da sx Ennio Flaiano, Federico Fellini, Anita Ekberg, 1960, «Per fortuna il meglio è passato» (E.Flaiano)
buongiorno a tutti amici, sono tornato a leggere quest’analisi di Giorgio Linguaglossa sulle caratteristiche distorcenti della poesia scritta in Italia in questi decenni (non che il problema sia esclusivamente italiano, ma certo in Italia è un fenomeno particolarmente diffuso) e trovo che quando in futuro si ricostruirà lo scenario della storia poetica di oggi, il “manifesto” della Noe dovrebbe essere uno strumento d’analisi imprescindibile, annoverando anche queste lucidissime sintesi di Giorgio. Confesso che sia una dinamica che la cui gravità personalmente mi è forse sfuggita fino ad un certo punto, poiché ritenevo che di per sé non ci fosse niente di male nel fatto che ognuno scrivesse secondo i propri canoni preferiti, rendendomi conto perfettamente anche del valore terapeutico che ricopre per molti ma la poesia e dando salomonicamente per scontato che tutto sommato ognuno potesse trovare il proprio modello poetico; ma è anche vero che leggendo da sempre poesia di varie tradizioni letterarie ed aree geografiche, non conoscevo in modo esaustivo il panorama della produzione poetica italiana. In effetti, da quando ho avvertito l’esigenza di un rinnovamento radicale nella mia scrittura – momento aulico di “palingenesi” personale, culminato nel momento topico dell’incontro con la Noe – rinnovamento motivato non solo (per quanto principalmente, come è ovvio) da un motivo legato alla mia personale ricerca poetica, non riconoscendomi più in quanto da me scritto fino ad allora, ma anche dall’essermi reso conto del fatto che quel modello di scrittura fosse una vera palude nella quale versasse la poesia italiana. Ho cominciato così a comprendere la necessità che ogni poeta od artista, anche modestamente, debba contribuire al rinnovamento della propria arte per testimoniare il proprio contesto storico: non si può pensare di perpetuare ad aeternum gli stessi stilemi solo per una consolazione gratificante di un’approvazione all’interno delle solite compagnie di giro. Soprattutto, da lì ho cominciato a comprendere il problema del nodo cruciale che tutto ciò comporta e cioè la ricaduta politica: politica tout court e politica editoriale. manifestata dal profluvio di produzione editoriale poetica – che investe anche case editrici importanti – basata esclusivamente sui meccanismi facebookiani per costruirsi un mercato redditizio di breve termine, privo di qualsivoglia progettualità e funzionale solo all’edonismo, all’auto esaltazione dell’io, punto d’approdo attuale del disegno culturale del capitalismo multinazionale ed il suo modo di produzione, E si giunge così al punto fondamentale: una poesia, una produzione artistica frutto di una sorta di autismo lirico”. è destinata a smarrire la sua funzione di coscienza sociale e culturale, di anticorpo naturale che la società si crea contro i condizionamenti del potere. E’ una condizione pericolosissima evidentemente, ancillare ai populismi ed alla demagogia che vediamo prosperare attorno a noi in quest’epoca sbandata e proprio questo sbandamento, fa sì che solo un modello di ricostruzione di questa frantumazione, quale il modello Noe nelle sue declinazioni evolutive – frammento, poetry kitchen, instant poetry possono riuscire a restituire alla poesia la sua funzione di testimonianza.
Ringrazio vivamente Giorgio per queste riflessioni illuminanti.
Lunga vita all’”Ombra” ed alla Noe!
caro Vincenzo,
anch’io che sono di cultura francese ma vivo in Italia, a Roma, da molti anni, ho vissuto l’esperienza descritta da Vincenzo Petronelli: l’incontro con la nuova ontologia estetica o fenomenologia del poetico come un profondo rinnovamento del linguaggio poetico, come un moto di libertà espressiva e, personalmente, anche come un modo nuovo e diverso di approccio alla realtà.
Non dobbiamo farci intimidire dalla marea di pessima poesia soliloquiale e monolocale che alberga in Europa e in Occidente, è completamente futile ed errato perseguire e inseguire il senso in un mondo palestrato di populismi, di fondamentalismi e irrazionalismi. Tendere ad una nuova modalità espressiva è assolutamente necessario alla comunità, alla lingua e alle sue osteoporosi. In questo discorso la poesia di Mario Gabriele è buon profeta, ci dice che abbiamo scelto «il tavolo esagonale, ci siamo divisi equamente i posti a tavola (tre posti per la famiglia Valpellina/ e tre ai figli del filosofo Casella), che viviamo tranquillamente della rendita del capitale finanziario mentre «sui muri c’erano versi di Murilo Mendes». Che altro dire?
Giorgio Linguaglossa
... dicevamo che il luogo del poeta è il suo linguaggio. Chiediamoci: qual è il «luogo» del linguaggio poetico? È ovvio che qui si parla di un «luogo» particolare, che sta nella storia e fuori della storia, in un luogo-non-luogo, in quel Zwischen (framezzo) individuato da Heidegger, in quella barra della significazione S/s (Significante su significato, di Lacan), la barra che divide il significante dal significato. Ne deriva che il poeta è quel luogo che è sempre scisso, dilaniato da forze diversive e conflittuali. Non si tratta affatto di un luogo pacifico e positivizzato come vorrebbe una vulgata acritica e ipnagogica di stampo regressivo ma di un luogo attraversato da forze telluriche e conflittuali, esposto alle conflittualità della storia e delle ideologie.
