Il moderno va verso la complessificazione dei linguaggi… la procedura di Franco Buffoni in una certa misura è già la messa in atto, in embrione, di una modalità kitchen…
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Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
il moderno va verso la complessificazione dei linguaggi
Con quest’ultimo libro Franco Buffoni cambia registro, dismette la poesia a trazione egologica della tradizione poetica del tardo novecento per impiegare la versatilità linguistica e tematica di cui è dotato per l’esercizio linguistico nel non-luogo aporetico dei linguaggi attraverso un mixage di linguaggi scientifici e narrativi. L’autore fa, come dire, collidere questi linguaggi all’interno di una sorta di metalinguaggio polivalente. Passa, in un certo senso, dalla poesia narrazionale della tradizione recente alla poesia iperveritativa e alla iperpoesia.
Possiamo congetturare, con un certo credito, che la poesia italiana del secondo novecento è una poesia tabulare e lineare, di una tabularità vettorializzata che segue un ordine logico-temporale, un sistema plurivalente ma non reversibile che legittimava una sorta di generica post-elegia, una poesia narrativa. Ciò che blocca la reversibilità, ecco il limite della testualità del poetico del secondo novecento: il poetico considerato come un «luogo», uno «specifico» separato dalle autostrade dei linguaggi della società. L’iperpoesia di Franco Buffoni è una modalità di sblocco della reversibilità dei linguaggi polivalenti che così possono confluire e defluire in un testo ipertesto che si costituisce fuori dell’ordine della verità (visto come luogo-gioco di menzogne, falsificazioni, apocrifi, intermezzi, interludi), fuori dell’ordine dell’io. Il suo carattere esibitamente narrativo e iperletterario non perde però l’aspirazione ad uno sperimentalismo kitchen che contribuisce a conferire una varietà manierista e composita alla testualità. Il precedente libro, La linea del cielo (2018), chiudeva la sua decennale esperienza poetica e preannunciava una innovazione e una diversa ripartenza, cosa che infatti è avvenuta con questo volume.
E adesso una considerazione: ogni emissione linguistica è, come si sa, sempre trasmissione di un messaggio plurimo. La poesia tratta di linguaggi che contengono in sé l’utopia della illatenza, un mettere in luce ciò che dimorava nello sfondo. Franco Buffoni costruisce il suo linguaggio polivalente della illatenza attraverso la diversificazione e la complessificazione dei linguaggi. Il suo tentativo è attingere questa disclosure mediante la ibridazione dei linguaggi di diversa stratificazione (astronomia, biologia, letteratura). È il modo tutto moderno di tradurre sia l’aletheia dei greci che la Unverborgenheit di Heidegger. Quei linguaggi complessificati alludono a quell’apertura originaria già da sempre presupposta che si trasmette in ogni atto di linguaggio. La complessificazione inoltre è il prodotto della collisione fusione di vari linguaggi. La complessificazione dei linguaggi dà l’illusione della illatenza, che si risolve e si dissolve nella mera enunciazione dell’experimentum linguae, dell’atto dichiarativo. In una certa misura questa procedura è già la messa in atto, in embrione, di una modalità kitchen.
Franco Buffoni sperimenta le commessure e le sconnessioni tra i vari linguaggi polivalenti e i vari piani dei linguaggi, esplora ciò che è latente nei linguaggi polivalenti portandoli verso la loro scucitura interna quando entrano in contatto e in fibrillazione con i linguaggi limitrofi. Buffoni ci rende noto in una nota che il suo «desiderio di coniugare istanze provenienti dal mondo dell’astrofisica con istanze provenienti dal mondo della microbiologia mi accompagna dall’adolescenza». È in questa sottile linea di scucitura che può sortire il suo peculiare discorso poetico frutto di commistioni, di infiltrazioni e di fibrillazioni tra i linguaggi polivalenti. Così gli atomi di «Erbio e Disprosio», «vicinissimi allo zero assoluto», collidono concettualmente prima che semanticamente con i santi «Cosma e Damiano»; la «Crioconite», il «bismuto-207» e «il Cesio-137», ci appaiono nostri compagni di viaggio «riconducibili ai test nucleari/ Effettuati/ in alta atmosfera al tempo della Dolce vita./ Come i polmoni degli ex fumatori». Il familiare diventa estraneo, e viceversa, l’esterno si internalizza e l’interno si esteriorizza. Analogamente, «gli staffilococchi» «e i propioni bacteria» possono essere ragguagliati concettualmente ad «Abelardo ed Eleonora d’Aquitania». E così via.
Parafrasando Debord: potremmo dire che tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione mixage di linguaggi polivalenti, tutto ciò che un tempo ci si poteva illudere di vivere direttamente s’è distanziato in una rappresentazione. In tal senso, i linguaggi non sono altro che il prodotto di rapporti sociali sedimentati a tal punto che si trasformano in equivalenti delle immagini, uno sterminato campo di equivalenti polivalenti. Le immagini si mutano così in un immenso campo di linguaggi polivalenti. Indubbiamente, il moderno va verso la complessificazione dei linguaggi. È la sua legge di natura.
Il détournement dei linguaggi polivalenti consiste dunque nella ripresa o nella citazione di una frase, di un’immagine, di una melodia, e nel loro libero adattamento per i fini che si ritengono più opportuni: «il contrario della citazione», come ha spiegato Debord, dal momento che «le due leggi fondamentali del détournement sono la perdita d’importanza – andando fino alla scomparsa del suo senso iniziale – di ogni elemento autonomo détournato; e nello stesso tempo, l’organizzazione di un altro insieme significativo che conferisce ad ogni elemento un suo nuovo valore».
Nella modernità la poesia può diventare il discorso poetico dei nostri tempi, perché riflette in sé le dimensioni più disparate: la diacronia e la sincronia, passato, presente e futuro. Ritualità e ludus sono i costituenti di questa procedura: il rito compone passato e presente, fissa il calendario e riassorbe gli eventi in una struttura sincronica, il gioco spezza la connessione fra passato e presente, sbriciola la storia in eventi e trasforma la sincronia in diacronia. Il discorso poetico allora può diventare, ad un tempo, luogo polivalente, rito e gioco di spazi linguistici polivalenti, può diventare il mito della moderna illatenza dei linguaggi polivalenti.
Franco Buffoni
Sento il suono del vento di Marte
In una registrazione Nasa
Trasmessa dalla sonda Insight,
Vento a diciotto chilometri l’ora
Come a Gallarate stasera
Col soffio alle finestre e qualche ticchettio.
So bene che su Marte
Per via dei raggi ultravioletti non schermati
Non può esserci vita in superficie,
Ma nelle grotte forse sì.
Come in questa casa di Gallarate.
Al tempo della dolce vita
A differenza di muschi e licheni
La crioconite – quel sedimento scuro
Visibile d’estate sulla superficie dei ghiacciai –
Conserva a lungo la radioattività,
Dai ghiacciai del Caucaso all’arcipelago artico
Passando per ciò che resta dei ghiacciai delle Alpi
La crioconite custodisce in abnormi quantità
Il Cesio-137 risalente all’86 chernobyliano
E persino gli isotopi di plutonio e americio
E il bismuto-207 riconducibili ai test nucleari
Effettuati in alta atmosfera al tempo della Dolce vita.
Come i polmoni degli ex fumatori
Ricordano anche ciò di cui il proprietario s’è scordato,
La crioconite s’erge a bestia-coscienza del secolo breve.
*
Le eruzioni d’acne di Eleonora d’Aquitania
Chi è stato l’ultimo che li ha sfogliati
Per ciò che erano? Si chiederebbe Larkin
Alla notizia che i libri di preghiere
Sono diventati dei breviari
Di impronte digitali.
Virus pestilenze tragedie e carestie
S’aprono in biologico orizzonte
Dai codici miniati medievali.
