Giorgio Linguaglossa
Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del secondo novecento. La Crisi del discorso poetico
Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. Occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini per trovare una soluzione a quella crisi. È questo il punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).
Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. Qualche anno prima, nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.
Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario». (T.W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. Einaudi, p. 76)
Quello che oggi ci si rifiuta di vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche.
Davanti a questa rivoluzione in progress che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino ai capelli, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha tascabilizzato la metafisica (da un titolo di un libro di poesia di Valentino Zeichen, Metafisica tascabile, del 1997, edito ne Lo Specchio), ha scelto di non prendere atto del «sisma» del 18° grado della scala Mercalli che ha investito il mondo, di fare finta che il «sisma» non sia avvenuto, che nel Dopo Covid tutto sarà come prima, che si continuerà a fare la poesia di nicchia e di super nicchia di sempre, poesia autoreferenziale, chat-poetry.
Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente: «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto», «declinando il futuro» come scrive Mario Gabriele. Che non è una cosa che possa essere convocata in una formuletta valida per tutte le stagioni.
Il problema della crisi dei linguaggi post-montaliani del tardo Novecento, non è una nostra invenzione ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederlo probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica».
Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Io invece penso a qualcosa di dissimile, ad una poesia che possa durare soltanto per il presente, per l’istante, per il soggiorno, mentre prendiamo il caffè, o mentre saliamo sul bus, i secoli a venire sono lontani, non ci riguardano, fare una poesia «fur ewig» non so se sia una nequizia o un improperio, oggi possiamo fare soltanto una poesia kitchen, che venga subito dimenticata dopo averla letta.
Per tutto ciò che ha residenza nei Grandi Musei del contemporaneo e nelle Gallerie d’arte educate, per il manico di scopa, per il cavaturaccioli, le scatolette di birra, gli stracci ammucchiati, i sacchi di juta per la spazzatura, i bidoni squassati, gli escrementi, le scatole di simmenthal, i cibi scaduti, gli scarti industriali, i pullover dismessi con etichetta, gli animali impagliati. Non ci fa difetto la fantasia, che so, possiamo usare il ferro da stiro di Duchamp come oggetto contundente, gettare nella spazzatura i Brillo box di Warhol, la macarena e il rock and roll…
Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria
«Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria. Non è un fiorellino da mettere nell’occhiello della giacca: è un modo di pensare, di vedere il mondo in cui ci troviamo: un mondo confuso, denso, contraddittorio, illogico. Cercare di dire questo mondo in poesia non può quindi non presupporre un ripensamento critico di tutti gli strumenti della tradizione poetica novecentesca. Uno di questi – ed è uno strumento principe – è la sintassi: che oggi è ancora telefonata, discorsiva, troppo concatenata e sequenziale, quasi identica a quella che è prevalsa sempre di più fra i poeti verso la fine del secolo scorso, in particolare dopo l’ingloriosa fine degli ultimi sperimentalismi: finiti gli eccessi, la poesia doveva farsi dimessa, discreta, sottotono, diventare l’ancella della prosa.»
Rebus sic stantibus, dicevano i latini con meraviglioso spirito empirico. Che cosa vuol dire: «le cose come stanno»?, e poi: quali cose?, e ancora: dove, in quale luogo «stanno» le cose? – Ecco, non sappiamo nulla delle «cose» che ci stanno intorno, in quale luogo «stanno», andiamo a tentoni nel mondo delle «cose», e allora come possiamo dire intorno alle «cose» se non conosciamo che cosa esse siano. (Steven Grieco Rathgeb, 2018)
«Essere nel XXI secolo è una condizione reale», ma «condizione» qui significa stare con le cose, insieme alle cose… paradossalmente, noi non sappiamo nulla delle «cose», le diamo per scontate, esse ci sono perché sono sempre state lì, ci sono da sempre e sempre (un sempre umano) ci saranno. Noi diamo tutto per scontato, e invece per dipingere un quadro o scrivere una poesia non dobbiamo accettare nulla per scontato, e meno che mai la legge della sintassi, anch’essa fatta di leggi e regole che disciplinano le «cose» e le «parole» che altri ci ha propinato, ma che non vogliamo più riconoscere.
Carlo Michelstaedter (1887-1910) si chiede: «Quale è l’esperienza della realtà?». E cosi si risponde:
«S’io ho fame la realtà non mi è che un insieme di cose più o meno mangiabili, s’io ho sete, la realtà è più o meno liquida, è più o meno potabile, s’io ho sonno, è un grande giaciglio più o meno duro. Se non ho fame, se non ho sete, se non ho sonno, se non ho bisogno di alcun’altra cosa determinata, il mondo mi è un grande insieme di cose grigie ch’io non so cosa sono ma che certamente non sono fatte perch’io mi rallegri.
…”Ma noi non guardiamo le cose” con l’occhio della fame e della sete, noi le guardiamo oggettivamente (sic), protesterebbe uno scienziato.
Anche l’”oggettività” è una bella parola.
Veder le cose come stanno, non perché se ne abbia bisogno ma in sé: aver in un punto “il ghiaccio e la rosa, quasi in un punto il gran freddo e il gran caldo,” nella attualità della mia vita tutte le cose, l’”eternità resta raccolta e intera…
È questa l’oggettività?…».1]
Molto urgenti e centrate queste osservazioni del giovane filosofo goriziano che ci riportano alla nostra questione: Essere del XXI secolo, che significa osservare le »cose» con gli occhi del XXI secolo, che implica la dismissione del modo di guardare alle «cose» che avevamo nel XX secolo; sarebbe ora che cominciassimo questo esercizio mentale, in primo luogo non riconoscendo più le «cose» a cui ci eravamo abituati, (e che altri ci aveva propinato) semplicemente dismettendole, dando loro il benservito e iniziare un nuovo modo di guardare il mondo. La nuova scrittura nascerà da un nuovo modo di guardare le «cose» e dal riconoscerle parte integrante di noi stessi.
Dopo il novecento
Dopo il deserto di ghiaccio del novecento sperimentale, ciò che resta della riforma moderata del modello sereniano-lombardo è davvero ben poco, mentre la linea centrale del modernismo italiano è finito in uno «sterminio di oche» come scrisse Montale in tempi non sospetti.
Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967). Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo dell’experimentum per approdare ad una sorta di poesia che faccia a meno delle categorie del novecento: il pre-sperimentale e il post-sperimentale oggi sono diventate una sorta di terra di nessuno, in un linguaggio koinè, una narratologia prendi tre paghi uno; ciò che si apparenta alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una terza vita ma come fantasma, in uno stato larvale, scritture da narratologia della vita quotidiana. Se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi: Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista?, ma è la sua metafisica che oggi è diventata irriconoscibile. La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio, con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.
Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista, come schiettamente modernista è la poesia di Elio Pecora, da La chiave di vetro, (1970) a Rifrazioni (2018), di Anna Ventura con Brillanti di bottiglia (1976) e l’Antologia Tu quoque (2014), di Giorgia Stecher di cui ricordiamo Altre foto per un album (1996) e Maria Rosaria Madonna, con Stige (1992), la cui opera completa appare nel 2018 in un libro curato da chi scrive, Stige. Tutte le poesie (1980-2002), edito da Progetto Cultura di Roma. Il novecento termina con le ultime opere di Mario Lunetta, scomparso nel 2017, che chiude il novecento, lo sigilla con una poesia da opposizione permanente che ha un unico centro di gravità: la sua posizione di marxista militante, avversario del bric à brac poetico maggioritario e della chat poetry dominante, di lui ricordiamo l’Antologia Poesia della contraddizione del 1989 curata insieme a Franco Cavallo, da cui possiamo ricavare una idea diversa della poesia di quegli anni.
«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».1
Le strutture ideologiche post-moderne, dagli anni settanta ai giorni nostri, si nutrono vampirescamente di una narrazione che racconta il mondo come questione «privata» e non più «pubblica». Di conseguenza la questione «verità» viene introiettata dall’io e diventa soggettiva, si riduce ad un principio soggettivo, ad una petizione del soggetto. La questione verità così soggettivizzata si trasforma in qualcosa che si può esternare perché abita nelle profondità presunte del soggetto. È da questo momento che la poesia cessa di essere un genere pubblicistico per diventare un genere privato, anzi privatistico. Questa problematica deve essere chiara, è un punto inequivocabile, che segna una linea da tracciare con la massima precisione.
