L’umano non è per Giorgio Agamben, come per la tradizione della metafisica occidentale, Zoon logon echon, l’animale che ha il linguaggio, ma piuttosto l’animale che, a differenza degli altri animali che «sono sempre assolutamente nella lingua», ne è privo e deve riceverlo dal di fuori, e quindi dimora nella scissione tra lingua (il sistema dei segni) e parola (l’uso). La teoria agambeniana dell’«in-fanzia», come luogo nel quale si è privi di lingua, si pone dunque esplicitamente come uno svolgimento della distinzione tra semiotico e semantico formulata da Benveniste. Forse proprio in questa sottilissima linea divisoria tra semiotico e semantico è possibile per un poeta di oggi situare il linguaggio poetico come linguaggio già pronto, ready language, una zona neutra di indistinzione tra il sistema semiotico e il sistema semantico.
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Ready language poetry di Giorgio Linguaglossa
Caro Giorgio,
raccolgo con grande piacere il tuo invito a sottoporre ai lettori dell’ “Ombra delle Parole” questo profilo della mia storia poetica.
Ho sempre amato la poesia e la sua capacità di “curvare” le parole, come frutto dell’attrazione per la magia della parola e per la possibilità di plasmarla. Come tanti, ho cominciato a cimentarmi con i primi versi in età tardo-adolescenziale, per avviarmi a dei tentativi più “seri” e “sensati” attorno ai vent’anni, in un contesto culturale caratterizzato da interessi estremamente eclettici, culminati in un percorso di studi storico – antropologici, ambito nel quale successivamente sono stato anche ricercatore e che tuttora continuo a seguire come cultore della materia. Se da un lato tale versatilità mi ha permesso di individuare da subito la capacità della poesia di farsi vettore di questa visione olistica della vita e del mondo (tanto che ho sempre amato definire la mia poesia “antropologica”) dall’altro lato ne ha segnato probabilmente un limite nella ricerca iniziale sul linguaggio, in quanto ingabbiata nella commistione con la passione, altrettanto pregnante, per la musica e dall’idea – che ha accompagnato a lungo la mia versificazione in quel periodo – della ricerca di un registro popolareggiante, ricerca mutuata tanto dall’influenza cantautorale e dal filone musicale folk-rock, quanto dal mio retroterra antropologico. Se per un verso ciò mi ha conferito subito quel gusto per la narrazione e l’astrazione dalla logica dell'”Io” e dalle tendenze della poesia salottiera ed elitaria, dall’altro ha determinato il limite, in quella fase, di un indugio ed un compiacimento per il gusto folkorico – comunque qui inteso nel senso nobile, cioè antropologico del termine- per un lirismo esplicito, ostentato. Il risultato, al contrario delle premesse, finiva per appiattire il possibile spettro espressivo dei miei versi, sacrificandone l’eclettismo e ciò nonostante da sempre abbia attinto a letture e riferimenti poetici i più disparati, di differenti tradizioni geografiche e linguistiche e di diversa impostazione stilistico – espressiva, ma se ciò penetrava nella mia scrittura di allora con vari stimoli e suggestioni, non riusciva ancora ad incunearsi nella mia scrittura dal punto di vista tecnico.
I modelli prevalenti finirono per essere poeti sicuramente immensi (senza alcuna lontana pretesa di volermi a loro assimilare) come Yeats o Garcia Lorca, ma che presto ho cominciato ad avvertire distanti dalle mie istanze poetiche: ferma restando l’importanza e la centralità assunta nella mia formazione dalla cultura popolare, cominciavo a rendermi conto del fatto che essa non fosse un monolite, ma che al contrario, essendo a sua volta coinvolta nei processi di trasformazione del mondo e della società tutta, soggetta a mutamenti di paradigmi e declinazioni ed ad ampliamenti di territori ontologici.
Ecco un esempio di “parti” di quest’epoca: nel primo caso si tratta di un brano composto nel dialetto di Barletta – la mia città – naturalmente seguito dalla traduzione in italiano, ed il secondo in italiano.
Un amore di rosa
Giugne ièrre ‘na nàve de cundrabbandiére
ca da sope ‘e pelùne arruave abbásce ‘o puorte
e assèvene ‘i menénne a aspettà i frastière,
assave a zinghere ca addevenave ‘a sòrte.
Luglie profumave de cièlse e de lemone
e de promèsse ‘nu fagugne d’a condrore;
stèvene ciènde rose sope ‘o balcone
e da nbiètte te zumbave ngánne ‘u core.
A agòste scettièste nu sòlte abbásce ‘o puozze
che ‘na lèttre lôrde, ráchele de sánghe
e rendrunave rête ‘e iárevere ‘a carròzze,
ma ‘u bbêne nôn vêne crè e pscrè nemmánghe.
Traduzione
Giugno era una nave di contrabbandieri
che dalle pozzanghere arrivava dritta al porto
uscivano le ragazze ad aspettare i forestieri
e usciva la zingara che leggeva la sorte.
Luglio profumava di gelsi e di limone
e di promesse nel favonio della controra;
c’erano cento rose sul balcone
e il cuore dal petto ti saltava in gola.
Ad Agosto gettasti un soldo nel pozzo
con una lettera, rantolo di sangue
e riecheggiava dietro l’albero la carrozza,
ma l’amore tuo non arriverà domani e neanche dopodomani.
Il volo
Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.
Così ogni notte
liberato il mio inquieto colombo,
raccolgo
come contrabbandiere di confine
il povero bagaglio dei miei ricordi
ed attraverso i sentieri tracciati.
Sono ampi spazi
disseminati nel bianco fragore di case
col volto dei millenni,
e suoni
riecheggianti nelle stanze
dalle strade mute,
voci di bambini
sospinti dal vento
per le valli.
Sono mani dure
ed occhi rugosi di contadini
asserragliati nelle loro memorie
squarciate dagli inverni,
e donne che cuciono
la trama sottile di un tempo impari,
inebriate di sole
che esonda dai muri d’ombra
le loro ali di cera.
Sono stazioni scomparse
tra anfratti di treni a vapore,
che rifrangono accenti di giorni passati
mescolati
agli odori del mezzogiorno
ed alle grida dei venditori.
Sono sfumature di bianco e nero
e contorni di terra e sangue
che la storia
non cancellerà.
Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.
Penso che appaiano fin troppo evidenti i richiami ad immagini evocative della cultura contadina ed i riferimenti ad una poesia popolareggiante liricamente ridondante.
Se c’è un elemento che ritengo essere stata invece un’intuizione interessante è la modalità con cui ho fin da subito esperito l’uso delle lingue locali: paradossalmente, nonostante la pervasione di questo lirismo popolareggiante, cui apparentemente il dialetto è subordinato, l’idea del ricorso alle lingue locali è invece stato immediatamente associato più alla ricerca di una koinè universale, al punto che scritti che potrebbero sembrare nati da episodi di vissuto locale, affondano la loro genesi in esperienze o vissuti connessi ad una formazione che mi ha sempre fatto vedere nelle radici un trampolino da cui spaziare verso il mondo, per cui quest’attitudine antropologica è corrisposto anche ad un continuo ampliamento del bacino geografico dei miei interessi. In effetti, tale afflato si è accompagnato anche ad una robusta conoscenza linguistica (mi sono dilettato anche nella composizione – estemporanea in verità – in alcune lingue estere di mia conoscenza) e conseguentemente nella possibilità di viaggiare molto, cosa che ha influenzato le mie suggestioni poetiche, ma prediligendo stilisticamente farle convergere in una sorta di declinazione universalistica che mi permettesse l'”accorciamento delle distanze”, attraverso un processo di contaminazione e di traduzione, una una sorta di Bringing it all back home, per la quale necessitavo di una lingua affettivamente vicina al mio vissuto personale, ma al tempo stesso neutra: disegno al quale le lingue locali della mia area si prestano perfettamente per il fatto di non possedere una tradizione poetica radicata e di essere dunque sganciate da dettami “di scuola”. Risulta però evidente a posteriori come anche questa potenzialità del registro linguistico, rimanesse compressa in un quadro eccessivamente lirico – folkorico.
Alla fine degli anni ’90, ho cominciato a percepire una distanza sempre più stridente da questo modo di fare poesia, avviando un percorso palingenetico, abbinato non solo ad una necessità di rinnovamento personale della mia versificazione, ma anche – in un contesto in cui nel frattempo avevo cominciato ad ampliare i miei orizzonti di conoscenza poetica e del panorama della produzione poetica contemporanea – dell’inderogabilità per ogni poeta, anche il più modesto, di cercare di offrire un contributo al progresso delle attività artistiche e del sapere, per testimoniare nella propria opera il proprio tempo.
