Antonio Parente
Testo di Petr Král di fine anni 1970, uscito nella raccolta L’era dei vivi (1980).
Natura per tutti
Per Hélène Renon
1
Boschi al pomeriggio, a un passo e distanti dall’eterno fruscio delle banconote, boschi con un seducente ciuffo boschivo in mezzo ai boschi. E nel bel mezzo una casa bianca, inabitata. La casa solitaria custodisce il suo segreto, c’è un uomo solo sul tetto, l’ultimo giardiniere, a sorvegliarla. È in bianco, gli dona; bianco da sempre, il mare che tace discretamente sotto le lenzuola nelle soffitte vuote + il tracollo degli abbaini a fine pomeriggio. Per il sangue, si deve già andare un po’ più lontano: ai palchi macchiettati dei teatri chiusi fuori città, agli ultimi brandelli di sangue nei fumaioli desolati degli affumicatoi, e alle viscere scarlatte del viveur vestito di bianco mentre cammina pazientemente su e giù per la banchina vuota del porto, evitando accuratamente lo sguardo dei vitaioli intorno a lui. Il pomeriggio raggiunge il suo inesorabile apice. Qua e là una lingua pende ancora sul libro, qua e là dei sederi risvegliati luccicano di nuovo sulla radura; questo è il momento giusto, se mai ce ne sia uno per piantare la propria bandiera in mezzo alla gloria versata. Ora o mai più. Anche i corridori si fanno impazienti; solo dopo alcune false partenze riescono finalmente a partire in gruppo, prima che ognuno di loro si renda conto di essere di nuovo solo ad ansimare nel bosco.
E continuano anche le piccole faccende umane: il buttero arrossisce con successo e sistema una bistecca a sostegno del biliardo cigolante, i medici ridacchianti si allontanano dalla natura mansueta del parco verso il fresco delle sale operatorie. In lungo e in largo, singolarmente e in gruppo, siamo tutti una famiglia disseminata; i pallidi trionfano sugli abbronzati, e poi sono questi ultimi a prevalere, alcuni più miti e meno appariscenti di altri. Chiudete il libro, tanto è già pieno. Aprite la porta, tanto non c’è nessuno. I sorrisi dorati brillano appena a loro convenienza nell’erba esuberante; lo scoiattolo morto vola nella spazzatura, Rosaspina si fa il letto in cielo, siamo tutti ai piedi di un’unica scogliera; la casa bianca sorveglia il solitario sul tetto, che da tempo non si sente più a casa, in nessun luogo. Ognuno di noi dimentica sempre che anche il ritorno da un viaggio è solo un altro viaggio: quando ci troviamo nella radura e l’edificio familiare diventa di nuovo bianco in lontananza davanti a noi, tra gli steli del migliarino, stiamo solo navigando ancora una volta verso il porto dall’altra parte dell’oceano.
2
Poi ci spogliamo, un calzino, l’altro, un po’ schizzinosi e un po’ cospiratori mettiamo via i nostri straccetti dall’odore familiare, mentre il cavastivali ci guarda con la calma di chi durerà comunque fino alla prossima guerra. Sì, avete sentito bene: una folata di vento improvvisa, e nell’incogliere del crepuscolo è di nuovo impossibile sapere quando, perché e a chi si rizzino i capelli, e tanto meno su quale testa. Né alla fine ci si intende sul fatto che il sole sia solo una velatura occasionale su un mondo permanentemente grigio, o se il grigio sia, al contrario, solo un velo occasionale sull’oro di giornate sempre magnifiche. Ci vorrà ancora un po’ prima che ci si dissolva nei propri pensieri; ci saranno sempre dei resti non digeriti, se non quelli che ora discendono sull’erba lungo la pista deserta. Mentre il velodromo ci circondava con il nostro stesso silenzio, ci ergevamo qui taciturni al tempo in cui il centro del mondo avvizziva. Lenin? una semplice ombra, e poco più in là, un Casanova in un casto fremito.