Questo assunto Mario Lunetta lo aveva ben compreso fin dagli anni settanta. Tutto il suo interventismo letterario nei decenni successivi agli anni settanta può essere letto come il tentativo di fare della forma-poesia «privata» una questione pubblicistica, quindi politica, di contro al mainstream che ne faceva una questione «privata», anzi, privatistica; per contro, quelle strutture privatistiche, de-politicizzate, assumevano il soliloquio dell’io come genere artistico egemone.
La pseudo-poesia privatistica che si è fatta in questi ultimi decenni intercetta la tendenza privatistica delle società a comunicazione globale e ne fa una sorta di pseudo poetica, con tanto di benedizione degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.
(Giorgio Linguaglossa)
1 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017
La poesia kitchen di Mario M. Gabriele
L’estraneazione è l’introduzione dell’estraneo nel discorso poetico; lo spaesamento è l’introduzione di nuovi luoghi nel luogo già conosciuto. Il mixage di iconogrammi e lo shifter, la deviazione improvvisa e a zig zag sono gli altri strumenti in possesso della musa di Mario Gabriele. Queste sono le categorie sulle quali il poeta di Campobasso costruisce le sue colonne di icone in movimento. Il verso è spezzato, segmentato, interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo, è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote»; i simboli, le icone, i personaggi sono solo delle figure, dei simulacri di tutto ciò che è stato agitato nell’arte, nella vita e nella poesia del novecento, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story… sono flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano icone-flashback… non ci sono né domande, come invece avviene nella poesia penultima di Gino Rago, né risposte, c’è il vuoto, però.
Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale il pensiero sconnesso o interconnesso a un retro pensiero è ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali. Lo stile è quello della didascalia fredda e falsa da comunicato che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi. Mario Gabriele scrive alla stregua delle circolari della Agenzia dell’Erario, o delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli raffreddati dal senso chiaro e distinto. Proprio in virtù di questa severa concisione referenziale è possibile rinvenire nei testi, interferenze, fraseologie spaesanti e stranianti.
Tutto questo armamentario retorico era già in auge nel lontano novecento, qui, nella poesia di Gabriele è nuovo, anzi, nuovissimo il modo con cui viene pensata la nuova poesia. È questo il significato profondo del distacco della poesia di Gabriele dalle fonti novecentesche; quelle fonti si erano da lunghissimo tempo disseccate, producevano polinomi frastici, dumping culturale, elegie mormoranti, chiacchiere da bar dello spot culturale. La tradizione (lirica e antilirica, elegia e anti elegia, neoavanguardie e post-avanguardie) non produceva più nulla che non fosse epigonismo, scritture di maniera, manierate e lubrificate.
Mario Gabriele dà uno scossone formidabile all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto. È un risultato entusiasmante, che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana.
1] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica Joker, 2015 pp. 102-103 (prima edizione, 1913)
Mario M. Gabriele da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017)
4
La cena fu come la voleva Lilly:
un tavolino con candele e fiori
e profumo Armani.
Le chiesi come stava Guglielmo.
-Di lui- disse, è rimasto un segnalibro
nella notte di San Lorenzo.
Monika, più sobria dopo il lifting,
prese la mano di Beethoven
per un tour Vienna – Berlino.
Declinando il futuro di Essere e Avere
le gote di Miriam si fecero rosse.
Sui muri della U2
splendeva il museo di Auschwitz.
Averna era suggestiva con l’abito blu.
In un angolo giocatori d’azzardo
puntavano sull’eclissi lunare.
-Allora, posso andare, Signora?-
disse la governante.
-Ho chiuso tutte le porte e le finestre.
Può stare tranquilla-.
Raccogliemmo il riverbero di luce
nella stanza con profumo di violetta, e ligustro.
Una serata all’aperto, come clochard
e nessuna chiatta o pagaia alla riva
se non la fuga e il ritorno dopo il check-up.
E’ stata lunga l’attesa nell’Hospital day.
Il truccatore di morte
si è creata una Beautiful House
a pochi passi dal quartiere San Giovanni.
A Bilderberg la povertà si arricchisce di nulla.
Tomasina rivede i conti
con le preghiere del sabato sera.
Un giorno verrà fuori chi ha voluto l’inganno.
Se metti mano all’album vedi solo ologrammi.
Un quadro di Basquiat al Sotheby’s di Londra
ha dato luce all’Africa Art.
Bisogna rimetterla in piedi la statua caduta.
5
Il surrealismo, cara, l’abbiamo riscoperto
una sera d’agosto passando in via Torselli.
Erano i barattoli di Warhol
e le tazzine di Keith Haring
più che di un artista sconosciuto;
né sapevi, chiusa com’eri
nel tuo mondo di griffe ed evergreen,
che quella collezione fosse il meglio dell’Art Now
presentata dai signori Baxster
nella Galleria di Jan Buffett.
Ora solo un colore sopravvive in noi,
ed è autunno, prèt à porter.
Lucy seguiva il pensiero di Dennett e Florenskij.
-Perché fai questo?- le dissi.
C’è una stagione per la frantumazione
e una per la resurrezione!
Suor Angelina aveva in mano
le anime degli ottuagenari.
–La sepoltura dei morti? si chiese.
-Parlatene tra voi se vi va bene-.
E rimanemmo tutto il pomeriggio
in una riva all’altra,
facendo il giro del faubourg,
tra vecchie palme, e cipressi ammutoliti,
leggendo i libri della Biblioteca di Alessandria.
Il brahmano disse di stare alla larga dagli embrici.
Erika invitò i sapienti di Villa Serena
ad un cocktail party con brioche e gin-tonic,
perché parlassero della Vocazione di Samuele
e degli Oracoli di Balaam.
La mia anima è una barca,
senza mare e né sponde.
Ci fermammo sotto i portali.
Una voce si levò dal coro.
Iene e leoni fuggirono dal bosco.
Tacquero i muti e i sordi
e quelli che vennero con amore e afflizione
a seguire il flauto magico di Hamelin,
gli oroscopi di Madame Sorius.
6
Di te non seppi più nulla
se non fosse stata per una lettera
col timbro UK. Cambridge 2016.
– Egregio Signore,
Miss Olson non è più tornata da noi.
Le spediamo una chiave.
Lei saprà a quale porta appartiene-.
Ora ci tocca trovare l’armadio
e la buhardilla, escaneando fotos,
aprendo file e digital cameras.
Caro Adelfio non leggo più le Fetes Galantes.
E’ un peccato lo so.
E’ come dire che la Olson ha una casa a Portogruaro.
Padre Mingus accetta i cadeaux quando viene a Natale.
Osako ha buttato una vita
per togliere le spore di Nagasaki.
La stanza è clemente
quando escono i vermicciattoli dal muro.
Non ti lascerò andare, mia streghetta del Sud
che hai vestito le pagine bianche di perifrasi varie.
Raymond Queneau ha fissato l’istante fatale.
La domestica di turno ha percezioni notturne,
contatti paranormali. Ghosth!
Fu splendida Cathy quando riferì
di aver trovato nei ripostigli schizzi di Walterplatz,
un ritaglio della strage di Ustica
su una pagina londinese del Daily Mirror.
L’estate la passeremo a Pratolungo
ascoltando la voce dell’acqua,
leggendo Samson Agonistes.
7
Il tempo custodisce affreschi,
salva le tue ultime canoe.
Riparte l’archivio degli anni,
non uno che si metta al riparo
dall’onda dello tsunami.
Pure qualche strofa risale dai fondali.
La città si rannicchia nella neve.
Di cosa hai paura Ramous?
Padre Alvarez chiude il sermone
disegnando il TAU dal Libro di Ezechiele.
Ketty ha un velo intorno agli occhi,
non legge più Le Metamorfosi di Kafka.
I fornelli hanno perso lo splendore.
Non c’è accordo tra notte e giorno.
Prima che venga Queen Mary
abbiamo ridato il colore ai muri,
allargata la porte ètroite.
Nel Mosul Park, dopo delitti e pene,
la gente prega ancora.
Scendiamo le scale fino a Wellinton House
senza Eliot e i ragazzi di stand by me.
Oddio, Bessy, hai dimenticato le Sacre Scritture?
Credi proprio che il reverendo John dica le bugie?
Questo è un Gran Paese di vivi e di morti.
I rami di poesia sono rigagnoli di acqua e sabbia,
anche se lo slang è lontano
e le metafore si accendono
come le luci la notte di Natale.
