    Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
    di grande autorità ne’ lor sembianti:
    parlavan rado, con voci soavi.114

    Traemmoci così da l’un de’ canti,
    in loco aperto, luminoso e alto,
    sì che veder si potien tutti quanti.117

    Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
    mi fuor mostrati li spiriti magni,
    che del vedere in me stesso m’essalto.120

    I’ vidi Eletra con molti compagni,
    tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
    Cesare armato con li occhi grifagni.123

    Vidi Cammilla e la Pantasilea;
    da l’altra parte vidi ’l re Latino
    che con Lavina sua figlia sedea.126

    Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
    Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
    e solo, in parte, vidi ’l Saladino.129

    Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
    vidi ’l maestro di color che sanno
    seder tra filosofica famiglia.132

    Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
    quivi vid’ïo Socrate e Platone,
    che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;135

    Democrito che ’l mondo a caso pone,
    Dïogenès, Anassagora e Tale,
    Empedoclès, Eraclito e Zenone;138

    e vidi il buono accoglitor del quale,
    Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
    Tulïo e Lino e Seneca morale;141

    Euclide geomètra e Tolomeo,
    Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
    Averoìs che ’l gran comento feo.144

    Io non posso ritrar di tutti a pieno,
    però che sì mi caccia il lungo tema,
    che molte volte al fatto il dir vien meno.147

    La sesta compagnia in due si scema:
    per altra via mi mena il savio duca,
    fuor de la queta, ne l’aura che trema.150

    E vegno in parte ove non è che luca.

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    • Il fatto è che Dante si esprime con chiarezza. Visionario al massimo grado, tratta le sue immagini con realismo, senza quasi emozionarsi. Affrancato al metro come Ulisse all’albero della nave. Un genio. Ma l’insegnamento che mi arriva, è la chiarezza. È una richiesta, ma allo stesso tempo un dictat. Per i poeti che amano sperimentare, una persecuzione.

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  7. Alfonso Berardinelli parla di abbandono dello stile. Ma dal punto di vista ontologico, cos’è lo stile se non il compimento di un percorso introspettivo, personale, tra sé e l’individuazione di un proprio linguaggio? Il linguaggio freddo, cronaca dell’esistente, ma soprattutto lo stop! il rapporto tra pieno e vuoto (purtroppo quasi sempre tendente al pieno), dove però il vuoto fa la sua parte… e diventa vuoto contenuto; specchio di quel che si riceve, appunto con sempre meno valore, e con il disvalore creare collane di versi. il significato è presunto. Ma tuto questo per dire che, sul piano della comunicazione, la responsabilità è tutta sulle spalle dell’autore. Il non senso, reso troppo manifesto, genera domande e crea incertezza. Quindi tutto va a cadere sul discorso, che, se fila, non può che ottenere consensi. Il vuoto è nell’aria, non ce lo siamo inventati noi.

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  8. Comunico che Mimmo Pugliese è da oggi componente della redazione dell’Ombra delle Parole in quanto esponente della poetry kitchen. Grazie all’interessamento di Mimmo Pugliese dall’agosto del 2022 si terrà, ogni anno in agosto, nel comune di San Basile di Calabria il Festival della poetry kitchen con le relazioni finali, lettura di poesie e incontro con il pubblico. I poeti invitati saranno ospitati a spese del Comune presso la stupenda dimora della l’Abbazia brasiliana nella valle del Pollino e i materiali inediti saranno pubblicati in volumi appositi. Un Appuntamento annuale che servirà a fare il punto della situazione in sviluppo della poetry kitchen. Della manifestazione verrà data notizia all’Ansa, agli organi di stampa e alle emittenti radio televisive.