Non c’è niente di peggio di quando cala la penombra, il lamento del vento nelle sue stesse viscere; quando ombreggia il crepuscolo, le teste che ricadono nel giorno sono teste inutili, cesti traboccanti di un bagliore vuoto. Chi può mai affermare che non abbiamo fatto nulla? Ognuna delle rovine di cui è imbottito il crepuscolo è opera nostra, comprese quelle che puntellano il cielo fatiscente. L’oscurità ha inghiottito i sentieri, ma l’uomo continua a disegnarne i labirinti nella notte del cervello. Rimanemmo in piedi e bagnati accanto alle gabbie degli animali fradici, circondati da ogni lato dalla pelliccia madida degli sterpeti, in attesa soltanto del fulmine globulare. Almeno questo era ieri; oggi ne parliamo soltanto, di nuovo, mentre lo stesso fulmine riverbera nelle profondità delle nostre gole. L’oggi, un pallido frammento di lampada dietro una cortina di gocce silenziose che tormentano la nuda autostrada. Il mammut dei tempi, Lenin? C’era una volta, o forse no; sussurrato. Possiamo piovere indisturbati.
Petr Král
Tutta la ruggine
Ma
donna tutta quella ruggine
di condutture corrotte cumuli caduti
rivelata nel terreno smosso da scavature
come forme quotidiane di seminterrati
sotto i piedi e le gambe
anche di dolce avvenenza del viandante e della viandante vivi Ma
donna e come sale qui pervade i corpi con severo crepitio
si drizza come il fruscio di foglie cadute la fiamma secca ma
donna in cui riarde
ciò che più non cova che mi riempie della tua carne
e in te stridono le mie ossa
porta a noi l’acuto brusio
del bosco antico dei suoi turbolenti rami delle venature infiammate
dei cespugli ardenti di cerve
* * *
“Ridi”, lo sollecitarono
Il cuore lo comprese
ma la bocca si irrigidì
Continuare a sparare alla cieca
o semplicemente sbandierare
* * *
Il bisogno di andare
seguire la strada
il marciapiede
Cicche e ciliegie
Nei vuoti
l’intera giornata nuova
Di notte il buio enfisema
nella sciamatura di stelle
Nella camera da letto
qua e là un fermaglio
Sotto il tavolo briciole
A volte una meteora
Un dente caduto
Una scalfittura di unghia
sulla parete
La saliva rimanente
all’angolo
Nell’occhio del paesaggio
solo una macchiolina d’albero
Subito una cicca
e poi un nocciolo
Il bicchiere che al tatto
si allontana di nuovo
Il bucato torna a noi
in uno sventolio spudoratamente candido
Il brandello di nuvole
dovrebbe ora consegnarlo qualcuno
se solo da qualche parte in Moravia
dietro l’impervia femminilità del declivio
dove continua a levarsi
e a scomparire
Le silenziose fabbriche del nulla
nuove città vuote
(dalla raccolta inedita Distanze)
Ecco uno stralcio della intervista inedita in italiano al poeta ceco Pavel Řezníček a cura di Viki Shock, pubblicata su Babylon n.7, 05., nella quale si narra un aneddoto in cui compare Petr Král circa la nascita della poesia del secondo surrealismo ceco, nella traduzione di Antonio Parente.
Domanda: Come sei arrivato al Surrealismo?