8
Una cover senza schizzi e ideogrammi
come una città del sole nel museo d’arte moderna,
di linguaggio etereo, dice Clara,
abituata a ogni Manifesto.
Il vento agita le primule.
Sembra primavera ma non lo è.
Iris prepara le valigie, torna in Ljubljana.
Mi duole il pianto a venire.
Oggi è il compleanno di Leo.
Good Morning Vietnam!
Lucy ha un ascesso parenchimale.
Difficile che arrivi a Natale.
Esagerato, Golbert!
Tutto questo è prematuro!
La blu Car è ferma al Comune.
Gli altri che fanno? Puntano le fiches.
L’unguento di arnica ha un effetto placebo,
non toglie il male dal mitocondro.
Manderò un Daily Mail a Geltrude
quando la neve scenderà
e sarà più difficile attraversare le strade.
Nella casa che fu di nonno Vincent
e le sue pipe di tabacco cubano,
si accumulano i fumogeni.
Continua a dare un taglio il giorno che viene.
Di questo passo anche la Signora O’Neill
si sente come Lucy sotto il tiro dell’anno.
C’è un silenzio spettrale al di là del ponte.
Penso a Celan: I tuoi capelli d’oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith.
Mario Gabriele, from Voyaging with Godot, Progetto Cultura, Roma
4
Dinner was as wanted by Lilly:
a small table with candles and flowers
and perfume by Armani.
I asked how was William.
– of him she, said, remained a bookmark
in the nght of Saint Lorenzo.
Monika, more sober after the lifting,
took Beethoven’s hand
for tour Vienna-Berlin.
Conjugating the future of Being and Having
Miriam’s cheeks turned red.
On the wals of U2
shone the museum of Auschwitz.
Averna was suggestive in her blue dress.
Gamblers in a corner
pointed for the eclypse of the moon.
– So Missees, can I leave?-
said the governant.
– I shuttered all windows and doors.
You can stay in peace-.
We gathered the reflex of light
in the room withviolet perfume , and privet.
En evening in the open, like a clochard
and no pontoon or paddle boat on the shore
if not the going and coming after the check-up.
Long was the wait in the Hospital day.
The death make-up artist
built a for mimself Beautiful House
just a few steps from San Giovanni.
In Bilderberg poverty fets rich on nothing.
Tomasina reviews the bills
with the prayers of Saturday night.
One day will come out who wanted the swindle.
A Basquiat painting at Sotherby’s of London
gave light to African Art.
The fallen statue again must be put on its feet.
5
Surrealism, my dear, we discovered
one August night passing by Via Torselli.
It was the cans of Warhol
and the small cups of Keith Haring
more than an artist unknown;
nor did you know, closed as you were
in your world of griffe and evergren,
that collection was the best of Art Now
presented by essers Baxsers
in th Gallery of Jan Buffett.
Nw only one color survives in us,
and it is autumn, prèt à porter.
LLucy followed the thinking of Dennett and Florenskij.
-Why are you doing this?- I told her.
There is a season for hattering
and one for resurectio!
Sister Angelina held in her hand
the souls of the octogenareans.-
Burial of the daeahe asked.
-Talk among yourselves if it’s okay-.
And we stayed the entire afternoon
between one shore and the other,
making the round of the fauborg,
three old palms, and mute cypresses,
reading books from the Alexandria Library.
The brahamin said to stay away from the tiles.
Erika invited the wise men of Villa Serena
to a cocktail party with brioche and gin-and-tonic,
so that they might talk of the Vocation of Samuel
and the Oracles of Balaam.
My soul is a barge,
without sea nor shores.
We stopped under the archways.
A voice arose from the choir.
Hyenas and lions fled from the woods.
Deaf and mute were silent
while those who came with love and affliction
followed the magic flute of Hamelin,
the horoscopes of Madame Sorius.
6
Of you I knew nothing more
were it not for a letter
with the postmark UK. Cambridge 2016.
-Egregious Mister,
Miss Olson did not come back to us.
We send you a key.
You will know to what door it belongs-.
Now we have to find the bureau
and the buhardilla, rosting though photos,
opening files and digital cameras.
Dear Adelfio I no longer read the Fetes Galantes.
It is a sin, I know.
It is like saying that Miss Olson has a house in Portogruaro.
Father Mingus accepts the cadeaux when he arrives at Christmas.
Osako threw away a life
to remove spores from Nagasaki.
The room is forgiving
when the sleezy worms come out of the wall.
Iwill not let you go, my small whitch of the South
who dressed a white page with various periphrases.
Raymond Queneau has fixed the fatal moment.
The servant on turn has nightly perceptions,
paranormal contacts. Ghosh!
Cathy was splendid when referreing
she had found the schetches of Walterplatz in hidden places,
a detail of the Ustica massacre
on a page of the London Daily Mirror.
We will pass summer in Pratolungo
listening to the voice of water,
reading Samson Agonistes.
7
Time maintains mural painings,
saves your ultimate canoes.
The archive of years
takes off again,
no one finds safety
from the wave of the tsunami.
Yet some strofa emerges from the bottom.
The city curles up in snow.
What does Ramus fear?
Father Alvez ends the sermon
tracing the TAU from the Book of Ezechiel.
Ketty has a veil around her eyes,
no longer reads Kafka’s Metamorphosis.
Stoves have lost their luster.
There’s no ryme between night and day.
Before Queen Mary arrives
we tinted the walls,
widened the ètroite door.
In Mosul Park, after crimes and sufferings,
people still pray.
We descend the stairs until Wellington House
without Eliot and the young men of stand by me.
M God, Bessy, did you forget the Holy Scriptures?
Do yo truly believe that Father John tells lies?
This is a Great Country of living and dead.
Poetry’s branches are tiny streams of water and sand,
although the slang is far away
and metaphors light up
as the lights of Christmas Eve.
8
A cover without schetches and ideograms
like a city of the sun in the museum of modern art,
of heavenly language, says Clara,
used to every Manifesto.
The wind moves the primulae.
Seems like springtime but it is not.
Iris prepares the suitcases, returns to Ljubljana.
The tears that will come make me suffer.
Today is Leo’s birthday.
Good Morning Vietnam!
Exagerated, Goldberg!
All of this is premature!
The blu car is still in Town Hall.
What do the others do? They place the fiches.
Arnica ointment has placebo effect,
it does not remove pain from the mytocondium.
I will send a Daily Mail to Gertrude
when the snow will go down
and it will be harder to cross the streets.
In the house belonging to grandfather Vincent
with his pipes of Cuban tobacco,
fume traces accumulate.
The coming day keeps on giving a slice.
In this way even Misses O’Neill
feels like Lucy under the spear of the year.
On th far side of the bridge there is a ghostly silence.
I think of Celan: your golden hair Margarete
Your ash-colored hair Sulamith
© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of 5 poems by Mario Gabriele
appeared in L’OMBRA DELLE PAROLE. All Rights Reserved
Caro Giorgio,
la tua analisi critica sulla mia poesia credo rimarrà per sempre un punto di riferimento, anche quando non ci sarò più. Credo che non la lascerò nel cassetto in quanto trattasi di un paradigma totalizzante delle mie opere, per cui è mia intenzione inserirla come Prefazione nel mio ultimo volume, sempre se tu me ne dai l’autorizzazione,
Nessuno ha saputo proporre, con tanta sensibilità culturale, il mio percorso linguistico che si disarticola nella interferenza di generi e stili, non dimenticando gli avvenimenti del nostro tempo, non sempre pacifici per nessuno, a causa della enorme contraddizione della società, oggi più che mai bloccata da una stasi economica ed occupazionale.
Siamo i sopravvissuti di un discorso plurilessicale perché i confini si sono aperti, e i problemi sono diversi E’ ciò che mi sono permesso di fare con L’Erba di Stonehenge, In viaggio con Godot, Registro di bordo, Remainders e, in ultimo con Horbrux di prossima pubblicazione.
La tua analisi critica è un Voyage introspettivo che ha messo in rilievo Etica e Letteratura, sebbene il buio nella sala di fine Novecento fosse così fitto da reinventare nuovi schemi e immaginazione, da parte dei poeti della NOE, tra minizibaldoni, poesia kitchen, suture di collegamenti, lacerti di citazioni, frammentismo, ecc, anche perché elegia e narrazione sono di fatto fuori tempo.