Ottime per studiare la genetica dei ceppi animali
Le pergamene vergate su pelli di daino e di cervo
Raccontano una storia di migrazioni e umano Dna,
Mutamenti climatici e infezioni virali.
Maneggiati, abbracciati, baciati da migliaia di persone
A secoli dalla loro creazione
I libri medievali sono un hard disk di monaci e scrivani
Nobildonne poeti e cavalieri
Con gli staffilococchi aurei nasali
E i propionibacteria d’eruzioni d’acne
Di Abelardo ed Eleonora d’Aquitania.
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lo sperimentalismo kitchen che contribuisce a conferire una varietà manierista e composita alla testualità… La complessificazione dei linguaggi dà l’illusione della illatenza, che si risolve e si dissolve nella mera enunciazione dell’experimentum linguae…
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«Sullo sfondo di questa poesia si stagliano i Dioscuri della costellazione dei Gemelli, il domatore di cavalli Castore e il pugile Polluce.» (nota dell’autore)
Erbio e Disprosio
Erbio e Disprosio,
Gli atomi sottoposti al grande gelo,
Sono da poco entrati nella tavola
Periodica degli elementi:
Siamo arrivati a meno 273,15 gradi,
Vicinissimi allo zero assoluto,
Si afferma con orgoglio al Cnr.
Le proprietà del liquido ad attrito zero
Si guadagnano solo ad opera del freddo,
Fanno eco severi dal Mit.
Ed io li ascolto con ammirazione,
Anche la mia trachea è incuriosita,
Erbio e Disprosio sono due ragazzi
Con un magnetismo molto forte,
Tossiscono un po’, poi vanno via.
Tornano Cosma e Damiano. E così sia.
Mentre da Roma cercavo sul Corriere
Mentre da Roma cercavo sul Corriere
Le notizie sul contagio a Gallarate,
L’occhio mi è caduto sul servizio
Con le foto da Marte. Trentaquattro istantanee
Inviate da Curiosity, il rover della Nasa
Che da otto anni vaga sul pianeta.
Il Sole da Marte in un tramonto blu,
Mount Sharp e il cratere di Gale,
I sedimenti d’un antico fiume
Rocce meteoriti e dune
E poi ad un tratto quel pallino chiaro
The Earth
La Terra vista dal cortile del vicino
Con le fidejussioni i rogiti i contratti
Le zone rosse ed arancioni
Le bare bianche senza estreme unzioni.
*
Da una tana di scoiattolo
In Siberia da una tana di scoiattolo
E’ resuscitato un verme
Di quarantamila anni fa.
Prelevato da un campione di permafrost
Presso il fiume Alazeya
L’animale come nulla fosse
Ha ricominciato a muoversi e a mangiare.
Mi contagia l’entusiasmo dei ricercatori
Dalla Doklady Biological Science:
La scoperta apre immense prospettive
Anche per gli esseri umani.
Mi piacerebbe tra duecento anni
Vederti uscire da una tana di scoiattolo
Per tornare al Ninfeo di Villa Giulia
Tra i reperti etruschi
Con questo cracker in mano.
*
Il nostro antenato più antico: un glitch è in elettrotecnica un breve picco improvviso, un transiente aperiodico causato da un errore non prevedibile. Per estensione glitch (dal tedesco glitschen: slittare; dall’yiddish gletshn: scivolare) indica un breve difetto del sistema. Tali noi saremmo come specie.
Il nostro antenato più antico
Se è la presenza della bocca
E dell’intestino
Ad essenzialmente definirci
Come organismi bilaterali,
È l’Ikaria wariootia il nostro
Antenato più antico.
Ritrovato tra i fossili australiani
Cinquecento milioni d’anni fa già presentava
Due aperture connesse da un tratto digerente
Un fronte e un retro.
Da lui sono venuti pesci anfibi
Rettili e mammiferi.
Dunque anche noi.
L’Ikaria è un verme.
Noi, forse, un glitch.
*
Nota dell’autore
Il desiderio di coniugare istanze provenienti dal mondo dell’astrofisica con istanze provenienti dal mondo della microbiologia mi accompagna dall’adolescenza, quando ebbi modo di seguire gli studi di mia sorella, laureata in fisica nucleare, e di mio cognato biologo. (I quali in seguito, riproducendosi, hanno dato vita ai miei nipoti Stefano e Paolo: dedicatario – il primo – del libro di poesia Theios; e interlocutore – il secondo – nel libro in prosa Più luce, padre).
In questa silloge numerosi sono i passi afferenti all’uno e all’altro ambito, permeati tutti dall’ansia di comprendere metodi di studio lontani dai miei di specializzazione. Un’ansia che cerco quotidianamente di appagare leggendo articoli di divulgazione scientifica. In una di queste incursioni – che un tempo avvenivano in biblioteca, e che oggi posso effettuare comodamente a schermo – mi sono imbattuto in una dichiarazione del 2020 di Lewis Mosby, ricercatore presso il Dipartimento di Fisica della Warwick University, pubblicata sul “Biophysical Journal”: “Abbiamo usato un algoritmo sviluppato per rilevare galassie e altri corpi celesti: è stato emozionante applicarlo all’estremità opposta della scala di grandezza. La nostra ricerca ha fornito importanti informazioni sul funzionamento delle cellule muscolari dei mammiferi, e inoltre ha posto l’accento sulla possibilità di studiare un modello per nuove tecnologie intelligenti, basate proprio sulle interazioni tra le proteine. Sarebbe possibile assumere forme diverse in base al consumo di energia richiesto”.
La ricerca di cui parla Mosby concerne i movimenti dei muscoli delle cellule e dei filamenti di proteine che le compongono; ma in questa nota non è tanto la sostanza di quella ricerca che mi interessa esporre, bensì l’entusiasmo del ricercatore, che a cinquant’anni di distanza dalle mie emozioni giovanili, ricorre proprio alla categoria dell’emozione con riferimento alla possibilità di applicare alla microbiologia lo stesso algoritmo usato in astrofisica. Non guardando alla scienza come a una costruzione essenzialmente teorica – come scelta cioè di una ipotesi esplicativa della realtà, ogni volta stravolgente il senso delle proposizioni precedenti – ma come empiria: come l’aggiungersi di conoscenza a conoscenza, nella convinzione che il raggiungimento del Sapere sia al tempo stesso il raggiungimento della perfezione umana e quindi della felicità.
“Ofelè, fà el to mesté!” Pasticciere, fa’ il tuo mestiere, si diceva un tempo nel dialetto dei miei nonni a chi pretendeva di dire la sua in ambiti lontani da quelli di appartenenza e specializzazione. Ed io sono sostanzialmente d’accordo. Sono un povero poeta, che solo con le parole e la ritmologia dovrebbe trattare.
Lo accetto, ma all’interno della trasmissione di una emozione e di una raggiunta consapevolezza: ponendoci – nei confronti della nostra quotidianità – nell’ottica microbiologica dell’infinitamente piccolo e astrofisica dell’infinitamente grande, riusciamo a rendere maggiormente meditativo e degno il nostro vivere, all’interno di quella che Paolo Virno in tempi recenti ha definito la consistenza al contempo ontologica e impersonale della natura umana, l’intersezione di logica e antropologia, ovvero delle abilità, degli affetti, dei requisiti biologici e delle situazioni storiche che ci definiscono come animali loquaci.
“My business is circumference”, scriveva Emily Dickinson con riferimento ai dardi (le poesie) che quotidianamente dalla circonferenza lanciava per cercare di illuminare il centro. Un’immagine che può esemplificare la genesi dei testi qui inclusi. Originariamente come titolo per questo libro avevo pensato a Poesie scientifiche e altre poesie. Poi scartato perché giudicato editorialmente troppo algido. Pensai allora a Noi forse un glitch per trasmettere un senso di ineluttabile casualità. Infine scelsi di allontanare il libro in uno spazio siderale con Betelgeuse e altre poesie scientifiche, per quell’essenza di solare crudele materno – e leopardiano – che l’omonimo componimento contiene:
Come una madre senza più ritegno
A soli seicento anni luce da noi
Continua a morire Betelgeuse, la stella rossa
Della costellazione d’Orione.