La poesia quindi è un campo-modello dell’experimentum linguae, che trasforma e «rivela» il luogo del linguaggio, che non si lega denotativamente alle cose né vale essa stessa come una cosa significata ma che intende qualcosa che non è ancora una cosa significata e che potrebbe essere Altro, altro da una cosa, più importante, più essenziale di una cosa significata. È la significazione che chiude la cosa, non il contrario. La poetry kitchen è l’atto dell’apertura del significabile, l’atto della promiscuità dei significati, della loro sospensione.
Agamben afferma che le cose non sono fuori di noi, nello spazio esterno misurabile, come gli oggetti neutrali (ob-jecta) di uso e di scambio, ma sono invece esse stesse che ci aprono il luogo originale a partire dal quale soltanto diventa possibile l’esperienza dello spazio esterno misurabile, sono cioè esse stesse prese e com-prese fin dall’inizio nel topos outopos in cui si situa la nostra esperienza. Esperienza che ha luogo in quel topos outopos che è il linguaggio.
https://twitter.com/i/status/1404779317184405508
Francesco Paolo Intini
Controversia tra un tasto rotto e uno sano
Sopravvivere all’attacco dei versi.
Pandemia che provoca vomito e bifida la lingua.
Optare per l’uno o l’altro.
A una che diceva “Siamo” fu detto di cuocere un uovo
così gli universali si giocarono le mogli.
A rugby, gioco bizzarro!
Un arbitro invece vide l’inizio dei tempi.
Bagliori della domenica successiva
Si sprigionavano dal centro campo.
La legge del caso sopraffatta da un goal.
Lampi dal fischietto di Flegias.
Un protone travestito da Biancaneve
cedette la sua verginità a Brontolo.
Prigioni senza catene entrarono al Louvre.
Tutti che pisciavano sotto la Gioconda.
Gli altri si limitarono a una gaffe.
Questo vuoto tra i giorni, questo buio da saltare
il muro di Gaza ordinato su Internet.
-Scusi, da quale parte il discorso di J.F.K?
Dollari spingono pacchetti d’onde.
Caverna contro Sistina e palla a centro.
La causa prima tra le fauci di un drago di Komodo.
Camminano bisonti per Via Re David
Senza pneumatici, come orchidee in un vaso.
E’ la Regina la più bella del reame.
Un’anguilla su monopattino
Consegna un quark di orecchiette e rape.
Mai suonare alla porta del Logos
Nemmeno per scroccare un pasto caldo.
[Marie Laure Colasson, foto di un lavabo sporco]
.
Giorgio Linguaglossa
L’autodichia permanente della poesia caudataria di oggi
caro Mario Gabriele,
la foto sopra postata di Marie Laure Colasson rappresenta il fondo di un lavabo sporco, è del marzo del 2021. Ci dice una cosa: che l’arte di oggi è sporcizia, che l’arte della nostra civiltà è un’arte da immondizia, accompagnamento musicale alla discarica pubblica.
La Poetry kitchen e l’immondizia sono quindi imparentate. La poiesis annuncia una forma poesia eterodiretta, cioè guidata dalla logica dell’Altro… ma qui «dio» non c’entra niente, non c’entra neanche il divino, non cerchiamo soteriologie miracolistiche e consolatorie, non cerchiamo scorciatoie, «dio» è lontano e, se c’è, se ne frega delle questioni dell’homo sapiens e delle beghe della poiesis.
Dicevamo che la distanza che ci separa dalla poesia del secondo Montale è immensa. La poesia di Montale si muove dall’io e dalla crisi dell’io, crisi esistenziale, ideologica, religiosa, politica; Montale non arriva e non può arrivare a concepire una poiesis diretta dalla logica dell’Altro, l’epoca non glielo consente. La poetry kitchen ha alzato il cartellino rosso, «dio» è stato espulso dal campo di gioco, la nuova poiesis ha dovuto prendere atto che la poesia è guidata dalla logica dell’Altro. Tutto qui.
Il recupero delle forme chiuse e normative in letteratura, e in particolare nella poesia, la convivenza pacifica delle forme narrative con quelle non-narrative, dell’arte figurativa con l’arte astratta e così via assume un significato peculiare: il fatto che le forme aperte convivano beate con le forme chiuse, ci dice molto di più, ci dice che il rinchiudersi del poeta all’interno di una normatività positivizzata in campo formale potrebbe essere una strategia per rendere evidente il peso e la relativa postura che un paradigma normologico impone ai corpi e alle psicologie di massa e individuali. Il carattere di un ritorno all’ordine che tanta poesia del secondo novecento ha in qualche modo messo in atto senza remore e reazioni appare evidentissimo in queste ultime due decadi, potrebbe essere ricondotto non soltanto ad un bisogno di ordine imposto da una situazione politicamente regressiva, ma potrebbe anche essere letto come una sorta di auto-martirio spettacolarizzato, una autodichia dell’ente de-politicizzato che vuole rendere evidenti i segni e le ulcerazioni dell’anima che una misteriosa legge fantasmatica e fantasmata infligge ai suoi utenti, tanto più oppressiva quanto più invadente nella sua invisibile indiscernibilità dalla «nuda vita».