C’è un particolare a cui desidero esprimere il mio punto di vista. Se veramente vogliamo creare un nuovo percorso bisogna credere in una modernità linguistica esprimendo il meglio della alternatività. Non è cosa di poco conto tenendo presente che esistono scritture poetiche allergiche alla qualità. Il miglioramento poetico dipende da ciò che scriviamo. La griffe dei dati linguistici, anche accumulati digitalmente, costituisce la migliore connessione verbale con l’esterno, perché la generazione degli utenti in poesia è cambiata, così come è cambiata nelle Arti, nella Moda, nel Bricolage, e il vocabolario per definire questi eventi, è di una disciplina creativa dagli infiniti approcci estetici e linguistici.
Di fronte a tutto ciò l’unica Stella variabile che attualmente appare nel microcosmo poetico italiano è questa della Nuova Ontologia Estetica, a meno che non si voglia superare l’attuale stato di gestazione con una Autobiologia anacronistica, e inattuale per riproduzione mimetica e assurdità del verso, agganciato a molti estetismi di chiara fumigazione estemporanea.
Grazie e cordiali saluti.
caro Mario,
la poesia di super nicchia che è stata fatta in Italia e in Occidente da alcuni decenni, si è rivelata altrettanto invasiva nell’epoca Covid che ha registrato un altissimo tasso di pseudo poesia considerata come demanio privato delle strutture psicologiche dell’io, con le conseguenti malattie esantematiche e psicosomatiche e compiacente fibrillazione della malaise dell’io.
Il mio giudizio su questa pseudo poesia non può che essere severamente negativo. Si tratta nel migliore dei casi di episodi, di sintomi psicanalitici che registrano un malanno psicologico e di sfruttarlo come pseudo tematica del disagio esistenziale. Si tratta di una miserabile e regressiva strategia di sopravvivenza alla crisi politica delle democrazie de-politicizzate dell’Occidente con un superpiù di auto lacerazione e di auto flagellazione dei lacerti di un io posticcio e positivizzato.
Riassumo qui i punti principali della malattia pandemica che ha attinto la poesia contemporanea:
– Si fa consapevolmente una poesia da supernicchia;
– La pseudo poesia positivizzata ed edulcorata che si fa oggi in Italia la si fa avendo già in mente un certo indirizzo dei destinatari e un calcolo di leggibilità e di comunicabilità privatistica;
– Si circoscrive il microlinguaggio poetico a misura delle dimensioni lillipuziane dell’io;
– Si rinuncia del tutto alla questione del ruolo della poesia e della letteratura nel mondo storico di oggi;
– Ritorna in vigore una certa mitologia del «poeta» visto come depositario di saggezza, seriosità, tristezza, pensosità ombelicale;
– Ritorna in auge il mito di una «poesia» vista come luogo neutro della ambiguità e della astoricità in una posizione di involucro dell’anima ferita e malata ( ingenuo alibi ideologico e smaccata mistificazione culturale);
– Nessuna capacità e volontà di rinnovamento del linguaggio poetico visto come un che di separato dai linguaggi della comunicazione delle emittenti linguistiche;
– Moltiplicazione delle tematiche private, privatistiche e quotidiane opportunamente devalutate in chiave privatistica e de-politicizzata;
– Moltiplicazione di forme narrativizzate ad imitazione della prosa;
– Moltiplicazione del taglio narrativo, diaristico, quotidiano e prosastico;
– Moltiplicazione di un super linguaggio de-politicizzato e lucidato;
– Adozione delle pratiche onanistiche, auto assolutorie e regressive confezionate in forma poetica.
Condivido pienamente questo esame critico sulla poesia di oggi, sempre più asfittica, da reflusso gastro esofageo. Se solo una parte dei poeti, che utilizzano questi collanti abrasivi, sempre più plasticizzati e degradabili, riuscisse a proporre una più significativa difesa della parola poetica, si avrebbe un parlare chiaro e sincero. Restiamo, purtroppo, in un esercizio estetico che non guarda alla riprogettazione della poesia necessaria alla sua sopravvivenza, ma in un cantiere dove i materiali utilizzati franano ad una prima lettura perché onnicomprensivi di tutte le turbe elencate da Giorgio Linguaglossa.
“I rami di poesia sono rigagnoli di acqua e sabbia,
anche se lo slang è lontano
e le metafore si accendono
come le luci la notte di Natale.” (M.M. Gabriele)
Finita l’epoca dei poppatoi,
la devastazione connetteva girandole e chiodi
d’acciaio, beninteso le sorprese nelle molotov
perfino dai dirimpettai non erano comprese.
Di certo dapprima di stimare le stive con impegno
si erano svuotati i guardaroba e gli armadietti.
La scuola anche quella era finita da un pezzo.
L’orgoglio in polvere venduto da Amazon
e la corrente sfusa, divertente, la si apprezzava
spargendo forte il tasto On.
Elettrico sei, quanto ti diverti o stai seduto, elettrico sei quando dormi, quando mangi, quando sorridi.
La funzione è compatibile con la sostituzione, il terzo verso puoi spostarlo a piacimento
anche abbattere le barriere, spostare muri, salutare, fare ciao ciao, con la manina. Ricostruire.
Grazie OMBRA
Conservami i sandali Birckenstock,
la borsa K-WAY per i sogni in tribolazione,
le canzoni di Nora Jones su Radio Capital
e la foto di Amy Winehouse nell’ultimo picnic
con gli anni che restano come polvere d’asfalto
prima che le scarpine MEU
mi portino a letto a sognare le Galàpagos.
Scegli tu la vetrina più bella
dove sistemare il passato nel display
con le stories di Pussy Riot a piazza Kazan.
http://mariomgabriele.altervista.org/inediti-da-horcrux/?doing_wp_cron=1623329914.6526770591735839843750#comment-302
Al bar scegliemmo il tavolo esagonale:
tre posti per la famiglia Valpellina
e tre ai figli del filosofo Casella.
Sui muri c’erano versi di Murilo Mendes
e un repertorio fotografico della città.
Accettati i confini di un’isola poetica,
il linguaggio si fece astruso
con tutte le biodiversità estetiche.
Un gatto scambiò le gambe di Meddy per una lettiera.
Ci fu un dialogo sui social networks
sommando alla fine follower e like.
In attesa che lo chef preparasse hamburger e whisky Gin,
un venditore di flaconi e stick,
ci propose Instant Reset di Fenty Skin,
il Sauvage di Dior
e il Rouge H di Hérmes.
Riprendemmo il discorso, serafico e quantistico,
citando il lume di Diogene.
-Habemus vitam- disse uno dei figli di Casella,
ricercatore all’Artemisia.
-Allucinanti- esclamò la signora Valpellina
-sono le centurie e le abrasioni-.
C’era una richiesta di pertinenza
affidata a Giusy De Luca,
esperta di advocacy e digital strategy.
Solinas riferì i dati in laboratorio
su Emoglobina e Linfociti del piccolo Larry.
Il Memorial finì quando un cigno nero
entrò nella stanza con le finestre aperte
e i lumi spenti.
Chiamati a rapporto Kant e San Tommaso
ordinammo cioccolatini Pomellato.
Essendo dei flâneurs preferimmo l’albergo All Right
dove Jean Russell esibiva un altro Premio Pritzker
mentre il gourmet passava da un tavolo all’altro.
*
Conservami i sandali Birckenstock,
la borsa K-WAY per i sogni in tribolazione,
le canzoni di Nora Jones su Radio Capital
e la foto di Amy Winehouse nell’ultimo picnic
con gli anni che restano come polvere d’asfalto
prima che le scarpine MEU
mi portino a letto a sognare le Galàpagos.
Scegli tu la vetrina più bella
dove sistemare il passato nel display
con le stories di Pussy Riot a piazza Kazan.
Si può affermare che la Instant poetry è un atto linguistico performativo e rappresenta nella lingua una sua antichissima potenzialità, dormiente nell’uso che si fa oggi delle lingue, che viene rimessa in potenza, in atto.