    Giorgio Linguaglossa
    26 luglio 2018 alle 16:42

    La scena della “doccia” in “Psyco” di Hitchcock – girata con 78 differenti posizioni della macchina da presa e 52 tagli di montaggio – esprime bene quanto sia complesso il modo di riprodurre un oggetto da una pluralità di sfaccettature o punti di vista.
    Analogo discorso in poesia. Quanti tagli e quanti differenti posizioni della macchina da presa sono necessari per raffigurare una scena? Ecco una mia poesia di 5 anni fa.


    Omega

    […]
    A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
    Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,

    corridoio bianco.
    Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.

    A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
    Saracinesche. Inferriate. Oblò.

    D’istinto, mi dirigo a destra [a destra (!?)],
    [perché a destra (!?)]
    […]
    La prima porta, la apro.
    Il sole tramonta su un mare nero.

    Archi di trionfo. Templi diroccati. Colonne.
    […]
    La seconda porta.
    Ci sono i morti che hanno inghiottito il buio.

    Sono invisibili, ma io li vedo.
    A tentoni… giro una maniglia.
    […]
    Apro la terza porta.
    Ci sono gli uomini che hanno mangiato la mela.

    Adesso sono visibili.
    «Davvero, che gioco è questo (!?)».

    Avanzo con circospezione, nel corridoio… c’è un terrazzo.
    Una ringhiera si affaccia su un mare nero.

    «Questo è il posto del Re», dice il Re di denari.

    In verità, nelle prime stesure della prima strofa di questa poesia saltava agli occhi che essa non era stata scritta con tutti quei punti a mo’ di spezzatino, ma era scritta come un’onda unica fonica e sintattica, alla maniera della ontologia estetica novecentesca. E la cosa non mi piaceva affatto, mi lasciava insoddisfatto. In seguito, nel corso degli ultimi 4 anni ho iniziato a segmentare il testo con dei punti, togliendo i verbi e gli aggettivi (che confondevano e ostacolavano a mio vedere il colpo d’occhio della lettura). La stesura in distici è stata l’ultimissima e decisiva modifica che ho apportato al testo.

    La poesia è stata costruita in feroce inimicizia con il «suono», con la poesia fonologica e sonora della tradizione italiana che va da Pascoli e D’Annunzio a Franco Fortini di Composita solvantur (1994). Quello che è avvenuto dopo l’ultimo libro di Fortini nella poesia italiana non lo ritengo, da questo punto di vista, interessante… con l’eccezione di Stige di Maria Rosaria Madonna [1992 e adesso in Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, 2018, pp. 148 € 12], la quale opera uno strappo vistosissimo con la poesia della tradizione novecentesca in senso lato.

    La poesia in argomento è stata costruita nell’ambito della nuova concezione estetica della «nuova ontologia estetica». Mi rendo benissimo conto che ad un orecchio abituato ed educato alla «vecchia ontologia estetica» la poesia possa sembrare brutta e cacofonica. Anzi, il fatto che venga recepita così mi convince sempre di più che mi trovo (ci troviamo) sulla strada giusta, la strada del rinnovamento di una stagnazione del pensiero poetico che si è protratta per più di 50 anni. Innanzitutto, nel mio testo, la fonologia, il suono ha perso la sua centralità, anzi, sono stati relegati in ultima posizione. Il suono complessivo delle parole, la Stimmung non è data dal suono del significante ma dal cozzo acustico della fonemica e dal cozzo dei significati.

    Riflettiamoci un attimo: Il «suono» è stato spodestato dalla sua centralità e sostituito con il «niente»… e questo è evidentissimo se rileggiamo per esempio le poesie di Mauro Pierno e di Alfonso Cataldi.
    È avvenuta una rivoluzione, e non ce ne siamo accorti. Rectius: chi non la vede è perché non ha occhi e orecchi per avvedersene.