Risposta: Quando svolsi il servizio militare a Pilsen (1961-1963), vivevo nella stessa baracca del poeta Petr Král, con il quale strinsi amicizia. Fu lui a prestarmi l’opera, in francese, di Nadeau “Storia del Surrealismo” (Historie du surréalisme), che portai nel carniere insieme alla maschera antigas per l’intera durata del servizio. Non ci capii troppo, né Petr ebbe su di me l’effetto di sviluppare una propensione per il Surrealismo. Eppure riuscii a leggere qualcosa del libro e ad ascoltare qualcosa da Petr. Dopo il servizio militare, tornai a Brno e mi iscrissi alla scuola per archivisti e bibliotecari, dalla quale venni espulso al secondo anno per le assenze. Avevo abbastanza tempo e decisi così di allestire una serata al teatro Convenzione dedicata alla poesia surrealista, intitolata “La coda del diavolo è un biciclo.” Cosa che avvenne. Presentai i testi di Breton, Tzara, Dalì e Péret. Uscì anche una breve nota sul Giornale Letterario (Literární noviny); ne inviai il ritaglio ad André Breton al famoso indirizzo 42, rue Fonatine, Parigi. Stranamente, viveva ancora lì in quel memorabile 1965. La mia lettera lo raggiunse. Anche se non mi rispose direttamente, pubblicarono un breve articolo sulla mia attività sulla rivista “La Bréche”, a firma del suo amico Radovan Ivsič, il surrealista croato che viveva a Parigi, al quale Breton aveva passato la mia lettera. Incontrai e discussi con Ivsič pochi anni fa al vernissage della mostra su Toyen. Iniziai, quindi, nel 1965 il mio percorso surrealista, a scrivere e a tradurre.
Ermeneutica
Il presente è il luogo dell’orizzonte degli eventi. È un luogo che non esiste, come aveva ben intuito il vescovo di Ippona, e come tale è un nulla, un nulla che si presenta nel presente. Un tiro mancino sferrato da un dio inesistente. Le Figure che abitano il presente di Petr Král sono immerse nel nulla, nuotano in un albume di opale, sembrano sospese in aria, auto sospese, piene di nulla, imbottite di nulla («Lenin? C’era una volta, o forse no»); l’esistenzialismo di Král si fonde mirabilmente con il suo personalissimo post-surrealismo.
Anche la nuova fenomenologia del poetico o poetry kitchen agita Figure del nulla come se fossero dei pieni, ma in realtà sono un nulla, nulla di nulla. L’esistenzialismo, che è sempre stato un dio assente nella poesia del secondo novecento, risorge nella nuova fenomenologia del poetico sotto una veste nuova, diversa, irriconoscibile: nella poesia di Jacopo Ricciardi tutto avviene all’interno della intercapedine della mente, ma la mente è lo specchio del nulla che, riflettendo il nulla riflette se stesso: un nulla. La poesia di Mario Gabriele, quella di Jacopo Ricciardi, e quella di tutti gli altri abitanti della poetry kitchen è una fotografia del nulla. Non avrebbe senso per la poetry kitchen fare poesia esistenziale, l’esistenza è qualcosa imparentata con il nulla, e in quanto nulla è irrappresentabile, almeno questo dal punto di vista della nuova fenomenologia del poetico. Quando incontrai Král al caffè Slavia a Praga nell’agosto del 2018, mi chiese: «ma l’esistenzialismo non rientra nei vostri interessi?»; io risposi che avevo dei dubbi circa l’esistenza dell’esistenza, che preferivo fare poesia di ciò che non abita l’esistenza perché lì almeno c’è parità. Lui rise, mi disse: «capisco perfettamente cosa vuoi dire»; io aggiunsi che la poesia è semplicemente un aver luogo del linguaggio, una singolarità assoluta, e che in quanto tale è incomunicabile e intrasmissibile. Král annuiva pensieroso e sornione.
L’aver luogo del linguaggio, questa è l’intuizione della poetry kitchen, è l’apparire di una forma linguistica, non ha importanza che questa forma sia il parlato o lo scritto, ha importanza soltanto il fatto dell’aver luogo del linguaggio, della sua manifestazione pura e semplice, il suo apparire e il suo scomparire nel nulla. Nella poesia di Petr Král abbiamo un primo avamposto vistoso, un primissimo sentore di questo fatto, un primissimo barlume di questa nuova sensibilità: che la poesia è nient’altro che l’apparire e lo scomparire del linguaggio. Da qui cambia tutto, cambia la forma con cui il linguaggio si dà.
