Instant poetry, Poetry kitchen, Twitter poetry di Lucio Mayoor Tosi, Mario M. Gabriele, Alejandra Alfaro Alfieri, Mauro Pierno, Scambio di opinioni tra Giorgio Linguaglossa, Mario Gabriele, Giuseppe Gallo

Giorgio Linguaglossa

La citazione, l’incorporazione, il gioco, l’immagine anacronica, la collezione/collazione rivelano le segnature del passato e dell’estraneo, sono segnali semaforici che stabiliscono le referenze del presente. Le opere poetiche hanno ciascuna una propria temporalità specifica che stabilisce relazioni intempestive non solo all’interno dell’opera, ma anche in relazione con altre forme di temporalità. Benjamin paragona il procedimento del montaggio ad un trucco di magia, ed appunto questo è il segreto del montaggio/compostaggio: un atto magico della poiesis.

Poetry kitchen di Alejandra Alfaro Alfieri

«Si, apri la telecamera».
«Guarda il cavallo».
La sua risata aveva spezzato lo schermo. Chi si immaginava che lei si sarebbe innamorata di un criminale.
«Non sono mai stata una rubacuori», dissi.
Ma continuarono ad interrogarmi.
Le tre bambole mi furono strappate lo stesso.
Nessuna parola di quelle dette tra me e lui compariva nel verbale.
C’erano scritte a stampatello follie e menzogne.

«Alla peggio vieni qui da me, è verde – disse –
qui si lavora la terra».
«Sai, avrei tanto voluto costruirci una casa. 5 cani. Io e te e il gatto».
La libertà era la cosa più bella che lei avesse mai vissuto.
18,30 – si gioca con lo sguardo, alla ricerca dell’ identità.

Lei con la felpa di Ralph si nascose tra le regole della metamorfosi.
«Che nessuno si muova!
Mezza giornata e ci vediamo a casa, in California»
disse Ralph.
«Un viaggio per un bicchiere di vino».
«Ok, A dopo».

http://mariomgabriele.altervista.org/1381-2/#comment-301

Poesia Kitchen di Mario M. Gabriele

Monin chiese il Copyright per l’Opera del Mondo.
Dal Cantorum si alzò la voce di Sister Power
per il Natural Work d’incomprensibile fattura.

Padre Mingus inciampò per le scale
tenendo in mano una copia di Sinn und Form,
dove anche la CDU ne approvò la pubblicazione.

Il procedimento era necessario
per fermare polittici e scritture
come disse Pier Luigi da Fassina.

Voi non sapete quanto ci stia a cuore
il vermiciattolo del baobab,
riferì uno dei 5678 fuori Aula.

Tutto questo per confessare
che si vive una vita da commedia parigina.

Amleto se ne stava in silenzio
senza volere altri shock.

Ogni giorno ci inoltriamo su Sky e Netflix
seguendo i videogame.

Riparammo i tessuti con Achillea
e acido ialuronico della Omnia Star.

Spesso ci si viene a dire
di essere deleted, fuori da ogni Capitolo,
come in un romanzo Night, Sleep, Death
di qualche thriller post Generation.

Giorgio Linguaglossa
maggio 16, 2021 at 8:36 am

caro Mario,

penso che, come tu hai scritto, siamo tutti «deleted», «fuori da ogni Capitolo», siamo membri di «una post generation». Che linguaggio usare? Come uscire da questo «post» che ci perseguita? Forse con due «post» «post»? O tre «post»? Anche il linguaggio che tu impieghi con impareggiabile maestria è un linguaggio «deleted», fitto di algoritmi vuoti, tessere di un puzzle vuoto, fitto di caselle vuote. È inutile girarci attorno: forse siamo membri segreti di una Loggia massonica, una Super “Ungheria”, dove qualcuno ci ha iscritti a nostra insaputa, e di lì dirigiamo i rapporti di potere e l’esistenza degli uomini, continuiamo a legiferare sulle nostre esistenze senza accorgerci che Qualcuno ha già deciso per noi, forse un Super-Algoritmo infinitamente complesso che pensa per noi e ci sussurra e suggerisce i pensieri che dobbiamo pensare, forse siamo già in un Grande Fratello dominato da un Algoritmo Invisibile e Insostanziale che ci conduce, e non abbiamo più bisogno di alcun Grande Dittatore o Duce di cartapesta e di fascio littorio. Abbiamo raggiunto l’insostanzialità. E siamo felici così.