La “prima pietra” di questo percorso di rinnovamento è stato l’incontro con la poesia di Paul Muldoon, poeta nord-irlandese considerato la voce vivente più alta della poesia in lingua inglese con il suo stile fortemente allusivo e talvolta criptico, l’ironia ed autoironia, con i giochi di parole ed una musicalità “atipica”; un poeta di transizione se vogliamo, tra una poesia ancora “oggettiva”, ma con una complessità architettonica già straniante e ri-strutturante. Un poeta, Muldoon, che adotta in alcuni capitoli della sua produzione, anche la poesia narrativa, ma secondo la consuetudine “alta” tipica in questo senso della poesia anglo-sassone, che quasi contemporaneamente mi ha dischiuso le porte all’approfondimento anche di altri poeti, in particolare quella di altri due poeti irlandesi: Seamus Heaney e Patrik Kavanagh, sebbene tra loro molto diversi.
Tra i miei scritti di quel periodo (siamo ormai all’inizio degli anni 2000) ce n’è forse solo una che può avere un barlume di dignità, anche in questo caso composta in barlettano:
U Spusalizzie
Atténəmə jêrə də Cérəgnolə
manəsciavə i parolə accomə e curtiddə;
mamminəmə jêrə andrəsànə,
propriə u pajeisə d’i zappatourə e di bbàbunə
ndò i dibbətə pəsèvenə
accomə a na zochə ngánnə.
Na sciurnàtə appêsə də Márzə,
nonònnə facèttə mbáccə ‘a figghjə:
“Nan nə tənéimə daggè abbastánzə de uájə,
ng’i vuléimə scì a truà a fòrzə? Cə jə, tə fêtə
l’árjə ca tə nə vu scì da ddò?”, chə l’ucchjərə appəcciàtə.
‘A sêrə, doppə ca fərnavə də cusì,
mamminəmə assavə i fotograféje
da ìində o tərèttə,
adunénnə i pənzìirə nzìimə o ppànə da sope a távələ;
méndrə atténəmə sə sciavə a còlchə e sə sciuscelavə
ch’i rraggiunamìinde sou; u prèstətə da cercà a bánghə, a máchən-a novə,
i bastárdə ch’ i mannèvənə a schəmmunəchə.
Il matrimonio
Mio padre era di Cerignola
maneggiava le parole come coltelli;
mia madre era andriese,
proprio la città dei contadini e dei “signorsì”
dove i debiti pesavano
come una corda intorno al collo.
Un giorno incerto di Marzo
mio nonno disse rivolgendosi a sua figlia:
“Non abbiamo già abbastanza guai,
da andarceli a cercare a tutti i costi? Cosa c’è, ti puzza
l’aria, che vuoi andar via da qua?”, con gli occhi accesi.
Alla sera, dopo che finiva di cucire,
mia madre tirava fuori le fotografie
dal cassetto,
raccogliendo i pensieri insieme al pane sul tavolo;
mentre mio padre andava a dormire e si gingillava
con i suoi ragionamenti; il prestito da richiedere in banca, la macchina [nuova,
i bastardi che gli portavano sfortuna.
C’è, indubbiamente, l’intento di provare a rinnovare la mia “langue” poetica, anche con la ricerca di una maggior prospetticità di indagine, ma è ancora tutto sommato un “usus scribendi”, quanto meno nella resa che ne emerge dai miei scritti, ancorato al solco di una certa tradizione e di conseguenza con un esito complessivo ancora insoddisfacente; costituisce però un punto di partenza verso un rinnovamento decisivo, intervenuto dopo una lunga riflessione e dopo un ampio ripensamento della mia stessa visione della poesia e del mio processo compositivo, giunto con l’ingresso nel decennio scorso. Si è trattato un periodo di sosta nella scrittura onde potermi concentrare sulla riflessione poetico – filosofica, viatico per l’incontro con la poetica della Noe (Nuova ontologia estetica), risultato determinante per il mio percorso personale.
Elementi fondamentali di questo momento di trasformazione, sono stati gli incontri con la poetica di Tomas Tranströmer e con quella musicale (ma che trovo sia estremamente riduttivo incasellare nell’alveo di un’unica etichetta espressiva) di Franco Battiato, due artisti che in verità già conoscevo bene, ma del cui approccio poetico evidentemente non mi ero ancora appropriato adeguatamente; due artisti diversi, ma in qualche modo entrambi apportatori di nuovi paradigmi ontologici.
La convinzione di dover destrutturare e ristrutturare il modello di poesia prevalente sino ad allora nel mio cammino, per andare oltre il piattume degli schemi poetici corrivi – con la loro gratificazione consolatoria – e l’irrequietezza per la ricerca di un modello di poesia in grado di scavare nell’”archeologia” dell’esistenza, intrecciando i fili dispersi tra i frammenti delle nostre traiettorie, per ricostruirvi organicamente le tracce, sono stati il motore primo di questa nuova configurazione di paradigma.
Naturalmente ho citato Tranströmer e Battiato come terminali di un itinerario che, come sempre nella mia natura di onnivoro si è nutrita e si nutre di una fitta schiera di letture e riferimenti.
Lo zenit di questo tragitto evolutivo è stato indiscutibilmente l’incontro nel 2015 con l’opera di divulgazione di Giorgio Linguaglossa e il progetto Noe, punto d’approdo della mia rotta ed insieme di ripartenza continua del viaggio grazie al dinamismo di un iter continuamente arricchentesi di nuove prospettive, incontri e formulazioni che ridefiniscono costantemente la nostra ricerca – come è giusto che sia in un “viaggio” intellettuale – che partendo dalla focalizzazione sul frammento, per giungere alle definizioni di Poetry kitchen ed instant poetry ha profondamente rivoluzionato i teoremi poetici novecenteschi e con i quali, volente o nolente, la critica letteraria dovrà fare i conti per l’analisi storica futura della poesia italiana, sempre che sia in grado di disincagliarsi dalle secche della poesia da salotto e da consorteria massonica dei circoli letterari.
A ciò si aggiunge anche un altro aspetto di frattura intervenuto nel mio processo di maturazione che mi ha condotto verso la coscienza di un necessario rinnovamento e che è la ricaduta politica della perpetuazione della solita impostazione poetica consunta, che menziono di seguito, citando un mio recente intervento nell’“Ombra” (e chiedo scusa per l’autocitazione):
“La ricaduta è politica tout court e politico-editoriale. manifestata dal profluvio di produzione editoriale poetica – che investe anche case editrici importanti – basata esclusivamente sui meccanismi facebookiani per costruirsi un mercato redditizio di breve termine, privo di qualsivoglia progettualità e funzionale solo all’edonismo, all’auto esaltazione dell’io, punto d’approdo attuale del disegno culturale del capitalismo multinazionale ed il suo modo di produzione. E si giunge così al punto fondamentale: una poesia, una produzione artistica frutto di una sorta di autismo lirico” è destinata a smarrire la sua funzione di coscienza sociale e culturale, di anticorpo naturale che la società si crea contro i condizionamenti del potere. È una condizione pericolosissima evidentemente, ancillare ai populismi ed alla demagogia che vediamo prosperare attorno a noi in quest’epoca sbandata e proprio questo sbandamento, fa sì che solo un modello di ricostruzione di questa frantumazione, quale il modello Noe nelle sue declinazioni evolutive – frammento, poetry kitchen, instant poetry possono riuscire a restituire alla poesia la sua funzione di testimonianza”
Sono così giunto ai più recenti risultati, di cui indico qui di seguito due esempi, uno improntato ad un puro lavoro sul frammento di matrice transtromeriana (perdonami per l’ardito accostamento, Tomas) e l’altro più legato all’idea di Poetry kitchen, modello supremo della quale è per me Mario Gabriele (e chiedo venia anche al grande Mario) punto di riferimento supremo della Noe, per quanto modello non unico, ma affiancato in questa direzione da altri validissimi esponenti della Nuova Ontologia Estetica.
Sulla strada del confine
Pomeriggio di ottobre: tocco di campane,
nel cielo livido di Celje.
Il vestro di alabastro bianco,
indugia sulla stazione,
ai bordi della Pannonia.
Incuranti, i lucernai tracciano i contorni sparsi,
come sul limes dei sogni
il cui baluginìo ti scorta
fino al primo vagito di memoria.