Il fatto che le preoccupazioni poetiche e politiche di un Fortini, di un Pasolini siano vissute come ambasce e futilità del passato senza continuità con il presente, il fatto che il tardo Montale ha fatto scuola significa soltanto che siamo entrati in una nuova situazione politica e psicologica di massa, una condizione derubricante di conflittualità di massa permanente, una situazione che vede in vigore la legge della «nuda vita»: l’autodichia permanente della poesia caudataria, che significa il fatto nudo e crudo di occhio per occhio e dente per dente.
Mauro Pierno
“I rami di poesia sono rigagnoli di acqua e sabbia,
anche se lo slang è lontano
e le metafore si accendono
come le luci la notte di Natale.”
(M.M. Gabriele)
Finita l’epoca dei poppatoi,
la devastazione connetteva girandole e chiodi
d’acciaio, beninteso le sorprese nelle molotov
perfino dai dirimpettai non erano comprese.
Di certo dapprima di stimare le stive con impegno
si erano svuotati i guardaroba e gli armadietti.
La scuola anche quella era finita da un pezzo.
L’orgoglio in polvere venduto da Amazon
e la corrente sfusa, divertente, la si apprezzava
spargendo forte il tasto On.
Elettrico sei, quanto ti diverti o stai seduto, elettrico sei quando dormi, quando mangi, quando sorridi.
La funzione è compatibile con la sostituzione, il terzo verso puoi spostarlo a piacimento
anche abbattere le barriere, spostare muri, salutare, fare ciao ciao, con la manina. Ricostruire.
Instant poem tratte da una poesia di Mario M. Gabriele
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caro Giorgio,
non sorprenderti se aggiungo alla poetry Kitchen, buffet, instant ecc, un nuovo modello tipe …
Che ne dici, Lucy, se ci fermiamo a trovare
la Signora Doran nella RSA?
E’rimasta sola
dopo la morte di Andrea.
Lucy riaprì un discorso
sulla sostenibilità del ricordo.
Cose d’altri tempi, riferì Tom,
come il volume Screwtape letters di C.S. Lewis.
Un messaggio arrivò in WhatsApp
decodificabile con il sistema d’acceso.
Era un’anteprima di modelli Live Style
non profit per il Continente Nero
sostenuto da Goldman Sachs.
La storia su Romeo e Giulietta
era ancora nelle mani del Servizio Segreto Britannico, dopo la Sars-CoV2.
Mi sembra che i libri abbiano storie diverse
rispetto ai social network.
-E’ una Lobby Time- disse Mike Jordan
che dal backstage aveva un occhio
per il Big Management.
Ma guarda come ti sei ridotta Lucy!
Ora chi vuol sentire Donna Joel?
Non basteranno le sutures cutanées
per essere la cover di Playlist
con gli scatti di Sebastião Salgado
su mondi estremi e biodiversi.
Ti ricordi di Overland?
Perché te lo chiedo?
Erano tutte donne che puntavano
alla bellezza in copertina
tranne Kathy Bates,
diabolica femmina in Misery.
La nostra storia ha capitoli finiti.
Il futuro è sempre possibile
imitando Gli ultimi fuochi di Elia Kazan.
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Salve a tutti. Mi fa piacere essere di nuovo presente dopo tanto tempo di assenza. Petronelli e Colasson hanno descritto quanto anche a me capitato: https://lombradelleparole.wordpress.com/tag/enomis/ (2017)
E così sono passato da questo (2011):
OZIOSI
Qui seduto su scomodi sassi,
al limitare di cielo e mare e terra,
sotto questi estivi irraggiamenti
allucinanti, non avendo più
altro niente da fare, che
stare ad osservare i treni
sferragliare, le barche
solcare e gli aerei sorvolare;
percependo, Minuziosamente, nuovi
stati corporali; …………………………..
così
sotto questi irraggiamenti allucinanti
È calata, scendendo e sussurrando
col vento, la sera, portandosi appresso
il lento e molle, sensuale, della luna candore
e la voglia di far scintillare il cuore
di un focolare per scaldare
il cibo lo stomaco e la mente
qui appesi, oziosi, ai fili del niente, del nulla
felici, forse appena contenti, di stare
su di un ciglio di mascara ad osservare,
un po’ felici e tanto contenti
la battigia, al limitare del confine
tra mare e cielo e terra, e il suo umido
orizzonte che confonde
fra albe e tramonti di diamanti schiumeggianti
i suoi tre elementi; insomma, sempre:
una sabbia sbrilluccicante
umida e bagnata, senza porti,
senza stazioni, senza aeroporti,
anche se sempre di passaggio:
ferroviari marittimi o aviari:
niente soste … ma solo, osservati,
lontani passaggi ………….
o incubi ……………………………..
di mani afferranti sabbia
con rabbia …………………
o sogni ………………………….
di castelli di sabbia
SSSHHHH
Buona notte
In cui cercavo di disgregare l’io attraverso l’avverbio.