Mario M. Gabriele

caro Giorgio,
le tue osservazioni sono un punto cruciale sulla dialettica del nuovo Mondo che si sta istituzionalizzando convertendo società e cultura in un nuovo elemento di decrescita e povertà.
Siamo lontani dal pensiero di Montesquieu con il suo Esprit des Lois. La divisione dei poteri in Italia sta capitolando in ambito legislativo, esecutivo, e giudiziario.
C’è in atto una revisione dei diritti di un popolo con la caduta dei fondamenti del valore e delle Costituzioni liberali. I sistemi di governo variano da nazione a nazione con risultati discutibili.

Non ce ne stiamo accorgendo ma un Superpotere è in atto in ogni nazione annullando il fondamento principale che è quello della libertà evidenziato da Habermass nel volume: Morale, Diritto, Politica (Einaudi, Torino 1992,.contro qualsiasi elemento corrosivo di Leggi ingiuste proposte dal legislatore e dai governi.
I concetti e le attuali finalità di magistrati e politici fanno parte di una lunga serie di approvvigionamento ideologico, per mettere in un angolo il vecchio asset economico, sanitario, e occupazionale, riformando democrazia e cultura.
La pandemia ha mandato in tilt l’apparato sanitario ridotto al minimo essenziale dai precedenti governi. Mai come oggi è necessario istituire un nuovo “patto sociale” senza che i poteri siano stravolti e che ogni Nazione rispetti le altre evitando genocidi e massacri come nel passato regime nazionalsocialista in Germania, e che tra Israele e Palestina stiamo ancora assistendo.
Quanto alla poesia italiana, da noi riformulata, tra critiche e proposizioni pluriestetiche, si può azzardare l’ipotesi che essa è una sorta di lessico autonomo, come segno di resistenza e accessorio minoritario, rispetto alle proposte delle grandi case editrici, che impongono una linea di dittatura culturale, di fronte alle piccole famiglie poetiche che rimangono tali con l’attenzione di pochi followers nei momenti di maggiore leggibilità.
Insistere con autonomia e demitizzazione, determinando misure precise come linguaggio della differenza, annullando iter zoomorfici diventa fattore indispensabile e necessario per non finire nella raccolta di rifiuti differenziati.