Un tintinnìo di bicchieri sciaborda lontano
tra i punti luminosi all’orizzonte.
Distratta, slitta la storia: nuovi pezzi di ricambio,
il sole tiepido d’autunno,
alleviano la stretta ai polsi:
le divise abbandonate nei fossi.
Dietro il vetro di alabastro bianco,
la prospettiva lenta sulla vita,
dietro i punti luminosi all’orizzonte.
Le ragazze nei vestiti d’estate
La carrozza di mezzogiorno, lungo il viale dello Steccato,
accompagna il cambio della guardia nella torre d’avvistamento.
Il corridoio converge verso il tavolo da cucina: un cesto di fichi fioroni
ed un presagio di zingara, adornano il mattino della sposa di giugno.
La radio annuncia mare in tempesta tra Zara e il golfo del Quarnaro:
prevede vento di sciacallo e polvere da sparo al tramonto.
Dal balcone di Cesenatico, il professore dispensa saggezza all’ora del caffè: meglio il 4-4-2, è più prudente.
Anna esce subito dopo pranzo per l’allenamento di atletica,
mentre suo padre depone l’uniforme socialista;
il quartiere è una girandola di glutei ondeggianti tra le finestre e la spiaggia, nella penombra scabra del meriggio.
Le commesse al giovedì sera hanno occhi di scoglio e di miele:
ci sono carte da decifrare sul limes d’occidente.
Marisa ha un vestito da mannequin, nel deposito degli attrezzi agricoli: l’hanno vista l’ultima volta in una notte chiara di cornacchie,
intrappolata in un labirinto.
Dalla finestra della scuola d’arte, i sorrisi delle ragazze nei vestiti estivi
ed il monito dell’insegnante di metrica latina: “Ragazzo mio,
tu non conosci l’esametro dattilico: non combinerai mai nulla nella vita”.
Sono logicamente ben consapevole delle tormente, delle procelle, degli sbandamenti che mi attendono lungo quest’oceano da solcare per affinare la mia poesia, sapendo di dover ancora compiere molta strada, ma sono e sarò eternamente grato alla Noe per avermi messo a disposizione quest’ampia terrazza da cui spaziare su una vista più ampia e profonda di quel cosmo che è la poesia, sussumente lo stesso significato dell’esistenza.
Con affetto ed immensa stima.
Vincenzo Petronelli
caro Vincenzo,
è l’età della fine della metafisica che si rivela come età della mancanza di senso. Non siamo io o Mario Gabriele o Lucio Mayoor Tosi o la poetry kitchen a decretare la «mancanza di senso» del linguaggio della nostra attuale fase di civiltà ma è il destino storico-epocale dell’ente nelle condizioni di gettatezza in cui l’ente storicamente si trova che manifesta l’apertura o la chiusura dell’ente. La Sinnlosigkeit (la mancanza di senso) è ciò che annuncia la «mancanza di radura» dell’essere (das Lichtung-lose), per esprimerci con le categorie di Heidegger.
La tua trentennale e personale ricerca che è partita dal «senso» per giungere alla «mancanza di senso», al «fuori-senso» e al «fuori-significato» dei linguaggi delle emittenti linguistiche della nostra attuae fase di civiltà è rispettabile, forse anche ammirabile ma corre il rischio di rivelarsi un Ge-Stell, una imposizione, un dispositivo del soggetto che «vuole», con un atto impositivo, imprimere nel mondo il sigillo dell’atto del «senso» nel linguaggio poetico.
La poiesis kitchen è la «storia» di un perdersi dentro il linguaggio materno (quello della tradizione) e di un ritrovarsi in un altro linguaggio (quello della poesia kitchen e della instant poetry) che si è allontanato definitivamente da quel linguaggio di origine. Il linguaggio poetico si situa in questa distanza, in questo «frammezzo», in questa tensione tra un linguaggio trovato e uno allontanato, un linguaggio che si è irreversibilmente allontanato dall’alveo materno (Cfr. le tue poesie in linguaggio materno: in vernacolo). In quanto il linguaggio poetico è sempre un non domato, un linguaggio di tracce semi cancellate che baluginano nella pre-coscienza, senza mai riuscire a venire completamente alla luce se non per frammenti, per tracce.
Perché sappiamo che tutto ciò che è, è tale in accordo a un preliminare orizzonte d’essere che lo dispone.
Qui si pone l’attenzione però su una cosa fondamentale, che troppo spesso rischia di essere tralasciata, e cioè che questo orizzonte d’essere ha un punto di vista, così come un punto cieco, e mentre riceve e dispone tutto ciò che è in accordo al suo senso, è a un tempo spalancato a partire da un qui, da un «Ci» che ne fornisce l’orientazione. Questo «Ci» dell’essere è appunto l’esserci che dimora nella presenza, o meglio, nel «frammezzo» (Das Zwischen) della presenza. Ciò vuol dire innanzitutto che tale orizzonte, in quanto orientato, non è assoluto, ha un punto di vista che non può ricomprendere tutto ma che accoglie e rigetta, seleziona e dispone, proprio a partire da qui, dal «Ci» che esso stesso è, e non da un astratto punto distante, neutrale e indifferente.
Questo è il tema centrale della finitezza di cui ogni sviluppo metafisico dovrebbe farsi carico: ogni considerazione sull’essere in generale è già sempre posta a partire da una posizione ontica che ne determina in qualche modo l’orientazione, il suo carattere, il suo limite.
È la nostra posizione nel mondo (la Befindlichkeit) che orienta la nostra posizione nel mondo. È il nostro individuale modo di relazionarci con il linguaggio poetico che orienta il linguaggio poetico stesso. Abbiamo imparato che la nostra è una ontologia modale, cioè che è data dal modus con cui abbordiamo il rapporto tra il linguaggio e il reale.
Ciascuno ha il diritto e il dovere di cercare la propria via di accesso a questa ontologia modale, al proprio linguaggio poetico.
La glocalizzazione (glo-bale + lo-cale) è la nuova forma con cui si dà oggi la modernizzazione.
La globalizzazione è un concetto che intende sostituirsi al paradossale universalismo eurocentrico di inizio novecento. Questo movimento di pluralizzazione della temporalità moderna e di unificazione del suo linguaggio su scala globale e su scala locale, determina le condizioni e l’orizzonte problematico dentro al quale si collocano le teoresi e le pratiche delle modernità multiple, delle modernità glocali. I linguaggi che narrano il mondo odierno tendono a diventare sempre più glocali, si universalizzano nel mentre che si individualizzano, talché si riscontra una maggiore universalizzazione linguistica quanto più i linguaggi tendono a divenire glocali.
È questo il caso eclatante della poetry kitchen i cui linguaggi tendono a diventare glocali, acquistano la massima localizzazione nel mentre che attingono il globale.
Siamo quindi condannati ad andare avanti, verso il rumore delle parole, quelle assurde, insignificanti, plurisignificanti, impostore, fasulle, nauseabonde dove ciascuno parla il proprio «idioletto» e fa gesti inconsulti, gestualità da teatro, ipotiposi, usa parole canovaccio, parole-straccio, parole diverticolate, impresentabili, ineducate, parole operazionali, posiziocentriche quando invece dovremmo imparare ad abitare le parole «inoperose», quelle che si sono liberate dal «senso» e dal «sensorio».
La poetry kitchen non attiene alla funzione semantica e cognitiva del linguaggio dal punto di vista strumentale con cui lo trattiamo nella comunicazione, ma alla sua non-corrispondenza tra la parola e la cosa, poiché la sua funzione non è quella di garantire la verita e l’efficacia della corrispondenza puntuale fra le parole e le cose e le azioni, bensì quella di indicare la non-corrispondenza sistemica tra le parole e le cose e le azioni, insinuare uno stadio di eccezione permanente che ha luogo nelle lingue per lì operare, un significante libero, fluttuante, eccedente che non corrisponde a nessun denotatum, a nessun significato.
Il fatto che il pensiero allontana ciò che è vicino, o meglio, si ritrae da ciò che è vicino e avvicina le cose lontane, è un elemento decisivo per riuscire a comprendere con chiarezza la dimora del pensiero.
(Hannah Arendt)*
Heimatlosigkeit significa nella lingua tedesca “senza patria”. È un’espressione precisa che rimanda all’assenza di una dimora e che si connota con il tono di uno smarrimento esistenziale.