(Giorgio Linguaglossa)
Condivido il passaggio centrale delle riflessioni di Giorgio Linguaglossa su Petr Král che qui riporto: ” […]L’aver luogo del linguaggio, questa è l’intuizione della poetry kitchen, è l’apparire di una forma linguistica, non ha importanza che questa forma sia il parlato o lo scritto, ha importanza soltanto il fatto dell’aver luogo del linguaggio, della sua manifestazione pura e semplice, il suo apparire e il suo scomparire nel nulla. Nella poesia di Petr Král abbiamo un primo avamposto vistoso, un primissimo sentore di questo fatto, un primissimo barlume di questa nuova sensibilità: che la poesia è nient’altro che l’apparire e lo scomparire del linguaggio. Da qui cambia tutto, cambia la forma con cui il linguaggio si dà” il quale passaggio mi spinge ad aprire una mia riflessione sull’esercizio della traduzione, esercizio che può farsi anche “arte del tradurre”, come in questo caso di Antonio Parente.
Qualcuno intende la traduzione come un processo di mediazione che pone sfide continue, sfide che non riguardano il semplice riportare contenuti, temi ed espressioni da una lingua all’altra, ma che fanno intendere che la vera sfida del tradurre riguarda il palcoscenico socio-esistenziale del narrato, con tutta la fitta rete di rimandi culturali che un testo poetico sottende.
Che ne pensa Antonio Parente?
Scrive Aldo Rovatti:
«Bisogna essere “aperti” all’evento, alla sua irruzione, altrimenti non si produce alcun “nuovo” evento (cioè, alcun “evento”). Apertura resta una parola chiave del pensiero contemporaneo, ma siamo in grado di abitarne e custodirne la distanza? “Apertura” e “chiusura” vengono allora a formare una strana coppia; i nostri normali giochi linguistici entrano in una sorta di “impazzimento”, il giocatore deve farsi giocare dal proprio gioco e solo a questa condizione è uno che sa giocare… A partire da qui si disegna, a mio parere, un nuovo stile di pensiero, meno violento, più poroso e, in definitiva, più “debole”. E, naturalmente, si profila anche una diversa idea di “soggetto”, insieme più leggera e più esplosiva, più utile e meno rassicurante. Soprattutto, c’è da fare un ingente lavoro filosofico, di cui possiamo rintracciare tutte le premesse nel ricchissimo pensiero contemporaneo, ma sulla cui realizzazione siamo ancora molto incerti e poco determinati».1]
1] Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Raffaello Cortina Editore, 2007. XII
L’accadere della verità dell’opera d’arte è nient’altro che l’evento del suo accadere. L’accadimento è esso stesso verità, non come adeguazione e conformità di parola e cosa, ma come indice della difformità permanente che si insinua tra la parola e la cosa. L’arte come accadere della verità significa preannuncio dell’aprirsi di orizzonti storico-destinali.
L’arte è allora quell’evento inaugurale con il quale si istituiscono gli orizzonti storico-destinali dell’esperienza delle singole umanità storiche.
Le opere d’arte sono luoghi di esperienze di shock tali da sovvertire l’ordine costituito dei significati consolidati dalla vita di relazione. L’ovvietà del mondo diventa non-ovvietà, i significati diventano dei fuori significato. Nuove forme storico-sociali di vita sono di solito introdotte da opere d’arte che le hanno preannunciate. Le opere d’arte dell’ipermoderno si configurano quindi come produzione di significati in condizioni di spaesamento permanente, di fuori-significati, di sfondamento permanente rispetto a sistemi stabiliti dei significati ossidati. Le opere d’arte oggi hanno senso soltanto se diventano prive di senso, se «aprono», se preannunciano nuove mondità, nuovi possibili modi di vita e forme di esistenza, altrimenti deperiscono a cosità.