A questo (2014):
LA BELLA ARTE
Numerosi i mesi passarono,
e le morte stagioni e vive,
su libri antichi e del moderno
preoccupanti, mentre, proclive,
ingurgitavo prelibate nozioni
alla ricerca delle ferree leggi
della verità, che enormi coglioni
ci fanno, sullo scranno dei seggi
della realtà; e alla ricerca
delle leggi tra realtà, in cerca
di verità da contrapporre a falsità,
e verità; trovando nella medietà
la doppia contraddizione e in ogni
assoluto la qualità frattale
della sineddoche e delle metonimia
Non so quali ne furono i bisogni,
di questa ricerca surreale
che mi causò una animia
godereccia e non sentimentale
in balia dei marosi degli umori
E che orgoglio per questi amori!
E ma poi, per fortuna o sfortuna,
nel mio mondo arrivaste voi
luminose come un cerchio di luna,
a rischiarare quegli ambienti tetri; voi,
parte del tutto e tutto della parte,
mi educaste alla bella arte
del sentire senza pensare
e del percepire senza ragionare
In cui cercavo un rapporto con la tradizione…
Per, infine approdare a questo (2020):
COME DIMENTICARE
Fasti dei mattini di albe in bottiglia
Tempi di feste
Fiamme di cuore e
Battiti di baci
Sporche verità
Di stagioni celesti frutti d’oro assaporano
Tessono lontano voci tremolanti
Mari e oceani di notti pallide
Nei paesi arcipelaghi ove i capelli
Donne d’ambra e lava si lavano
Col balsamo della luna e uomini
Frutti della passione nelle palpebre
Di angeli ubriachi si mutano
Bigiotterie
Colori
Fate
Flauti
Feste
Cuori bagnati di lacrime
Amori
Senza fuoco
Morti e dimenticati
Attese
Popolazioni di speranze
Orizzonti di eventi
Aliti di lirismo e alibi.
Come ricordare
Come dimenticare
A presto,
Grazie come sempre
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caro Giorgio, non meravigliarti se alla poetry ckitchen, buffet, e instant, ne aggiungo un’altra, che qui segue, come modello che si adegua al reportage di nuovi avvenimenti se soltanto ci facciamo interpreti e promotori di un linguaggio fuori dai gioielli Le Bebè apparsi recentemente su l’Ombra delle parole.
E’ insomma questo testo, la storia o proposizione di un esempio di poesia che assembla divergenze sul piano estetico e dei soggetti-oggetti fuori da ogni funambolismo, per andare avanti, seguire il dinamismo che traspare tra il poeta e la realtà storica, sociale, politica e culturale che oggi, più di ieri sembra rivitalizzarsi non sulla base delle pulsazioni endocrinologiche, ma su quelle di una convivenza pacifica e di nuova creazione.
Un saluto. Mario
—————
Che ne dici, Lucy, se ci fermiamo a trovare
la Signora Doran nella RSA?
E’ rimasta sola
dopo la morte di Andrea.
Lucy riaprì un discorso
sulla sostenibilità del ricordo.
Cose d’altri tempi, riferì Tom,
come il volume Screwtape letters di C.S. Lewis.
Un messaggio arrivò in WhatsApp
decodificabile con il sistema d’acceso.
Era un’anteprima di modelli Live Style,
non profit per il Continente Nero
sostenuto da Goldman Sachs.
La storia su Romeo e Giulietta
era ancora nelle mani dell’MI5, dopo la Sars-CoV2.
Mi sembra che i libri abbiano storie diverse
rispetto ai social network.
-E’ una Lobby Time- disse Mike Jordan
che dal backstage aveva un occhio
per il Big Management.
Ma guarda come ti sei ridotta Lucy!
Ora chi vuol sentire Donna Joel?
Non basteranno le sutures cutanées
per essere la cover di Playlist
con gli scatti di Sebastião Salgado
su mondi estremi e biodiversi.
Ti ricordi di Overland?
Perché te lo chiedo?
Erano tutte donne che puntavano
alla bellezza in copertina
tranne Kathy Bates,
diabolica femmina in Misery.
La nostra storia ha capitoli finiti.
Il futuro è sempre possibile
imitando Gli ultimi fuochi di Elia Kazan.
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caro Mario
perseguire il principio della «minima resistenza» e quindi della
maggiore comprensibilità per i fruitori «consumatori» come fa oggi la poesia da trattoria, pone alla poiesis il problema insolubile della propria facile digeribilità e deperibilità, strumento passivo di mera manipolazione ideologica e psicologica, merce deperibile a efficientamento e obsolescenza programmate.
Il tuo linguaggio poetico persegue sì il principio della «minima resistenza» per ribaltarlo però nel suo contrario: nella funzione derisoria, perché la zona occupata dall’arte nella società moderna è un non-luogo, un luogo inesistente, il che determina un non luogo a procedere da parte della introspezione critica che si veste seriosamente e con serietà. L’antiquato concetto di autonomia e eteronomia dell’arte di anceschiana memoria oggi fa sorridere per la sua scarsa avvedutezza, il suo aspetto ‘sociale come fait social «come prodotto del lavoro sociale dello spirito» (Adorno), deve essere ribaltato e sostituito con il concetto della assoluta alterità della poiesis la quale non ha nulla da spartire con la praxis del mondo amministrato che amministra anche l’arte come una confettura di ciliegie con il suo culto dei musei e delle raffinerie petrolifere dell’arte culinaria e da trattoria.