Scrive Agamben:
«Ogni nominazione, ogni atto di parola è, in questo senso, un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s’impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che inesso si realizza» (G. Agamben p. 62). Con il passaggio al monoteismo il nomedi Dio nomina il linguaggio stesso, è il logos stesso a essere divinizzato come tale nel nome supremo, attraverso il quale l’uomo comunica con la parola creatrice di Dio: «il nome di Dio esprime, cioè, lo statuto del logos nella dimensione della fides-giuramento, in cui la nominazione realizza immediatamente l’esistenza di ciò che nomina».1 Questa struttura, in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato, è quella che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» (speech act; (cfr. AUSTIN 1962); «io giuro» è il modello di un tale atto. Agamben sostiene che gli enunciati performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere».2
1 G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza. 2008, pp. 71-72
2 Ibidem p. 74-75.
Per poter agire, l’enunciato performativo deve sospendere la funzione denotativa della lingua e sostituire al modello dell’adeguazione fra le parole e le cose quello della realizzazione immediata del significato della parola in un atto-fatto.
La instant poetry è quindi un atto-fatto, un fatto-significato, un fatto-non-significato. La instant poetry è vera se legata ad un istante, se è il prodotto di un istante, dopodiché scompare nel non-istante che chiamiamo, per consuetudine, passato.
Instant poem
G. Linguaglossa
Un pappagallo scambiò le gambe di Marilyn
per quelle di Mary Poppins
Il semaforo gorgheggiò una canzone di Mina
degli anni sessanta.
Disse che si trattava della «frattura metafisica della presenza»
o giù di lì.
«È la biodiversità», disse.
E passò ad altro.
Penso che le antologie letterarie in uso nelle scuole italiane dovrebbero considerare l’idea di accogliere la sfida condensata in questo articolo che ho appena finito di leggere. Ritengo che sia arrivata l’ora di dare maggiore visibilità al linguaggio poetico che l’ombra giorno dopo giorno crea, discute, sviluppa. Le categorie poetiche sono molto cristallizzate, gli editori, come dice Giorgio, sono pigri, i giovani, in maggioranza, sanno quello che studiano, salvo, poi, farsi conquistare dai testi innovativi delle canzoni, italiane e straniere. All’estero, penso agli Stati Uniti, si sperimentano nuove forme poetiche, i giovani le seguono. Uno svecchiamento è quanto mai necessario.
caro Mario,
hai un tocco direi magico, le tue poesie sanno stregare il lettore. Sono atti performativi più che atti semantici. Questa è, a mio avviso, la poesia dei giorni nostri che si leggerà nel futuro.
Complimenti.
Un abbraccio.
cara Milaure Colasson,
ti sono grato del commento sulla mia poesia, che se ancora si formalizza lo si deve solo alla spinta neurologica proveniente da un mondo in disgregazione
e di continuo furto alla vita. Scrivere versi con un linguaggio già omologato è un replay inutile che non aiuta a svincolarsi dal frastuono dei campanelli lessicali di oggi, anche perché viviamo in un mondo completamente digitalizzato e tecnologico. Grazie e cordiali saluti.
caro Mario e cara Tiziana,
penso che la nuova ontologia estetica che si è sviluppata nella poetry kitchen sia una strada a senso unico, non ci consente esitazioni o passi indietro, ma solo in avanti. La via della ricerca non può essere arrestata o rinviata sine die o ritardata, la nostra ricerca non può inseguire i sondaggi, non tende la mano alla popolarità, la poetry kitchen non deve limitarsi a cercare il consenso, non è una proposta politica ma una proposta poietica, il che è diverso.
Il fatto che la poesia italiana da alcuni decenni sia diventata una cosa da supernicchia che parla agli abitanti della supernicchia, oggettivamente non ci giova, la supernicchia difende se stessa perché produce serialità letteraria, al massimo professionalità letteraria. Non mi aspetto che la poetry kitchen venga adottata nei manuali scolastici, prima deve fare i conti con la cesura del silenzio e della marginalizzazione che l’accademia letteraria produce e non potrebbe non produrla. Adesso la petry kitchen è matura, i suoi valori sono visibili, penso che alla fine di agosto manderò l’Antologia della poetry kitchen all’editore Progetto Cultura di Roma per la pubblicazione, ci saranno i poeti che hanno contribuito con il loro lavoro alla nostra ricerca, sarà un prodotto di novità dirompente, assolutamente fuori dalle righe della omologazione della poesia di accademia.
caro Giorgio,
deve essere un giorno storico, quello relativo alla Antologia NOE, cioè l’altra faccia della poesia che si immette sui detriti di un terremoto in cui la storia e l’inettitudine dei poeti, hanno immobilizzato senza variazione alcuna, il rinnovamento del linguaggio e dello stile.
Spetta all’Editore fare campagna pubblicitaria, la più dirompente possibile, entrare nei social, in Facebook, in ogni sito possibile, fare PDF dell’Opera, mandandola a tutti gli iscritti all’Ombra delle Parole.
Non spetta a me rubare il mestiere all’Editore. Ma qui si tratta di un evento straordinario! Un Abbraccio, Mario.
Scrivere della poesia di Mario M. Gabriele; ma anche solo l’idea di volerne scrivere, mi è pari all’idea di voler scalare una montagna. Il fatto è che, a fronte di una poesia che in lettura si presenta chiara e comprensibile, il tentativo ermeneutico, anche il più ingenuo, introdurrà elementi di complessità che il poeta, nel suo immediato, ha già ben risolto. Voglio dire con questo che non prevale sulla poesia l’accorgimento critico, sebbene quello di Giorgio Linguaglossa sia di gran lunga il più adatto, quello che più si avvicina all”inafferrabile”.
Ecco, se devo dire qualcosa sulla poesia futura, immagino sia questo l’aspetto più rilevante: che si sia abbandonata la forma poesia strutturata, dal verso libero sempre più sofisticato. La poesia di Gabriele è infatti di diversa e nuova architettura. Sgombra di ascesi e verticalità, è una poesia orizzontale; che nell’evento è di ampio accoglimento perché tutto sembra accadere nell’unico istante, qui o/e da ogni altra parte del mondo; e che sa giocare con la memoria.
È nuovo, per me, il discorso che arriva frammentato ma diretto e comprensibile. Frutto di attento lavoro di dismissione di regole obsolete; linguaggio che si avvale di una sintassi semplificata, che ha fiducia nella grammatica, perché tanto basta. Poesia del dimagrimento linguistico, della perdita di orpelli. Poesia del suolo, e del reale che non ti aspetti perché è sempre altrove.
La perfetta originalità dei suoi frammenti pare adatta ad essere incastonata in soggetti cinematografici, o per dare vita e sorpresa a narrazioni altrimenti agonizzanti nel perdurare di un pensiero o di un’emozione. Frammenti che spezzano e ravvivano, spezzano e vanno oltre.
Ma è anche poesia mono tonale, lo stesso che si potrebbe dire di un fiume; non fosse che Gabriele è poeta sperimentale, quindi destinato a disegnare sempre nuove mappature…
Aggiungo una riflessione su quel che accade alla “voce” a causa del continuo dismettere del pensiero: che la voce, o dovrei dire le voci, per principio di individuazione, finiscono per rivelasi sonoramente; e mi chiedo se esista una voce sovrana, e se possa convivere in rapporto, anche conflittuale, con altre voci; queste sì, che hanno parvenza demente…
Con tastierismo modernista.
In mancanza di tempo:
fermi al semaforo / dentro una stanza in affitto/
soprani, nell’acuto / tra la gente.
–
Come Jimi Hendrix, quando stonava.
–
Sulla panchina, due giovani innamorati decisero
di scadere a livello delle promesse d’amore.
Venisse una pestilenza, mangeremo castagne.
Moriremo insieme. Sull’autostrada, di notte.
(MAY – giu 201)
caro Lucio,
il tuo commento lo inserirò a breve su ALTERVISTA . Reparto Bibliografia, in quanto sei già presente negli Appunti Critici del volume di prossima pubblicazione Horcrux. Mi è piaciuto il tuo senso critico e ti ringrazio.
A presto. Grazie e un cordiale saluto.
…riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stto anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo, scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «demetaforizzare» il proprio linguaggio poetico. Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di «Trasumanar e organizzar», di Giovanni Giudici con «La vita in versi» e di Vittorio Sereni con «Gli strumenti umani», era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non aveva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo privo però di copertura filosofica. Montale, insomma, apre le porte della poesia italiana alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto compie una legittimazione dell’impero mediatico che era alle porte, legittima la ciarla, la chiacchiera, lo scetticismo in poesia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia come elettrodomestico. Qui sì che Montale ha fatto scuola! Ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.