Va sempre più ingrandendosi
E perdendo intensità
Fagocita i suoi figli.
Il nome Betelgeuse deriva dall’arabo Yad al-Jawzā e significa “la mano del gigante”, ma nelle lingue occidentali i fonemi che lo compongono connotano un’entità ineluttabilmente femminile. Destinata a esplodere come supernova, Betelgeuse da supergigante rossa è ormai una pallida e sempre più esangue sfera arancione avvolta nella nebbia, una vecchia stazione di servizio sulla Milano-Torino.
L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
Ofelè, fà el to mesté!” Pasticciere, fa’ il tuo mestiere, si diceva un tempo nel dialetto dei miei nonni a chi pretendeva di dire la sua in ambiti lontani da quelli di appartenenza e specializzazione. Ed io sono sostanzialmente d’accordo. Sono un povero poeta, che solo con le parole e la ritmologia dovrebbe trattare.
FRANCO BUFFONI
Ecco l’ultima strofa della poesia di Marie Laure Colasson, corretta:
stile kitchen.
Madame Lamartine demande la portabilité d’un café
à la State Property Agency
tandis que l’éléphant est assis sur le tabouret du kiosque
du Giardin du Luxembourg
pour l’avenir.
*
Madame Lamartine domanda la portabilità d’un caffè
all’Agenzia del demanio
mentre l’elefante è assiso sullo sgabello del chiosco
del Giardin du Luxembourg
per l’avvenire.
Dai, dai Marie Laure! Le tue poesie sono un “gioiello di meccanica”…
Un abbraccio.
Grazie OMBRA
Ho corretto l’ultima strofa della mia poesia
42
Un jet de sang explose dans le chapeau d’Eredia
le détachement de peaux mortes
recouvre les habits le lit les tapis
une fin en pointillés pense Eredia
y a vraiment pas de quoi rire dit Window 10
Magritte e la blanche geisha en suspension phylosophique
ironisent sur la légèreté d’un éléphant
qui nage dans une baignoire
La pancarte écrit que les fausses notes
sont un collage de Malevitch et Jérome Bosch
Art Brut à manger à la petite cueillère
dans l’atelier de Piero Tevini à Amsterdam
Au milieu de la nuit au carrefour des Batignolles
la voiture du critique Linguaglossa
somnambule noctambule lâche le frein à main
parcourt les rues désertes d’une ville fantôme
et rentre dans le décor du film “à bout de souffle”
Madame Gertrude Stein demande la transférabilité d’un café
à l’Agence immobilière d’État
tandis que l’éléphant est assis sur le tabouret du kiosque
du Giardin du Luxembourg
pour l’avenir.
Madame Gertrude Stein demande la transférabilité d’un café
à l’Agence immobilière d’État
tandis que l’éléphant est assis sur le tabouret du kiosque
du Giardin du Luxembourg
pour l’avenir.
Un getto di sangue esplode nel cappello d’Eredia
il distacco delle pelli morte
ricopre gli abiti il letto i tappeti
una fine punteggiata pensa Eredia
non c’è veramente di che ridere dice Windows 10
Magritte e la bianca geisha in sospensione filosofica
ironizzano sulla leggerezza d’un elefante
che nuota in una vasca da bagno
Il cartellone pubblicitario scrive che le false note
sono un collage di Malevitch e Jerome Bosch
Art Brut da mangiare con il cucchiaino
nell’atelier di Piero Tevini ad Amsterdam
A metà della notte all’incrocio delle Batignolle
l’automobile del critico Linguaglossa
sonnambula nottambula lascia il freno a mano
percorre le strade deserte d’una città fantasma
e rientra nella scenografia del film “à bout du souffle”
Madame Gertrude Stein domanda la portabilità d’un caffè
all’Agenzia del demanio
mentre l’elefante è assiso sullo sgabello del chiosco
del Giardin du Luxembourg
per l’avvenire.
un Appunto kitchen di Marie laure Colasson.
L’Agence nationale de sécurité
a déclaré la libération de triglycérides,
L’analyse du vaccin de Jerry Calà était négative
pour le déficit immunitaire,
Les rassemblements sont interdits par le décret no 33
du Premier ministre italien Giuseppe Conte
publié au Journal officiel de la République italienne
du 30 mars 2020.
L’Agenzia per la sicurezza nazionale
ha dichiarato la liberazione dai trigliceridi,
l’analisi vaccinale di Jerry Calà è risultata negativa
per deficit immunitario,
Gli assembramenti sono vietati dal DPCM numero 33
del Presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana
del 30 marzo 2020.
Versione in inglese
The National Security Agency
declared the release from triglycerides,
The vaccine analysis by Jerry Calà
was negative for immune deficiency,
And gatherings are prohibited by Prime Ministerial Decree
number 33 of the Italian Prime Minister Giuseppe Conte
published in the Official Gazette of the Italian Republic
of 30 March 2020.
TRA GLI ALBERI
Tra gli alberi c’è il sole
i bambini disegnano case
le costruiscono ai bordi del cuore
che gioca con la striscia continua.
Nel vecchio granaio è accesa la luce
ci sarà una gara clandestina di tango
porterai con te le chiavi
per aprire la faccia dello specchio.
Era della nonna quella collana
adesso ha un nuovo ciondolo
rubato ad un’auto potente
sono rosse le tegole della chiesa
Cuori quadri fiori picche si abbracciano
hanno tutte parrucche sintetiche
avanzate al rigattiere gitano
nella sterpaglia una vipera mostra la lingua
Avresti voluto dipingere con gli acquerelli
trovare bugie e biglie colorate
portare gli gnomi a dormire
i neon non hanno letto nè occhi
E’ un giorno oleoso
ha una strana stanchezza
parla con i cani randagi
poco più avanti è già periferia
Le gole sono stanche
si spengono uno dopo l’altro i fuochi
c’è chi canta
la marea incorona le meduse
Grazie a voi tutti/tutte sempre, con i più vivi auguri e carissimi saluti da
Mariella Bettarini
ITALIA CON HA PAURA
Del garbo e della consapevolezza, se dovessi in breve intitolare i versi e l’ermeneutica di quest’oggi presente su l’Ombra.
Quest’orma benigna e allo stesso tempo maligna, forza imprescindibile e giocattolo d’accatto. Questa sottrazione “egologica”, come prescindere da tale neologismo, chapeau Giorgiò!.
Ben trovato sull’Ombra al sincero Franco Buffoni.
Questa prosa poetica i versi kitchen:
“Destinata a esplodere come supernova, Betelgeuse da supergigante rossa è ormai una pallida e sempre più esangue sfera arancione avvolta nella nebbia, una vecchia stazione di servizio sulla Milano-Torino.”
Grazie Buffoni,
grazie Ombra.
Ho trovato in questa frase di Giorgio Agamben la chiave per capire il segreto della mia quête:
“Come ogni autentica quête, la quête della critica non consiste nel ritrovare il proprio oggetto, ma nell’assicurare le condizioni della sua inaccessibilità”.1
La critica “non rappresenta né conosce, ma conosce la rappresentazione”.2
1 G. Agamben, Stanze, 1978 xiii
2 Ibidem.
DIO ESISTE
Una questione di teatro.
Di piccole parentesi tonde all’interno di quelle quadre,
racchiuse nelle graffe.
Il sapore senza crema Zurli’, il mago dei cruciverba,
dei quarantaquattro gatti,
del teatro e del suo golfo mistico.