Tu tratti l’arte da trattoria con i suoi lemmi e il suo lessico, e così ne mostri la digeribilità, e così la liquidi.
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Caro Mario,
come sempre i tuoi scritti ci indicano delle vie, delle tracce poetiche importanti, illuminanti. La tua ricerca è esemplare anche per la capacità che sei riuscito ad affinare, nel raccogliere certosinamente i brandelli della nostra epoca, per ricucirli in una trama organica mediante lo straniamento della narrazione meta-temporale e l’incastro delle pennellate delle citazioni, che ci spalancano l’angolo visuale sulle connessioni profonde dell’inconscio, da dove i frammenti riemergono in superficie, dipanando il filo della storia.
Grazie Mario.
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da In viaggio con Godot (2017) di Mario Gabriele
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Jacques Rancière (1940), in La parola muta (1998) propone di leggere gli sviluppi della letteratura contemporanea a partire da una ‘rivoluzione’ poetica intervenuta durante il XIX secolo che ha trasformato radicalmente il modo d’intendere ed intendersi della produzione letteraria. Gli effetti di questa «parola muta», secondo Rancière, non riguardano esclusivamente il mondo delle arti. Nel suo breve testo intitolato L’inconscio estetico (2001) la tesi centrale è che la scoperta dell’inconscio da parte di Freud sia stata resa possibile proprio da quel regime estetico di pensiero che ha spodestato il precedente sistema «rappresentativo» vigente, per esempio, nel teatro del periodo classico francese.
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I
Une élephantesse assise sur un tabouret
boulevard des Batignolles
regarde le poète Gino Ragò
qui boit une ombre
*
Una elefantessa assisa su uno sgabello
boulevard des Batignolles
guarda il poeta Gino Rago
che beve un’ombra
II
A l’Hotel des choses
une casserole demande la suite royale
un véritable triomphe de l’étalage
sur le lit des choses
nue face au miroir
*
All’Hotel delle cose
una casseruola domanda la suite royale
un veritiero trionfo dell’esposizione
sul letto delle cose
nuda di fronte allo specchio
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Ieri, parlando con un autore che mi chiedeva: «Ma che cos’è questa instant poetry?, per caso voi dite che è una poesia che si fa in un istante?», ho cercato di fargli capire che la Instant poetry (che è una componente della poetry kitchen), non è una poesia che si scrive in un istante (altrimenti saremmo nella banalizzazione massima del fare poesia), ma è una poesia che rappresenta ciò che accade in un istante di tempo, che «chiude» il tempo nell’istante. Ci si può mettere un anno a finire una Instant poetry senza togliere nulla al fatto che essa è la manifestazione di un istante di tempo.
Il problema dell’esperienza che facciamo leggendo una instant poetry o poetry kitchen è e non è estetica in quanto non riguarda né l’arte né la non-arte, né tanto meno la verità o falsità dei nostri enunciati, ma riguarda il nostro modo di soggiornare nel mondo, cioè l’etica. Dal che ne segue che etica ed estetica sono la stessa cosa. Appena la nominiamo quella cosa che nominiamo diventa esperienza estetica in quanto nominiamo una cosa che appartiene al nostro essere nel mondo..
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caro Simone Carunchio,
le tue composizioni, che coprono un arco di tempo che va dal 2011 al 2020, rivelano che sei completamente immerso nella boscaglia delle poetiche che hanno perorato e perorano la poesia come flusso di coscienza (dell’io), commentario (dell’io), glossario di pensieri (dell’io) su… Sei ancora prigioniero di un approccio referendario alla poesia di tipo psicologistico, solipsistico, affettivo. Il salto da fare è forse ancora troppo lungo per le possibilità delle tue gambe ma se non ti arrischi a compierlo resterai sempre al di qua. Tenacia e coraggio sono le qualità che si richiedono ad un atleta, le medesime che si richiedono ad un autore di poesia…
Scriveva Mario Gabriele in un commento il
5 giugno 2017 alle 19:31
«La muraglia poetica del Novecento si è appisolata sul sofà del lirismo e dell’elegia, perché così faceva comodo alle Case Editrici, ai poeti e ai critici. Un esempio ne è la Letteratura Italiana Otto-Novecento, di Gianfranco Contini,- Sansoni, 1974, che tralascia l’Avanguardia di Giuliani e Sanguineti, mettendo fine alla sua Antologia con la linea lombarda e recuperando a stento Pier Paolo Pasolini. E’ evidente che ogni antologista traccia le geografie poetiche secondo i propri gusti e la propria sensibilità, omettendo e recuperando nomi illustri o poco conosciuti. Ma non sempre questo metodo ha fatto da guida alle future antologie degli anni 80 e di fine secolo. Dice Mario Lunetta nella sua “Poesia Italiana oggi”- Newton Compton, 1981, a distanza di sette anni da quella di Contini, che” nessun antologista è onnisciente. Pur aspirando ad esserlo, nessun antologista è ubiquo”. Certamente chi redige una antologia sa benissimo che la sua Opera è il riflesso del proprio gusto poetico e critico che non può totalizzare tutti gli eventi sopravvenuti alla data della formulazione dell’antologia. Ma se questo può sembrare un alibi accettabile, non lo è se si omettono le proposte alternative, rispetto alla comune prassi linguistica. Ciò che importa è non trascurare le piattaforme poetiche e stilistiche che si vengono a formalizzare, accantonando qualsiasi pregiudiziale che non aiuta a