La nuova generazione di poeti tedeschi, Anni Novanta, Anni Zero, Il caso Jan Wagner. Cinque poesie, traduzione di Federico Italiano, Il successo della nuova lirica tedesca e la critica al nuovo Biedermeier, a cura di Ulisse Doga, Marie Laure Colasson, Quattro strutture dissipative, acrilico 2020

Marie Laure Colasson Eruzione Struttura dissipativa, acrilico 30x30 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, Macchia eruttiva, 30×30, acrilico, 2020 – Le cicatrici, le macchie nell’arte figurativa sono forme espressive al pari degli sgorbi, quelle macchie sono emissari dell’Es, resistono alla volontà conscia dell’artista sia nella pittura, nella musica e nella poesia, sono le tracce di una lotta furibonda e senza quartiere che si è conclusa, che rovinano la superficie e non possono essere cancellate da nessuna successiva correzione o riverniciatura.

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I

La nuova generazione di poeti tedeschi

agisce in un campo letterario fondamentalmente diverso rispetto a quello della generazione loro precedente, ossia quella che va pressapoco dalla caduta del muro all’inizio del nuovo secolo. Certamente il paesaggio politico ed economico post-muro è in Germania radicalmente mutato rispetto a prima e il rapporto del letterato rispetto ai nuovi rapporti di forza è fortemente eterogeneo a seconda della sua provenienza e formazione culturale (occidentale /orientale), ma il suo stato nei rapporti di produzione è rimasto sostanzialmente inalterato, novecentesco: prassi artistica fra isolamento e comunità letteraria tradizionalmente connotata, rapporti con case editrici e lettori, premi e soggiorni all’estero, interviste radiofoniche e apparizioni televisive. I grandi mutamenti geopolitici dopo l’undici settembre però accelerano i processi di unificazione e omogeneizzazione politico-sociale, invertono l’asse degli equilibri e rendono inattuali i contrasti fra est e ovest, mentre la rivoluzione digitale muta radicalmente l’approccio, la produzione, la diffusione e la ricezione della lirica nel contemporaneo.

Questi mutamenti nei rapporti di produzione e ricezione della letteratura si registrano naturalmente ovunque e non solo in Germania. Ciò che tuttavia caratterizza in particolare la lirica tedesca degli ultimi due decenni è –  come ha ben riassunto recentemente Christian Diez  –  una relazione e un confronto duplice con la generazione precedente e il suo bagaglio. Da un lato infatti essa è vicina alla  Popliteratur  e figlia della  Popkultur  degli anni Novanta: la  Popliteratur  tedesca si era espressa soprattutto in prosa e lascia in eredità alla lirica un’originale apertura alla realtà dei nuovi media e delle nuove tecnologie, alle nuove teorie kulturwissenschaftlich e biopolitiche, al mondo della musica underground, della musica tecno e a isuoi eccessi, e ancora un approccio disincantato e sarcastico rispetto a tutto questo.

Marie Laure Colasson ZZY Struttura dissipativa 50x50 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, ZZY, 40×40 cm, acrilico, 2020

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Anni Novanta

Lo sfondo culturale degli anni Novanta è marcato dalla filosofia post-strutturalista innestata sulla solida tradizione ermeneutica e critica dell’accademia tedesca: la generazione che inizierà a scrivere negli anni Zero ha conosciuto e avvicinato i protagonisti della filosofia critica contemporanea come pop-star  ospiti di seminari e performance teatrali, ha assimilato all’università la rivalutazione della tecnica in chiave ecologica, il discorso sull’antropocene, sul post-umanismo e sulla cibernetica :uno sfondo variegato ed eterogeneo, ma che mette fortemente l’accento sulla spersonalizzazione e disumanizzazione dei processi globali, sull’inevitabile avanzamento tecno-scientifico e sulla necessaria accelerazione/complementazione delle capacità cognitive e linguistiche, incalzando così dialetticamente la nuova lirica necessariamente antropologica e soggettiva, individuale e ancorata al presente. D’altro lato si registra uno scarto nei confronti delle modalità, forme e linguaggio della generazione di poeti degli anni Ottanta e Novanta, i cui registri e risultati (dallo sperimentale al neoclassico)erano divenuti precedenti impossibile da ignorare, ma necessariamente da superare. Emblematico a questo riguardo il famoso episodio che vide contrapposto il poeta austriaco Franz Josef Czernin a Durs Grünbein. La critica radicale a cui l’austriaco sottopose il volume di poesia di Grünbein  Faltenund Fallen nel maggio del 1995 in un numero della rivista Schreibheft  non ebbe solamente un’immediata eco nel mondo della poesia e critica letteraria di lingua tedesca, ma –  riportata, diffusa, commentata numerose volte come solo ora poteva capitare grazie ai nuovi media  – è assurta negli anni a parametro critico, una specie di soglia normativa dietro la quale è archiviato un modo di fare poesia lirica e oltre la quale viene prospettato o auspicato uno nuovo.

Chi, come Jan Wagner, la attraverserà controcorrente lo farà coscientemente. In sostanza la critica di Czernin a Grünbein è che il poeta di Dresda si serva di modelli letterari della tradizione senza rendersi del tutto conto del valore e delle particolarità di questi modelli/procedimenti: se ogni pratica letteraria si muove non solo nella storia, ma anche nella storia della letteratura, essa deve essere cosciente secondo Czernin che la qualità del proprio prodotto è data dal grado e dal modo di dipendenza o dominio rispetto a questa storia. La dialettica è scandita da momenti idealtipici di rottura  –  in cui il dominio è totale e violento (avanguardia) –  e di restaurazione  –  in cui non viene opposta resistenza al potere della tradizione e l’asservimento al modello è irriflesso. Il caso più frequente è invece quello della mescolanza dei due estremi, di una insincera e inconseguente esplorazione in tutte e due le direzioni, senza astrazione e riflessione, il cui risultato è una mediocre e grigia mescolanza. Grünbein rappresenta per Czernin il caso tipico di un autore contemporaneo che non si spinge verso uno degli estremi, ma che opera una semplicistica riduzione della tradizione a certe pratiche formali e retoriche senza mostrarne il vero valore e annacquandole nell’attualità. Secondo Diez questa critica  –  che egli giudica impietosa e tagliente, però ingiusta – fa di Grünbein l’esempio negativo di una tradizione vicina da cui riparte distanziandosi la lirica degli anni Zero. A questo dato si affiancano quattro momenti fondamentali dello sviluppo della lirica tedesca degli ultimi due decenni. Nel 2003 esce per DuMont l’antologia  Lyrik von JETZT  in cui trovano spazio ben 74 giovani voci pressoché sconosciute fino a quel momento  –  il volume è curato da Björn Kuhlig e Jan Wagner. Nello stesso anno la poetessa Daniela Seel fonda la casa editrice KOOKbooks, una casa editrice guidata da artisti e poeti per artisti e poeti: il successo dei primi due volumi di poesia pubblicati (Daniel Falb e Steffen Popp) marcano per la stampa dell’epoca l’esordio editoriale più spettacolare degli ultimi anni.

 Nel 2007 Ann Cotten pubblica per Suhrkamp il volume  Fremdwörterbooksonette: Gedichte, festeggiato dalla critica come un esordio sensazionale,e si fa largo nella stampa anche non specializzata la voce che si è affermato in Germania un nuovo panorama lirico di grande valore, esclusivo ed elitario, vivace e molto attivo al di fuori dei canali classici di diffusione e lettura. Nel 2015 non pochi dei poeti di quel fortunato volume inaugurale sono riconosciuti e stimati come grandi interpreti della poesia contemporanea e non solo tedesca, pubblicano con regolarità e attraverso la loro fitta agenda di letture pubbliche e performance multimediali hanno conquistato un numeroso e giovane pubblico di lettori e partecipanti. E in quell’anno vincono premi letterari molto importanti: Jan Wagner è in assoluto il primo poeta ad aggiudicarsi il premio della Fiera del libro di Lipsia; Monika Rinck vince il premio Kleist; NoraGomriger ottiene il premio Ingeborg-Bachmann. Nel 2017 Jan Wagner conquista a 46 anni il Premio Büchner  –  il riconoscimento letterario più importante nel mondo di lingua tedesca assegnato dalla Akademie für Sprache und Dichtung di Darmstadt  –  conferitogli per tutta la sua opera, la quale contempla fino a lì sei volumi di poesia, due di prosa e critica letteraria, numerose traduzioni e curatele.