L’ Amleto nella versione comica, in fila per due,
nelle poltrone alternate, Banfi, Cecchi, Banfi, Cecchi.
Alle serate senza compravendita, a scatto semplice,
con invito al buio. Danbo, il formaggio danese.
Questa nuova poesia di Franco Buffoni, nuova nel senso che viene ideata, progettata e costruita su basi formali e tematico-stilistici nuove in cui il primo elemento che si impone è la liberazione dall’Io, ovvero una poiesis lontana dal Sé privato, con tutti i limiti che da anni stiamo segnalando di autoreferenzialità, di narcisismo patologico, di autobiografismo ecc.
Franco Buffoni in questo nuovo corso poetico offre un lavoro ben curato per tono, per lessico, per economia fonoprosodica, anche se, è doveroso ricordarlo, distante dalla poetry kitchen la quale poi per taluni aspetti non si discosta dalla idea barthesiana di scrittura, soprattutto quando
nella sua concezione di écriture Roland Barthes scrive:
«[…]nella scrittura si perde ogni identità e una volta allontanato l’Autore, la pretesa di decifrare un testo diventa del tutto inutile perché non appena comincia a scrivere l’autore entra nella propria morte».
Propongo la mia più recente poesia.
Gino Rago
Madame Bovary, Madame Colasson, e il taxista Werner Aspenström
Madame Bovary si ribella,
ha un diavolo per ogni capello verso il suo papà.
Flaubert non sa che pesci prendere.
Madame Bovary:
«Non sopporto più l’ottocento,
voglio andarmene in altri posti e in altri tempi,
per esempio vorrei stare anche per un giorno
nella Firenze di Lorenzo de’ Medici
anche per poche ore,
discorrere con Marsilio Ficino, Pico, Luigi Pulci e il Poliziano,
entrare nella Venere del Botticelli,
abbandonarmi ai canti carnascialeschi…
E invece il mio papà
mi ha incarcerato in un’altra epoca…».
Le risponde al telefono da un altro secolo Madame Colasson:
«Signora Bovary, La capisco, anche io a volte penso
di avere sbagliato tempo e spazio,
venga a visitare appena può
il mio atelier alla Circonvallazione Clodia n. 21…
Con i poeti della poetry kitchen
ne vedrà di cotte e di crude,
altro che i carri e i trionfi della Firenze laurenziana!».
Detto fatto.
Madame Bovary esce dal romanzo di Flaubert,
così com’è
si trova a Roma, alla Stazione Termini, chiama un taxi.
È il poeta svedese Werner Aspenström.
Il quale le dice:
«gentile Signora, Circonvallazione Clodia n. 21 non c’è, non esiste.
Questo indirizzo è stato cancellato dalla sindaca Raggi
e adesso c’è un vuoto, un buco, una voragine,
la poetry kitchen non esiste più
e tantomeno l’atelier della pittrice Colasson,
non saprei dirle…».
*
Franco Buffoni ha avuto l’abilità di muoversi negli spazi, negli interstizi tra linguaggi diversi e lontani. È paradossale ma questo viaggiare linguistico è stato consentito proprio dalla condizione di «debolezza ontologica» della poesia italiana attuale. Quale sia l’orizzonte degli eventi di questa condizione di «debolezza ontologica» lo possiamo intuire dalla distanza, sempre più visibile, della poesia di Buffoni da quella della tradizione recente, rispetto alla quale c’è stato un allontanamento inequivocabile. La poesia ha perduto, per ragioni storiche, lo spazio espressivo integrale consolidato della forma-poesia tradizionale, ha perduto fiducia nelle credenziali di un «modello» o «canone», si tratta ora di ricostruire secondo le capacità di ciascuno una poesia che sappia relazionare e far interagire mondi linguistici diversi e lontani. Sono poesie, queste di Franco Buffoni, che mettono a frutto la trasformazione linguistica già in atto nel mondo delle emittenti linguistiche globali. Lo spazio espressivo integrato messo a punto dalla poesia di Beltegeuse è una novità di non poco conto nella poesia di oggi, intendo dire che lo spazio espressivo integrale della sua poesia è indicativo di questo statuto storico di fine della storia. Oggi siamo diventati, al contempo, antenati del futuro ed astronauti del presente, la poesia diventa sempre più il luogo del paradosso, ha cessato di essere uno spazio auto immunitario di nicchia come è avvenuto nel novecento, ed è diventata un recinto non certo più sacro o privilegiato nel quale le parole sono tratte direttamente dal mondo dei linguaggi specialistici. Come dubitarne?
Riflessioni sulla poesia in stile kitchen
Dalla rubrica del n.13 della Rivista Trimestrale Il Mangiaparole
La post@ de “Il Mangiaparole”
*
Domanda del lettore R. S.
Gentile Gino Rago,
[…]da quello che ho capito, nella cosiddetta poesia kitchen gli oggetti ed i personaggi sono come situati su un tappeto volante o su un nastro magico che, scorrendo, mette in scena la scenografia di un Reale che non conosciamo: gli scenari di un retro-Reale o sopra-Reale.
La configurazione topologica di questo nastro magico e, dunque, tale per cui in esso non c’e una cosa che si rovesci nel suo altro, perché prima non c’e alcuna cosa, ma solo un piano assoluto di un continuum senza opposti, senza contrari, senza discontinuità.
Confesso che, detto in questi termini, non tutto mi è chiaro.
Puoi spiegarmi la poetry kitchen con altre parole?
(R. S.)
*
Risposta di Gino Rago
Caro R.,
l’unità vera di un testo non risiede nella sua origine (l’autore/l’autrice) ma nella sua destinazione finale (il lettore/la lettrice). Pertanto, non si dà testo se non c’e un lettore/una lettrice che l’attraversi. Il vero nucleo d’interesse, dunque, non può essere più l’autore/l’autrice ma colui/colei che legge.
Insomma, tutto il contrario della poesia adagiata sulla ontologia del Novecento, che contemplava il lettore nel ruolo di «consumatore-di-un-significato-fisso».
In questo senso, si può dire che la poesia kitchen rende il lettore non più soltanto «consumatore» di un significato fisso, ma «produttore» di significati diversi». Ecco, allora, che il testo diventa policentrico, eccentrico.
Prendiamo un testo classico di poesia modernista incentrata sul «significato fisso». Ne scegliamo uno di Anna Achmatova:
Vivo come il cucù dell’orologio,
non invidio gli uccelli dei boschi tuttavia.
Mi danno carica e io faccio cucù.
Però, lo sai che a un nemico soltanto
un tale destino augurerei.
(1911)
Adesso, prendiamo in considerazione un testo in stile kitchen.
Ne scegliamo uno di Marie Laure Colasson:
Scendendo le scale l’allegria si rompe la gamba
strappa le sua calze retinate la sua veste molto corta
resta allungata sul marmo
Eredia la cura la mette nella sua borsetta coccodrillo
con il colore della collera e un libro di Max Jacob
La bianca geisha infila la mano nella borsetta coccodrillo
prende il libro di Max Jakob per conoscere il suo oroscopo
Il colore della collera avviluppa l’allegria
stinge su di lei la borsetta si trasforma in leopardo
corsa sfrenata verso la savana africana
Come si vede da questi esempi, la poetry kitchensi basa sulla ricusazione della poesia a «significato fisso», in favore
di una poesia con una «pluralità di significati».
Roland Barthes, nel suo breve ma denso saggio La mort de l’auteur, sancisce, riconoscendola nella sua pienezza, la libertà del lettore di fronte al testo.
Anch’io penso che l’autorità autoriale non esista. L’autore non e altro che un luogo di incontro di linguaggi, citazioni, stratificazioni, ripetizioni, echi, referenze, interferenze. Ne consegue che il testo si sposta sul lettore, il quale esercita pienamente la sua libertà di «aprirne» i significati.