documentare una realtà diversa da quella acquisita o già omologata. In realtà il territorio di indagine su cui esplorare non è facile, se non vi è un buon return critico e pubblicitario che dia ampio spazio e informazione.Dovrebbe essere sempre una scelta relazionante su forma e espressione, al fine di surrogare tempi poetici afonizzati e senza via di uscita. La caduta di tensione poetica e culturale del nostro Paese e i danni provocati dalla Crisi, hanno allontanato buona parte della platea dei lettori che al tempo delle Giubbe Rosse del Caffè fiorentino erano sempre in soprannumero. Oggi se ne contano poco meno di una ventina di buoni ascoltatori, anche se si nota un risorgimento dei laboratori di poesia che su Facebook appaiono giorno dopo giorno.Il fenomeno dell’Assoluto in poesia non esiste. Sono evidenti, invece, le nuove start-up poetiche come la NOE, in qualità di nuovo lavoro inventivo, specificamente osmotico con il frammento, che è una delle vie più difficili da percorrere, in quanto deve armonizzarsi con il tessuto globale e strutturale della poesia. Direi che fare questo tipo di discorso non è facile.Si tratta di un nuovo intermezzo linguistico che apre significativi squarci di orizzonti e di spazio – tempo pregressi e contemporanei. Nessuno ipotizza un effetto di massa di questo nuovo trasloco formale e psicoestetico. Si vuole solo uscire da un “misticismo” di versi non più assoggettabile ad una vecchia identità trasfusa di spiritualismo tout court, che mette un freno ad ogni rinnovamento, tra l’altro necessario e urgente, quando i tempi non possono ulteriormente passare come fantasmi. Ciò, -scrive Lunetta nella sua antologia- vuol dire anche, ma non da ultimo, optare per la professionalità (che non è puro e semplice professionismo), realizzando il massimo del rigore; operando insomma, per (e con ) una letteratura di poesia che contenga sempre al suo interno polisenso la consapevole teoria critica del proprio prodursi».
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caro Simone Carunchio,
penso sia opportuno prendere atto che dopo l’orinatoio (1917) di Duchamp, siamo entrati in un nuovo capitolo della storia dell’arte occidentale. La poetry kitchen (e la instant poetry e la ready poetry) assume questo fatto come incontrovertibile e ne trae tutte le conseguenze.
Prima di Duchamp un orinatoio (1917)1 non sarebbe stato accettato come ‘arte’, per tante ragioni che non è più il caso di disquisire. Dopo Duchamp anche un orinatoio – e quindi qualunque oggetto o luogo o evento – può diventare‘ artistico’. Duchamp ha svelato il segreto cognitivo dell’oggetto artistico, a lungo oscurato dall’idea che l’arte avesse a che fare con la bellezza o la mimesi. È arte ciò che chiunque abbia l’autorità per sostenere una tale tesi, ritiene arte. Che questo chiunque sia l’artista autore del manufatto, il filosofo, il droghiere sotto casa, il collezionista, il direttore di un museo, un finanziere di Wall Street non fa differenza.
1 Si tratta dell’opera nota come Fountain (un orinatoio maschile, acquistato nel magazzino Mott IronWorks Company di New York), presentato alla prima mostra, nel 1917, della Society for Independent Artists, ma che non venne mai esposto (in seguito l’oggetto è andato perso). L’immagine nel testo è la
riproduzione di una fotografia di Alfred Stieglitz, pubblicata a tutta pagina (titolata come The exhibitrefused by the independents) sul secondo numero (maggio 1917: 4) della rivista The Blind Man
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Il ready poetry
il ready-made esiste come ready-made perché, e solo perché, qualcuno che ha titolo per farlo (ad esempio Duchamp) lo definisce così. Ma una definizione è un atto linguistico, più propriamente è un performativo.
È un ready-made ciò che, rebus sic stantibus, qualcuno (che è ritenuto in grado di profferire un tale enunciato) dice che è un ready-made. Nel caso in questione dell’orinatoio di Duchamp o del treno che entra o esce da una galleria (di Linguaglossa), si tratta di un ready-made perché Duchamp lo definisce così e Linguaglossa lo definisce così. Se oggi il ready-made è considerato un oggetto artistico (infatti, le sue repliche sono esposte nei musei – una copia autorizzata è esposta anche alla Galleria d’Arte Moderna di Roma – è difficile negare questo fatto), allora è un oggetto artistico ciò che viene definito (dagli storici dell’arte, dai mercanti d’arte, dagli amanti dell’arte, da coloro che acquistano il manufatto, da coloro che vanno nei musei a vedere le opere d’arte) come un ‘oggetto artistico’. Ne più ne meno.
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caro Giorgio,
non solo le ultime due decadi di poesia italiana ma gli ultimi cinque decadi di poesia europea hanno segnato l’acutizzarsi di una crisi europea sempre più acuta. Tu scrivi:
Il carattere di un ritorno all’ordine che tanta poesia del secondo novecento ha in qualche modo messo in atto senza remore e reazioni appare evidentissimo in queste ultime due decadi, potrebbe essere ricondotto non soltanto ad un bisogno di ordine imposto da una situazione politicamente regressiva, ma potrebbe anche essere letto come una sorta di auto-martirio spettacolarizzato, una autodichia dell’ente de-politicizzato che vuole rendere evidenti i segni e le ulcerazioni dell’anima che una misteriosa legge fantasmatica e fantasmata infligge ai suoi utenti, tanto più oppressiva quanto più invadente nella sua invisibile indiscernibilità dalla «nuda vita».