«Wir irren heute durch ein Haus der Welt» –
«Noi erriamo oggi nella casa del mondo» (1), dice Heidegger, poiché ci manca il linguaggio. Senza casa e senza linguaggio, l’uomo va cercando una dimora da abitare e una parola da pronunciare; nella sua ricerca egli erra nel mondo come un’ombra straniera persino a se stessa. Il tempo della mancanza del linguaggio è il tempo della povertà, il tempo dell’epoca storica in cui l’essere si cela; essa è un’epoca contrassegnata da un limite linguistico inteso come un limite verso l’apertura storica dell’essere stesso.
Eppure «il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo»(2). Pur essendo quanto di più proprio caratterizzi l’uomo, in quanto co-esistenziale del Dasein, il linguaggio è quanto di più lontano l’uomo riesca ad esperire.
L’abuso linguistico e l’usura delle parole attestano e confermano questa mancanza originaria. La parola contemporanea è figlia di uno sfruttamento: essa ha perso il potere di radicare l’uomo nella cosa che indica e con questa perdita ha estromesso l’uomo dalla sua originaria linguisticità. «Nell’epoca attuale si porta al predominio sempre più decisivo un altro rapporto con la lingua a causa della fretta e della grossolanità del parlare e dello scrivere quotidiano. Perché noi crediamo che anche la lingua, come tutte le altre cose quotidiane con cui abbiamo a che fare, sia solo uno strumento e più precisamente lo strumento della comunicazione e dell’informazione […]. L’idea della lingua come strumento di informazione si spinge oggi fino all’estremo. Si ha una conoscenza di questo processo ma non si pensa al suo senso […]. Il rapporto dell’uomo con la lingua si sta trasformando in un modo la cui portata non possiamo comprendere ancora. Il percorso di questa trasformazione non si può arrestare immediatamente ed inoltre si svolge nel silenzio assoluto» (3). Questa contraffazione del linguaggio ha come effetto quello di ridurlo a mezzo di comunicazione e di informazione calcolabile, al punto tale che esso «è trattato come un oggetto manipolabile a cui la forma del pensiero deve adeguarsi» (4).
L’usura linguistica di cui Heidegger si fa interprete è un tema di riflessione complesso: la denuncia della deficienza del linguaggio e della manipolabilità che l’uomo compie a suo discapito sono solo la parte più appariscente di una riflessione che affonda le sue radici all’interno della domanda sul senso dell’essere. In tal senso, la povertà linguistica è strettamente connessa alla povertà metafisica ed all’impossibilità storico-destinale di pensare l’essere. Proprio con Sein und Zeit Heidegger aveva fatto esperienza della povertà linguistica, sebbene in quel contesto si trattasse del linguaggio metafisico; l’incompiutezza dell’opera del 1927 scontava l’inadeguatezza del linguaggio metafisico e più in generale del rapporto dell’esserci con il linguaggio.
L’opera rimase incompiuta perché ciò che mancava era il linguaggio e tale mancanza si configurava come intimamente connessa con la dimenticanza dell’essere. Partendo da questa scoperta, Heidegger sottolinea più volte nel corso della sua meditazione che non occorre tanto formulare un nuovo linguaggio, quanto mutare «il rapporto all’essenza dell’antico» (5), cioè cambiare il rapporto con cui lo si intende connesso all’essere.
Il linguaggio deve così essere pensato e nominato in base alla relazione che intrattiene con l’essere; «Il linguaggio è avvento diradante- velante dell’essere stesso» (6); «In quanto tale l’essere è misterioso, la semplice vicinanza di un dominare non invadente. Questa vicinanza dispiega la sua essenza nel linguaggio.Sennonché il linguaggio non è meramente linguaggio, giacché noi ci rappresentiamo il linguaggio, nel migliore dei casi, come unità di forma fonetica, melodia, ritmo e significato […]. Siamo soliti pensare il linguaggio in corrispondenza all’essenza dell’uomo inteso come animal rationale, cioè come unità di corpo, anima e spirito. Ma come nella humanitas dell’homo animalis resta nascosta l’e-sistenza, e con essa il riferimento della verità dell’essere all’uomo, così l’interpretazione metafisica del linguaggio sul modello “animale” ne occulta l’essenza che secondo la storia dell’essere gli è propria. In riferimento a questa essenza, il linguaggio è la casa dell’essere fatta avvenire e disposta dall’essere. Perciò occorre pensare l’essenza del linguaggio a partire dalla sua corrispondenza all’essere, ed intenderla proprio come questa corrispondenza, cioè come dimora dell’essere umano» (7).
Sin dagli anni ’30 in poi la questione sul senso dell’essere diventa per Heidegger la questione sul senso del linguaggio: «Nel pensiero l’essere viene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono» (8); per questo «il linguaggio è a un tempo la casa dell’essere e la dimora dell’essere umano» (9).
La meditazione di Heidegger successiva alla Kehre, quindi, vuole proprio configurarsi come un’esigenza originaria del pensiero attraverso cui restituire alla parola la possibilità di essere la casa dell’uomo. In questo senso i chiarimenti intorno alla poesia di Hölderlin diventano uno strumento privilegiato per risignificare la linguisticità dell’uomo. Così l’abitare e il poetare (10) si fanno sinonimi della consacrazione del suolo che avviene per opera della poesia e che fonda ciò che resta (11): «Il poeta nomina gli dèi e tutte le cose in ciò che esse sono. Questo nominare non consiste nel fatto che qualcosa di già noto prima verrebbe soltanto provvisto di un nome, ma, invece, quando il poeta dice la parola essenziale, l’ente riceve solo allora, attraverso questo nominare, la nomina a essere ciò che è. Così viene riconosciuto in quanto ente. La poesia è istituzione in parola (worthaft) dell’essere. Ciò che resta non viene perciò mai attinto da quanto è caduco […].
Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento» (12). Così, «l’abitare che istituisce è l’abitare originario dei figli della terra che sono al tempo stesso i figli del cielo. Sono i poeti.
La loro poesia è in primo luogo soltanto istituzione. Questi poeti tracciano in primo luogo soltanto salde fondamenta sulle quali deve essere costruita la casa in cui devono venire come ospiti gli dèi. I poeti consacrano il suolo (weihn den Boden)» (13).
«Pieno di merito, ma poeticamente, abita / l’uomo su questa terra» (14) cantava Hölderlin, il poeta che, come ricorda Gadamer, sciolse la lingua ad Heidegger (15). Il carattere poetico dell’abitare dell’uomo sulla terra consiste nel suo fabbricare “poeticamente” le proprie case: «L’abitare [das Wohnen] dell’uomo dovrebbe essere poesia [Poesie], cioè qualcosa di poetico» (16), in quanto «il poetare edifica l’essenza dell’abitare […]. Poetare e abitare […] sono in una connessione inscindibile, si richiedono reciprocamente» (17). L’abitare è il modo principale con cui l’esserci attua la sua struttura fondamentale di essere-nel-mondo, essere-con-gli-altri ed essere-per-la-morte. In tal senso, se il «poetare è un costruire»(18), questo stesso poetare diventa anche un misurare lo spazio abitato sulla terra (la geometria) e il suo essere rivolto al cielo (l’astronomia). Il misurare poetico di cui parla Heidegger non ha nulla a che fare con il calcolo della scienza, col computo tecnico; piuttosto esso è ciò che permette all’uomo di riconoscersi come mortale proprio inverando, attraverso il misurare medesimo, il suo essere-per-la morte.
Questi inviti della meditazione di Heidegger a pensare il nesso poetare-abitare si collegano alla possibilità di pensare un luogo dove l’uomo può abitare, di un radicamento stabile nel terreno in cui si vive (19): «Se l’antico modo di radicarsi dell’uomo è già andato perduto, non potrebbe esserci concesso ancora un nuovo fondamento, un nuovo terreno, radicandosi nel quale l’essere dell’uomo ed ogni sua opera possano sbocciare in modo nuovo, persino all’interno dell’era atomica? Quale potrebbe essere questo fondamento, questo terreno su cui stabilire in futuro le proprie radici?» (20).
[…]
Il Geviert, termine attinto dalla poesia di Hölderlin e presente negli scritti del filosofo posteriori al 1950, viene reso da Heidegger con em>Quadratura, indicando la riunione poetica di quattro “elementi” nella loro semplicità originaria: la terra, il cielo, i mortali ed i divini. Questo termine indica il Cosmo che si fapresente e waltet nelle cose: «La terra è quella che servendo sorregge […]. Il cielo è il cammino arcuato del sole […]. I divini sono i messaggeri che ci indicano la divinità. Nel sacro dispiegarsi della loro potenza,il dio appare nella sua presenza o si ritira nel suo nascondimento […]. I mortali sono gli uomini. Si chiamano mortali perché possono morire. Morire significa essere capace della morte in quanto morte.