    Quando de Sassure scrive che «l’immagine verbale non si confonde col suono stesso» afferma un concetto importantissimo per la poesia della nuova ontologia estetica. Quando io ad esempio scrivo:

    «Questo è il posto del Re», dice il Re di denari

    utilizzo una immagine che, ai fini della significazione, non corrisponde ad alcuna successione fonica, ad alcun «suono»; l’immagine deve essere recepita e decodificata non mediante la intercessione del «suono» ma ricorrendo ad una immagine eidetica che viene attivata da una immagine iconica. E questa utilizzazione della Lingua (Langue) è una tipica procedura della poesia della «nuova ontologia estetica».

    Leggiamo cosa dice un maestro della teoria del linguaggio, Ferdinand de Sassure:

    «Le sillabe che si articolano sono impressioni acustiche percepite dall’orecchio, ma i suoni non esisterebbero senza gli organi vocali; così una “n” esiste solo per la corrispondenza dei due aspetti. Non è dunque possibile ridurre la lingua al suono, né distaccare il suono dall’articolazione boccale; reciprocamente, i movimenti degli organi vocali non sono definibili se si fa astrazione dall’impressione acustica.
    Ma ammettiamo anche che il suono sia una cosa semplice: è forse il suono che fa il linguaggio? No, il suono è soltanto uno strumento del pensiero e non esiste per se stesso. Sorge qui una nuova corrispondenza piena di pericoli: il suono, unità complessa acustico-vocale, forma a sua volta con l’idea una unità complessa, fisiologica e mentale. E non è ancora tutto.
    Il linguaggio ha un lato individuale e un lato sociale, e non si può concepire l’uno senza l’altro.
    Inoltre, in ogni istante il linguaggio implica sia un sistema stabile sia una evoluzione; in ogni momento è una istituzione attuale ed un prodotto del passato.
    […]
    Preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale… La lingua, al contrario, è in sé una totalità e un principio di classificazione».1]

    Quando de Sassure scrive che «l’immagine verbale non si confonde col suono stesso»1] afferma un concetto importantissimo per la poesia della nuova ontologia estetica. Quando scrivo:

    «Questo è il posto del Re», dice il Re di denari

    utilizzo una immagine che, ai fini della significazione, non corrisponde ad alcuna successione fonica, ad alcun «suono»; l’immagine deve essere recepita e decodificata non mediante la intercessione intermediaria del «suono» ma ricorrendo ad una immagine eidetica che viene attivata da una immagine iconica. E questa utilizzazione della Lingua (Langue) è una tipica procedura della poesia della nuova ontologia estetica.

    1] F. de Sassure, Corso di linguistica generale, Paris, 1922, trad it. 1967. edizione del 2001, pp. 1-19

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  9. Le parole scritte richiamano dall’inconscio altre parole, simili per sonorità. Le parole portano con sé il loro corredo, hanno una coda. La sonorità è richiamo tra le parole. Quando scrivo ci sto attento, capisco se si tratta di automatismo sonoro, quindi evito. Ma ad aiutarmi è il punto, lo stop! è qui che si perde la musicalità, la cosa che fa o faceva dire a tutti “è poesia”… così dimostrando di non leggere affatto, ma di lasciarsi in-cantare. Il fatto è che la nenia sembra fatta per indurre al sonno, a quel punto infilare verità… Rispetto alla Noe, è un altro universo.

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  10. Jacopo Ricciardi

    Buongiorno, propongo qui un’ulteriore riscrittura, insieme alla precedente, della poesia ‘Il commissario verace’.

    PRIMA RISCRITTURA: IL COMMISSARIO VERACE

    Dei cerchi si tengono per mano
    sono i bambini che sono 5.

    Sei anni in un girotondo
    su per un commissario conteiner 
    in un impermeabile beige ridda.

    Egli vede il mento di una notazione
    che sfugge sulla testa o verso una cresta di gallo indaffarata.

    Essi decorrono
    lo iato per di qua e più in bitcoin.

    Dragano una filastrocca che beve al tavolo
    di tutta Bisenzio
    consunta nelle scatole da trasloco.

    “Lo stesso cerchio di cerchi in rotazione dispersa.”
    raglia il mirino col grido
    che ammara. È una pagina.