Nella parte più importante del suo saggio, Roland Barthes si concentra sulla distinzione fra i testi e li distingue tra: testi realistici (questi, a lungo e ancor oggi dominanti, si limitano a offrire al lettore «significati chiusi») da una parte e testi (fra cui quelli della poetry kitchen) che, al contrario, sono in grado di incoraggiare, di invitare il lettore a entrare nel testo in modo che lo stesso lettore sia capace di produrre significati, ricorrendo anche al «parlato», ai salti spazio-temporali, alle interferenze del discorso, alla parallasse e via discorrendo.
Cioè a tutti quegli espedienti retorici che consentono una struttura addirittura quadridimensionale del testo.
Il testo di tipo realistico quasi esclude il lettore, perché gli permette unicamente di essere il «consumatore» di un significato fisso, come accade per la poesia citata della Achmatova.
Il secondo tipo di testi invece mira a trasformare il lettore da «consumatore» a «produttore».
Il testo è cosi aperto a una «pluralità di significati».
In sostanza, piu si accentua la mort de l’auteur, piu il lettore entra nel testo per scrivere egli stesso la poesia.
Ecco, la poetry kitchen fa proprio questo!
i miei complimenti oltre che all’autore del libro Beltegeuse, Franco Buffoni, anche ai tre inserzionisti: Mimmo Pugliese, Mauro Pierno e Gino Rago, che hanno perfettamente capito il segreto della poesia kitchen, segreto che noi non secretiamo affatto, con lo scorno di chi avversa visceralmente ogni novità in poesia. C’è una modalità kitchen di stare al mondo e di stare con la poesia, che è diversissima e lontanissima dalla pseudo seriosità dei poeti acclarati. Si chiama modalità kitchen, che è uno stare nel mondo.
Mi sono molto divertita nel leggere le vostre poesie, scritte con stili del tutto individuali. e niente affatto facili da fare.
Un bravo anche a Linguaglossa per la sua instant poetry.
Instant poetry
Una modella scende dalla cabriolet.
Una giraffa seduta sul sofà chiede un Campari.
Un topo salta dall’oblò della lavatrice.
Il cameriere indossa un pantalone bleu a righe gialle.
Dal tablet android spunta un direttore d’orchestra.
Fracasso di glockenspiel e tamburi.
Dalle scale mobili della Stazione Termini di Roma
scende una lumaca.
I bersaglieri entrano a Porta Pia.
Le fanfare squillano.
Il campanello trilla.
Risponde la segreteria telefonica:
«Dopo il segnale acustico registri il suo messaggio».
Nelle poesie in modalità kitchen di oggi risulta evidente ciò che evidente non è: che l’esistenza degli umani in Occidente è ridotta a «nuda vita». La «pancia» e la «Selbstständigkeit delle cose» nei paesi post-democratici dell’Occidente svolgono una funzione centrale. La questità delle cose così come sono non corrisponde alla questità delle cose così come ci appaiono, e questo fenomeno risulta manifesto nella migliore poesia europea. Le cose nel mondo capitalistico ad economia globale ci appaiono immodificabili, eterne, ci appaiono stabili, ma in verità è soltanto una apparenza… le cose in realtà sono in divenire, non sono affatto stabili, in esse ci possiamo rispecchiare come in uno specchio deformante, le figure che appaiono nello specchio siamo noi.
La traduzione di «Selbstständigkeit delle cose» è: Stabilità per se stesse delle cose. Fin quando le «cose» ci appaiono ferme e stabili, la nostra esistenza ci può apparire anch’essa ferma e stabile, siamo rassicurati nel nostro esserci, siamo consolati e avviluppati in questa stabilità e nei suoi codici. L’esistenza dell’esserci non potrebbe verificarsi se non fossimo certi della Selbstständigkeit delle cose, quelle cose che possiamo toccare ogni minuto, ogni giorno e rassicurarci che esse siano lì per noi, per sempre… e tra le cose ci sono le credenze, le ideologie, gli ideologemi, le opinioni, le religioni… tutto ciò che ci appare stabile in realtà non è stabile affatto, la stabilità che noi vediamo è un atto di auto illusione, un fantasma che ci rassicura. L’esserci vuole sempre essere rassicurato e curato dalle proprie credenze, l’esserci non può sopravvivere senza credenze, ogni comunità umana non potrebbe sopravvivere se privata delle sue credenze.
Ma, all’improvviso, si apre il vuoto. Un fuori-senso, un fuori-significato, e si apre il vuoto. Vuoto di senso, di significato, vuoto intorno alle parole, all’interno delle parole, vuoto all’interno del soggetto e dell’oggetto… e tutto sprofonda nel vacuum del vuoto. L’esserci ha terrore del vuoto, e cerca di riempirlo in tutti i modi, con tutti i mezzi.
Oggi, nelle società post-democratiche dell’occidente l’esistenza dell’esserci è stata ridotta a «nuda vita», a vita vegetativa biologica, e il cosiddetto «privato» riflette questa condizione di animalità diffusa, dove l’esserci è stato ridotto alla condizione animale, non per nulla la politica dei paesi post-democratici fa riferimento alla «pancia» non alla «testa» degli elettori, è la «pancia» quella cosa che rende evidente la degradazione sub-umana a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta. La «nuda vita» corrisponde alla «pancia» e ai suoi appetiti perfettamente comprensibili. Nelle nostre società post-democratiche è la retorica che sa parlare alla «pancia», la retorica ridotta a sofisma e a «chiacchiera». Per esempio ciò che si legge nel romanzo e nella poesia di oggi altro non è che «chiacchiera della pancia», «chiacchiera» di esistenze ridotte a «nuda vita».
Dice Giorgio Agamben in una recente intervista in proposito:
«Una ricerca filosofica che non ha la forma di un’archeologia rischia oggi di finire nella chiacchiera. E non solo perché l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia. I due concetti che lei ha menzionato, avevano il loro posto e il loro senso in una ricerca archeologica sulla struttura del potere e non possono essere separati da questa. Certo, al loro apparire a metà degli anni novanta, questi due concetti suscitarono polemiche e scandalo, e faticai non poco per far capire in che senso la produzione della nuda vita definiva l’operazione fondamentale del potere e perché il campo e non la città fosse il paradigma politico della modernità. Oggi, negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche, in cui lo stato d’eccezione è diventato la regola, quei concetti sono diventati quasi banali. Comunque si preferisce spesso usarli in modo generico, al di fuori del contesto in cui erano stati creati e dal quale sono inseparabili; alcuni hanno perfino semplicemente rovesciato la nuda vita e la biopolitica in categorie positive, operazione quanto meno incauta.»
Pierrot, buffoni e arlecchini e altro
…ma Tu sei nelle fredde langhe come la bellezza di Lucifero
che m’inguaia, e non sopporto la philautía del camino
e della cenere che abbraccia e arde di vani amori cilestrini…
e quella madreperla maschera che m’incipria il volto!
E il sentiero a tratti mi parlava con labbra di rosa canina
che spremevo lieve per il succo di una tortura autunnale,
eppure le mani segnavano quel passo di Chopin in contumacia,
sfuggendo la mia accidia al cancello m’avvitavo come un raccapriccio.
E non mi fermerò alla soglia del tuo pulsare come i bocci
per tutta una vita distrutta dai sepolcri, per il gioco di una giostra,
per un labirinto dove amori rifiutano alcove numinose,
come se il prodigio di un capogiro geloso fosse della passione!
Non temere una mia fuga di catastrofi in quello Ionio che mi
scompiglia i pensieri, come le greche lotte di un senile Omero
che se la ride degli eventi fortunosi e delle morti degli eroi.
Tutti pagliacci, buffoni, marionette e burattini… cibarie –per il riso!