Anni Zero

Oggi, infine, alcune case editrici e un pugno di autori sono assurti a figure guida del discorso poetico contemporaneo e si sono imposti anche sul mercato editoriale: la casa editrice KOOKbooks si vede necessariamente costretta a serrare il cerchio di fronte alle numerose proposte e a concentrarsi su i suoi autori affermati. Anche per quanto riguarda i portali web si assiste allo stesso fenomeno e dei numerosissimi siti che si sono avvicendati negli anni, solo alcuni si sono imposti e sono divenuti un riferimento importante e di sicura qualità. Ma soprattutto, sembra chela lirica si sia emancipata dal cliché che la vuole come genere di nicchia per un pubblico di iniziati:affrancandosi però da questa modalità ed esponendosi al giudizio di un più vasto pubblico di lettori e di critici, la nuova lirica tedesca si vede sottoposta a una nuova dialettica  –  interna al circolo ed esterna ad esso  –  fra produzione e pubblicazione, fra singolo e collettivo, individualità e pubblico,spingendo i suoi rappresentanti a prese di posizione poetologiche, estetiche, filosofiche e politiche,e di cui la polemica intorno alla figura di Jan Wagner non è l’unico snodo, ma sicuramente una particolare ed esemplare istantanea da cui prendere le mosse per una riflessione intorno a lirica e società, lirica e politica oggi in Germania.

Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa B 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa B, 40×40 cm, 2019

II

Jan Wagner

Jan Wagner è senza dubbio la figura più famosa della generazione di poeti e del movimento sopra abbozzato. Anche se negli ultimi anni le istituzioni culturali tedesche hanno premiato non raramente e con coraggio alcuni protagonisti della giovane poesia tedesca come Marcel Beyer, Monika Rinck,  Nora Gomringer, è con la vittoria dei più prestigiosi premi letterari tedeschi da parte di Jan Wagner,e il suo conseguente successo commerciale, che la lirica tedesca contemporanea è tornata in modo dirompente a far parlare di sé anche nei media più tradizionali rivolti a un pubblico non specializzato come la televisione e i quotidiani nazionali. Il dibattito giornalistico su Wagner  –  che vide inizialmente e piuttosto grossolanamente schierati da una parte gli estimatori della lirica naturalistica, intimistica e formalmente raffinata del giovane poeta di Amburgo e dall’altra i suoi detrattori che invece ne criticavano la convenzionalità e l’escapismo  –  si è poi allargato nel web e in pubblicazioni di settore in modo più dettagliato sulle peculiarità della poesia di Wagner e da qui più in generale sulle condizioni, necessità e compiti della lirica tedesca contemporanea di fronte alla realtà storica e sociale.

Se è vero che la polemica a tratti infuocata, ma spesso sterile e superficiale, fra ammiratori e detrattori di Wagner si concentrò sì sulla caratteristiche e qualità dell’opera, ma soprattutto sulla legittimità del premio di Lipsia a un giovane poeta e su quanto in realtà Wagner  –  come poeta di successo e come figura intellettuale pubblica  –  sia realmente rappresentativo della nuova e meno conosciuta generazione di poeti tedesca, fu chiaro tuttavia fin da subito che nelle intenzioni della giuria di Lipsia vi era la manifesta e intenzionale speranza di provocare «wie ein Paukenschlag», come un colpo di tamburo, un dibattito sulla lirica contemporanea di grande eco e di riportare «questo genere letterario sottovalutato» allʼattenzione di un vasto pubblico di lettori non specializzati. E si può certo dire che le reazioni al premio furono numerose e accese, probabilmente ben al di là delle speranze della giuria. Le pagine culturali dei principali quotidiani tedeschi   parlarono prontamente di vittoria di Davide contro Golia, di un poeta che è riuscito a imporsi sui più influenti romanzieri fino a rovesciare i rapporti di forza fra romanzo e poesia e ad accreditare il premio di Lipsia non più come concorrente, ma come contrappeso rispetto al Deutscher Buchpreis, il quale premia tradizionalmente il miglior romanzo di lingua tedesca.

Da Lipsia verrebbe insomma un bel segnale, una coraggiosa e felice presa di posizione, un gesto sorprendente se si considera lo stato marginale della lirica nel mercato del libro. Più specificatamente sul poeta e sulla sua poesia i toni si fanno addirittura apologetici: Wagner è lʼuomo del momento che giustamente dovrebbe essere apprezzato da un vasto pubblico; egli è già molto conosciuto dai lettori di poesia, presente anche nei nuovi media, da anni stimato nella scena lirica come poeta dotto e coscienzioso interprete della tradizione. Non solo poeta, ma anche critico, editore, promotore, fine traduttore di poesia dall’inglese, Wagner è da considerarsi come una fra le voci più originali e forti dell’intera letteratura tedesca contemporanea. Anche semplicemente come appare –  si arriva a dire  –  sembra proprio fatto per interpretare il ruolo di un giovane poeta in un film. La sua poesia esalta il quotidiano ed evita orpelli e sperimentazioni inutili, è accessibile e comprensibile, ma non per questo banale, anzi: ciò che è comune e ordinario si presenta sotto una nuova luce, a volte ironica, più spesso meditativa. La rinuncia a provocazioni formali va di pari passo con il recupero ed esaltazione di forme antiche e tradizionali come lʼode, il sonetto o la sestina.

Wagner è un poeta virtuoso e di grande musicalità che, partendo dal mondo naturale e dalle nostre esperienze più comuni, tutto può cantare e illuminare. Più sobri e circostanziati alcuni articoli sottolineano tuttavia dei punti critici della lirica di Wagner e, pur rimanendo nella sostanza elogiativi, insinuano sottilmente ciò che sarà poi detto con meno eleganza soprattutto nel web, e cioè che la poesia di Wagner è, in senso dispregiativo, un ritorno al Biedermeier: vi è infatti chi sente la mancanza dell’attualità, dei grandi temi della lirica come libertà, amore e dolore e sottolinea con una certa ironia la predilezione di Wagner per animali e  piante; altri invece intendono lʼattenzione di Wagner per il particolare e per la bellezza nascosta del mondo come lontananza sognante dal presente e silenziosa estraneazione. La poesia di Wagner non sarebbe tuttavia ingenua o irriflessa ma, al contrario, in essa la natura festeggia la sua rivincita sulla hybris dell’uomo, mentre i grandi temi e i problemi del presente non sono assenti, ma sapientemente sullo sfondo senza raggiungere toni moralizzanti. Questi ultimi pareri sulla carta stampata si trattengono sul limite, ma da qui allʼaperta denuncia di escapismo e retroguardia nelle rubriche e nei forum in rete è solo un passo. Il giornalista dello Spiegel-online Georg Diez, famoso per le sue provocazioni e tirate, accusa nel suo trafiletto settimanale Jan Wagner di glorificare il particolare, il super-privatistico, la vita di campagna e il ritiro, derubrica la sua poesia a kitsch naturalistico noioso e del tutto privo di spirito su cui non cʼè assolutamente nulla da dire: Wagner, abbonato ormai a  premi e stipendi, è autore di poesia debole e anemica, distante dalle problematiche del presente e superficiale. Il messaggio che viene da Lipsia, dice Diez, è che la letteratura per essere premiata deve essere apolitica e innocua, buona per un palato piccolo borghese. Immediate le difese spontanee che fanno notare motivi fortemente patetici o drammatici celati o espliciti in alcune liriche di Wagner. A Diez invece fanno eco lo scrittore Jan Kuhlbrodt e  la poetessa Monika Rinck. Il primo parla a proposito di Wagner e Nadja Küchenmeister di nuovo Biedermeier e di tendenze palesemente conservatrici o reazionarie nella politica dei premi letterari, mentre i fruitori delle poesie di Wagner  –  così Kuhlbrodt  –  non sono amanti della natura, ma del suo riflesso addomesticato, del bel giardinetto.