Solo l’uomo muore, e muore continuamente, fino a che rimane sulla terra, sotto il cielo, di fronte ai divini[…]. I mortali sono nella Quadratura in quanto
abitano, […] in quanto salvano la terra, […] in quanto accolgono il cielo, […] in quanto attendono i divini […]. Nel salvare la terra, nell’accogliere il cielo, nell’attendere i divini, nel condurre i mortali avviene l’abitare come il quadruplice aver cura della Quadratura» (35). La terra e il cielo sono i termini fondamentali della Quadratura, del suo essere un soggiorno autentico presso le cose attraverso i due esistenziali privilegiati della finitezza umana, la cura e l’essere-per-la-morte:«Terra e cielo e il loro riferimento rientrano perciò nel rapporto, più ricco, dei Quattro. Questo numero non viene pensato esplicitamente né viene mai detto da Hölderlin. Eppure i Quattro sono già preventivamente scorti ovunque, per tutto il suo dire, a partire dall’intimità del loro riferimento reciproco.Essi sono già contati nel senso nel senso originario del racconto dell’antica saga del loro coappartenere. Quattro non significa qui il computo di una somma, ma la figura di per sé unita del rapporti in-finito delle voci del destino» (36). La struttura interna del Geviert traduce la struttura dell’essere come Evento; esso nomina il raccoglimento delle strutture originative che presiedono alla formazione del mondo storico. La Quadratura, come considera lo stesso Heidegger, è sia una cosa, sia un simbolo che rimanda alla fatticità del legame che unisce i quattro elementi.
[…]
Ma la lingua di cui Hebel si serve non è la lingua della quotidianità, ma una lingua più alta, più nobile come afferma Heidegger, una lingua che trova nel dialetto la fonte del suo dire poetico: «Dobbiamo ammettere che la lingua appare nella quotidianità come un mezzo di comunicazione e che viene usato per le condizioni usuali della vita. Solo che ci sono anche altre condizioni rispetto a quelle usuali. Goethe chiama queste altre condizioni “le più profonde” e dice della lingua: “Nella vita ordinaria ce la caviamo appena sufficientemente con la lingua poiché parliamo solo di rapporti superficiali. Appena si parla dei rapporti più profondi allora si presenta subito un’altra lingua, quella poetica”» (42). Il pensiero e, in modo differente, la poesia «non utilizzano dei termini [Wörter], ma dicono parole [Worte], noi siamo tenuti per questo stesso fatto, non appena ci poniamo sul cammino del pensiero, a prestare esplicita attenzione al dire della parola […]. Le parole non sono termini e quindi non sono simili a secchi e botti, da cui si possa fare uscire un contenuto esistente. Le parole sono sorgenti che il dire scava, sorgenti che di continuo devono essere cercate e scavate, che facilmente franano, ma che a volte anche sgorgano all’improvviso […] Prestare attenzione al dire delle parole è qualcosa di essenzialmente diverso da quel che non sembri in un primo momento, dall’apparenza cioè di un semplice occuparsi di termini. Prestare attenzione al dire delle parole è per noi moderni ancora particolarmente arduo, perché ci è troppo difficile liberarci da quell’“in un primo momento” di ciò che è abituale e, nel caso ci dovesse poi riuscire, troppo facile ricaderne vittime» (43). La peculiarità del linguaggio poetico è quella di nominare le cose. Il nominare le cose non distribuisce nomi, non applica parole, ma chiama
all’interno della parola stessa. Il nominare è allora un chiamare a stare nella vicinanza di ciò che nella sua lontananza chiama, è un rimanere accanto a ciò che per lungo tempo è stato posto lontano. Il nominare le cose è uno dei compiti della poesia; non nel senso di dare un nome nuovo o nel senso di rinominare le cose, ma nel senso di portarle alla vicinanza di ciò che merita di stare accanto: «È la parola che conferisce la presenza, cioè l’essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente […]. Il poeta deve rinunciare alla pretesa di che gli venga […] fornito il nome per ciò che egli ha posto come il realmente essente» (44). La poesia non prende mai il linguaggio come un materiale già presente, ma «è invece solo la poesia stessa a rendere possibile il linguaggio. La poesia è il linguaggio originario di un popolo storico. È quindi viceversa l’essenza del linguaggio che va compresa a partire dall’essenza della poesia» (45).
Friedrich Hölderlin
RICORDO
È il vento di nord est.
Il più amato dei venti
per me, perché ai marinai promette
la rotta giusta e l’anima ardente.
Va’ e saluta
la bella Garonna
e i giardini di Bordeaux
là dove il sentiero
s’accosta alla riva aspra
e il ruscello cade profondo
nel grande fiume
ma sopra
è in vedetta la nobile coppia
delle querce e i pioppi d’argento –
io mi ricordo
ancora del bosco d’olmi
che china le larghe cime dei monti
sul mulino, ma nella corte
cresce la pianta del fico.
Nei giorni di festa
vanno le donne brune
sopra un piano di seta,
al tempo di marzo,
quando uguali son la notte e il giorno,
e sui sentieri lenti
carico di sogni d’oro
passa ondoso il respiro del vento:
ma mi si offra quella coppa inebriante
colma di luce bruna
perché possa riposare:
dolce sarebbe
sotto le ombre il sonno.
E male è se l’anima si perde
lontano da pensieri di mortali.
Bene è invece parlare,
dire i pensieri del cuore,
udir molte cose
dei giorni dell’amore,
dei fatti che avvennero.
Ma gli amici, dove sono?
Bellarmino e il suo compagno?
C’è chi ha timore
ad andar alla fonte.
Ma la ricchezza ha inizio
nel mare. Essi come pittori
raccolgono tutta la bellezza
del mondo e non spregiano
la guerra alata, avere
la casa sotto un albero senza fronde,
per anni, solitari,
dove la notte non ha luci
di città e di feste
né musiche né danze native.
Ma ora quegli uomini sono salpati
per le Indie, nel promontorio arioso
presso le erte vigne
da cui la Dordogna scende
e insieme alla Garonna sfarzosa
esce fiume ampio come mare.
Il mare dona e toglie il ricordo;
l’amore fissa i suoi occhi fedeli.
Ma il poeta fonda ciò che resta.
(traduzione di Enzo Mandruzzato)
*
Andenken
Der Nordost wehet,
Der liebste unter den Winden
Mir, weil er feurigen Geist
Und gute Fahrt verheißet den Schiffern.
Geh aber nun und grüße
Die schöne Garonne,
Und die Gärten von Bourdeaux
Dort, wo am scharfen Ufer
Hingehet der Steg und in den Strom
Tief fällt der Bach, darüber aber
Hinschauet ein edel Paar
Von Eichen und Silberpappeln;
Noch denket das mir wohl und wie
Die breiten Gipfel neiget
Der Ulmwald, über die Mühl,
Im Hofe aber wächset ein Feigenbaum.
An Feiertagen gehn
Die braunen Frauen daselbst
Auf seidnen Boden,
Zur Märzenzeit,
Wenn gleich ist Nacht und Tag,
Und über langsamen Stegen,
Von goldenen Träumen schwer,
Einwiegende Lüfte ziehen.
Es reiche aber,
Des dunkeln Lichtes voll,
Mir einer den duftenden Becher,
Damit ich ruhen möge; denn süß
Wär unter Schatten der Schlummer.
Nicht ist es gut,
Seellos von sterblichen
Gedanken zu sein. Doch gut
Ist ein Gespräch und zu sagen
Des Herzens Meinung, zu hören viel
Von Tagen der Lieb,
Und Taten, welche geschehen.
Wo aber sind die Freunde? Bellarmin
Mit dem Gefährten? Mancher
Trägt Scheue, an die Quelle zu gehn;
Es beginnet nämlich der Reichtum
Im Meere. Sie,
Wie Maler, bringen zusammen
Das Schöne der Erd und verschmähn
Den geflügelten Krieg nicht, und
Zu wohnen einsam, jahrlang, unter
Dem entlaubten Mast, wo nicht die Nacht durchglänzen
Die Feiertage der Stadt,
Und Saitenspiel und eingeborener Tanz nicht.