Roma. 5 febbraio 2014
Qui, nella poesia di quest’ultimo libro di Franco Buffoni c’è un punto fondamentale che vorrei indicare. Nell’arte moderna c’è una insopprimibile tendenza a ricercare nuovi linguaggi e ad abbandonare quelli vecchi, si tratta di una forza storica soverchiante dinanzi alla quale un artista, un poeta può ben poco, tantomeno può resistergli. Accade di solito che quando un artista, un poeta trova un linguaggio, vi si accasa, ci mette su il mobilio e non si muove di lì neanche con le cannonate: la casa del proprio linguaggio diventa così un fortino nel quale rinserrarsi e resistere con tutte le proprie forze alle tendenze storiche del mondo. Ben pochi sono gli artisti, i poeti in un secolo che hanno il coraggio di inoltrarsi in lidi perigliosi e che non offrono punti di riferimento.
Bisogna dare atto a Franco Buffoni che in questo libro ha trovato il coraggio e la forza di abbandonare le vecchie rendite di posizione dell’antico linguaggio poetico del secondo novecento per riposizionarsi in una zona esterna a quei linguaggi, “esposta” ai venti e alle intemperie dei linguaggi del mondo contemporaneo, così ostili, nella sostanza, alla loro irreggimentazione nel poetico.
Un “Raffaello senza mani”, lo definisce così Giorgio Agamben il poeta di oggi,1 formula alquanto appropriata. La poesia è costretta a trovare il proprio contenuto e la propria identità all’esterno, nei linguaggi allotri, estranei, neutri, nei linguaggi scientifici. Questa soverchiante forza storica non può in alcun modo essere arrestata, il poeta non può autocongelarsi in un linguaggio e di lì non sortire mai più in attesa della deflagrazione della Cernobyl’ della storia.
Bene ha fatto dunque Franco Buffoni a lavorare sui linguaggi allotri ed estranei, (i linguaggi dell’astrofisica e della microbiologia), “modalità kitchen” ha chiamato Linguaglossa questa procedura, convengo con il commentatore che si tratta di una modalità tipica della cucina, della kitchen, mixare e mescolare e agitare e far “collidere” linguaggi eteronomi in “una sorta di metalinguaggio polivalente”. Dizione efficacissima che coglie nel segno della condizione del fare arte nel nostro tempo. Di qui, da questa prigione o condizione storica non si può uscire con un colpo di bacchetta magica o a colpi di “sacro” o di “privato” come fanno tutti i poeti che per timore restano rinserrati della propria fortezza fortificata.
Ma un “Raffaello senza mani” è anche l’ermeneuta dell’arte del nostro tempo, perché non c’è più nulla da dire e da commentare, tranne il nulla. L’arte del nostro tempo non può che gingillarsi nell’ “autoannientantesi nulla” (frase di Hegel); priva di fondamenta, l’arte moderna è costretta ad aggirarsi in una città sconosciuta senza l’ausilio di alcuna mappa o carta geografica e ad aggrapparsi ai linguaggi estranei e neutri della modernità.
Non c’è scampo per l’arte moderna che accettare questa dura realtà. E da qui ripartire.
1 G, Agamben, L’uomo senza contenuto, 1970, Ed quodlibet, 1994 p, 71.
“Erbio e Disprosio sono due ragazzi
Con un magnetismo molto forte,
Tossiscono un po’, poi vanno via.
Tornano Cosma e Damiano. E così sia.
(Franco Buffoni)
Come si sa il lo zero gradi Kelvin è un termine irraggiungibile. Girarci attorno però è possibile. Galleggiare tenendo a bada onde di Elio liquido è scommettere con le stranezze delle leggi quantistiche. Qualche grado sopra si è in un mondo di grattacieli, guerre e pestilenze, mercati finanziari e viaggi interplanetari e sotto invece vivono le sirene dell’ insignificanza delle leggi fisiche e chimiche. Gli scienziati ne ebbero contezza nei secoli scorsi lavorando con i gas, di cui studiavano le leggi. Che meraviglia questo termine dove tutto assume un senso di ordine assoluto. Difficile per la mente afferrare lo zero. Ma è da quella esperienza che Erbio e Disprosio ritornano santificati, come se l’essere miracolati conferisse loro la proprietà di compiere miracoli. Personalmente traggo meraviglia ogni volta che nella mia esperienza lavorativa vedo ossigeno gocciolare e sparire non appena tocca terra. Mi tocca il cuore quel suo volerci confermare che tutto è ok su questa parte dell’universo. Anche se ci tocca la disgrazia di dover nascere senza la possibilità di cambiare l’ordine degli eventi ci arrangiamo con i nostri mezzi a costruire protesi e propaggini della mente. Lo zero è il monte Sinai dell’universo. Le leggi nascono lì e se ne distanziano, tutte potrebbero essere raccolte sotto un’unica. Questo tendere la mano ad afferrare, allungando la mente è ciò che di forte i Cromagnon ci hanno trasmesso. La nostra è un’inquietudine che conosce stati di passione, ribellione, abbrutimento ma anche esaltazione e felicità e tranquillamente si passa da uno stato all’altro, perdendo o acquistando in civiltà. Di questi tempi poi non ci spaventa tanto il ritorno alla normalità del vivere, quanto la possibilità che qualcosa di sconosciuto nato da uno stato di nulla, si ritrovi accanto a noi. Nessuno sa come si gioca a scacchi allo zero Kelvin.
VOCI DA SOTTO ZERO KELVIN(2016)
Li ho visti scendere, titani in forma d’uomo
Con a capo un certo Stavrogin, personaggio leggendario
Curriculum ineccepibile mai passato in giudicato
Il pollice girava come vite senza fine\nodo scorsoio irrefrenabile
Impazzito per tanta insoddisfazione
Ma quanto è da raccontare un simile personaggio?
Quanto invece impatta in uno scalino e diventa reale?
Dovrò percorrere questa strada
Fronteggiare gli artigli di un pioniere d’immondizia
Innocente persino il cardellino
Che uccide i figli
Ditemi voi i nomi di quelli che seguono
Ciascuno col suo rotolo in custodia
Poster o intervento geniale
Il Chairman annuncia:
Come trattare lo scuro d’universo?
Le colpe hanno spazi tra le stelle
Forze asciutte, non più esecutive…
Poi una svolta improvvisa:
-Trattare l’argomento con purezza cristallina
e di contro una risata, sguaiata, senza perdono
come vento che aleggia sotto zero Kelvin
(Francesco Paolo Intini)
Mi chiedo perché questo libro sia indice di novità, con rivelazioni-intuizioni circa l’utilizzo di analoghi algoritmi in microbiologia come in astrofisica, al punto da essere potenzialmente accolto nel paradigma della nuova poesia che qui si vuole annunciare, mentre i libri di Bacchini, ad esempio, sarebbero figli di un sentire novecentesco, obsoleto, lineare e quindi superato. Sono in realtà figli di un identico stupore presocratico di fronte alla scoperta, al rinvenimento di forme analoghe all’interno degli organismi viventi e nelle stelle, ecc. La questione centrale, che più volte ho proposto in questa sede senza essere in definitiva compreso, o forse senza essere letto, è la necessità di far interagire attivamente il pensiero scientifico e filosofico con il pensiero poetico. Ben vengano queste incursioni come punti di partenza, non come esperimenti stilistici fini a se stessi, come in buona parte sono i testi poetici degli autori che qui propongono loro componimenti all’insegna di un presunto nuovo paradigma poetico. Occorre competenza in entrambi gli ambiti per parlarne, altrimenti ci si limita alla suggestione di seconda o terza mano.