La storia per questo tipo di lettori, come per Wagner, è scandita dallo scorrere delle stagioni, non dagli eventi umani, dai processi economici, dalle grandi catastrofi, sicché il successo commerciale della poesia di Wagner può essere letto come sintomo di un più vasto ritorno della politica culturale e della società tedesca a una visione del mondo conservatrice. Rinck, dopo aver definito la lirica à la Wagner mobilio da giardino rifinito a sonetto, specifica in unʼintervista che da l suo punto di vista di poetessa-filosofa non si deve trattare per la nuova lirica di mostrare virtuosismo o di abbellire in modo ornamentale un qualsiasi oggetto reale,ma di produrre o mostrare significati non prima palesi e di rendersi responsabili attraverso la lingua di fronte al pensiero. E questo significa per Rinck  –  qui nuovamente in fortemente polemica contro un certo tipo di poesia à la Wagner  – che la forma deve essere adeguata al contenuto e che sarebbe di nuovo urgente una presa di posizione politica anche attraverso poesie dʼoccasione, forse non belle, ma coraggiosamente dettate dall’urto dell’attualità.

Riportando qui sopra alcune delle critiche rivolte a Wagner, si sono prese in considerazione in senso esemplificativo quelle più argomentate ed escluse le affermazioni di critici e colleghi dettate più che altro dall’invidia e dal rancore, sorvolando del tutto sulle parodie volgari della poesia di Wagner che pur circolano in rete: gli articoli e i commenti di questo tenore sono a tal punto numerosi da costituire materiale per uno studio sociologico a parte, ma sono emblematici dell’impatto e delsuccesso commerciale di Jan Wagner negli ultimi anni, il cui volume  Regentonnenvariationen del 2014  –  vincitore del premio di Lipsia  –   faceva registrare ancora nel 2018 oltre 40 mila copie vendute.

tratto da https://www.academia.edu/40939436/Il_caso_Wagner_Il_successo_della_nuova_lirica_tedesca_e_la_critica_al_nuovo_Biedermeier

Marie Laure Colasson Struttura 30x30, 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 30×30, acrilico, 2020

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da Variazioni sul barile dell’acqua piovana

di Jan Wagner, Einaudi 2018, traduzione di Federico Italiano

saggio sulle zanzare

come se d’un tratto tutte le lettere
si fossero staccate dal giornale
e stessero come sciame nell’aria;

stanno come sciame nell’aria,
senza dare neanche una cattiva notizia,
muse precarie, scheletrici pegasi,

bisbigliano solo tra sé e sé; fatte
dell’ultimo filo di fumo, quando
la candela si spegne,

cosí leggere che non si potrebbe dire che siano,
paiono quasi delle ombre,
proiettate da un altro mondo nel nostro;

ballano, piú sottili
di un disegno a matita
gli arti; minuscoli corpi di sfinge;

la stele di rosetta, senza stele.

*

versuch über mücken

als hätten sich alle buchstaben
auf einmal aus der zeitung gelöst
und stünden als schwarm in der luft;

stehen als schwarm in der luft,
bringen von all den schlechten nachrichten
keine, dürftige musen, dürre

pegasusse, summen sich selbst nur ins ohr;
geschaffen aus dem letzten faden
von rauch, wenn die kerze erlischt,

so leicht, daß sich kaum sagen läßt: sie sind,
erscheinen sie fast als schatten,
die man aus einer anderen welt

in die unsere wirft; sie tanzen,
dünner als mit bleistift gezeichnet
die glieder; winzige sphinxenleiber;

der stein von rosetta, ohne den stein.

*

koala

ma quanto sonno in un albero solo,
quante sfere pelose nel groviglio
dei rami, una bohème
dell’inerzia, che sulle cime si tiene e tiene

e si tiene con un paio di grappette
come artigli, pionieri mai celebrati
della scalata sulle flautanti terrazze
della foresta pluviale, stoici arruffati,

pulciosi budda, piú tenaci dei veleni
nel fogliame, con le loro ovattate
orecchie a respingere seduzioni
nel margine del mondo: niente water-

loo per loro, nessuna andata a canossa.
guardali, imprimiteli bene in testa,
prima che sia troppo tardi – quel viso
sereno di un taccagno o di un ciclista

prima della vittoria di tappa, il loro grigio
stanco, discosto dal suolo ma al tatto
prossimo –, prima che si stirino e con uno sbadiglio
sprofondino in un sogno d’eucalipto.

*

koalas

so viel schlaf in nur einem baum,
so viele kugeln aus fell
in all den astgabeln, eine boheme
der trägheit, die sich in den wipfeln hält und hält

und hält mit ein paar klettereisen
als krallen, nie gerühmte erstbesteiger
über den flötenden terrassen
von regenwald, zerzauste stoiker,

verlauste buddhas, zäher als das gift,
das in den blättern wächst, mit ihren watte-
ohren gegen lockungen gefeit
in einem winkelchen von welt: kein water-

loo für sie, kein gang nach canossa.
betrachte, präge sie dir ein, bevor es
zu spät ist – dieses sanfte knauser-
gesicht, die miene eines radrennfahrers

kurz vorm etappensieg, dem grund entrückt,
und doch zum greifen nah ihr abgelebtes
grau –, bevor ein jeder wieder gähnt, sich streckt,
versinkt in einem traum aus eukalyptus.

*

chiodo

non appena al muro, divenne il centro,
ampliando oltre giardini, campi e pile
di barbabietole il proprio raggio,
oltre i pollai e le file

di ravanelli, sempre piú completo, planetario:
vi appendevamo cardigan e cappelli,
e poi cornici, impermeabili e ombrelli,
finché quasi ci scordammo di lui, del suo sguardo serio

che permarrà, quando noi ce ne saremo
già andati da tempo, e città e casa e via
saranno scomparse – là in alto, fermo,

luccicando verso est e verso ovest, tanto
da potercisi orientare nella buia
notte, un conforto per vecchi naviganti.

*

nagel

kaum in der wand, war er die mitte,
schnellte sein radius
über die gärten, felder, rübenmiete
hinaus, die hühnerställe, das radies-

chenbeet, wurde umfassender, mondial:
wir hängten die hüte auf. wir hängten strick-
jacken und rahmen, hängten regenmäntel
und schirme auf, bis wir ihn fast vergaßen, dessen harter blick

noch da sein wird, wenn wir längst ausgezogen
und stadt und haus und straße
verschwunden sind – so unbeirrt weit oben,

so glänzend über west und ost,
daß sich im dunkeln navigieren ließe
nach ihm, und alten seefahrern ein trost.

*

le palline da tennis

l’era di borg e mecchenrò,
poco dopo quella d’ararat e sinai,
e il riposo delle zanzare
sui pascoli la sera, mentre ancora il rosso

dei campi pulsava, pulsava alle nostre spalle:
tra i porosi sterchi di vacca,
la minuta agata della
menta campestre o dell’onorata veronica,

al di là della rete metallica, dei pali di cemento,
della siepe
di rosa
canina

e del loro semplice modello planetario,
le trovammo, con una volée
o con un impreco catapultate fuori
da questo mondo, e ora palle

marroni, putride, deformi
come teste rimpicciolite, che né raccolto
né fioritura attendono, nel campo davanti a noi,
eppur preziose come le uova di dodo.

sembrava volessero insegnare qualcosa,
quando nello sporco, con barbe di muschio,
avvolte nel fango, invece di rimbalzare
rimanevano al suolo con lo schiocco

sordo di vecchi che sbattono la bocca
o volessero aprirci il loro intimo
che esala muffa, una boccata
di respiro –

di quel minuscolo istante
ancora sullo zero a zero
forse, quando un contendente
carica il servizio, strizzando gli occhi per

il rullo compressore della luce solare
sul campo, incerto se la palla sia in discesa,
in volo o se, nonostante tutto, stia ancora
salendo e salendo sempre piú in alto
…………………………………….con il suo feltro in giallo
…………………………………….d’uovo, la sua lanuggine luminosa –,

prima di abbandonarle alle intemperie,
con altri miracoli per la testa, litorali piú discosti,
dimenticate, sul procinto di sprofondare
nei campi, a metà strada, ormai, per farsi sassi.