Giuseppe Gallo

Anche se con un po’ di ritardo, vorrei unirmi alle tante riflessioni sorte in relazione ai moniti di Giorgio Linguaglossa, agli avvertimenti di Mario Gabriele e alla composizione “ucronica” di Mauro Pierno. Le citazioni di Mauro possiamo considerarle come “frammenti” che, “sfuggiti alla forza di gravità del tempo cronologico” si sono agglutinati ed addensati tra di loro per restituire alla poesia in forma kitchen la complessità e la confusione che noi, tutti noi, come hanno presupposto, sia Gabriele che Linguaglossa, stiamo attraversando, qui ed ora. Non dico “vivere” perché la vita è ormai altra cosa rispetto al linguaggio. Tuttavia, in qualche modo, questa esperienza è diventata, attraverso Pierno, Galdini, Rago, Tosi e tutti gli altri, “raccontabile”, in forza del fatto che come hanno affermato sia Bachelard che Borges, “si conserva solo ciò che è stato drammatizzato dal linguaggio”. Linguaggio che, intervenendo nel qui ed ora, ha per così dire, toccato “la Sostanza” del tempo, quel tempo di cui anche noi siamo fatti, perché se il tempo è una fiumara che ci travolge e stravolge, addomestica o demolisce, è perché, in effetti, siamo noi stessi il fiume, per dirla con Eraclito, o con Agostino, quando riteneva che il tempo, considerato come istante e come presente è “mutevole” ed “immutabile”, contemporaneamente. E questo è possibile perché, ormai, il nostro presente non è altro che un “ologramma”, un “avatar”, ecc. dove il “fantasma” contiene e prefigura l’insieme di tutti gli altri fantasmi: il potere, l’economia, il loro predominio, ecc. Scoprire tale dimensione, avvertirne la pericolosità o rimanerne indifferenti e abulici, è una ulteriore complessità. Se noi viviamo il nostro tempo come intessuto di fantasmi, di inconscio, di Io e Super-Io, come passato e come futuro, lo facciamo perché questo tempo riposa sul “tempo morto”. Se non ci fosse questo “tempo morto” non sarebbe possibile sperimentare le avventure della Gallina Nanin, né i tragitti della Pallottola di Gino Rago, né lo “scorrazzare/senza padroni e senza frontiere…” del Pomodoro rosso di Galdini e di Tosi.
È il “tempo morto” che ci sostiene e ci proietta verso questi “istanti” di vita, estetici e pulsionali, perché esso costituisce il fondo del fondo, quello che agita la nostra memoria e la nostra fantasia e ci sollecita a raccontare particolari della nostra esistenza in termini evocativi e narcisistici. La gallina Nanin e gli altri personaggi, frammenti compresi, sono espressione della “voglia di vivere” ancora.
Esiste, però, anche l’altra faccia della medaglia. Esiste anche quel “lato oscuro” che nessuna psicoanalisi e nessuna filosofia sono riuscite a decifrare. A me sembra, come ha ben chiarito Mario Gabriele, che viviamo all’interno di un circo, dove ognuno di noi, attraverso borborigmi e grida, lamenti e invocazioni, tenta di colmare quel vuoto originale e primigenio, che nessun istante, mutevole o immutevole, potrà ripristinare, rappresentare e “scrivere”. Tutti questi nostri, o meglio, miei maldestri tentativi, di portare alla luce ciò che sappiamo “occulto” e abitante nelle caverne vuote del “tempo morto” non sono altro che misere ” avventure” (ad-ventura) per la mente e per i sensi. In effetti questi nostri sforzi ubbidiscono al desiderio di “permanenza” che sfonda i termini dell’istante e ci proietta verso la “presenza del futuro”. Ma a che serve tutto ciò? A niente! Proprio a niente!
A incidere epitaffi come quelli presenti nella Antologia di Spoon River.
Prima ho parlato di ologrammi, di avatar e di fantasmi nel senso che questi sono immagini trasparenti, oppure opache, e illusorie, oppure reali, dell’ Ombra più vasta e più profonda che ci contiene, nella convinzione di essere un lacerto del mio “tempo morto”. Se così è, mi rendo conto che non c ‘è molto da dire; che tutto si è concluso; che non c’è più nessun “sentiero interrotto” da esplorare con l’esistenza o con la scrittura. Rimane solo la morte, attimo di distrazione, rispetto all’infinitum dell’enigma in cui siamo apparsi.
Grazie per l’attenzione.

A proposito di due pezzi kitchen

di Mauro Pierno

Qui, in questi twitter poetry, siamo nel pieno della poesia gestuale, o meglio, del gesto in poesia. Il gesto scaccia il significante, è estraneo al significante, lo ripudia, e così scaccia anche il significato. Quando c’è il gesto linguistico non c’è il significante, potremmo chiosare. E non c’è neanche il significato.
Forse questo elemento non è ben chiaro a tutti coloro che ci seguono, qui stiamo facendo un qualcosa che non è mai stato esperito nella poesia italiana. In tal modo la poesia ritorna ad essere libera, torna ad essere il prodotto di una azione. Il gesto è nient’altro che una azione, una azione interrotta, che si interrompe, che si ferma, che forse torna indietro, accenna ad una esitazione, ad una esclamazione, ad una interrogazione magari senza raggiungerla o sfiorarla. Il gesto crea una zona di indeterminazione e di indiscernibilità, non si sa più chi l’ha compiuto e dove è diretto, dis-loca il linguaggio, lo disarticola, divide il soggetto dal predicato e il predicato dall’oggetto del contendere, non ha più a che fare con un contendere; rifiuta, rifugge il contendere e il contenzioso; il gesto si ferma un attimo prima che raggiunga la compiutezza dell’atto; il gesto non è un atto, non è un atto mancato che non giunge a destinazione; il gesto linguistico introduce delle parentesi, una sospensione; il gesto non ha referenze, non è compiuto per fiducia e nemmeno per sfiducia, non preannuncia un patto e non proviene da un patto, sfugge al valore di scambio (non può essere scambiato con un altro gesto), e si sottrae al valore d’uso (un gesto non può essere usato né pro né contro alcuno o alcunché). Ovviamente, il gesto non è sprovvisto affatto di pensiero, anzi, il pensiero nel gesto è libero, libero di non essere stato ancora pensato; il pensiero è nel gesto, soltanto nel gesto ma in nuce, quasi un pensiero infantile che non è diventato adulto; quando invece viene intrappolato in un significante e in un significato il pensiero perisce in quanto inscatolato, bollinato, brevettato. Il gesto linguistico non vuole diventare una azione, semplicemente si sottrae un attimo prima che divenga azione. Ecco perché il gesto linguistico è rivoluzionario, perché mostra il lato marionettistico dell’uso che noi facciamo del linguaggio costretto e soggiogato nel discorso da risultato, coscritto e ammanettato nell’oggetto. Il gesto linguistico è la spia dell’inconscio, mostra una zona di libertà, è infantile in quanto si accontenta di una libertà che non diventerà mai adulta. Il gesto rende il soggetto una marionetta, lo mostra per quello che realmente è, senza sotterfugi e senza ipocrisie.