    La lavanderia incendiaria
    sogna le folate schedate
    e circonda l’orario illeso della verdura
    di brividi in moto e di fiaccolate acquattate
    sul contagiri che elemosina verde un asciugacapelli.

    La ruggine va a scuola in una foto del tempo
    deterso in uno spago.

    Una sedia in crosta
    contro un albatro che tintinna.
    Una cerniera si nutre
    del panno di uno stormo.
    La donna sarda è caramellata
    come il quartier generale di Antigone.
    Un treno a galla a scatto.
    L’incudine in linea si offende.
    La bistecca rotta da un motto.

    La coda della pagina mangia i tetti.
    I pistacchi del commissario contano l’alveo scontento.
    Sui binari divaricati la Storia suda.
    Il sermone dell’ascella.
    I guanti delle ginestre mordono.
    Secondo lui si disfa perspicace l’ostrica a meridione
    sull’asola della Coldiretti.

    I piumini fanno omicidi
    e scontano i cadaveri.

    La normale pera di un gatto
    conduce il gioco dei nove sottoterra
    e incontra Polifemo artefice del microfono.

    La roccia va al trotto
    contigua al sole malformato
    contratto in un pavone.

    .

    SECONDA RISCRITTURA: IL COMMISSARIO VERACE

    La donna incinta nel commissario
    partorisce cinque virgola sei assenze.

    Il campione in girotondo
    stringe frammenti di Roma
    tra i quali si aggirano brandelli di universi.

    Egli vede rallentare una notazione.
    La casta dei bambini ingolfa le persone senza volto.
    Loro corrono lo iato e pagano in bitcoin.

    Dragano una filastrocca che beve al tavolo
    di tutta Bisenzio
    consunta nelle scatole da trasloco.
    La filastrocca è una divaricazione unita e disunita sul tavolo che fluisce per Bisenzio nelle parole:

    “Gli stessi cerchi di cerchi in rotazione disconnessa.”
    raglia il mirino nel grido che rade. È pagina.

    La lavanderia pensa alle caste schedate
    nel battesimo fresco denaturato
    cataclismatico sul contagiri
    che elemosina verde un asciugacapelli.

    La ruggine va a scuola
    in una foto del tempo deterso in uno spago sminuzzato.

    Tra i cani la doccia della pagina
    ingaggia i sarti dei pistacchi del commissario
    che cantano nell’alveo scontento:

    “Una sedia in crosta.
    Un albatro che tintinna.
    Una cerniera si nutre del panno di uno stormo.
    La donna sarda è caramellata
    nel quartier generale di Antigone.
    Un treno a galla va a scatto.
    L’incudine in linea si offende.
    La bistecca rotta da un motto.”

    Sui binari divaricati la Storia suda
    il sermone dell’ancella scommettitrice.
    Indossa guanti che mordono le ginestre
    e assecondano la perspicace ostrica
    nell’asola frattale.

    I piumini fanno omicidi
    sulla passeggiata anni ’50.

    Il treno della pera di un gatto
    di un pavone scaduto
    è un’elettroforesi in rada.

    La roccia smembrata dal sole malformato
    elettrizza la ghiandola pineale di Polifemo.

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  11. Il nesso physis – techne così come era concepito da Aristotele, riflettendo su quel processo per cui la techne, che inizialmente risultava essere quella modalità scoprente e conoscitiva che permetteva di stare di fronte alla φysis, e di avere a che fare con essa, finì poi per essere una manifestazione della violenza che piegò e soggiogò sotto di sé la tὁtalità dell’ente.