*

die tennisbälle

die ära von borg und mäckenroh,
nur kurz nach ararat
und sinai, und die stechmückenruhe
der weiden abends, während noch das rot

der tennisplätze uns im rücken pochte
und pochte: zwischen porös-
en kuhfladen, dem winzigen achat
von ackerminze oder ehrenpreis,

jenseits des maschendrahts, der pfosten aus beton,
der hage-
butten-
hecke

und ihrem simpleren planetenmodell,
fanden wir sie, mit einem volley
oder mit einem fluch aus dieser welt
herauskatapultiert und nun als fauli-

ge kugeln, braun, entstellt
wie schrumpfköpfe, weder ernte
noch blüte erwartend, vor uns auf dem feld,
doch kostbar wie die eier einer dronte.

sie schienen etwas lehren zu wollen,
bärtig von moos, wenn sie in schmutz, in
schlamm gehüllt statt abzuprallen
mit einem greisenschmatzen

liegenblieben am grund
oder ihr innerstes uns auftaten
mit muffiger luft darin, einem mund-
voll atem –

von jenem winzigen moment
beim stand von null zu
null vielleicht, in dem ein kontrahent
zum aufschlag ausholt, blinzelnd vor der walze

aus sonnenlicht über dem platz
nicht sicher sein kann, ob der ball im fall, im
flug ist, ob er nicht allem zum trotz
noch steigt und immer höher steigt
…………………………………….mit seinem dottergelben
…………………………………….filz, dem leuchtenden flaum –,

bevor wir sie dem wetter überließen,
andere wunder im sinn, entferntere küsten,
vergessen, bald versunken in den wiesen
und schon auf halbem wege zum gestein.

*

torba

per principianti, c’era scritto nella
guida, anche senza segnavia un’inezia.
ciò che seguí furono ore e ore nel
freddo con i singhiozzi

e le scorregge
di una palude che divora la tua scarpa sinistra
e intere foreste, pestando muschi, poggi-
verruca, bilanciandosi

come sopra una mandria di cammelli,
gli infeltriti, ingialliti sgabelli
d’erba; miglia e miglia con
un piede varo per il fango sul tallone

e sempre di nuovo quelle corsie
scavate nel sedimento, gli archivi
di torba, mentre il cielo, come se non bastasse,
spalancava le sue porte grevi,

e tu, tutto tremulo,
spingesti avanti il corpo, accanto a nuova
torba, con l’intimo che grondava
di pioggia – un cumulo

rovesciato di bibbie, l’orma di un’ombra
che cammina nel crepuscolo, torba
a mucchio o a fette,
un armadillo irrigiditosi nelle sue placche –,

e ora, a soli venti metri dal punto in cui passa
una strada, con gli occhi come una fessura
per monetine, mostrando la scriminatura
delle corna, grosse come braccia di uomo,

un montone o un ariete smisurato,
alla fine di questo borgo,
da tempo ormai abbandonato,
il dio della torba,

che ti fissa dalla sua maschera
d’ebano e aspetta,
e tu, perso trai mosaici di feci di pecora,
senz’alcuna domanda, senz’alcuna risposta,

potendo scegliere solo se volgerti e tornare all’alta
palude, tra i venti sibilanti,
o cadere, alla fine, lacrimante,
in ginocchio, al cospetto di tanta oscurità.

*

torf

für anfänger, hatte im buch gestanden,
auch ohne wegweiser ein klacks.
was folgte waren stunden
um stunden durch die kälte mit dem glucks-

en und furzen
des deinen linken schuh und ganze urwälder verzehren-
den moors, auf moose tretend, hügelwarzen,
ein balancieren

wie über eine herde von kamelen,
die filzigen, vergilbten höcker
aus gras; meilen um meilen
mit einem klumpfuß schlamm an der hacke

und immer wieder jene durch ein flöz
getriebenen gänge, das archiv von torf,
während zu allem überfluß
der himmel seine schweren tore auf-

riß und du bibbernd
den körper weiterzogst, an noch mehr torf
vorbei, dein innerstes von regen troff –
ein umgekippter stoß von bibeln,

die durch das zwielicht laufen-
de fußspur eines schattens, torf in scheiben
oder als haufen,
ein gürteltier, erstarrt in seinen schuppen –,

und jetzt, nur zwanzig meter von der stelle,
wo eine straße sich entrollt, mit münz-
schlitzaugen, dem scheitel
der hörner, dick wie oberarme eines mannes,

ein kapitaler widder oder bock
am ende dieses dorfes,
das längst verlassen worden ist, der gott
des torfs,

der dich durch seine maske
aus ebenholz anstarrt, wartet,
und du, ganz auf die mosaike
von schafsmist konzentriert und ohne jede frage, ohne antwort,

nur mit der wahl, dich umzudrehen,
zurück ins hochmoor, zu den singen-
den winden, oder endlich unter tränen
vor all der schwärze auf die knie zu sinken.

*

requiem per un parrucchiere

poiché tutto riposa il lunedí, ora solo lunedí rimane.
coprite gli specchi. smussate alle forbici le lame.

chi farà ruotare e frizionare le dita finché lo shampoo
non diventi una nuvola sopra di noi, chi dirigerà il suo

entourage di flaconi, gli olî nello scaffale e il profumo con
mano sottile? chi accende ora il grande organo dei fon,

lasciandolo muggire, lasciandolo montare?
prendete dalle tinte il nero, mischiatelo con le chiare.

poiché ora nessuna mantella ricadrà piú sul corpo sontuosa
e lenta come una tenda, e chi si ferma non sa

piú cosa ci sia da trovare, cosa si debba cercare,
ma solo che i capelli continuano a crescere, a proliferare.

*

requiem für einen friseur

weil montags alles ruht, nun alles montag bleibt,
verhängt die spiegel. nehmt der schere ihren schneid.

wer ließe finger kneten, kreisen, bis die wolke
des shampoos aufzieht über uns, wer dirigierte sein gefolge

von fläschchen und den duft, die öle im regal
mit einer schmalen hand? wer wirft die große orgel

aus fönen an und läßt sie brausen, läßt sie schwellen?
nehmt von den farben schwarz, vermischt es mit den hellen.

weil jetzt kein umhang mehr so prachtvoll, langsam wie ein zelt
herabsinkt überm körper, und wer innehält

nicht länger weiß, was es zu finden gilt, wonach zu suchen,
nur daß die haare weiter wachsen, weiter wuchern.

22 commenti

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22 risposte a “La nuova generazione di poeti tedeschi, Anni Novanta, Anni Zero, Il caso Jan Wagner. Cinque poesie, traduzione di Federico Italiano, Il successo della nuova lirica tedesca e la critica al nuovo Biedermeier, a cura di Ulisse Doga, Marie Laure Colasson, Quattro strutture dissipative, acrilico 2020

  1. Questo mi sembra chiaro: la nuova poesia tedesca, almeno da quanto si può evincere dalla poesia di Jan Wagner, si muove ancora nell’orbita della metafisica saussuriana S/s (significante/significato) e quindi all’interno della metafisica. Noi pensiamo invece che nella struttura simbolico/metaforica del linguaggio non sia rintracciabile un polo originario per cui ci si possa arrivare tramite la metafora o il simbolo, vale a dire tra la somiglianza fonica e la dissimiglianza fonematica. Non c’è una somiglianza ad un originario che possa fornirci un titolo di credito verso una presunta originarietà che non c’è e non c’è mai stata. Il rimario non ci conduce all’origine ma ad un sentiero interrotto, ad un Hozweg.
    Invece, la nuova poesia italiana, come sappiamo, non assume il rimario e la somiglianza fonica come un originario, e elimina così la questione, taglia via un intero asset della retorica e della metafisica da essa dipendente.