(Giorgio Linguaglossa)

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

Alejandra Alfaro Alfieri è nata a Buenos Aires nel 1989, in Argentina e vive a Roma, scrive in spagnolo e in italiano.

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017), Registro di bordo (2020) e Remainders (2021). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). È presente nella Antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019

18 commenti

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18 risposte a “Instant poetry, Poetry kitchen, Twitter poetry di Lucio Mayoor Tosi, Mario M. Gabriele, Alejandra Alfaro Alfieri, Mauro Pierno, Scambio di opinioni tra Giorgio Linguaglossa, Mario Gabriele, Giuseppe Gallo

  1. Oggi, nelle società post-democratiche dell’Occidente parliamo una lingua balneare

    Nelle poesie in modalità kitchen di oggi risulta evidente ciò che evidente non è: che l’esistenza degli umani in Occidente è ridotta a «nuda vita». La «pancia» e la «Selbstständigkeit delle cose» nei paesi post-democratici dell’Occidente svolgono una funzione centrale. La questità delle cose così come sono non corrisponde alla questità delle cose così come ci appaiono, e questo fenomeno risulta manifesto nella migliore poesia europea. Le cose nel mondo capitalistico ad economia globale ci appaiono immodificabili, eterne, ci appaiono stabili, ma in verità è soltanto una apparenza… le cose in realtà sono in divenire, non sono affatto stabili, in esse ci possiamo rispecchiare come in uno specchio deformante, le figure che appaiono nello specchio siamo noi.

    La traduzione di «Selbstständigkeit delle cose» è: Stabilità per se stesse delle cose. Fin quando le «cose» ci appaiono ferme e stabili, la nostra esistenza ci può apparire anch’essa ferma e stabile, siamo rassicurati nel nostro esserci, siamo consolati e avviluppati in questa stabilità e nei suoi codici. L’esistenza dell’esserci non potrebbe verificarsi se non fossimo certi della Selbstständigkeit delle cose, quelle cose che possiamo toccare ogni minuto, ogni giorno e rassicurarci che esse siano lì per noi, per sempre… e tra le cose ci sono le credenze, le ideologie, gli ideologemi, le opinioni, le religioni… tutto ciò che ci appare stabile in realtà non è stabile affatto, la stabilità che noi vediamo è un atto di auto illusione, un fantasma che ci rassicura. L’esserci vuole sempre essere rassicurato e curato dalle proprie credenze, l’esserci non può sopravvivere senza credenze, ogni comunità umana non potrebbe sopravvivere se privata delle sue credenze.
    Ma, all’improvviso, si apre il vuoto. Un fuori-senso, un fuori-significato. E si apre il vuoto. Vuoto di senso, di significato, vuoto intorno alle parole, all’interno delle parole, vuoto all’interno del soggetto e dell’oggetto… E tutto sprofonda nel vacuum. L’esserci ha terrore del vuoto, cerca di riempirlo in tutti i modi, con tutti i mezzi.