    Concepita erroneamente nella sua contrapposizione radicale alla physis, anziché dell’appartenenza originaria ad essa, la techne avrebbe così rappresentato il terreno fertile per l’imporsi del dominio tecnico sul mondo naturale, dando avvio a un processo culminato poi, in età moderna, nella forma dell’heideggeriano Ge-Stell. Alla tonalità emotiva che lascia essere l’ente, propria dell’esperienza pre-socratica del mondo, che consiste nello stupore (thaumazein) di fronte al fatto che le cose semplicemente sono anziché non essere, si sostituisce quella della techne, che opera in direzione di un afferramento teoretico- pratico dell’ente che si incentra unicamente sull’ente in quanto ente anziché sull’ente che prima di tutto è. Sebbene la techne qui non abbia la valenza né i caratteri di sfruttamento e manipolazione che assumerà in seguito nell’età moderna, tuttavia tale Stimmung, mancando di interrogare la radura manifestativa a partire da cui le cose necessariamente provengono, indirizza in via definitiva il pensiero occidentale nei pressi della dimenticanza dell’essere intesa come manifestatività originaria.

    In tale quadro l’ente, fissato nel suo eidοs, diviene l’oggetto che è causato, rappresentato e posto da una soggettività agente che di esso si fa così garante e sul quale può attuare in ogni momento il padroneggiamento conoscitivo-operativo.

    Jacopo Ricciardi resta nell’orbita di questo gigantesco processo epocale che vede la soggettività alle prese con la techne per il padroneggiamento della physis. Le varie riscritture della composizione in esame rispecchiano questo percorso accidentato: il lavoro della techne sulla materia del linguaggio vista come physis soggiacente. La techne è un fare, un lavoro che imprime il suo imprimatur sulla physis, lavoro che non avrà mai fine perché è la prassi a non avere un fine. Libera dal fine, la physis-linguaggio si rivela materiata di techne e di soggettività, e ciò rimarrà inalterato almeno fino a quando tra physis e techne non si stabilirà un punto di equilibrio.
    L’oggetto si sostituisce all’ente, la rappresentazione dell’oggetto si sostituisce alla donazione dell’ente. Là dove c’è la rappresentazione si insinua il dominio del subiectum sull’oggetto, della techne sulla physis.

    La metafisica è dunque in se stessa l’evento della dimenticanza del significato originario dell’essere, dimenticanza che in ultimo, nell’epoca della tecnica planetaria, giunge al suo culmine massimo, là dove il pensiero calcolante, proprio dell’impostazione scientifico-tecnica, con le sue leggi fisse e stabili, finisce per sostituirsi al pensiero poetico-meditante.
    La problematica della poesia di Ricciardi si iscrive in questo sentiero tracciato dall’epoca che segna la fine della metafisica e l’inizio del suo capovolgimento dis-velante, dell’improprio che si sostituisce al proprio, dell’estraneo che prende il posto dell’intraneo, del linguaggio esperito nel momento del suo massimo svigorimento denotativo.
    Il ruolo centrale che ha avuto il romanzo e la forma-poesia nell’invenzione della soggettività moderna ha qui una ennesima e ulteriore conferma, in quel movimento di lunga durata che porta alla progressiva scoperta, conquista e colonizzazione di uno «spazio interiore» che abita la «mente» nel momento in cui essa si scinde e si duplica in coscienza e auto coscienza.

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  12. milaure colasson

    caro Jacopo,

    poesia la tua molto complessa e misteriosa che deve essere letta e riletta a distanza di tempo, che forse potrebbe risultare più appetibile se se ne facessero poesie più brevi, ho come la sensazione che nella tua poesia coabitassero più poesie diverse. Dico bene?