    La natura simbolico-metaforica del linguaggio, per Agamben, raccoglie e divide ogni cosa nella «commessura della presenza». Agamben propone un’interpretazione del linguaggio a suo parere più originaria di quella tradizionale. In quanto «commessura» il linguaggio deve essere pensato come «piega»: una dimensione che avviluppa al suo interno la differenza. Recupera così l’idea saussuriana della langue come rete di differenze, anziché sistema di segni, per cui il segno sarebbe un momento successivo alla differenza. La differenza divide, e diventa segno.

    Come glossa Giuseppe Talia:

    Non c’è un’anima che è la guardiana della originarietà,
    l’anima, se c’è, è un repertorio di cose senza parole
    che devono indossare un vestito di parole.

    Trovo questi tre versi illuminati, a partire dalla negazione iniziale e il relativo “che” che alza la posta alla protasi “se”, senza parole e il soggetto (anima-repertorio) che si sparpaglia in una miriade di cose, mute e nel momento in cui vengono nominate la semasiologia le veste di parole.

  2. Sulla pop-poesia

    «Il disallineamento frastico, il dislivello tra i singoli sintagmi, l’interruzione di ogni enunciato, è questo il lavoro nel quale sono personalmente impegnata.

    Il significato deve essere bypassato, dribblato, eluso, solo così si può ottenere un significato ulteriore, citeriore, anteriore…

    Aprire una parentesi all’interno di ogni enunciato, e un’altra parentesi fuori dall’enunciato, e così via…

    Fare del terrorismo, terremotare ogni enunciato, dissestarlo, de-costruirlo, smobilitarlo.

    Fare del terrorismo all’interno di ogni enunciato è un lavoro serissimo, che dovrebbe appartenere al bagaglio di ciascun poeta, perché oggi non si può adottare un significato così come ce lo consegna già confezionato il sistema delle emittenti linguistiche.»

    Il linguaggio presuppone il non-linguistico (la voce), e la voce (il non-linguistico) presuppone la pre-lingua. Ed è con questo pre-linguaggio che il linguaggio deve mantenere una relazione, con ciò che lo nega, e che con ciò stesso consente al linguaggio di esistere.

  3. caro Giuseppe Gallo,

    L’idea della nuova poesia che stiamo tentando si può riassumere così: disattivare il significato da ogni atto linguistico, de-automatizzarlo, deviarlo, esautorare il dispositivo comunicazionale, creare un vuoto nel linguaggio, sostituire la logica del referente con la logica del non-referente. Ogni linguaggio riposa su delle presupposizioni comunemente accettate. Non è qui in questione ciò che il linguaggio propriamente indica, ma quel che gli consente di indicare.

    «Una parola ne presuppone sempre delle altre che possono sostituirla, completarla o dare ad essa delle alternative: è a questa condizione che il linguaggio si dispone in modo da designare delle cose, stati di cose o azioni secondo un insieme di convenzioni, implicite e soggettive, un altro tipo di riferimenti o di presupposti. Parlando, io non indico soltanto cose e azioni, ma compio già degli atti che assicurano un rapporto con l’interlcoutore conformemente alle nostre rispettive situazioni: ordino, interrogo, prometto, prego, produco degli “atti linguistici” (speech-act)».1

    Per la nuova poesia è prioritaria l’esigenza di disattivare l’organizzazione referenziale del linguaggio, aprire degli spazi di indeterminazione, di indecidibilità, creare proposizioni che non abbiano alcuna referenza che per convenzione la comunità linguistica si è data.

    se si leggesse con attenzione la poesia kitchen, ci accorgeremmo che… una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità si stabilisce tra le parole e le frasi come se ogni singola unità frastica attendesse di trovare la propria giustificazione dalla unità frastica che immediatamente la precede o la segue… non si tratta di somiglianza o di dissimiglianza tra le singole unità frastiche ma di uno slittamento, una vicinanza che è una lontananza, una contiguità che si rivela essere una dis-contiguità, una prossimità che si rivela essere una dis-prossimità… si tratta di una dis-cordanza, di un dis-formismo che si stabilisce tra i singoli sintagmi… anche le unità di luogo e di tempo della mimesis aristotelica sembrano dissolversi in una fitta nebbia e, con la dissoluzione della mimesis, viene meno anche la giustificazione di un io plenipotenziario e panottico, viene meno anche la maneggevole sicurezza del corrimano del significato…
    Tutto ciò lo abbiamo imparato dalla pratica e dalla ricerca teorica della nuova ontologia estetica. Tutto il resto dipende dall’estro e dal talento di ciascun poeta.

    Non c’è dubbio che la poesia che stiamo facendo e che qui stiamo delineando sia una poesia che fa larghissimo impiego di «sovraeccitazioni», di chock, di continui sussulti, di strappi, di traumi… È perché viviamo in una società traumatizzata, che fa del trauma una necessità di vita e una necessità del mercato. Basta osservare il panorama della politica di oggi: Trump, Bolsonaro, Putin, Erdogan, Salvini, Meloni, Orban, i 5Stelle, i populisti nazionalisti e sciovinisti fanno amplissimo uso della sovraeccitazione; gli stessi media Facebook, Instagram, Twitter, i telegiornali etc non sono altro che una vetrina e un diario di notizie che puntano sulla sovraeccitazione; la stessa forma-merce, nel design e nel marketing punta tutto sullo stato di sovraeccitazione delle masse di possibili acquirenti. Tutto punta allo stato di eccitazione e di surplus di eccitazione, non vedo perché la forma-poesia ne debba rimanere estranea.

    (Giorgio Linguaglossa)

    La scrittura NOE è più vicina al pensare stesso, ne riprende le modalità. Per questo, nonostante le stranezze, i salti semantici, penso si tratti di poesie ri-conoscibili. Perché tutti pensano, e spesso parlano, in modo incoerente. NOE è vicina all’aspetto sorgivo del pensiero… come anche tutta la poesia di sempre, solo che in altri modi si avverte il profumo del potpourri, violette e lavanda, cose del consueto, del corredo.
    (Lucio Mayoor Tosi)

    Il pensiero logico-sequenziale, di tipo “alfabetico”, sembra essere stato in buona parte sostituito da un tipo di pensiero nello stesso tempo “olistico” e “multi-tasking”.
    (Giorgio Linguaglossa)

    *

    caro Mario Gabriele,

    leggo adesso la tua top-pop-poesia,
    devo dire che è straordinariamente viva e frizzante

    come uno spumante Brut della cantina Righetti del Friuli,
    Derrida ne sarebbe rimasto elettricamente colpito e, forse,

    anche Deleuze… so che in Italia questo genere di poesia
    non è molto amata.

    Voi italiani i poeti li lasciate volentieri in uno sgabuzzino,
    meglio se in presenza di scope e di aspirapolveri,

    scolapasta e pentolame di latta colorata. Sai, penso che
    anche così la poesia possa, anzi, debba saper sopravvivere,

    a lato di scatole di fagioli e confezioni di spaghetti scaduti.
    La top-pop-poesia si nutre di scatolami e di mascalzoni,

    di pantaloni dismessi e di camicie verdi…
    tra bacheche di Bergen Belsen e cocktail di Bull Shit…
    (Marie Laure Colasson)

    1 G. Deleuze, in Gilles Deleuze Giorgio Agamben, Bartleby La formula della creazione, Quodlibet, 1993, p. 18

  4. DESIGN DI UN PUNTO OTTUSO

    Catilina almeno. Dai campi di Pistoia al 2021 dove il Senato
    rottama e gli mette contro Filini.

    Dopo aver arretrato le sue truppe fin sotto i pali
    Bastò un violino per fare goal.

    Catilina respira ancora, non ha mai smesso di inspirare
    Ma per l’espirazione dovette fare fila all’ Asl e sniffare un’isola verde.

    -Onest’uomo non tutto è perduto
    se hai qualcosa da eccepire è meglio che lo dici in greco.