Il problema del primo e del secondo Montale va inquadrato e collegato con il problema dell’emergenza della piccola borghesia in Italia e con il suo riflesso/effetto nel linguaggio poetico, in particolare nella costruzione di un paradigma stilistico che fosse consono e adatto al predominio culturale della piccola borghesia con i corrispettivi partiti che dal dopo guerra erano in via di consolidamento: la democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, e il Partito Comunista. Detto questo è indubbio che la vittoria sia arrisa a Montale come quel poeta che ha saputo trarre vantaggio da questa situazione di incontro/scontro con una mossa da scacco matto: Montale si toglie dal campo del contendere della piccola borghesia adottando, da “Satura” (1971) in poi il punto di vista (anche stilistico) alto scettico-borghese. Sta di fatto che la soluzione stilistica di Montale poteva valere per lui solo e non per la poesia a lui coeva e successiva le quali si incammineranno, anzi, si affretteranno a correre dietro il veicolo in accelerazione della modernizzazione del paese nella speranza di apparire moderni e attendibili. Il problema stilistico è quindi nient’altro che la indicizzazione di un problema politico. In questa corsa sfrenata verso la piccola borghesia, in questa discesa in picchiata chi più ne ha avuto più ne ha messa di benzina sul fuoco.
Ma pongo una DOMANDA: ma oggi, in piena crisi di STAGNAZIONE e RECESSIONE c’è ancora il bisogno di conformarsi al paradigma stilistico-politico della piccola borghesia del Ceto Medio Mediatico?
Certo, tra i due contendenti: Fortini – Montale io mi schiero dalla parte di Fortini: è stata la mancata riforma del linguaggio poetico il vero discrimine negativo che ha condotto la poesia e la narrativa italiane allo stato di sopore profondo di oggi. Ma qui intervengono anche gli errori filosofici e poetici di Fortini il quale riteneva impossibile riformare il linguaggio poetico senza prima riformare i rapporti economici e sociali del capitale. Questo sì che era un errore.
giorgio linguaglossa
4 luglio 2012 12:32
oggi va di moda di porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dal figurato invece che dal letterale. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dapo “Satura”, l’opposizione fra il letterale e quotidiano(Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stato espulso la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico. Con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile. Certo, la poesia di Helle Busacca come quella di Madonna (due poetesse ormai morte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.
giorgio linguaglossa
21 novembre 2011 09:01
…Un giorno, circa di un anno fa, un giovane poeta romano (Faraòn Meteosès), mi chiese se, a mio avviso, fosse possibile ripristinare una nuova avanguardia oggi.
Risposi che, a mio avviso, era possibile proclamare una nuova avanguardia. Doveva essere un gruppetto di “arditi” i quali avrebbero dovuto diffondere all’Ansa e presso tutti i mezzi di comunicazione che il giorno X alle ore 18,30 sotto l’Arco di trionfo di Costantino in Roma si sarebbe riunita l’avanguardia letteraria “ZTL” che avrebbe proclamato la propria nascita, e che alle ore 18,35 tutti i membri del Gruppo si sarebbero suicidati in pubblico, davanti ai turisti distratti, agli oziosi pedoni romani, in mezzo ai centurioni fasulli in cerca di turisti e ai fotografi abusivi…
Questa, dissi, è l’avanguardia che mi auguro possa sortire fuori dal tombino della nostra epoca medial-mediatica. A mio avviso, aggiunsi, l’avanguardia non può resistere più di cinque minuti perché verrà scavalcata dai potentissimi motori e rotori della civiltà mediatica e dalla velocità dei suoi mezzi di locomozione-informazione.
E allora, che cosa ci resta da fare? mi chiese Faraòn Meteosès…
Gli risposi che una vera avanguardia deve calcolare e disporre liberamente il proprio decesso, programmarlo ed attuarlo in piena libertà, sottraendosi alla (falsa) libertà coscrittiva della comunicazione mediatica e alla normologia del sistema culturale. Un atto «eroico», dunque, perfettamente inutile e perfettamente superfluo.
E il Gruppo 93?, mi chiese il poeta.
Beh, quella è un’altra cosa, si tratta di una faccenda di ufficiali giudiziari, di ufficiali dell’aviazione teorica e di pubblicitari della poesia… – risposi.
La Storia della poesia italiana del Novecento è tutta attraversata da sigle letterarie e da fasi di stallo che per lunghi periodi hanno tenuto in tilt ogni forma di ricambio. In realtà si trattava di annettersi o disgiungersi con temi formali, apofonici, politici, elegiaci, ecc. a volte reattivi nei confronti della staticità del linguaggio.
Queste operazioni non duravano più di un ventennio e anche meno, venendo subito dopo sostituite con altre Proposte disgiuntive dalla Forma Regina. Non a caso abbiamo assistito a scremature continue del linguaggio che hanno prodotto sigle poetiche diverse con le relative Antologie prodotte dalle maggiori Case Editrici, e con le prefazioni dei migliori critici al Top Ten delle classifiche, presenti anche come poeti,
Da qui la nascita di correnti letterarie e poetiche, che assemblavano nelle loro proposte, qualche canone postjoyciano, dopo le fermentazioni di canzonette di regime e di potere, autentici droni poetici da parte di D’Annunzio, e via via fino al percorso di livello psicologico, narrativo, umanistico-individualistico in un sistema che ha corroso culturalmente il nostro paese fino a detronizzarlo con l’afasia, con i Soggetti Dio e il Nulla con il Futurismo e il Crepuscolarismo, l’Ermetismo e la poesia Visuale, l’Avanguardia e altre forme evasivo-liriche. Questo per evidenziare come la poesia sia andata nel corso del Novecento soggetta a ricambi strutturali e ideologici. E proprio in questi corridoi di percorrenza stilistica e poetica che si muove la Nuova Ontologia Estetica con annessa la Poetry Kitchen o Buffet o performativa, che ha come unico scopo quello di evidenziare un fatto: il tentativo di ricucire un vestito sdrucito in tutte le sue parti, aprendo le sartorie poetiche dopo l’usura e l’assenza della poesia pervenendo alla pubblicazione di una Antologia, già omologata nella mente del Directormanager Giorgio Linguaglossa.
caro Mario,
Il problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa», così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece è ipotizzabile l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento.
Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente.
È interessante andare a computare la topologia della poesia di Kjell Espmark e di un Tranströmer; di solito si tratta di interni domestici ripresi per linee diagonali, sghembe e in scorcio; le storie esistenziali sono quelle della grande civiltà urbana delle società postindustriali; le vicende sono quelle del privato, quelle esistenziali, vicende sobriamente prosaiche di una prosaica vita borghese; non c’è nessuna metafisica indotta, ma un domesticità e una prosaicità dei toni e delle situazioni Potremmo definire questa poesia di Espmark come una sobria e prosaica epopea dell’infelicità borghese del nostro tempo post-utopico. Emerge il ritratto di una società con Signore e Signori alla affannosa ricerca di un grammo di autenticità nell’inautenticità generale.
Qui da noi nel secondo Novecento hanno tentato questa direzione di sviluppo della poesia Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhuller (1985) e Franco Fortini con Composita solvantur (1995), da diversi punti di vista e con opposte soluzioni, ma sempre all’interno di un concetto di resistenza ideologica alla società borghese, la dimensione esistenziale in sé era estranea a quei poeti come alla cultura italiana degli anni settanta ottanta. Per il resto, quella problematica esistenziale che balugina in Espmark, da noi è apparsa per fotogrammi e per lacerti, in modo balbuziente e intermittente, qua e là. Più chiaramente quella problematica è presente nella poesia italiana del Novecento presso i poeti non allineati, in Alfredo De Palchi con Sessioni con l’analista (1967), in Helle Busacca con la trilogia de I quanti del suicidio (1972) ; in chiave interiorizzata, in Stige di Maria Rosaria Madonna (1992); in chiave stilisticamente composta in Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996). Ma siamo già a metà degli anni Novanta. In ambito europeo è stato il tardo modernismo che ha insistito su questa problematica: Rolf Jacobsen con Silence afterwards (1965), Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) e, infine, Kjell Espmark con le poesie che vanno dal 1956 ai giorni nostri. Si tratta di un ampio spettro di poeti europei che hanno affondato il bisturi sulla condizione umana dell’uomo occidentale del nostro tempo.