Interessante questo enunciato, caro Borghi,
“Occorre competenza in entrambi gli ambiti per parlarne, altrimenti ci si limita alla suggestione di seconda o terza mano.” È proprio questo il punto, della poetica kitchen, avere la consapevolezza di possedere suggestioni di seconda e terza mano, bellissimo! No?
Infondo, parlo per me, sono totalmente frastornato dalla collisione, del pensiero scientifico e quello filosofico, che azzardare a volte un componimento in vero rapimento kitchen esaudisce solo in parte l’esistenza primordiale di un semplice curioso scimpanzé.
Almeno il gesto della scrittura, riproposto, ha un fine:
l’esecuzione perfetta dell’atto. Poi ognuno ha i suoi mezzi, le sue conoscenze, le sue fantasie, le sue fissazioni. Una riproposizione all’interno di un percorso evolutivo, se proprio devo spiegare, questa mia esperienza nell’Ombra. Non mi pare poco come inizio, vero caro Borghi?
Adesso, poi la sparo grossa, un minimo tentativo di confronto che diventa embrione sociale, politico, teatrale. Si è tentano avvicinamenti. Forse ci sentiamo isolati?
Non ci faccia caso, caro Borghi, di questo ne può esserne certo, tra due post, forse tre, in un altra pagina, forse sulla poesia Austriaca, Slovena, o Andalusa, le sue considerazioni daranno spunti creativi.
Grazie Borghi.
Grazie Ombra.
Lei gioca caro Pierno, e chi glielo può impedire? Né io avevo intenzione di fornire spunti creativi, ma di portare il discorso su una questione critica di vecchia data, per cui su questa rivista si era bollato Bacchini di essere un novecentesco lineare elegiaco (fraintendendolo in pieno) laddove qui sono tutti divertiti consapevoli poeti che non prendono niente sul serio (incluso Buffoni, si direbbe), cavalcano l’onda dei linguaggi senza possederne alcuno, in quanto la poesia è un saltare qua e là, un rapimento kitchen senza arte né parte in cui ci si frastorna nella collisione tra filosofia e scienza, in un estatico bearsi nel nulla in cui siamo tutti immersi. Va bene, ci può stare che lei e i suoi sodali la vediate o la sentiate così. A me sembra piuttosto che nella provvisorietà dell’essere al mondo voi siate tra quelli che si prendono più sul serio, bandiscono l’io ma lo coltivano, ironicamente filosoficamente scientificamente laddove è chiaro a tutti che l’io è un nome che diamo a un corpo che frequentemente perde fiato di questi tempi, in cui è chiaro a tutti quanto l’essere al mondo significhi essere legati a un filo, non solo ai nichilisti dichiarati. E allora mi mette molto in imbarazzo tutto questo scrivere a vuoto, presumendo di portare chissà quale nuovo verbo laddove la poesia dovrebbe testimoniare la fragilità di quel filo, esprimere il semplice bene di essere appesi a un respiro sapendo che potrebbe staccarsi ad ogni istante. Si diverta pure, è libero di farlo ovviamente, ma, mi perdoni, c’è un limite a tutto.
Se poetry kitchen è poesia dove accade questo e quello – perché l’autore è scomparso e con l’autore i suoi travagli, e molto altro – allora mi chiedo se abbia ancora senso parlare di poesia, e non piuttosto di “Kitchen prose”: forma inedita di prosa che fa da specchio all’industria dell’intrattenimento, basata su l’infantilizzazione dei messaggi…
caro Lucio,
io mi chiedo se abbia ancora senso parlare di «prosa», figurati parlare di «poesia»!, con o senza l’additivo «kitchen». Sono perplesso ma condivido. Condivido ma sono perplesso. Pensa che sono giunto al punto che non capisco più nulla della poesia a trazione egolalica (o egologica) che si continua a fare in Occidente, ma forse è un mio limite antropologico.
Come puoi vedere sopra, mi sono anch’io convertito alla instant poetry, ho fatto un tentativo, non so se riuscito, ma il mio proposito non era tanto riuscire quanto far accadere le cose senza interrogarmi sulle cose stesse. Gli effetti si sono sostituiti alle cause. Sarebbe non ergonomico chiedersi se queste cose qui sono degli effetti o delle cause. La sola cosa sensata che possiamo fare è porci in «modalità kitchen». E attendere.
L’«oblio della differenza originaria tra significante e significato», è dato dalla «scollatura originaria della presenza sul cui abisso si insedia la significazione» (G. Agamben, Stasnze, 1977, pp. 162-163). Questo oblio, questo occultamento originario, nel suo aver-luogo decide della presenza che è già sempre differita a se stessa, e le partecipa già una costitutiva inappropriabilità. Questa è, secondo Agamben, la ragione della costruzione della metafisica sino ad oggi, della sua azione coprente, suppletiva. Entro quest’ambito ontologico si situa il «nostro antico pregiudizio edipico» (ivi, p. 177), secondo cui un enigma (la parola della Sfinge) non sarebbe altro che un ‘discorso simbolico’ dell’improprio contrapposto alla proprietà di un ‘esprimere’ e ‘decifrare’ (la parola di Edipo). Agamben oppone un’interpretazione dell’àinos della Sfinge come «far segno verso l’originaria stazione apotropaica del linguaggio nel cuore della frattura della presenza». (ivi, p. 166)
Caro Giorgio,
penso a Warhol, ai suoi stupidissimi soggetti nel periodo ultimo della pop art: i “Flower” e la famosa banana, a significare che questo è ciò che l’umanità è oggi in grado di capire e condividere senza tante discussioni. Tramite il segno, la sua particolare scelta stilistica, inviava accuse sorridenti, che però piacevano. È grazie al linguaggio semplificato se quelle opere ebbero immediato successo.
È da tempo che penso alla semplificazione dei messaggi, quale principale e adeguata forma d’arte, conseguenza anche logica della fine della pretesa complessità e della grande narrazione. Poeti come Mario Lunetta, che tu giustamente segnali tra i più consapevoli del periodo che stiamo attraversando, dimostrano che lo scadimento è una scelta inevitabile, oltre che perigliosa per chi, avendo raggiunto un buon livello linguistico, si trovi a dover traslocare la libreria in quel di Wikipedia (sempre sia lodata!).
Quindi è questione di linguaggio, penso. Ma per questo porterei l’attenzione alla formula, un po’ matematica, riguardante la “velocità di relazione” tra le cose (parole), che poi è da sempre il principio costituente della metrica. Ma non si tratta tanto, o solo, di evitare verbi e aggettivi, quanto di operare salti di smemorata abilità; perché il momento della poesia tende a riproporsi e, sì, a perdurare; anche se non alla maniera descrittiva di Peter Handke, poeta che scrive ancora a soggetto.
I poeti kitchen evadono dal soggetto, che nel migliore dei casi li insegue; cioè, il soggetto è sottinteso e poi ricomposto in lettura (do ragione qui a Gino Rago), che diventa quel che è: lettura creativa, o di libero completamento.
Resto però dell’idea che la parola abbia precedenza sull’immagine, se si è poeti. La parola, infatti, come le cose è portatrice di memoria. E in caso di poesia concettuale, anche, bisogna lasciare andare, nell’atto, il passato della scrittura nell’immediato… altrimenti ne viene un’operazione critica, che non è accadimento di poesia. Negare il significato è per certi versi restare nei pressi del significato, se a mancare è lo slash immaginario, separatore tra un prima e un poi di diversa natura. O di voluta e fattiva dimenticanza. Il vuoto, come si suol dire, che la poesia kitchen contrassegna senza far tanti complimenti. Da qui l’instant poetry (…solo tu, che sei abbastanza pazzo e critico acrobatico…), che mi è nato per tracciare racconti brevissimi, fiducioso che poesia non mi avrebbe abbandonato. Più che altro un lavoro in terza persona, dove il terzo è la tastiera: la macchina pensante!
Altro pensiero, di questi giorni: l’angoscia.