    Un mulo intravede la discendenza
    nel ramo di un ciliegio.

    Una blatta risorge dal suo talento. Parbleu!
    Ci sono dunque affari da sbrigare a Bari.

    Vennero a trovarmi un bugiardino e il suo complice.
    Il ragno cresciuto a testa in giù e Houdinì.

    -La rottamazione è stata imperfetta
    L’anno mille cominciò con un aereo decollato da Twin Towers.

    Hai voglia di spingerti ai confini della creazione?
    Sarò terzo tra voi. I miei Lari per un formaggio d’ Oganesson.

    In ogni guerra c’è un muro nel fossato.
    Daremo battaglia a un cucchiaio di centro area.

    Verrà presto la compagnia dei denti
    Con pinzette di magistrato a prelevare ossigeno dalle bocche.

    Bufali mangiano leoni ma non sanno come sognarli.
    Forse dei parametri o gli artigli ai polsi.

    Osannate la chioma dell’ulivo ma un contorto figlio di buona donna
    insinua che non doveva mai nascere.

    Ovvio che non mancò l’olfatto, nemmeno la vista e l’ingegno acuto.
    Le due porte saldano due millenni ma non valgono un sospiro.

    In ogni ago che infila un braccio, riconosci un fratello,
    il nemico personale.

    (Francesco Paolo Intini)

  5. la Storia di una pallottola della gallina Nanin e dellì’uccello Petty di Gino Rago è la folle ricerca della Verità, la Cosa perduta e mai più ritrovata. È un nostos, un viaggio a ritroso e sghembo tra realtà, finzione, fantasia e rappresentazione… in una dimensione che è, esattamente, il fuori-dimensione, il fuori-significato.

    La Cosa perduta non è d’altronde qualcosa di effettivamente perduto che possa essere ritrovato magari attraverso un ritorno alla natura originaria. La
    Cosa è il prodotto del “taglio significante” che ha permesso al soggetto di diventare “soggetto umano”, gettato in una (sempre) “imperfetta” esistenza simbolica. L’allucinazione della “Cosa perduta” attesta proprio la
    strutturale imperfezione della soggettivazione umana; segna ciò
    che “ci manca”, sia nel senso che è “quel che” ci manca per“essere”, sia nel

    senso che “ci manca”, va da un’altra parte (magari sfiorandoci) permettendoci così di esistere. La Cosa, das Ding, è l’attrazione fatale potremo dire, perché è ciò che manca ma anche è ciò che, se (ci) fosse, sarebbe per noi la distruzione e la morte. Cercata in quanto causa di un desiderio che può perdersi fino alla morte, con essa il soggetto ha a che fare da che eksiste al/nel mondo; da che eksiste il soggetto deve fare i suoi
    singolarissimi conti con questo “fuori mondo”, con questo “immondo”.
    Scrive ancora Lacan:

    «Das Ding è originariamente ciò che chiameremmo il fuori significato. È in funzione di questo fuori significato,e di un rapporto patetico con esso, che il soggetto conserva la sua distanza e si costituisce in una modalità di rapporto e di affetto primario, antecedente a qualunque rimozione».1

    1 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960),testo stabilito da J. A. Miller, edizione it. a cura di G. B. Contri, Einaudi,Torino 1994, p. 65.

  6. La poesia kitchen è un campo di tensioni tra l’appropriazione e l’espropriazione, tra estraneazione e familizzazione in cui la lingua viene trasformata fino a diventare nuova e irriconoscibile. La lingua che un tempo era, heideggerianamente, la «casa dell’essere», nella cui dimora abita l’uomo, ci è diventata estranea ed ostile. Costretto ad abitare una una casa non più fatta per le esigenze dell’uomo ma del consumatore, l’uomo dei nostri giorni non può più abitare poeticamente la casa del linguaggio, ed il linguaggio si è estraniato, è diventato un estraneo con cui dobbiamo fare i conti e guardarlo bene in faccia.
    Agamben afferma che «parlare» significa «incessantemente oscillare tra una patria e un esilio: abitare».
    È un pensiero da far nostro. accettando che ogni linguaggio è un campo di tensioni dove l’uomo non può più trovarsi a casa propria ma è costretto a viverci come un affittuario, non possiamo non accettare tutte le conseguenze che derivano da questa posizione irrimediabilmente scomoda.

  7. Uno dei punti della poetry kitchen è l’essere coscienti del fatto che una rivoluzione linguistica non sta nella distruzione della tradizione e nella creazione ex nihilo di una nuova tradizione, ma nella sua dis-missione, che dis-mette, lascia cadere la tradizione e, con questo, rende possibile la sua innovazione, anche per questo Giorgio Linguaglossa scrive:
    «La Storia di una pallottola, della gallina Nanin e dell’uccello Petty di Gino Rago è la folle ricerca della Verità, la Cosa perduta e mai più ritrovata.
    È un nostos, un viaggio a ritroso e sghembo tra realtà, finzione, fantasia e rappresentazione… in una dimensione che è, esattamente, il fuori-dimensione, il fuori-significato..».
    Ecco le due parole-chiave: fuori-significato, fuori-dimensione.
    Letta alla luce di queste due parole, la poesia, la poesia di Jan Wagner è ancora nel modernismo europeo, sia rispetto al tempo, sia rispetto allo spazio, anche se si è affrancata dalla ossessione della ricerca del sublime del decadentismo.

  8. antonio sagredo

    Biedermeier???!!!, ….
    come dire il ritorno dell’eterno idiota che se ne sta tra le sue tranquille camerette germaniche stracolme di atmosfere “regolate” da una educazione religiosa… insomma è l’anticamera del nazional-socialismo.
    Spero tanto che il giornalista Georg Diez sia stato radicalissimo nella critica contro il Wagner.
    —La poesia del Wagner è stata premiata da prestigiosi premi “tedeschi”, e allora? Dai versi tradotti dall’ Italiano devo concludere che non siano affatto grandi versi, anzi non lo sono affatto!
    Sono migliori i versi del poeta Italiano se i suoi versi sono fedeli a quel che scrive un suo prefatore, e che cioè:
    -la “Poesia, infatti, non è auscultare i moti perpetui del proprio cuore, non è speleologia cardiovascolare; poesia è studio, pensiero raffinato in versi, intuizione selvatica, linguaggio che abbaglia.”… e sono in questo consenziente, me se l’ Italiano vuole leggere dei versi che sono “studio, pensiero raffinato… ecc. ” dovrà leggere i miei versi.
    a.s.

  9. antonio sagredo

    I due ultimi interventi sono puntuali e chiari (e attendo che il mio ultimo sia pubblicato, e non è questo).
    Sia Linguaglossa che Rago mettono l’accento sull’esilio che non ha più senso, sia nella “casa dell’essere”…. irrimediabilmente distrutta, più che scomoda. E che ci resta allora?
    Pare invece dai versi del Wagner, sopra pubblicati, che il sublime persiste ancora nella nuova, e non ultima, poesia tedesca… si nasconde nella banalità dello sguardo, in quello stato mentale che soggiace ad una reazione
    contraria alla vecchia poesia… l’ossessione tedesca verso qualsiasi cosa di estraneo è la vera natura germanica… estraneo significa per loro caos e disordine ovunque: per questo insistono e persistono, senza mai emanciparsi dall’ossessione stessa, a una ripetizione che sperano li possa affrancare. Se la poesia del Wagner, che ci viene presentata, come la migliore espressione della moderna poesia tedesca… ebbene personalmente ne posso fare a meno… se mai c’è una ossessione ad essere originali nelle visioni – di basso conio! – ma qui non si tratta di decadentismo che possedeva una sua stupenda dignità di esistere, qui si tratta di pura decadenza a cominciare da un ritorno a un focolare domestico: un vero e proprio nido di serpenti.
    Una tale poesia premiata – quella del Wagner e di altri suoi colleghi – nasconde una vacuità di temi e di visioni.