Ciò che emerge dalla tua poesia, come anche dalla mia, da quella di Gino Rago, Mauro Pierno, Giuseppe Talia, Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, etc., e di tutti gli altri rappresentanti della nuova ontologia estetica poetry kitchen, è l’assenza totale della «dimensione esistenziale» (di Espmark, Tranströmer, Helle Busacca, Caproni etc.) e della «dimensione ontologica», sostituite con un «vuoto». Quelle «dimensioni» sono ormai diventate delle scatole vuote. Le condizioni del nuovo capitalismo finanziario globale ha finito per derubricare le questioni esistenziali e psicologiche degli esseri umani a questioni secondarie e terziarie, le ha espulse dal periscopio degli osservatori più acuti, dalla filosofia e dall’arte. Sono diventate questioni psicopatologiche. In particolare, è evidentissimo ad esempio che nella tua poesia la dimensione esistenziale risulti totalmente assente, questo dà da pensare, gli esseri umani sono macchiettizzati e sostituiti da sosia, emblemi, avatar, icone, doppi, emoticon… le voci si sono moltiplicate in emittenti linguistiche, a dismisura, le parole hanno perduto sostanza, si sono raffreddate, sono state sostituite da emoticon, hanno perso il loro referente e sono diventate leggere e volubili, si sono alzate in volo come mongolfiere. Questa gigantesca crisi è un prodotto delle nuove condizioni delle forze produttive e dei rapporti di produzione su scala globale, non sono essenze metafisiche, sono questioni ben reali e concrete che nella poesia kitchen vengono improvvisamente in luce in tutta la loro portata.
Possiamo paragonare la poesia di Tranströmer e di Kjell Espmark ad un collage di fotografie asimmetriche, dove non c’è un baricentro, non c’è un equilibrio, ma disequilibrio, frantumi, frammentazioni, dove si rinvengono segnali, spezzoni di parlato, frantumi di pensieri, dove lo spazio verticale è ripreso orizzontalmente, e viceversa. Il segreto dell’arte contemporanea è il disequilibrio, magari invisibile ma pervasivo, che si diffonde in tutte le direzioni come micro fratture che minano dall’interno anche il materiale più resistente. Il disequilibrio, l’estraneità, il perturbante, l’Unheimlich, il rimosso, l’inaudito, l’equivoco. La crisi esistenziale dei personaggi della poesia svedese di Espmark, della Frostenson, di Rohlf Jacobsen e di registi come Bergson e Antonioni, oggi è rinvenibile nei fotogrammi lucidati di film come La grande bellezza di Sorrentino.
Oggi c’è una poesia che ha i suoi ingredienti di base in quegli «espedienti» che Lucio Mayoor Tosi ha chiamato con una brillante definizione, il «fermo immagine», il «girare intorno all’oggetto», la frantumazione, la «fragmentation», la sovrapposizione, l’interferenza, l’entanglement delle immagini e dei frammenti. Il mondo globale ha prodotto e messo in circolo una miriade di frammenti incomunicabili. Quei frammenti siamo noi. Siamo frammenti de-simbolizzati. Siamo diventati Altro. Impiegare e assimilare questi frammenti è un atto di vitale importanza non solo per la poesia ma anche per il romanzo, per il cinema e per le arti figurative. Faccio soltanto due nomi di romanzieri che hanno scritto romanzi a partire dalla raccolta di frammenti: Orhan Pamuk e Salman Rushdie.
La cultura poetica italiana è aliena alle novità, prigioniera di una normologia retrograda. In questo ultimo decennio però sembra profilarsi una nuovissima sensibilità kitchen per una poesia che abbia il suo punto nevralgico nella problematica del «vuoto».
Impiegare i «frammenti» significa indagare questo «vuoto», piegare la sintassi e la fonetica alla «natura» dei frammenti, cambiare il modo stesso di costruzione del verso libero modulato sull’antico calco endecasillabico, implica fare i conti con un nuovo concetto di «spazio» e di «tempo», implica la velocizzazione del lessico, e il suo rallentamento, implica vedere altre cose che prima non vedevamo.
Secondo me non è tempo, questo, per darsi ai sentimenti. Ma è tempo di comprensione: si vorrebbe capire; anche perché “ci siamo lasciati” e cosa sia la solitudine; sempre per quello sguardo orizzontale, che non prega ma, appunto, vorrebbe capire; se non altro, il meccanismo.
Per questo, pensando a una poesia esistenziale, perché fermarsi e dare estetica all’emotività? Mi sorprende che poeti “esistenzialisti” non abbiano mai messo piede nello studio di uno psicanalista. Quante poesie stupide, tocca leggere. Prive anche dell’arte di essere stupidi. Voglio dire. senza un “lavoro” dietro, di buona ricerca introspettiva, non si avranno basi solide per affrontare l’argomento esistenzialista. Così Montale – anch’io, pur nella visione orientalista, l’ho considerato fin dall’inizio insufficiente. – E Satura avrebbe potuto dare inizio all’instant poetry, ma così non è stato.
La instant poetry è un modo di essere della poetry kitchen. La quale poetry kitchen può prosperare soltanto in un orizzonte ontologico ed epistemologico materialista, chi crede nell’intervento del divino nelle faccende umane, non può pensare in modo kitchen, magari penserà in modo religioso, farà un quadro o una poesia elegiaca. Buon per lui.
caro Mario Gabriele,
la foto (di qualche tempo fa) del post di Marie Laure Colasson rappresenta il fondo di un lavabo sporco, è del marzo del2021. Ci dice una cosa: che l’arte di oggi è sporcizia, che l’arte della nostra civiltà è un’arte da immondizia, accompagnamento musicale alla discarica pubblica.
La Poetry kitchen e l’immondizia sono quindi imparentate. La poesia annuncia una forma poesia eterodiretta, cioè guidata dalla logica dell’Altro… ma qui «dio» non c’entra niente, non c’entra neanche il divino, non cerchiamo sotterfugi miracolistici e consolatori, non cerchiamo scorciatoie, «dio» è lontano e, se c’è, se ne frega delle questioni dell’homo sapiens e delle beghe della poiesis.
La distanza che ci separa dalla poesia del secondo Montale è immensa. La poesia di Montale si muove dall’io e dalla crisi dell’io, crisi esistenziale, ideologica, religiosa, forse; Montale non arriva e non può arrivare a concepire una poiesis diretta dalla logica dell’Altro, l’epoca non glielo consente. La poetry kitchen ha alzato il cartellino rosso, «dio» è stato espulso dal campo di gioco, la nuova poiesis ha dovuto prendere atto che la poesia è guidata dalla logica dell’Altro. Tutto qui.
Il recupero delle forme chiuse e normative in letteratura, e in particolare nella poesia, la convivenza pacifica delle forme narrative con quelle non-narrative, dell’arte figurativa con l’arte astratta e così via assume un significato peculiare: il fatto che le forme aperte convivano beate con le forme chiuse, ci dice molto di più, ci dice che il rinchiudersi del poeta all’interno di una normatività positiva in campo formale potrebbe essere una strategia per rendere evidente il peso e la relativa postura che un paradigma normologico impone ai corpi e alle psicologie di massa e individuali; il carattere di un ritorno all’ordine che tanta poesia del secondo novecento ha in qualche modo messo in atto senza remore e reazioni e che appare evidentissimo in queste ultime due decadi potrebbe quindi essere ricondotto non soltanto ad un bisogno di ordine imposto da una situazione politicamente regressiva, ma potrebbe anche essere letto come una sorta di auto-martirio spettacolarizzato, quasi per rendere evidenti i segni e le ulcerazioni dell’anima che una misteriosa legge fantasmatica e fantasmata infligge ai suoi utenti, tanto più oppressiva quanto più invadente nella sua invisibile indiscernibilità dalla «nuda vita».
Il fatto che le preoccupazioni poetiche di un Fortini e del tardo Montale, come anche quelle dell’ultimo Pasolini siano vissute come ambasce del passato senza continuità con il presente, significa soltanto che siamo entrati in una nuova situazione politica e psicologica di massa, una condizione derubricante di conflittualità di massa permanente, una situazione che vede in vigore la legge della «nuda vita»: occhio per occhio e dente per dente.