Contraddistingue tutta l’arte occidentale, per lo meno nel secolo scorso. Ma dopo aver letto Heidegger, per le stesse motivazioni anche la meraviglia, in casi più rari, anche la beatitudine…
… poi, nella poesia kitchen, al pari dell’oggetto anche lo sguardo del soggetto è in movimento. Anche il punto di vista è mobile 😉
a proposito di PROSA e POESIA,
Non ho mai desiderato una forma perfetta
che fosse soltanto poesia e prosa insieme
per un non comprendersi rivolto a tutti
con una misera sofferenza per il poeta e il suo lettore.
La poesia è decente quando è estranea a se stessa:
da noi si genera tutto ciò che già sapevamo,
gli occhi sono fissi per accogliere perfino una tigre,
senza requie lei nella luce con la sua coda immobile.
È ingiusto pensare che la poesia è soggetta agli angeli,
umilmente si crede che siano dei demoni.
L’umiltà dei poeti si genera in luoghi conosciuti,
la loro superbia è possanza della consapevolezza.
Quale creatura irrazionale desidera il potere degli angeli
che una sola lingua ciarlano in una casa non loro.
E che felici e gioiosi donano labbra e dita
per non mutare a loro vantaggio la sua destinazione?
Perché ciò che ieri era sano è stato disprezzato,
tutte le creature non hanno idea di come io sia triste
poi che invano ho cercato una maniera
per odiare l’Arte con estrema severità.
Mai c’è stata un’epoca in cui si leggevano libri ottusi
per avere gioia e felicità con Intolleranza e avversità.
È la stessa cosa di quando non si è letta nessuna pagina
di opere che ci giungono dalla Clinica delle Felicità.
Antonio Sagredo
marzo 2016
—- “Di Dante, Osip disse subito che era la cosa più importante di tutte in letteratura ” (Ripellino) —-
—– da mia nota 146 :
“A Samaticha invece, oltre alla Divina Commedia , Mandel’štam, “aveva portato con sé Chlebnikov, un volumetto di Puškin redatto da Tomaševskij, e un volume di Ševčenko…” in L’epoca e il lupi di Nadežda Mandel’štam, ed. Mondadori, 1971, p. 428. La completa traduzione della Divina Commedia fu realizzata fra il 1939 e il 1945 da Michail Lozinskij, amico della Achmatova (vedi p. 31, nota 84). Il 18 maggio 1939 parlando l’Achmatova con Lidija Čukovskaja – la quale le chiede se conosce l’italiano – afferma: ”È tutta la vita che leggo Dante”; Lozinskij le aveva portato in quei giorni la traduzione dell’Inferno. In Lidija Čukovskaja, Incontri con Anna Achmatova, 1938-1941, Adelphi 1990, p.40.”
——————————————————————————————–
A proposito di DANTE e di MANDELšTAM e della
— EXTRATERRITORIALITA’..
(da mia nota 146, pag. 42)
“L’extraterritorialità della letteratura del nostro pianeta (2001\02) di Donald E. Pease (1945-), che analizza un saggio di Wai Chee Dimock, dove si afferma nelle pagine dedicate a Mandel’štam, che la letteratura è uno degli agenti della denazionalizzazione, la quale permette di violare la sovranità dei territori dello Stato (esempio di globalizzazione); e a proposito è esemplare l’atto realizzato da Mandel’štam che affronta il potere dello Stato autoritario sovietico di Stalin; e che lo supera nel tempo e nello spazio, portandosi con sé, mentre va incontro all’esilio verso il lager, la Divina Commedia di Dante; e che questa opera diviene il simbolo di superamento di tutti i poteri autoritari che si sono succeduti nella storia umana.
Quindi la Commedia è manifestazione della potenza di una letteratura planetaria, che non conosce barriere cronologiche e che è un continuum metastorico contro tutte le barriere autoritarie spaziali e temporali. Con Dante, Mandel’štam rafforza il suo potere di dissenso contro lo Stato stalinista, e sono inutili gli sforzi compiuti da questo Stato per sopprimere la scrittura del poeta. Due esili che si comprendono a distanza di secoli… comunque sintetizzando: “È stata la extraterritorialità della scrittura di Mandel’štam la condizione-chiave che gli ha permesso di sopravvivere e il suo essere radicato fisicamente- paradosso- nel territorio ha fornito al poeta il pretesto di deterritorializzare con la letteratura lo Stato autoritario che opprimeva lui e chi all’interno del suo spazio riusciva a sopravvivere”.
Conclude il critico l’analisi al saggio del Dimock, dichiarando la “poesia come forma più duratura della corporeità e – che – mentre era in esilio Mandel’štam ha inventato una forma di scrittura che ha preso il posto della Russia da cui era stato bandito, fornendogli una forma di sopravvivenza biologica”. Donald E. Pease non manca di rilevare che: “Dimock tende a perdere di vista il modo in cui Mandel’štam torna a scrivere… – dopo il primo arresto – come la materializzazione di una forma alternativa di territorialità… che i suoi scritti sulle letture di Dante sono prima del suo (ultimo) – esilio…”, e che se ha portato con sé Dante è non per strumentalizzarlo, ma per affermare un’altra scrittura sotto esilio e dice: ”vorrei proporre che era lo status extraterritoriale della scrittura che Mandel’štam là ha prodotto che costituisce il tratto fondante della letteratura planetaria”. E, infine, chiude affermando che è stata questa extraterritorialità scritturale che ha permesso al poeta di appartenere ancor più e di occupare più fisicamente il territorio e di resistere e di sopravvivere ai terribili atti che là si compivano. Furono inutili dunque gli sforzi del potere sovietico di “dislocare il corpo” di questo grande poeta!, che scrisse, sembra, la sua ultima poesia il 4 maggio del 1937, secondo la sua musa Nataša Štempel. ”
Ringrazio per questa interessantissima pagina dedicata a Franco Buffoni. Ho letto queste poesie con curiosità, hanno saputo intrattenermi. Solo una domanda: a fronte di un linguaggio tanto sobrio ma preciso, perché l’iniziale maiuscola a inizio del verso?
“Almeno quattro o cinque Amleti in questo isolato soltanto. Amleti identici con in mano trottole identiche con la faccia da scimmia.”
“La pietra è uno specchio guasto. In essa nulla se non penombra. La tua penombra o la sua, chi lo sa? Nel silenzio assoluto il tuo cuore ha un suono di un grillo nero.”
“LEZIONE DI STORIA
Gli scarafaggi sembrano
zotici comici
in drammi seri”
Charles Simic, il mondo non finisce.
Grazie, OMBRA.
Mi permetto di dare il mio contributo a questo post riportando un mio breve pezzo in tema scientifico scritto qualche anno fa.
il neutrone è la particella più dignitosa
non partecipa alla rissa tra le altre cariche
si limita ad offrire il suo contributo
alla massa totale dell’atomo
e quando incontra un antineutrone
gli propone un attimo di tregua
prima di annichilirsi a vicenda
nel comune destino degli amori troppo esclusivi.
Il mago Woland chiama un taxi in via Pietro Giordani, 18.
– Sono qui al n. 18 di via Pietro Giordani.
– Arrivo, se non c’è, la chiamo.
– Mi correggo, sono al n.23.
– Forse si sbaglia, sta al 18 o al 23?
– Sono contemporaneamente al n. 23 e al n. 18. Adesso sono al 18, di fronte leggo 23.
– Com’è possibile?
– Per via del gatto di Schrödinger: c’è un gatto al n. 18 e il medesimo gatto al n. 23.
– Eh no, non è possibile!, di fronte al 18 c’è il 13.
– Ah sì, il numero è sporco, sembra un 2.
– Sì signore, faccio il giro e arrivo.
– Arriva dove?, al n. 23 o al 18?