  10. milaure colasson

    Ulisse Doga scrive:

    La “… speranza di provocare «wie ein Paukenschlag», come un colpo di tamburo, un dibattito sulla lirica contemporanea di grande eco e di riportare «questo genere letterario sottovalutato» allʼattenzione di un vasto pubblico di lettori non specializzati.”

    La presentazione di Ulisse Doga e le poesie di Jan Wagner ci portano subito dentro un grande problema: il rapporto che lega il poeta al proprio Altro entro i rapporti di produzione e le forze produttive, nonché, al proprio pubblico, che corrisponde a questi rapporti di produzione e alle forze dell’economia monetaria e dell’economia degli stili della nostra epoca. E questo chiama un altro problema: il livello di consapevolezza critica e auto critica del “poeta” rispetto al proprio stile e agli stili in vigore nella tradizione presente.

    Più che ad un colpo di tamburo vorrei dire che qui siamo di fronte ad un colpo di cannone: la poesia di Jan Wagner, nella squisita versatilità escapistica del suo stile, rivela essere un compromesso interessato e ben mediato tra la poesia della tradizione con le sue forme chiuse e la poesia del rinnovamento, con le sue forme aperte, incerte ed instabili. Compromesso ben riuscito quello di Wagner, non c’è dubbio, ma il compromesso rimane pur sempre compromesso, anzi, rivela ancor più il proprio lato in ombra: riuscire a fare una poesia di intrattenimento colto impiegando le forme del passato e ristrutturandole, mantenendosi però a distanza di sicurezza da una innovazione più radicale che avrebbe condotto l’autore a reprimere e a rigettare le forme della tradizione presente (e del recente passato).

    Le critiche mosse alla poesia di Jan Wagner sono quindi a mio avviso fondate.
    Analoghe critiche potrebbero essere mosse alla poesia italiana più rappresentativa del compromesso e della medietà, un nome per tutti: Valerio Magrelli, il quale con la sua poesia ha fatto una operazione simile (ma di minore spessore culturale e minore consapevolezza stilistica) che considerava la poesia come commentario o glossa dei fatti di cronaca, della cronaca nera e della cronaca rosa e di quella dei fatti accattivanti e curiosi.

  11. milaure colasson

    Ecco quanto scrive lAccademia della Crusca sulla parola “escapismo”.

    Risposta
    La prima edizione dello Zingarelli che registra il sostantivo escapismo è l’XI (edita nel 1983) con la definizione: “Il complesso di ciò che si riferisce all’evasione intesa in senso psicologico, cioè alla fuga dai problemi della realtà”. Qualche anno più tardi (1987) la parola compare anche nel Grande dizionario Garzanti della lingua italiana, dove il suo significato si fa forse più chiaro: si definisce escapismo la “tendenza a evadere da situazioni o problemi sgradevoli rifugiandosi nell’immaginazione, nel disimpegno, nel divertimento” e “ogni comportamento improntato a tale tendenza”. Precedentemente, escapismo era stato messo a lemma soltanto nel repertorio di Luciano Satta Il millevoci: le parole e le accezioni che non tutti conoscono (Firenze, G. D’Anna, 1974) e definito “ciò che si riferisce all’evasione in senso psicologico, come fuga dai problemi della realtà”.

    A partire dal 1990 escapismo compare regolarmente nei vocabolari italiani: è presente nel Devoto-Oli 1990, nel Palazzi-Folena 1991, nel DISC 1997 (e dunque nelle edizioni del Sabatini-Coletti del 2003 e 2008), in tutte le edizioni dello Zingarelli successive alla citata, nel GRADIT (1999), nel Supplemento al GDLI del 2004.

    GRADIT 1999 e GDLI lemmatizzano anche, rispettivamente, l’aggettivo escapistico ‘caratterizzato da escapismo’, che si dice preferibilmente di oggetti e atteggiamenti, e il sostantivo e aggettivo escapista ‘persona che sfugge di fronte alla realtà, per lo più rifugiandosi nel divertimento e nell’immaginazione’. Anche il supplemento 2007 del GRADIT aggiunge escapista. Non c’è traccia delle parole sui dizionari etimologici DELI e l’Etimologico.

    Possiamo pertanto rispondere subito a una delle domande poste dal nostro lettore: escapista compare a lemma nei dizionari, e questo è importante perché è segnale del fatto che non solo è una parola possibile nella nostra lingua (come escapistico, correttamente formata sul modello di molte altre parole italiane) ma anche effettivamente “viva”, ossia usata dai parlanti (o per lo meno da una parte di essi), in modo significativo e per un periodo sufficiente ad aver richiamato l’attenzione dei lessicografi. D’altra parte, la presenza lessicografica di escapista, come quella delle altre parole che analizziamo, non sembra perfettamente solida. Ad oggi escapista è registrata soltanto da due dizionari, di cui uno storico-letterario; escapismo è marcata dal GRADIT come BU (basso uso) e supportata da pochi esempi d’impiego (solo il GDLI ne riporta un’attestazione); di escapistico attesta la vitalità soltanto il GRADIT.

    Inoltre, da una semplice ricerca sulle pagine italiane di Google emergono risultati che descrivono un uso consolidato, ma non certo massiccio dei termini: abbiamo infatti 93.000 occorrenze di escapismo e 50.800 di escapista (escapistico compare addirittura soltanto 352 volte [dati aggiornati al luglio 2020]). Il fatto che i termini siano oggetto di curiosità non sorprende, dunque.

    Rispondiamo anche al secondo dubbio, quello riguardante il rapporto con l’inglese. Unanime, la lessicografia riconosce proprio nei corrispettivi d’oltremanica l’origine delle parole che trattiamo: escapismo ed escapista arrivano all’italiano come adattamenti di escapism ed escapist, a loro volta formati a partire dal verbo (to) escape ‘scappare’. Escapistico, invece, si forma come aggettivo denominale dall’italiano escapismo, grazie alla sostituzione del suffisso. In inglese, i termini sono documentati fin dagli anni ’30. Per la precisione, l’Oxford English Dictionary (OED) fa risalire la prima occorrenza di escapism al 1933, rintracciandola in un volume dell’Encyclopaedia of the Social Sciences (Macmillian Publishers, 1927-1930-1967: 1933) nel quale si descrive come “un esempio di escapismo” (“an example of escapism”) la produzione poetica di Anacreonte di Teo alla corte di Policrate di Samo. Le attestazioni successive per lo più provengono, come la prima, dal campo degli scritti di critica (letteraria, artistica, di costume). In questi contesti si tacciano di “escapism” movimenti artistici, varie forme di letteratura, in un caso la religione, come se il termine fosse un’etichetta di biasimo. Da qui la definizione dell’OED: escapism è la ‘tendenza a cercare distrazione da ciò che andrebbe, invece, sopportato’ (“The tendency to seek, or the practice of seeking, distraction from what normally has to be endured”).

    Appare più articolato, sullo stesso dizionario, il significato di escapist, che indica ‘chi fugge da una situazione generalmente difficile da sostenere’: principalmente da una condizione di vera e propria prigionia (“one who escapes, or who tries to escape, from captivity, prison, etc.”) e, per estensione, da una prigionia “metaforica” come quella imposta da situazioni noiose, difficili, drammatiche. Documentata fin dagli anni ’30 e dunque contemporanea a escapism, escapist compare anche in testi di cronaca dove descrive, appunto, evasori, fuggitivi, persone intente a sottrarsi alla giustizia, più che agli impegni del quotidiano.

    Torniamo all’italiano. Nessuna delle tre parole è un neologismo recente: in Palazzi-Folena 1992 troviamo escapismo datato 1980, indicazione a cui fanno seguito quasi tutti gli altri dizionari consultati. Lo Zingarelli a partire dall’edizione 2002 riporta la data del 1986, evidentemente in contraddizione con il fatto di aver iniziato a registrare la parola a partire dal 1983, come dicevamo sopra: ci troviamo probabilmente di fronte a un refuso, che in ogni caso fornisce un’informazione che non si discosta di molto da quella degli altri dizionari dell’uso.