    Oggi, nelle società post-democratiche dell’Occidente parliamo una lingua balneare, l’esistenza dell’esserci è stata ridotta a «nuda vita», a vacuum, a vita vegetativa biologica. Il cosiddetto «privato» riflette questa condizione di animalità diffusa, dove l’esserci è stato ridotto alla condizione animale, non per nulla la politica dei paesi post-democratici fa riferimento alla «pancia» non alla «testa» degli elettori. È la «pancia» quella cosa che rende evidente la degradazione sub-umana a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta. La «nuda vita» corrisponde alla «pancia» e ai suoi appetiti perfettamente comprensibili. Nelle nostre società post-democratiche è la retorica che sa parlare alla «pancia», la retorica ridotta a sofisma e a «chiacchiera». Ciò che si legge nella pittura, nel romanzo e nella poesia di oggi altro non è che «chiacchiera», «borborigmo della pancia», «chiacchiera» di esistenze ridotte a «nuda vita».

  2. La poesia kitchen, la instant poesia è la assegnazione agli arresti domiciliari del significato in una condizione di assenza di significato.

    Una volta Franco Battiato raccontò, ridendone, di «un suo viaggio in Turchia, quando ancora non era nessuno, dove era riuscito a farsi inserire in un concerto collettivo. Una volta alla tastiera, dopo le prime note, alzò la testa è scoprì che in sala non c’era più nessuno. Terminare il pezzo da soli in un auditorium immenso e vuoto fu un’esperienza unica», commentò.

    Ho citato questo aneddoto ad un autore di poesia che mi ha mandato i suoi scritti chiedendomi che ne pensavo, gli ho risposto che è bravo, che scrive bene, che scrive come scrivono almeno duecento autori di poesia oggi in Italia, ma che se voleva fare un vero salto di qualità doveva scrivere non per quei duecento letterati ma per nessuno di essi. Prova, gli ho scritto, prova a scrivere per non piacere a nessuno, quello sarebbe un buon inizio.

  3. La formula base della teoria dei quanti «è una formula buffa. dice che moltiplicare la posizione per la velocità è diverso che moltiplicare la velocità per la posizione. se posizione e velocità fossero numeri, non ci sarebbe differenza, perché 7 per 9 è lo stesso che 9 x 7. Ma posizione e velocità sono ore tabelle di numeri, e quando si moltiplicano due tabelle l’ordine conta. La nuova equazione ci dà la differenza fra moltiplicare due quantità in un ordine oppure nell’ordine inverso.
    È compatta, semplicissima. Incomprensibile.
    Non cercate di decifrarla: ci si accapigliano ancora scienziati e filosofi [la formula] è il cuore della teoria dei quanti, e non si può concludere la presentazione della teoria senza di essa. Eccola:

    XP – PX = ih

    (Carlo Rovelli, Elgoland, Adelphi, 2020, p. 47)

    Ad un autore di poesia che mi ha inviato una sua composizione, ho risposto:

    «caro […] la tua poesia presuppone la validità della moltiplicazione A x B = C perché pensa le parole con un significato fisso. E invece nella nuova ontologia estetica, ovvero, poetry kitchen, le parole hanno un significato tabellare e quando si ha a che fare con significati tabellari le differenze contano».

    Penso che la persona in argomento non abbia capito nulla di quel che volevo dirgli perché lui pensa il linguaggio con i concetti della fisica classica, mentre un poeta kitchen pensa con i concetti della fisica dei quanti. Potremmo discutere per anni e non ci capiremmo mai.

  4. instant poetry, figure dell’anomalia

  5. sagredo

    memoria delle ossa: cenere!
    memoria delle ossa: carne!
    memoria del legno: carne!
    memoria della carne: ossa!
    memoria dei trucioli: Pinoccho!

  6. Il Nome come sostituto del pronome dimostrativo

    riprendo dal punto lasciato in sospeso nella riflessione di Giuseppe Gallo, sulla parola poetica che è giunta al termine ultimo del suo viaggio, che non ha ormai più niente da dire: da cui: fine della parola poetica quindi, e fine del pensiero.
    Il tema del “compimento” del linguaggio, del “compimento” del pensiero, come di una voce che non ha più nulla da dire, di un pensiero che non ha più nulla da pensare è qualcosa che dobbiamo ancora pensare. È l’impensato che dobbiamo in qualche modo pensare.