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  13. Jacopo Ricciardi

    Ringrazio Linguaglossa per questo particolareggiato approfondimento. Nella seconda riscrittura ho cercato di intervenire là dove una latenza di linearità permaneva (nella prima riscrittura). Al contempo ho tentato di operare da questo frammentarsi più netto il dis-velamento della presenza assenza del commissario e dei frammenti del suo operare. O anche tentato, manipolando i versi con le parole, di raggiungere un certa fluidità, ossia di mettere in relazione i frammenti per aumentare la complessità (o meglio: la voragine) tra di essi. Ho trovato mille modi possibili di passare da un testo a un altro, da una parola all’altra (dalla prima alla seconda riscrittura) e ognuno di questi può funzionare: un gioco di pedine che cambiano volto, ricombinatorio, estraneizzante, sempre uscendo (e senza timore) dalla falsa rete di sicurezza del testo precedente. Cercherò una nuova riscrittura, con calma e pazienza. Il testo deve riposare e la mente anche.
    Per rispondere a Marie Laure Colasson, sì ho pensato che ogni piccola strofa potesse essere in fondo autosufficente, ma per ora non ho un’idea precisa in merito. So che devo sviluppare ancora il materiale. Mi sorprende come questo isolamento di parti che tu suggerisci in questa scrittura era stato suggerito da Giorgio Linguaglossa riguardo alle poesie precedenti (quelle sul gatto, falò…) pubblicate sull’Ombra. Tengo presente che queste due riscritture vengono da una di quelle poesie. Forse questa attitudine della materia poetica in qualche modo mi è specifica, poiché trovo le vostre parole assolutamente corrette. Ho pensato all’haiku e che forse ogni frammento di strofa potesse essere autonomo, autosufficiente, un micromacchinario del vuoto risolto in sé, contratto, e per qualche motivo indipendente, produttore di un grande baratro.

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  14. Era chiaro, già anni fa, che l’obiettivo era quello di minare il discorso poetico alle radici. Ma il discorso rimane… Fanno discorso le poesie di Mario Gabriele, quelle di Giorgio Linguaglossa, a tratti anche le poesie di Intini. La dinamica del discorso, presente anche nella frammentazione, si concentra sulla sintassi, e ha qualche possibilità di essere recepita se la qualità della prosa, e il linguaggio in essa contenuto, riesce a mantenere desta l’attenzione. Nelle ultime poesie, pubblicate su l’Ombra, di Marie Laure Colasson e di Franco Intini ho colto cenni di ripresa del discorso, pur nella frantumazione e nello scollegamento semantico. Ovviamente, non parliamo qui del discorso unidirezionale, piuttosto a me sembra un fare da programmatori (la riflessione di Ricciardi su haiku: “Ho pensato all’haiku e che forse ogni frammento di strofa potesse essere autonomo, autosufficiente, un micromacchinario del vuoto risolto in sé”. Gabriele docet).
    Va anche detto che particelle dell’intelligenza artificiale sono ormai presenti all’atto del concepimento: collegamenti e copi-incolla sono all’ordine del giorno.

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  15. caro Jacopo,

    L’entrelacement e l’aspettativa.

    La prima procedura consiste nella intromissione, nell’ambito di un ordito narrativo, di più personaggi o di più fili narrativi, ed è quindi un espediente retorico di origine narrativa; la seconda invece è più proprio dei testi poetici rispetto a quelli narrativi in quanto in essi l’intensificazione dell’attesa è un espediente irrinunciabile, di qui ne deriva la compressione spazio-temporale e lo sviluppo di un determinato tipo di sintassi semanticamente attrezzata. In tale contesto stilematico hanno rilievo momenti come «lontananza», «profondità», «gradazione», «sfondo», oppure «ottica, «visuale», «angolatura», «luce», nonché un rimando metaforico a nozioni temporali come «previsione», o «possibilità di eventi», che sono aderenti al lemma «aspettativa».
    Per converso, «aspettativa» – ad onta del significato squisitamente temporale – ha in comune con «prospettiva» un richiamo etimologico allo «sguardo» in quanto derivato diretto da ex-spectare; mentre il sinonimo di «attesa» da ad-tendere = tendere a, che discende dalla radice indoeuropea di ten, che contiene in sé l’idea di una dinamica contratta in un irrigidimento. Si profila a questo punto come lo stile della tua poesia sia uno Spiegelspiel, un curioso «gioco di specchi» tra i due poli di questa oscillazione prospettiva/aspettativa, mediante i quali l’uno si costituisce attorno a coordinate spaziali e l’altro sembrerebbe procedere con un moto inverso ma simmetrico, da coordinate temporali a coordinate spaziali. Il risultato di queste forze conduttrici del testo è uno stile amalgama, che tende ad omogeneizzare e analogare (se mi si passa il termine) i contenuti lessicali e semantici di diversa provenienza.