Nun aber sind zu Indiern
Die Männer gegangen,
Dort an der luftigen Spitz
An Traubenbergen, wo herab
Die Dordogne kommt,
Und zusammen mit der prächtgen
Garonne meerbreit
Ausgehet der Strom. Es nehmet aber
Und gibt Gedächtnis die See,
Und die Lieb auch heftet fleißig die Augen,
Was bleibet aber, stiften die Dichter.
*
Hölderlin scrive:
“Pieno di merito, ma poeticamente, abita / l’uomo su questa terra”,
Heidegger formula un’interpretazione a più livelli di questo verso. Esso indica l’essere dell’uomo in presenza degli dei e cose; indica altresì il fabbricare “poeticamente” le case , intendendo con ciò l’attività pratica del costruire: costruire abitazioni e fare poesia hanno in comune il senso ultimo diciò che la poesia indica: “L’atto del fare si dice in greco po…hsij. L’abitare [das Wohnen] dell’uomo dovrebbe essere poesia [Poesie], cioè qualcosa di poetico”. In base al detto del poeta,l’abitare dell’uomo non è un prodotto del caso o il frutto di una delle tante facoltà dell’uomo, ma è il fondamento stesso dell’esserci: l’abitare è il modo principale con cui l’esserci attua la sua struttura fondamentale di essere-nel-mondo, essere-con-gli-altri ed essere-per-la-morte; l’abitare poetico non è un modo di abitare, ma è il modo con cui l’uomo abita su questa terra, cioè sotto il cielo, sulla Terra, in presenza dei divini ed insieme ai mortali. In tal senso Heidegger afferma che “poetare è un costruire”. La poesia offre la possibilità della comprensione autentica del senso del “Ci” del Dasein: “Il poetare edifica l’essenza dell’abitare […]. Poetare e abitare […] sono in una connessione inscindibile, si richiedono reciprocamente”; il loro legame sta nell’essere nell’apertura, verso la dimora originaria dell’uomo. È allora possibile dire che“poeticamente abita l’uomo su questa terra”, intendendo con ciò che l’essenza dell’abitare è la poesia stessa, cioè il suo andare al linguaggio che la caratterizza. Se la dimora in cui l’uomo abita è l’essere e se esso e -viene nel linguaggio, allora proprio il linguaggio della poesia rappresenta l’abitare autentico dell’uomo.
Il linguaggio è la strada su cui l’uomo è incamminato; il linguaggio poetico è la dimensione in cui il cammino dell’esserci si compie nella modalità più autentica.
Il poetare dei poeti è ciò che istituisce ciò che resta e ciò che rende poetico l’abitare dell’uomo; “L’uomo che abita poeticamente, conduce tutto ciò che appare e risplende, terra e cielo e il sacro, su quella scena stabile di per sé che conserva tutto in verità, lo conduce, nella struttura dell’opera, a uno stare sicuro”*
*M. Heidegger…“poeticamente abita l’uomo”… , in Saggi e discorsi, cit., p. 125 segg.
Note
da https://www.academia.edu/6793342/Die_Heimreise_Heidegger_e_Hebel?email_work_card=view-paper
Questo testo e’ stato pubblicato per la prima volta nella rivista “Davar”, a cura di Anna Giannatiempo Quinzio, numero 4, 2008 edita per Diabasis Edizioni. Fu poi riproposto nella rivista online Kasparhauser nel 2012 al seguente link:http://www.kasparhauser.net/Ateliers/geofilosofia/brencio-h-hebel.html H. Arendt, «Hannah Arendt per Martin Heidegger in occasione del suo ottantesimo compleanno», in M. Heidegger, H. Arendt, Lettere 1925-1975, trad. it. a cura di M. Bonola, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 145.
(1) M. Heidegger, Hebel – Der Hausfreund, Neske, Pfullingen, 1962, p. 31 (trad. mia).
(2) M. Heidegger, «Lettera sull’umanesimo», in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 267 e s.
(3) M. Heidegger, Hebel
– Der Hausfreund, cit., p. 34 s. (trad. mia).
(4) M. Heidegger, «Fenomenologia e Teologia», in Segnavia, cit., p. 32.
(5) M. Heidegger, «Risposta», in W. J. Richardson, Heidegger. Through Phenomenology to Tought, The Hauge, Nijhoff1974, p. 23 (trad. mia).
(6) M. Heidegger, «Lettera sull’umanesimo», in Segnavia, cit., p. 279.
(7) Ivi, p. 286.
(8) Ivi, p. 267 s.
(9) ivi, p. 312.
(10) M. Heidegger, Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 136.
(11) M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, trad. it. a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p.176.
(12) Ivi, p. 50.
(13) Ivi, p. 176.
(14) M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 125.Per il verso della lirica hölderliniana si ricorda che essa è tratta dalla prosa poetica che inizia con le parole In Lieblicher Bläue… (Ed. Stuttg., 2,1, pp. 372).
(15) M. Heidegger, Seminari, trad. it. a cura di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992, p. 120. Cfr. H. G. Gadamer, I sentieri diHeidegger, a cura di R. Cristin, Marietti, Genova 1987, p. 19.
(16) M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 125 s.
(17) Ivi, p. 136.
(18) Ivi, p. 126.
(19) Cfr. M. Heidegger, L’abbandono, trad. it. a cura di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1989, pp. 32 e ss.
(20) Ivi, p. 37
(34) M. Heidegger, Hebel – Der Hausfreund, cit., p. 10 (trad. mia).
(35) M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 99 s. Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 35 e ss
(42) M. Heidegger, Hebel – der Hausfreund, cit., p. 37 (trad. mia).
(43) M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, trad. it. a cura di U. M. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1988, vol. II,pp. 21 e ss.
(44) M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 179.(45) M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 52.
(44) M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 179.(45) M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 52
Tamburellare di pioggia
sul tettuccio della mia auto
come acquasanta
sul coperchio di una bara,
acquasanta e fango
che s’abbatte come un tonfo
benché mentre ne ascoltavo
il frastuono
quello s’affievolì nel silenzio
più spietato… L’ammucchiarono
per tutto il giorno
fin quando non m’abbandonai
a una contentezza
non avvertita da anni,
non da quell’inverno
in cui avevo indossato il mondo
sulla pelle nuda,
indossato la pelliccia verso l’interno
(trad di Luca Guerneri)
È ovvio che qui siamo davanti ad un tipo di poesia generata dal pensiero rappresentativo, si vuole rappresentare uno stato d’animo che scaturisce dalla esperienza della pioggia che cade «sul tettuccio della mia auto».
La seconda parte della composizione descrive la «contentezza» dell’io derivante da quella esperienza.
Si tratta di un modo di fare poesia che la nuova ontologia estetica ha abbandonato. Noi partiamo da un concetto presentativo della esperienza, e non più rappresentazionale. La presentazione degli eventi avviene sempre in modo diretto, non in modo indiretto come accade in questo tipo di poesia secondo cui la pioggia è importante per le ripercussioni psicologiche (la «contentezza») che può avere sull’io. La poesia che adotta il concetto presentativo dell’esperienza intende l’esperienza di un evento del mondo non solo per l’importanza che può avere sull’io ma perché l’evento è importante in sé e per sé, non soltanto per i riflessi psicologici che può avere su un «io» posizionato nel mondo che viene a coincidere con l’io dell’autore.
La NOE si limita a prendere atto che certi eventi (ad esempio, la pioggia) accadono e che sono importanti non perché suscitano la «contentezza» di un «io» (che è un modo riduttivo di fare esperienza degli eventi), ma perché sono importanti anche per tutti gli altri «io» che ci sono intorno, e sono importanti in sé e per sé, perché un evento è un evento per tutti. Ne deriva che la sintassi del modo presentazionale degli eventi muta di colpo, totalmente, muta la sintassi, che non sarà più narrazionale ma presentazionale.
Penso sia chiaro ai lettori che un tale approccio alla «narrazione» di un evento sia diametralmente lontano da quello rappresentativo vigente nella ontologia estetica del novecento che pensa l’arte in un modo che si limita a ripercorrere l’impiego delle categorie estetiche della tradizione senza innovarla, e senza neanche pensare di volerla innovare.
Per usare una formula di Giorgio Agamben che la impiega riguardo alla fotografia, penso che sia possibile utilizzarla anche per quanto riguarda la poesia della nuova ontologia estetica, la quale intende «Dentrificare il Fuori» e, al contempo: Fuorificare il Dentro.