    «Il Dasein non è per Heidegger che il suo da, il “ci” dell’“Esser-ci”, ma questo da come “possibilità più propria” è il modo puramente negativo dell’essere-per-la-morte; il diese (questo) di Hegel mostra allo stesso modo la pura negatività della certezza sensibile, che quando vuole dire qualcosa si vede costretta a ridurlo alla pura astrazione universale del pronome dimostrativo. L’analisi di queste due particelle conduce Agamben a interrogarsi sulla funzione linguistica della deixis (o deissi), e cioè dell’indicazione o dimostrazione, che ha luogo nel pronome: già nella linguistica medioevale il pronome era definito come quella parte del discorso in cui si attua il passaggio dal significare al mostrare; nella linguistica moderna, Benveniste definisce i pronomi come “indicatori dell’enunciazione” e Jakobson come shifters, e cioè come “segni vuoti” che diventano “pieni” non appena il locutore li assume in un’istanza di discorso, e cioè non appena li articola in un “messaggio”. Ciò che, nei pronomi, la deissi “indica” o “dimostra” non è quindi un oggetto o una realtà, ma un “luogo di linguaggio”: “l’indicazione è la categoria attraverso cui il linguaggio fa riferimento al proprio aver-luogo” (LM35).
    Prima di designare degli oggetti reali, i pronomi e gli shifters indicano allora che “il linguaggio ha luogo” e permettono di riferirsi, prima ancora che al significato, allo stesso “evento di linguaggio” all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato (LM 36).Questo evento di linguaggio ha luogo in una “voce”: “ L’enunciazione e l’istanza di discorso non sono identificati come tali che attraverso la voce che le proferisce” (LM 44). E cioè,colui che enuncia è innanzitutto la voce che enuncia; questa voce non è più un mero suono, ma non è ancora un significato,è l’intenzione di significare che coincide con la pura indicazione che il linguaggio ha luogo. Come tale, essa è ciò che deve essere tolto affinché il discorso significante abbia luogo, ed è quindi una dimensione negativa: l’articolazione originaria del linguaggio umano, ciò che articola la voce umana in linguaggio,è allora una “pura negatività”, che Agamben scrive con la maiuscola, “Voce”, per distinguerla dalla voce come mero suono».1

    1 Carlo Salzani, op cit. pagine 37-38

  7. milaure colasson

    Penso anche io che questa sia una delle pagine più rivoluzionarie dell’Ombra, perché d’un colpo spazza via tutta la polvere letteraria dalla poetry kitchen, mostra come la decostruzione del linguaggio letterario della poesia italiana del secondo novecento posta in essere dalla instant poetry, (il cui antesignano è Lucio Mayoor Tosi) è stata portata molto avanti fino alla compiuta perfezione del nuovo linguaggio (se così si può dire) poetico.
    Anche la pagina che segue, quella sempre dedicata alla instant poetry, la ritengo rivoluzionaria perché mostra come il lessico e il linguaggio dei testi di alcune canzonette italiane degli anni sessanta e seguenti erano in realtà molto più aggiornate del linguaggio un po’ vetusto della poesia italiana di accademia che si fa ancora oggi.
    Infine anche l’accompagnamento delle gif di qualità mette in evidenza la complementarietà dei due linguaggi, quello figurativo e quello poetico.

  8. Tiziana Antonilli

    Colgo l’invito indiretto di Giorgio Linguaglossa che ha postato numerosi testi di Franco Battiato. Nelle canzoni di Battiato tutti noi troviamo i punti forti della poiesis di cui L’Ombra si è fatta portatrice : la predilezione per il frammento e per le citazioni, la vena ironica con cui guardare la società consumistica e conformista, i luoghi comuni e le ‘ frasi fatte ‘ usati come grimaldello per cogliere aspetti del linguaggio contemporaneo, le liste di nomi e di oggetti e soprattutto il ruolo secondario , se non nullo, dato al significato. Come acutamente scrive Milaure Colasson, proprio la canzone spesso si è fatta carico di svecchiare il linguaggio dei testi non narrativi. Sarà per questo che i giovani coltivano l’amore per i testi delle canzoni che in inglese si chiamano lyrics.. Usiamo , invece, un termine francese per designare un autore di canzoni con ambizioni letterarie, chansonnier. Battiato e Conte ci hanno indicato una linea italiana .Non ci resta che ringraziarli.

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