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  16. Sketch di Kitsch poem di Giorgio Linguaglossa

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  17. Jacopo Ricciardi

    Mi pare che ogni autore Kitchen abbia nel suo repertorio una lunghezza variabile di frammento, ossia un brano di testo che prima dell’apparire della frammentazione ha una linearità; è il momento di vuoto della spaccatura della frammentazione a rendere quel brano ‘apparente’, direi con una maschera smascherata. Quando Linguaglossa parla di ‘gioco di specchi’ riguardo alla mia seconda riscrittura, mi fa pensare al modo di procedere nella costruzione del verso, che in effetti là dove mostrava un’apparente linearità ho preferito porre una parola di traverso per far appoggiare la ‘situazione’ proprio su quella ‘rifrazione’ del vuoto.
    Ora se l’entanglement mette in relazione due punti separati in una contemporaneità che li unisce, tra loro c’è un pieno che è un vuoto, e i due punti separati si parlano nello stesso istante per contraddizione. Quindi il tempo o i tempi esistenti si muovono per tenere stabile il vuoto, e il vuoto accade solamente in un indurabile evento fatto di spazio e spazi. Questo credo possa essere il rapporto che io vedo tra parola e parola, tra parole e accadimento. Il vuoto aspetta ed è una prospettiva: questo gioco come un cubo di rubik senza termine è la scrittura che si dà forma, o verità, o spazio e tempo.

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  18. I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia «tra Atene e Gerusalemme», «tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione». «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».

    Petr Král “Tutto sul crepuscolo” Mimesis Hebenon, 2014 pp. 76, € 9 – traduzione di Antonio Parente

    Francesca Tuscano che firma la prefazione del libro di Petr Král, cita Roberto Bertoldo a proposito del suo concetto di «surrazionalismo»: «La poesia resta una creazione oltre la ragione e la realtà, però passa nel corpo dell’autore, attraverso di esse. La ragione che va oltre la ragione assume in sé quegli “integratori emotivi” che la qualificano. Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione» (R.B. Nullismo e letteratura p. 251 Mimesis).

    «Nella nota introduttiva, Král afferma che “di sicuro la mia poesia è necessariamente un po’ lontana dalla tradizione poetica italiana […] laddove nella poesia italiana direi che prevale la fluidità del canto, i miei sguardi alla realtà, spesso piuttosto perfidamente obliqui possono anche suscitare un minimo di disturbo”».