Oggi non c’è più neanche bisogno di suonare le trombe di Trump, di far squillare le fanfare del ritorno all’ordine perché l’ordine si auto impone per “autodichia”, l’ordine è diventato invisibile, impalpabile, insondabile. Il vero sovrano è la trasparenza, la glasnost è diventata il peggior virus, il più letale. Basta leggere i libri della poesia accademica che oggi (e ieri) si pubblicano per rendersi conto del degrado che va di pari passo con l’infoltimento degli aggettivi e dei verbi inutili. La temperatura del degrado lo si può misurare dagli aggettivi inutili e dai verbi inutili, dannosi.
A Simone Carunchio rivolgerei il suggerimento di far fare una cura dimagrante alle sue composizioni a partire dagli aggettivi, per passare ai verbi e, infine, ai sostantivi. E poiché di sostanza non ce n’è molta in giro, sopprimere anche quella, anche i sostantivi. Provare a far dialogare un tasto sano con uno rotto, e avremo la musica di oggi. Quella è la sola musica che si può fare in poesia.
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Hai perfettamente ragione, cara Marie Laure: quest’ultimo decennio in particolare, è caratterizzato da un terrificante processo di “normalizzazione” che ha appiattito, lappato, ottuso l’arte e la letteratura, sussumendole sempre più ai processi produttivi, con la complicità consapevole di internet – ancorché strumento dalle enormi potenzialità – come veicolo di consenso ed anestetizzazione populistica, dove “uno vale uno” ed il totale fa zero. Credo che a maggior ragione l’opera della Noe e delle poche tendenze che si stagliano al di sopra di tale piattume, siano investite di un compito salvifico fondamentale per la poesia e per l’arte tutta.
Un caro saluto,
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Poesie di Farfa (Vittorio Osvaldo Tommasini 1881-1964)
da Noi miliardario della fantasia (1933)
Se in me
potesse entrare di straforo
la chioma sua
di certo si trasmuterebbe
la tinta del mio sangue in quella
d’oro
Le rondini
in deliziose cappe di raso nero
dattilografano il risveglio
dettato dall’aurora
Grande delizia
osservate quel treno sbuffante
salire i gradini traversini
raggiunger la bocca del tunnel
che se lo succhia come lequorizia
Dalla superba
chioma dell’acacia
ravviata dal pettine del vento
graziosamente sfuggivano
riccioli di passeri cantori
Stazione
vidi la tettoia arcuata
quale bocca di gitana
allontanare un sigaro fumante
di treno in partenza
riaccostando alle labbra
il diretto in arrivo
finché sputò lontano
l’ultimo mozzicone
di un vagone merci
Gigi
non sono sereno stasera
portami un kocktail di sette coloori
come usano a parigi
che mi faccia diventare arcobaleno
download (2)Ehi dico
madre abbadessa
circonflessa innanzi al finestrino
usa al mattutino
sbrigatevi pel biglietto del diretto
perché
questa non è
una stazione della via crucis
ma quella di porta susa
Che buffe
le due locomotive
agganciate a retro come cani
io ridevo da morire
vedendole sbuffare
innanzi e indietro
arcistufe di strofinarsi
i tenders
Mentre suggevo
latte di luce
da poppe turgide di globi elettrici
un ceffo teppista di tram geloso
col braccio del trolley le staccò nette
immergendomi nell’oscurità
indi giulivo s’allontanò fuggendo
ridendo a crepabronzo di campana
ma se t’acchiappo pezzo di mascalzone
razza di guappo fior di villanzone
Venete
cittadine
padova mentre vicenza
durante la guerra
eravate viola e blu
e i passeggeri del tram
parevano figure spettrali
cadaveri vivi
chiacchieranti in dialetto sonoro
MARINETTI CAFFEINA
d’Europa
proveniva da Castellamonte
sopra un’antiquata caffettiera
e tutto il treno parve allora
una bandiera
incalliginita a lutto sull’asta del camino
grottescamente piantata di traverso
sulla fronte corrugata
del sorpresissimo universo
1933
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Alessandro Simoncini
Sull’Europa reale e sulla sua governance
Con notevole capacità sintetica, in un suo contributo recente, Carlo Galli ha ricostruito la vicenda europea degli ultimi cento anni. Fino alla prima guerra mondiale– scrive Galli – l’Europa è stata tutto, cioè il centro dell’ordine internazionale e della «configurazione globale della Terra».1
. Dopo lo smottamento che nel periodo tra le due guerre ha determinato l’affermazione di potenze extra-europee, e dopo la conclusione della «seconda guerra civile europea» (1914-1945), essa è stata invece un Nulla. «Nulla, è ciò che è stata l’Europa dal 1945 al 1990: un nulla politico, in quanto era semplicemente l’oggetto privilegiato della grande spartizione globale». Nella guerra fredda l’Europa ha rappresentato per decenni l’unica posta in gioco che avrebbe potuto accendere una vera e propria guerra fra USA e URSS. È questo, in fin dei conti, il vero motivo per cui ha potuto godere una pace benefica durata per decenni. Il prezzo da pagare ha corrisposto a una quasi naturale privazione della sovranità. Con buona pace di francesi e inglesi, «i quali nella data-chiave del 1956 (con la crisi di Suez) hanno sperimentato di essere incapaci di costituire il centro di alcunché».