Trovo interessantissimo il percorso intellettuale di Vincenzo Petronelli. È il percorso di un poeta impegnato, e lo dico oggi che la parola «impegno» è considerata un improperio, come sembra evincersi dal pamphlet di Walter Siti, Contro l’impegno, Rizzoli, 2021. Ma così non si rischia di sfondare una porta già aperta? Piero Dorfles in una recensione si chiede: « In definitiva: c’era bisogno, in tempi di disimpegno, di scrivere contro l’impegno? […] Allontanare la letteratura dall’elitarismo – afferma Siti – significa sollevarla dalle proprie responsabilità», non saprei, è opinabile, ma combattere l’elitarismo, la spocchia intellettuale delle élites, questo appunto considero «impegno». In questo senso possiamo tranquillamente affermare che la poiesis kitchen è una forma militante di parteggiare per una poiesis in linea con gli straordinari sviluppi delle società ad economia glocale. L’«impegno» non è qualcosa di ideologico e di tendenzioso ma una petizione di principio per un’arte criticamente orientata nel mondo moderno, un’arte che si assuma la responsabilità magari di dire che non c’è più arte, che il linguaggio della nuova arte sia il ready language, questo penso significhi l’impegno, l’impegno per una nuova poiesis. Del resto, fa bene Siti a non occuparsi di poesia (da tanto tempo in reparto di rianimazione) per limitare la sua analisi alla lettura dei romanzi contemporanei; la poesia non fa notizia, è già deceduta, non c’è niente da dire, niente di cui discutere.
Chiara Portesine in argonline.it scrive: «pregustavo un discorso sull’impegno degli scrittori (di cui si avverte da anni la necessità) e mi sono ritrovata immersa in un’analisi socio-formale del Midcult.» Osservazione quanto mai assennata, per dire che i romanzi che si vendono in Italia sono impegnati a parametrarsi sul gradimento del pubblico, in tal senso sono impegnati, è vero, si rivolgono ad un pubblico (minimo già esistente) non a quello inesistente, al pubblico del futuro.
Scrive Chiara Portesine: «Potremmo dire che, come Michela Murgia ha inserito il «Fascistometro» nelle sue Istruzioni per diventare fascisti, così il saggio di Siti può essere letto anche come uno “Snobistometro” da auto-somministrarsi comodamente sul divano di casa»; affermazione inequivocabilmente assennata. Oggi potremmo scrivere un «Fascistometro qualunquoide» se commentassimo i libri di poesia usciti negli ultimi due decenni presso gli editori a diffusione nazionale, come si dice con un eufemismo, sarebbe un libro utilissimo, che ci illuminerebbe sullo snobistico ed elitario disimpegno degli autori che pubblicano poesia in quelle collane. Ma sarebbe come occuparsi del malessere omeopatico e autoimmune di un malato cronico come quello messo in mostra dai libri di poesia pubblicati.
Così argomenta la Portesine a proposito della letteratura di serie A (quella della nicchia bene educata) propugnata da Walter Siti: «L’idea di una letteratura “finalizzata a”, cacciata dal portone padronale del Bene, rientra dalla porta di servizio del Bello inteso univocamente come Lo Stile in grado di rivoltarti le viscere come un calzino e lasciarti sanguinante in un angolo della cameretta. Per accedere al tempio del Vero, o lettore, devi essere disposto a subire tutte le angherie sadomasochiste dell’autore – e ti garantisco che, in fondo, ti piacerà, perché l’avventura extraconiugale con il Male elettrizza più del grigio matrimonio con il Bene […] Il malessere non si risolve, però, nel sentimento di un’amante della Letteratura di Serie A ‘tradita’, che scopre il suo scrittore-di-punta a letto con l’attricetta. Il fastidio è, piuttosto, metodologico. Perché, se si pretende di trovare impegno (e qualità) nella letteratura di consumo, bisogna poi prenderla maledettamente sul serio».
Infine, non commento (si commenta da sola), la scelta di Walter Siti di «impegnarsi» a smantellare un libro di poesia inesistente, “La cura dello sguardo” di Franco Arminio. La verità è che la poesia non riscuote successo e share nemmeno quando la si stronca, quindi è non conveniente occuparsi di essa, cosa che Walter Siti ha preso alla lettera; come spiegarsi, infatti, frasi oracolari, salvifiche e generaliste, come queste: «Le parole della poesia si scavano da sole la propria tana o alzano il proprio ostensorio, si sistemano fino a sentirsi ben piantate nel testo, che il poeta lo voglia o no – per questo ai poeti è più difficile trovarsi in falsa coscienza». Per quanto la poesia italiana versi in condizioni imbarazzanti e quasi disperate, una piccola ricerca, anche on line, avrebbe rivelato a Siti l’esistenza di una nuova poesia di grande interesse, e comunque di livello nettamente superiore alle quisquilie e ai buonismi di Franco Arminio, ma non credo che Siti presti il minimo interesse per la poesia, tanto meno per la «nuova poesia», allo scrittore sta più a cuore fare un panphlet di successo, solleticare il successo del disimpegno condito con il ritorno di una visione nostalgica ed elitaria della letteratura.
Diamo di nuovo la parola a Chiara Portesine, precisamente il finale del suo pezzo, che condivido interamente:
«Un’ultima considerazione: nel finale, Siti asserisce che il neo-impegno è soltanto (pasolinianamente) il «sintomo di una mutazione genetica» nel nostro rapporto con le parole, dal momento che «non c’è più il silenzio necessario per essere parlati» (p. 261) (dal Logos? dalla Musa?). Mi è sembrato di ascoltare un podcast della conferenza per il Nobel di Montale, in particolare per quanto riguarda l’idea di una presunta inconciliabilità tra la poesia (la più discreta delle arti, frutto di solitudine e accumulazione) e la ‘cattiva infinità’ di un mondo sempre più rumoroso e affollato da messaggi effimeri. Sarebbe forse istruttivo stabilire una corrispondenza biunivoca tra le conclusioni di Siti e alcuni assunti di Montale (proponendo, ad esempio, una Sarabanda letteraria per indovinare a quale dei due scrittori sia corretto attribuire frasi come «le arti stanno democratizzandosi nel senso peggiore della parola» o «sta finendo la critica come la intendo io, fatta di competenza tecnica e dunque elitaria»). L’unica (sostanziale) differenza risiede nel fatto che per Montale le poesie rimangono un prodotto «assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo», mentre per Siti, al contrario, l’inutilità civile della poesia è accompagnata da una contro- o anti-utilità che si identifica proprio nella tossicità della scrittura («come se si scrivesse per esser chiamati scrittori e non per la passione di esporsi a un trauma», p. 261). Forse Siti è intrappolato nella stesura di un personalissimo Diario del ‘21 e del ’22, e ci auguriamo che, anche nel suo caso, «la gioia del farnetico» sia «affare d’altri», e meno nobili, avversari.»
La Sinnlosigkeit (la mancanza di senso)…
è il senso della mancanza che manca, per cui non si può dire nulla della mancanza di senso: è un quesito che si pose Holderlin, e poi di seguito Heidegger e a seguire la poesia tedesca degli anni ’90 senza risolvere affatto la debacle….
e allora resta un “IO” indifeso e disfatto per cui è meglio per la Poesia che non esista più… forse questa è la fine della poesia metafisica che tra l’altro fu vagheggiata dai poeti metafisici inglesi vari secoli fa, e allora non è problema nuovo o diverso… il problema resta come il tempo della privazione (Holderlin)… non mancanza ma PRIVAZIONE!!!
(Un nuovo Tentativo di instant poetry)
Gino Rago
l’uomo contemporaneo cade in ogni direzione
all’uscita dal Wimbley ubriaconi teppisti
vedo meglio quando chiudo gli occhi
dice il poeta di Radomsko
e scioglie in un bicchiere d’acqua
una bustina di anisotropic
Nuovo tentativo di instant poetry
Gino Rago
L’uccello Pettì vuole andare a Paris.
Comfort, camere sanificate, vista mare,
colazione a buffet,
piscina con idro, sale relax,
Wi-Fi, disponibilità per soggiorni pet-friendlì.