    È indubbio che la poesia di Král, da quanto risulta dalla traduzione del bravo Antonio Parente, suoni un po’ ostica all’orecchio della tradizione poetica italiana così incardinata nel discorso diretto e nella sua fedeltà al referente, inteso come qualcosa di oggettivo e di insindacabile e non come una icona che deve essere aggirata, incontrata in tralice, evitata semmai o circumnavigata. Insomma, ciò che dal punto di vista della tradizione italiana è lo sguardo frontale, troppo detto, nella poesia di Král, invece, risulta obliquo, in tralice, frutto di uno sguardo distratto. Si tratta di due modi di concepire la visione ottica di un oggetto. Nella poesia dell’autore ceco invece è proprio l’angolo visuale dal quale si osservano le cose che è “spostato” rispetto all’angolo visuale a cui siamo abituati nella tradizione poetica italiana, spostato in quanto ogni tradizione elegge un proprio punto di vista piuttosto che un altro. Si tratta di un fatto quasi inconsapevole per chi fa e legge poesia in italiano che lo lega e lo determina ad un modo di fare poesia all’interno della tradizione italiana che potremmo definire «frontale». La poesia di un Montale e di un Sanguineti da questo punto di vista non differiscono affatto, entrambe stanno davanti all’autore e al lettore in modo frontale, diretto; ne consegue che lo sviluppo metrico e sintattico non può non seguire questa impostazione di fondo. Nella tradizione poetica italiana del novecento, non c’è una indirezione sintattica, non c’è uno sviluppo prospettico o scopico del punto di vista dell’agente poetico. Direi invece che nel poeta ceco questo “spostamento” del punto di osservazione determina anche uno spostamento-slogamento sia dell’ordine logico-sintattico che dell’ordine musicale, ovvero, del pentagramma tonale e fonosimbolico. Da questo nucleo problematico ne deriva un nodo che non può essere sciolto dal traduttore (comunque sempre attento a trasportare nell’ordine logico-semantico dell’italiano quanto vi può essere traslocato). Direi che l’utilità della lettura di questo poeta ceco sta proprio qui, nella sua capacità di mostrare al lettore italiano un diverso modo di considerare gli oggetti e le relazioni che ci legano al mondo degli oggetti, giacché sono gli oggetti ad essere determinati dal mondo e non viceversa, come crede il senso comune.

    (Giorgio Linguaglossa)

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  20. La poesia kitchen di Francesco Paolo Intini abita il «derisorio» come San Francesco abitava la lingua degli uccelli. È che i tempi sono cambiati, occorre aggiornarsi, magari con corsi di formazione e aggiornamento per gli impieghi resi disponibili. È che la patria metafisica delle parole di Jacopone da Todi e San Francesco è molto diversa dalla nostra patria delle parole radi e getta; non c’è altra patria metafisica che queste, non c’è modo di aggiustare le parole secondo i dettami del linguaggio profilattico di oggi. È che non c’è modo di aggiustarle affatto.

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  21. vincenzo petronelli

    Complimenti a Mimmo Pugliese ed a Jacopo Ricciardi per i loro componimenti, grandi esempi di Poetry Kitchen, di nuova ontologia poetica, La poesia di Mimmo è straordinariamente incisiva perché evidenzia in modo particolare un elemento fondamentale iscritto nella visione Noe e cioè il suo essere dissacrante e destrutturante rispetto alla ieraticità e quindi alla sacralizzazione rappresentata dalla tradizione poetica, con tutta la sua zavorra. C’è una carica non solo palingenetica nella sua poesia, ma anche “ludica” ironico/giocosa, che esalta il senso “ricostituente” della poesia Noe. Indubbiamente,ritengo che il suo ingresso nella redazione dell’Ombra possa essere proficuo per tutto il collettivo – o come preferisco dire in gergo sportivo – il gruppo.
    La poesia di Jacopo, oltre alla sua capacità di utilizzare lo strumento linguistico per esplorare continuamente i limiti del dicibile, del narrabile, si contraddistingue per la sua ricerca spasmodica, inesauribile, puntigliosa, caratteristiche nelle quali mi ritrovo totalmente, anche perché si tratta di una qualità necessariamente ascritta ad ogni componente della Noe; come giustamente afferma Giorgio, “il poeta che si ferma, che si arresta una volta conquistato il suo piccolo linguaggio poetico, è un poeta finito” e penso che questo sia un po’ un motto che ci accomuni tutti.
    Saluto infine con entusiasmo la nascita degli “Stati generali della Poetry kitchen”: si tratta senz’altro di una grande opportunità e di un segnale inquivocabile dell’avanzamento, del progresso del nostro progetto.
    Ho anch’io in mente dei progetti che spero di condurre in porto per il prossimo anno.

    Buona serata a tutti, amici dell'”Ombra”.

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  22. Pingback: Stefanie Golisch – Alessandria today @ Web Media. Pier Carlo Lava

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