È solo dal 1989-91, con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, che l’Europa «è stata costretta a tentare di essere “qualcosa”, cioè parte di un ordine mondiale politicamente plurale ma economicamente omogeneo (ovvero capitalistico)».
Detto altrimenti, negli ultimi decenni l’Europa realmente esistente si è connotata principalmente come spazio politico ed economico competitivo all’interno di una globalizzazione capitalistica priva di stabilità, ordine e giustizia sociale. Dopo la vittoria degli Usa nella guerra fredda, l’Europa ha cercato di essere quel qualcosa che per trovare il proprio ruolo nel mondo ha dovuto strutturarsi, in modo assai problematico,intorno alla Germania riunificata, che tendeva – e «col “suo” euro» ancora tende – a «esondare» in buona parte del continente e a «creare disunione». Ne è derivato uno spazio politico sistematicamente percorso da molteplici fratture: «fratture geopolitiche, geoeconomiche […], sociali ed esistenziali». Limitiamoci qui solo alle ultime. Tra queste – sostiene Galli – c’è la crescente «disuguaglianza politica e sociale, la distanza fra ricchi e poveri (di sapere, di potere, di reddito, di proprietà) che attraversa tutte le società europee».
Non si tratta di un fatto naturale, dettato magari dalle ineludibili leggi della globalizzazione, ma dell’esito sancito dalla vittoria epocale del capitalismo nella sua versione globale, neoliberale e finanziarizzata. Una versione del capitalismo– quella neoliberale – sorta in risposta alla grande crisi degli anni ’70 e ai movimenti sociali, nel tentativo di arginare la caduta del saggio di profitto e di affossare (finanziarizzandole e privatizzandole) le logiche keynesiane che avevano dettato le linee dello sviluppo postbellico.
1 C. Galli, Europa: linee di frattura e punti esplosivi, in «Ragioni politiche», on line, 19 gennaio 2016
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Instant picture
La pittura istantanea dello scimpanzé Congo
Pittura gestuale, mirabile composizione coloristica, sfondo piatto, gesti radiali. È la pittura dello scimpanzé Congo. Un suo dipinto è al Musée de l’Homme di Parigi. La Mayor Gallery di Londra ha curato una sua personale nel 2012.
Le opere dello scimpanzé Congo (morto prematuramente di tubercolosi all’età di dieci anni, nel 1965) sono esposte in vari musei. Il Natural History Museum di Londra ne ha una, ma anche il Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino può vantare un suo lavoro. Suoi collezionisti sono il principe Filippo d’Edimburgo, Picasso, Miró, Dalí, Penrose,
In una settimana metà delle 55 opere (dipinti e pastelli su carta) esposte alla Mayor Gallery sono andate vendute in tutto il mondo, anche in Italia (prezzi dalle 1500 alle 6 mila sterline). All’asta del 2005, da Bonhams, una sua tela fu battuta a 14 mila sterline, mentre quelle di Renoir e Warhol rimasero invendute. La Mayor Gallery aveva esposto sempre nel 2005 anche i dipinti dello scimpanzé femmina Betsy.
L’etologo Desmond Morris si limitava a scegliere il colore della carta, Congo, con il pennello in verticale, praticava con gesti sicuri e precisi una pittura gestuale. Il risultato è uno stile composito, riconoscibile, con una gestualità a “ventaglio”. Nei filmati su youtube si nota Congo che dipinge con passione e precisione non certo casuali; ad esempio, decide il momento iniziale e il momento finale dell’opera, facendo supporre di avere in mente una precisa idea del suo lavoro.
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Scrive Felice Cimatti:
«Questa, e altre simili ‘immagini’, possono essere definite, dal punto di vista di chi le ha eseguite, delle immagini, ossia delle rappresentazioni? Morris osserva che, almeno nel caso di Congo, i suoi ‘dipinti’ sono il risultato di una serie di gesti radiali, che hanno approssimativamente come centro il corpo del ‘pittore’, e che paiono delineare i contorni di una sorta di spazio
‘proprio’.
Per Morris, in sostanza, non si tratterebbe di immagini, bensì della ripetizione dei gesti con cui uno scimpanzé prepara il nido sugli alberi su cui trascorre la notte. È un’ipotesi che vale quanto ogni altra ipotesi,tuttavia quello che sembra caratterizzare questo tipo di oggetti, è che in nessun casosembrano avere un carattere rappresentativo . Cioè, sono gesti funzionali, non rappresentazioni. Non sitratta di negare il valore performativo delle immagini, il punto è che una immagine,come quelle di Monet e Picasso, è anche un segno di qualcos’altro.
Altrimenti è un gioco, un’attività motoria gratificante, ma non è una immagine.»1
https://www.academia.edu/36179508/Arte_e_linguaggio_Il_problema_dellesperienza_estetica_visiva
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