Agamben in Il linguaggio e la morte afferma che l’ Angst (l’angoscia) conduce il Dasein dinanzi al suo Da (il Ci dell’EsserCi) che gli si rivela come ciò che non è in nessun luogo (nirgends): «il Da, il luogo del linguaggio, è, cioè, un non-luogo» (p.71). Quello che la metafisica ha definito come «vivente che ha il linguaggio» è segnato da una disarticolazione. La Stimme (la voce) interviene per colmare questa apertura originaria mostrata dall’ Angst, e lo fa attraverso un fondamento negativo che sfugge all’umano e che articola la divaricazione fra vivente e linguaggio. «La frattura metafisica della presenza» di cui parla Agamben è questa disarticolazione che si insinua tra la Stimme e il Da. Ecco perché ogni uomo ha la sua Stimme, perché la voce è singolare personale di ciascun avente il linguaggio.
SALOMÈ OVVERO NASCITA DI UN GENIO
Nel cielo un guscio d’ uovo
E intanto l’ombra di cavalli cosacchi
Che si abbeverano
Lacci e plasma tra nervi, condensatori e celle galvaniche,
ne scegli una:
la matita di Omer
Balla Salomè e seduce.
-Puoi chiedermi tutto.
Il cordone ombelicale attraversato da un istante.
Che salti l’interruttore e abbassi il tono della luce
Qui tra pini e solitari si è in troppi.
Parla di cambiali il gatto bianco. Muove l’ asse della coda
Un articolare vestiti e cambiare nebulosa
“Si chiamerà futura\Sarai tu in miniatura”
Dalla che fa il verso a Orione
Non è il prato verde
Soltanto gru e tana stella
Lolli respinge le accuse. E che barba il 77.
Processarlo non è mai piaciuto
Chi ne canta le lodi. Chi riceve una pistolettata
E dove hai nascosto la P38? In quale riserva Capo Giuseppe?
Tra capo Horn e il circolo del Caos
Nella posta antica
L’impiegato della gnostra*?
Lo riconosco dalle macchie di leopardo
Poi un battito, lo stesso breve giorno di farfalla
La borghesia schiaccia le mani a chi arranca nella fossa
Oh Borghesia! Divina creatura
Noi la credevamo Lupa
Ma era Laura sulla scala
E Momo che da sotto
Fottiti compagno!
Ora scuote la locomotiva
Procede su binari d’inizio secolo
Un jumbo jet grida viva l’amore
L’ humor vi farà uguali
Ma intanto piglia
un trotto di poeta
Un ronfare di fanfare
Un succhia succhia di santa ragione
Fa bene inghiottire il ‘17?
Alla coque
E col pulcino dentro.
Qui tra rondini e uh…uh…
Un perclorato di cornacchia.
Dolce l’estatè e senza vento.
(Francesco Paolo Intini)
(*) Gnostra: piazzetta tipica pugliese, in special modo di Noci, in provincia di Bari.
L’operazione che Giorgio Linguaglossa fa sul testo SALOMÈ OVVERO NASCITA DI UN GENIO di Francesco Paolo Intini estraendone la pepita d’oro ai fini della quintessenza di una instant poetry ci dice con chiarezza che un instant poetry è una esplosione improvvisa, direi una molotov fatta di sostanza esplosiva e facilmente infiammabile in un tempo brevissimo.
Ma ci dice anche, lo dice a tutti noi, ma anche a sé stesso, che nel fare poesia non sempre serve la colla ma occorrono anche le forbici.
Comunque, ammetto che è più semplice dire cosa deve essere una instant poetry che farla.
Istant poetry
di Gino Rago
Tentativo di instant poetry
“Abbiamo abolito la povertà”
dice dal balcone uno dei capi dei pentastellati
a chi era di là e sisposta di qua.