Tutti gli interventi, compreso quest’ultimo, davvero illuminante nella sua severa e luminosa sintesi, di Marie Laure Colasson secondo cui “La instant poetry è un modo di essere della poetry kitchen. La quale poetry kitchen può prosperare soltanto in un orizzonte ontologico ed epistemologico materialista, chi crede nell’intervento del divino nelle faccende umane, non può pensare in modo kitchen[…]” mi stimola a ricordare a chi si accosta a questa pagina de L’Ombra della Parola, con la ben articolata nota critica di Giorgio Linguaglossa e con i versi di Mario Gabriele nei quali energie acustico-sonore, visive, ideologiche, emotive sono un tutt’uno, che lo stile Kitchen viene anche dalla coscienza della ” doppiezza e dell’equivocità della letteratura postmoderna, letteratura postmoderna la quale, com’è anche nelle mie poesie in stile kitchen della Pallottola, della gallina Nanin e degli ultimi testi sparsi, trova i suoi punti di riferimento retorici e teorici nell’ironia e nella parodia.
Le quali, a loro volta, anch’esse vengono da lontano; più precisamente, provengono da quell’ampio ventaglio di temi tipicamente “postmoderni” che sintetizzerei così:
– il soggetto indebolito, decentrato, moltiplicato e frammentato nelle sue esperienze sociali, interpersonali e sentimentali che rendono impossibile l’autoanalisi e l’esplorazione del proprio mondo interiore;
– la crisi del senso della Storia che, diventando prodotto di consumo e della temporalità, appare come un continuum del presente, anzi, dell’attualità;
– la diffusione dei concetti del “complotto”, del potere oppressivo e soprattutto dei limiti delle conoscenze umane.
E aggiungerei la città in quanto percepita quale figura pluridimensionale che rappresenta tutte le dimensioni della nuova realtà contemporanea.
Propongo
La dolce vita in stile kitchen
Gino Rago
Prima versione
Gli idoli si sono dileguati
all’apparire del Perturbante,
dice Giacomo Marramao a Marcello Mastroianni.
Federico Fellini attraversa di corsa Piazza di Spagna,
insegue Giulietta Masina
che vuole andare a letto con De Chirico.
Mario Schifano fa il taxista a Piazza del Popolo,
Madame Ripà de Meanà da Rosati
ordina cocaina a colazione con Tano Festa.
Duchamp espone l’orinatoio a Trinità dei Monti.
Ennio Flaiano ci fa la pipì,
poi prende al volo un colibrì.
Eugenio Scalfari entra senza barba
nell’acrilico Notturno di Madame Colasson
e invita l’uccello Petty al Caffè de Paris.
L’ASSIST DELLO SPRAY
Istruzioni su come sopportare il rumore delle pillole
e lo sciabordio di EN sugli scogli.
Tutte fuori le regine a esporre la testa mozzata
Nel solco di terra la dentiera di Maria Antonietta.
-Sono il buco nero che ridà il regno a Carolina
Il corteo che esce dall’ombra e si rifugia nel nero
La rugiada non ci è piaciuta, nemmeno il Litio
che cade dai pini.
Ma tu che hai Raffaello nella bocca
Dove hai messo la rivoltella?
…
La donna che toglie le nuvole dalle antenne
Lavora senza sosta i residui di polpo.
Il quesito degli occhi è in verticale
Risolvilo e troverai la parola misteriosa
Parole di sapone da barba:-Inutile spremere il tubetto.
E in fondo funziona senza faccia.
…
Roba che si vede al Bancomat: il Minotauro
e Teseo che parcheggia la Rolls Royce
Signore, siamo in troppi. Qualcuno deve uscire. Non sarà facile fronteggiare la bestia quando verrà. E poi di questi tempi senza armatura, microscopio,
raggio laser e proiettili teleguidati
Ci cadranno addosso gli Apache.
Non potremo più scrivere sui pacchetti di luce.
Dovremo fuggire aggrappati alle eliche
La bestia non si fece attendere. Più di un rimorso di coscienza
Nel mostrare i denti. Duecentocinquanta per mandibola.
Un cinghiale appena uscito dal vocabolario
Legge ai figli un verso di Tranströmer
Otto anime intorno agli stessi spaghetti e un ballare sul tavolo
Accanto a Bacco e… Perbacco!
(Francesco Paolo Intini)
Poetry kitchen di Gino Rago
“Lucio Mayoor Tosi entra nel “Notturno” di Madame Colasson,
invita l’uccello Petty al Caffè de Paris”
Mi piace: non perché ci sono anch’io, ma perché di fatto è un bell’esempio di “eccetera”, scritto in fuori senso.
È proprio scrittura giapponese!
Forse nuova epifania, fatta di suoni, accompagnati da immagini.
Buongiorno cari amici,
ringrazio infinitamente Giorgio per quest’articolo offerto alla nostra attenzione. Ho avuto nitidamente l’impressione, leggendolo a più riprese, di essere di fronte ad un momento spartiacque della nostra ricerca, come se avessi voluto offrirci, caro Giorgio, una visione, uno spaccato definitvo del panorama impaludato in cui versa la produzione poetica italiana, ormai da diversi decenni (con l’eccezione ovviamente delle poche voci che si stagliano al di sopra di quest’ aura mediocritas), sintetizzando mirabilmente i punti nevralgici del nostro percorso. La sensazione che emerge – lo dico serenamente e senza enfasi – che quest’articolo costituisca un punto culminante di una serie di scaturigini recenti, che sembrano quasi preannunciare l’epifania di un momento storico, catartico per il futuro delle poesia italiana; è come se trasparisse, dalle parole di Giorgio, la consapevolezza di essere prossimi ad un momento di svolta nella storia della nostra poesia. In effetti ho più volte avuto l’impressione in questi ultimi mesi, che l’itinerario che dal frammento destrutturante, ci ha poi condotto all’evoluzione costituita dalla “Poetry kitchen” ed all’ “instant poetry”, abbia determinato una sorta di galvanizzazione del nostro tessuto poietico, permettendo di chiarire gli ultimi, residui spazi di indefinitezza nelle nostre soggettività poetiche (mia in primis), giungendo così ad una fase apicale del progetto Noe. Facevo una riflessione leggendo quel fulgido esempio di Nuova ontologia estetica che sono le poesie di Mario Gabriele: la poesia della Noe è “rigenerante” nella misura in cui svecchia la poesia italiana da modelli sclerotizzati, non in grado ormai di riprodurre la condizione della contemporaneità in poesia: ma al tempo stesso lo fa restituendo alla poesia la sua vocazione antica e popolare (in senso antropologico) della narrazione. In fondo trovo che la poesia di Mario sia forse la forma più alta di narrazione cui possiamo attingere oggi in Italia. La poesia di Mario Gabriele non è mai né soggettiva, né valutativa (o come ha avuto modo di definirla Giorgio, “apofantica”): non esprime né giudizi, né finte certezze o facili consolazioni; semplicemente indica dei percorsi umani, esperienziali, rispetto ai quali ognuno è libero di creare le proprie associazioni logiche, semantiche, di senso. Non cerca il consenso mediante la rassicurante centralità dell’ io, ma più prosaicamente entra nel cuore dell’ “umano”, al tempo stesso non soffermandosi sulla crosta superficiale esterna, ma approfondendo le concrezioni profonde che sottostanno e danno forma al fenomeno umano, grazie al processo di scomposizione operato tramite la frammentazione. Per ciò stesso però, Mario ci restituisce nel contempo, il piacere antico della narrazione, anche grazie alla sostituzione di figure emblematiche, antonomasie, in passato ricercate nella mitologia (la quale però a sua volta sotto il peso dell’erudizione classica, ha finito per smarrire la sua radice “popolare”, per essere utilizzata come puro esercizio di sfoggio erudito) con nomi, figure, profili, estratti da varie diramazioni, lacerti, patchworksi, della letteratura, della musica, delle arti visive o semplicemente della vita quotidiana. La poesia di Mario, intesa come emblema della Noe e caratterizzante perciò – pur con le arricchenti differenze interne – l’intero costrutto dell’opera delle varie voci che popolano il nostro collettivo – si esprime contro il dilagare della poesia egotica di questi ultimi decenni, riflesso dell’edonismo indotto dai risvolti della cultura consumistica, frutto in campo culturale della deriva di un processo capitalistico sempre più fuori controllo ed alimentato dall’industria culturale stessa. Penso anch’io, come esprime proprio Mario Gabriele, che la pubblicazione della nostra antologia della “Poetry kitchen” possa essere l’avvio di una fase palingenetica nella storia della nostra poesia, per la quale tutti noi siamo modestamente chiamati a fornire il nostro contributo.
Lunga vita all’ “Ombra” ed alla NOE.