Andiamo in vacanza lì?
chiede M.L. Colasson alla scultura L’uccello Pettì,
No, io non voglio andare lì,
con il miglior calciatore degli europei
il portiere campione Donnarumma
voglio andare anch’io a Paris
La instant poetry è una struttura linguistica performativa in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato. È quello che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» (speech act). L’enunciato «io giuro» è il paradigma perfetto di un tale atto in quanto chiama la parola alla immediatezza del denotato il cui significato non può essere posto in dubbio da nessuno pena la infrazione del giuramento. Possiamo dire che nella instant poetry la parola chiama a sé la veredizione del significato nel circolo della veredizione, con esclusione di qualsiasi dubbio; insinua una tautologia: è vero ciò che viene enunciato. La poetry kitchen esercita una espropriazione del significato nel mentre che esercita il potere locutorio come atto di libertà assoluta dal significante e dal significato, non esegue nessuna appropriazione del linguaggio, non esercita alcun dominio sul linguaggio, lasciandolo lì dov’è.
Collegando l’analisi di Usener alla teoria di Austin, Agamben sostiene che gli enunciati performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere». (G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza. 2008 pp. 74-75).
Per poter essere in grado di agire, l’enunciato performativo deve sospendere la funzione denotativa della lingua e sostituire al modello della adeguazione fra le parole e le cose quello della realizzazione immediata del significato della parola in un fatto.
La poesia è proposta, ad esempio, in Il Regno e la Gloria, da Agamben, come paradigma della disattivazione del linguaggio, in cui il linguaggio è reso inoperoso: essa marca il punto in cui la lingua «riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire e si apre, in questo modo, a un nuovo, possibile uso», dove il soggetto poetico diventa «quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile». (G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Vicenza, Neri Pozza 2007, pp. 274-75)
Non a caso Agamben assume la poesia a modello di una parola che disattiva le funzioni comunicative e informative del linguaggio e rende evidente così la sua immediata «medialità», il suo essere mero «mezzo», dove il soggetto poetico diventa «quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile». (Ibidem, p. 274)
L’experimentum linguae è nella poesia kitchen collegato all’«uso» del linguaggio come ricerca di un diverso e più originale statuto della parola, di un’esperienza della parola liberata che apra lo spazio della gratuità dell’uso.
La poetry kitchen è, in tal senso, un modello di experimentum linguae, che trasforma e rivela le potenzialità insite nel linguaggio quando esso viene reso inoperoso.
Ecco una serie di esempi di strutture linguistiche performative.
Instant poetry di Gino Rago
Vorrei complimentarmi con Vincenzo Petronelli per le poesie qui pubblicate. L’avere adottato il distico alla maniera noe – per me, derivazione del verso libero + stop al discorso, che puntualmente cambia in nuovo inizio – segna forse il punto di non ritorno della sua poesia. Ne sono contento, anche perché è notevole il cambio di passo.
Anni fa, quando iniziammo a parlarne qui su L’Ombra, non era per niente facile… ad esempio, nei primi tentativi – lo si capiva benissimo – alcuni si limitavano ad “affettare” testi scritti in precedenza; che va benissimo, ma il distico non ti vuole sgamato, capace di tutto. No, devi capire quando fermarti; e se non lo capisci lo impone il distico stesso.
Uh! si trattò di un vero sortilegio.
Lo stesso dicasi per l’Instant poetry: il poeta disinvolto, che pare scriva con la mano sinistra, può cimentarsi in questa specie di poetry kitchen; ma proprio la disinvoltura, secondo me, crea nell’autore una distanza con la parola, la quale resterà in superficie. Voglio dire che se l’autore corre, procedendo per flash e fuori senso, rischia di scrivere solo battute. Le parole andrebbero attese, non diversamente che nell’antichità. Se però abbiamo in mente l’obiettivo di abbattere procedure e modi di essere in poesia, allora va benissimo; in questo caso, però, avremmo come referenti critica ed accademia… ma esistono?
Instant poetry.
Sono vissuto con l’incubo di somigliare nel profondo
a un certo mio zio. Parametro: due metri e ottanta,
se però trovo le sigarette.
LMT
Complimenti a Vincenzo Petronelli per la sua ricerca. Ho apprezzato molto i versi strutturati in dialetto, lo studio serio dei classici che si sente e si vede come in questo verso, “e assèvene ‘i menénne a aspettà i frastière.”
Il verso in Petronelli c’è, un verso impegnato, come giustamente fa notare Marie Laure Colasson, che nelle prove recenti tenta il disimpegno, “depone l’uniforme socialista”, pur mantenendo ancora la perifrasi articolata sul folklore.
Quando Petronelli afferma di essersi orientato verso un dialetto locale, intuisce che i lessemi dattilici finora impiegati non comunicano più.
E’ da questa intuizione che Petronelli dovrebbe partire, eradicare il sistema simbolico del tardo novecento che ancora occupa spazio, uno spazio logico, e iniziare a differenziare.
Le disse:
sono stato dall’estetista mRna,
mi ha fatto la ceretta alle sopracciglia
e mi ha scaricato una app ultratecnologica
sulla lentina.
Non ti dico i piedi.
Ringrazio infinitamente Giorgio per l’attenzione riservata a questo profilo storico della mia ricerca poetica ed a tutti voi amici, per i vostri interventi, per me arricchenti. Mi ritrovo nella lettura interpretativa che Giorgio ha conferito alla mia presentazione e comprendo – essendo fortemente autocritico – come sicuramente sia ancora in piena fase evolutiva, con ancora una bella fetta di percorso da compiere; sono, credo, in piena fase di perdita rispetto al linguaggio materno (per usare la metafora di Giorgio), ma sono ancora in fase di elaborazione della nuova dimensione linguistico-poetica. Sono entusiasta di questo percorso e della mia evoluzione espressiva, anche perché ogni itinerario di affinamento poetico è prima di tutto un cammino di auto-interpretazione del proprio cosmo, ma sono perfettamente consapevole della necessità continuare a decomporre la materia originaria, per poter giungere alla piena catarsi della parola, al suo pieno fluire coerente nella direzione del “fuori-senso” e del “fuori-significato” che certo è l’obiettivo verso cui sono proteso. Per continuare a parafrasare Giorgio, sono ancora alla ricerca della dimora per il mio poetare, fiducioso del fatto che la strada intrapresa sia l’unica possibile per potermi disincagliare dalle sabbie mobili della “solita” poesia degli ultimi cinquanta – sessant’anni. Ad un certo punto – prima della trasformazione accennata nella mia esposizione, sintetizzata dall’appropriazione della poetica di Transtromer e dell’opera di Battiato – avevo sinceramente pensato si smettere di scrivere poesia, perché non trovavo alcuna legittimità nello scrivere poesia in un contesto così edonistico come quello della produzione poetica contemporanea, in cui scarseggia la ricerca e la maggior parte di chi scrive (in modo particolare in Italia poi) fa dei puri esercizi di marketing applicati alla letteratura; ma poi fortunatamente ho trovato dei nuovi modelli di riferimento (partendo dai nomi suddetti per ampliare l’alveo a tanti altri referenti), culminando nell’incontro con Giorgio e la Noe, che mi hanno restituito un’idea piena di senso del fare poesia. Come scrive – e mi fa piacere il suo rilievo – Marie Laure Colasson, ho avvertito pienamente l’esigenza di contrappormi all’appiattimento della modalità dominante di fare ed intendere la poesia perché non riesco – per mia natura – a concepire l’attività intellettuale, qualsiasi essa sia, scissa dalla ricerca; così come ho avvertito nitidamente l’inadeguatezza dell’approccio poetico dominante, sono altresì convinto che se avessi puntato semplicemente alla “produzione” poetica secondo la logica corriva, mirante esclusivamente all’apposizione del nome su di una copertina, avrei già pubblicato delle raccolte (ormai una silloge poetica non si nega a nessuno): ma avendo sempre avuto un approccio mirato all’approfondimento della ricerca, quella concezione di poesia – che è poi lo stesso filone della poesia da salotto, di molti circoli, dell’arcipelago dei premi per la maggior parte insulsi – non mi appartiene. Ringrazio anche Lucio per l’apprezzamento anche tecnico, che mi incoraggia sicuramente nella direzione intrapresa e Giuseppe: il capitolo legato al dialetto in particolare, lo ritengo un cantiere ancora aperto, perché mi piacerebbe trovare una canalizzazione sperimentale che estenda anche la visione della Nuova Antologia all’uso del dialetto, per quanto la lingua da me maggiormente utilizzata sia sempre stato l’italiano, magari con un doppio registro simultaneo in taluni brani, una sorta di “spanglish” tipico della poesia “chicana”.
Grazie ancora a tutti amici, e buona domenica.