“Chi i piccioli già ha così di più ne avrà”
dicono l’uccello Pettì e il colobrì
e fanno la cacca sullo scettro di Mago Zurlì
caro Francesco,
mi sono divertito molto ad estrarre dalla tua poesia kitchen degli istanti, degli instant poetry, per evidenziare che la tua poesia riesce magnificamente quando tu cogli degli “istanti” assurdi, fuori-senso. Lì, a mio avviso, tu dai il meglio di te.
Del resto, a ben leggere, anche nella poesia di Petr Kral possono essere estratti degli instant poetry, il che ci dice molto sulla vicinanza e sulla assonanza tra il grande poeta praghese e la nostra instant poetry.
Antonio Parente
4 lug 2021, 18:20 (13 ore fa)
a me
Perfetto, caro Giorgio; mi è molto piaciuto il tuo intervento. Petr mi diceva che ammirava molto i vostri sforzi di creare qualcosa di nuovo.
Nel ringraziarti dell’ospitalità, ti lascio con una breve poesia
di Pavel Šrut:
In poesia evita l’erudizione
e tutti quei paroloni in più.
Kant di te non se ne fregava,
perché dovresti farlo tu?
Scrive Lacan, citato da Derrida.
«La nostra ricerca ci ha condotti al punto di riconoscere che l’automatismo della ripetizione (Wiederholungszwang) trae principio da ciò che abbiamo chiamato insistenza della catena significante. Questa nozione l’abbiamo isolata come correlativa dell’ex-sistenza (cioè del posto eccentrico) in cui dobbiamo situare il soggetto dell’inconscio, se si deve prendere sul serio la scoperta di Freud…».
Così commenta Derrida:
«E ciò dimostrerà infatti “la preminenza del significante sul soggetto”, “la supremazia del significante nel soggetto”. non più del senso, il soggetto non è il padrone o l’autore del significante. Non è lui che comanda, emette o orienta, dà luogo, senso od origine. Se c’è un soggetto del significante, è per essere assoggettato alla legge del significante. Il suo posto è assegnato dal ricorso del significante, dalla sua tipologia letterale e dalla regola dei suoi spostamenti. Prima conseguenza: questa analisi di un testo “letterario” fa a meno di ogni riferimento all’autore… ».1
1 J. Derrida, La carte postale, trad. it. Mimesis, Milano 2015 p. 417
Giorgio Linguaglossa cita una frase di Aldo Rovatti : ‘Bisogna essere aperti all’evento, alla sua irruzione, altrimenti non si produce alcun nuovo evento ‘.
Si tratta di un’ intuizione fondamentale che scardina il pensiero occidentale abituato a ragionare secondo il parametro causa-effetto. Qui la causa non è un atto, un fare pragmatico che produce un risultato valutabile in anticipo. Si tratta, invece, di un non-agire, l’arcinoto wu-wei che non delimita, non nomina, ma che, proprio per questo, lascia la strada libera al flusso. Porsi nel flusso, nella corrente, vuol dire porsi nel centro della creazione di ciò che deve accadere, non per fatalismo, ma per armonia. Come dice Rovatti, aprirsi vuole dire lasciare la strada libera agli eventi.
Condivido pienamente la tua posizione, cara Tiziana ed ovviamente condivido la lettura ermeneutica di Giorgio. Peronalmente, vedo nell’evento, sostanzialmente l’irruzione, il ritorno della sfera del trascendente – vorrei dire del sacro, ma de martnianamente inteso, cioè la dimensione del profondo – in un quadro poetico che nella sua stragrande maggioranza è assorbito dai meccanismi fideistici di causa-effetto materialistici, che si sintetizzano nella dimensione egotica della narrazione e della visione del mondo. E’ il riverbero in campo poetico del furore individualistico che caratterizza la fisionomia delle società occidentali di oggi e che sembra condurle alla loro deflagrazione. Urge un nuovo modello ontologico che riveli l’effimeratezza dei paradigmi consolidati nella seconda metà del secolo scorso, rivelando i limiti di tali declinazioni e consentendo di giungere a configurare un nuovo umanesimo, che per ciò stesso consenta all’individuo di riprendere a porsi come soggetto cosciente in un rinnovato equilibrio cosmologico. La Noe, con la sua visione poetica che ricerca e mette in luce l’essenza dell’umano, mediante la ricomposizione delle tracce sparse seminate dal suo itinerario, fornisce senz’altro uno strumento, una bussola preziosi in tale direzione.
cara Tiziana,
che epoca triste è questa nella quale gli azzeccagarbugli parlano la lingua del Principe di Salina!
Quando parliamo di interno-tempo ed esterno / di stadio alterato ultra cosciente e conoscente del poeta / del raggio X che perfora, a breve o lunga gittata / Come comporre nel verso un mazzo di chiavi, Johnny Cash e i dromedari… In cornice filosofica; o mistica. O da palcoscenico.
Le poche parole, tra le sbagliate brillano, se poste in sequenza. Ora, ditemi voi se questo non è voler entrare lucidamente nella follia… Lucidamente, cioè con fare di oggettiva coscienza di ciò che è, nell’istante in cui diviene. Non vi è altra poesia, o altro discorso attorno. Per questo vien da chiamarla Instant poetry.
Questo che segue è un esempio mirabilissimo di come un grande poeta del secondo surrealismo ceco ha fatto poesia. Sembra uno scritto della poetry kitchen. Ma allora in Europa c’è qualche poeta che si discosta dalla normologia imperante!, mi viene da esclamare.
di Milan Napravnik.
La Poesia
Nonostante gli sforzi intensi e pluriennali del Surrealismo di spostare il concetto di poesia dal campo letterario, dove secondo noi appartiene, se è vera poesia, soltanto indirettamente, al campo della magia immaginativa, alla sfera dell’esperienza, al monde merveuilleux, ci troviamo di fronte, da questo punto di vista, ad una resistenza passiva ma stranamente ostinata, la cui essenza sembra essere molto più profonda di quanto si possa spiegare con la sola goffaggine accademica o con la semplice incomprensione. Per quanto cerchiamo di mettere le cose nella giusta prospettiva, la poesia, con una testardaggine tale da far riflettere, è ancora intesa e definita esclusivamente in termini di teoria formale della letteratura come genere lirico o come un testo che esprime, in maniera più o meno condensata, una comunicazione in qualche modo espressiva, impressiva o riflessiva, e ciò con l’utilizzo di certi trucchi letterari chiamati “ornamenti poetici”. La famosa opinione di Lautréamont, secondo il quale tutti e non uno soltanto dovrebbero fare poesia, nel senso della sua collettivizzazione come concepita per molto tempo dai nostri predecessori, per fortuna non si è concretizzata. Dico ‘per fortuna’, e ciò senza alcun grado di sarcasmo, perché l’idea che ogni persona, anche se solo occasionalmente e non quotidianamente, prenda in mano la penna o si sieda alla macchina da scrivere per comporre una poesia, è per me assolutamente deprimente, non importa quanto antidemocratica possa sembrare questa mia asserzione. Ad ogni modo, alla “poesia” si dedica nel mondo una quantità insopportabile di persone, le quali di solito non sanno cosa essa sia e come origini. Ogni inflazione, e quindi anche un’inflazione nella scrittura di testi, anche la migliore (ma di un’inflazione del genere non si può parlare nemmeno) è sintomo di decadenza e non di libertà. È un bene che non tutti noi cuociamo il pane e piantiamo vigneti, ma è anche certamente un bene che noi tutti mangiamo il pane e che molti di noi bevono il vino, e sono in grado di sentire il piacere di questa esperienza. Ma d’altra parte: sarebbe davvero inauspicabile che “tutti” facciano poesia, se con ciò non intendiamo la tradizionale attività con la penna in mano, ma piuttosto la capacità di poter sperimentare la realtà come magica e poetica, di sollevarsi contro l’eterno grigiore della contemplazione pragmatica e di trovare una nuova cultura.