    Secondo il GDLI, escapista si usa però in italiano da più tempo: per la precisione, almeno dal 1954, quando compare, ancora fra titubanti virgolette, in un intervento di Eugenio Montale sul “Corriere della Sera”. Scrive il poeta, allineandosi alla condanna anglosassone nei confronti del disimpegno artistico, che «[…] la cultura e il mito debbono essere considerati come fonti di archetipi, non come ‘miniere esotiche da esplorare’; e nessuna indulgenza deve essere concessa agli “escapisti”: chi sfugge alla vita sfugge all’arte» (Eugenio Montale, Lo spirito de nostro tempo, “Corriere d’informazione”, in “Corriere della Sera”, lun-mart 18-19/1/1954, p. 1; ora in Id., Scritti sull’arte, in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Milano 1996, p. 1416).

    La grande distanza temporale che intercorre tra le ipotesi di datazione di due parole così vicine ci induce a fare qualche ricerca ulteriore. Effettivamente, grazie all’archivio storico della “Stampa”, riusciamo a retrodatare escapismo rispetto alle indicazioni fornite dai dizionari, poiché lo troviamo in un articolo del 1947. L’autore è, non a caso, esposto all’influenza dell’inglese: si tratta di Carlo Maria Franzero, scrittore e giornalista torinese emigrato a Londra agli inizi della Seconda Guerra Mondiale.

    Londra, dicembre. Il mio editore mi diceva ieri che in questi ultimi mesi le vendite dei romanzi sono considerevolmente diminuite. Le cause? La prima, che se ne pubblicano troppi. La seconda è che la letteratura degli anni della guerra non aveva prodotto grandi opere. Nessun grande romanzo, o poema, o dramma. Nonpertanto gli editori dicono che, negli ultimi anni della guerra, il pubblico si era stancato dei libri sulla guerra. Una forma di escapismo? In certa misura, sì. (Carlo Maria Franzero, Che cosa leggono gli inglesi. Il romanzo è in declino, “La Nuova Stampa”, 2/1/1947, p. 1)
    Escapismo ed escapista, dunque, circolano in italiano almeno fin dagli anni ’40/’50. Tuttavia il loro ingresso nella lessicografia è avvenuto (quando è avvenuto) con relativo ritardo (come si è visto, solo negli anni ’70/’80). La ricerca negli archivi online dei maggiori quotidiani italiani può aiutarci nell’interpretazione di questo dato. Qui, la presenza dei nostri termini appare limitata. Per escapismo si contano 19 occorrenze sulla “Stampa” (i dati sono ottenuti sommando i risultati della ricerca su due archivi, quello storico [1867-2003] e quello moderno [2003-2020]), 23 sulla “Repubblica” (che copre gli anni dal 1984 al 2020), 20 sul “Corriere della Sera” (1876-2020); per escapista le occorrenze si riducono rispettivamente nei quotidiani citati a 8, 0 e 23; per escapisti 2, 0 e 8. Molti degli articoli in cui i nostri termini compaiono sono, come in inglese, contributi critici di forte impegno intellettuale che parlano perlopiù di arte e letteratura: escapismo ed escapista, pur non essendo tecnicismi in senso stretto, appartengono allo “strato colto” del lessico, per questo la loro circolazione è limitata e indeciso e lento è il loro affermarsi nella lessicografia. Entrambe le voci si configurano come internazionalismi: oltre ai corrispondenti inglesi che abbiamo già citato, troviamo le coppie escapismo/escapista in spagnolo; escapisme/escapiste in francese; Eskapismus/Eskapist, Eskapistin (e anche l’aggettivo eskapistisch) in tedesco.

    Indagando ancora sulla ristretta diffusione dei nostri termini, appare eloquente un intervento di Bruno Migliorini che nel 1962 dedica una breve riflessione a escapismo, allora nella fase incipiente, nella sua rubrica sul “Corriere della Sera”.

    Escapismo. “L’escapismo prezioso e classicheggiante”, leggo in un recente articolo di rotocalco. E non saprei davvero raccomandare ai lettori d’accettare la parola. Ai significati tradizionali della voce inglese escape (leggi ischéip), quelli di “fuga, evasione”, si è di recente aggiunto quello psicologico o addirittura psichiatrico di “fuga dalla realtà, dalle sue difficoltà e dai suoi problemi, ottenuta con forti emozioni, con l’ubriachezza o addirittura gli stupefacenti”. E quelli che vorrebbero prescrivere agli altri una vita continuamente impegnata, biasimano i film di escape, cioè di evasione. Così all’escapism, riferito agli specialisti delle fughe dalla prigione, si è aggiunto l’escapism psicologico. Ma non c’è alcuna ragione di adattare la parola inglese, facendone un escapismo, analizzabile solo a chi conosce quell’uso straniero: si può dire, se si vuole, evasionismo ed evasionista. (Bruno Migliorini, Vocabolario, in “Corriere della Sera”, 6/7/1962, p. 3)
    “…”
    continua…

  12. milaure colasson

    da un Anonimo che ha inviato alla mia email questo resoconto.

    Fonti attendibili dicono che il Signor K.
    è evaso da una poesia della raccolta Stanza n. 23
    di Giorgio Linguaglossa e si è andato a sistemare
    nella attigua collezione di poesia La gallina Nanin e l’uccello Petty
    del poeta Gino Rago
    dove ha scombussolato l’ordine degli eventi.

    Dice K. che non va proprio bene,
    che nel poema ci sono tanti cloni, tanti avatar, tanti cyborg,
    un coccodrillo che litiga con un dinosauro,
    corvi che gorgheggiano,
    Presidenti del Consiglio e ciarlatani,
    e poi misteriosi personaggi sortiti fuori dallo sgabuzzino dei fantasmi
    della abitazione di Marie Laure Colasson,
    tra i quali il sedicente uccello Petty
    che parla in perfetto idioma norvegese…
    turisti che attraversano la camera da letto del poeta Mauro Pierno
    e bambini che giocano nel cortile con la cacca,
    c’è anche il poeta Gino Rago che sortisce dalla vasca da bagno,
    si fa la barba con il rasoio Gillette bilame inox,
    si getta sul collo del profumo Versace blue jeans
    e si guarda soddisfatto allo specchio,
    c’è il poeta pentastellato Lucio Mayoor Tosi
    che fabbrica la sua instant poetry
    mentre si invaghisce della tgirl Korra Del Rio
    e quella lo tradisce con un poeta della collana bianca della Einaudi,
    e tutto ciò per un nulla di fatto!

    È a questo punto che il poeta Gino Rago
    ha preso carta e penna
    ed è intervenuto con un articolo di fondo sulla rivista tedesca “Schreibheft”
    nel quale ha confutato la poesia di Durs Grünbein
    e quella del suo omologo Jan Wagner,
    asserendo che si tratta di pedisseque agnizioni ipertrofiche
    che vogliono «fondare un archi-evento
    che fonda la storia ma che non ha a sua volta una storia
    e che la storia dell’essere
    deve invece essere intesa nel senso soggettivo del genitivo…»
    e altre variegate dicerie da agitprop.

    A questo punto però è intervenuto il critico della poetry kitchen,
    il famoso Linguaglossa
    il quale ha messo un punto definitivo alla questione,
    ha smontato, pezzo per pezzo,
    l’analisi critica del Signor K. dimostrando l’inanità, la futilità
    e la inverosimiglianza della poesia del Signor Wagner
    a confronto di quella del Signor Grünbein
    dicendo «che se tanto mi dà tanto
    tanto vale collocare la Cosa stessa (das Sache selbst)
    nel suo luogo posiziocentrico e usufritto
    e riconoscerne le magnifiche e progressive virtù poetologiche!».

    E così le cose letterarie tornarono al loro posto,
    cioè al punto di inizio.

  13. antonio sagredo

    il chiacchiericcio delle cimici tedesche

    Riunite in piccoli gruppi le cimici
    parlottano tra di loro e punzecchiandosi
    allertano i vicini che è l’ora di uscita

    dal materasso, e come nuvole vanno in giro
    a spettegolare: non siamo le muse, né cavalli
    di frisia!

    attendiamo il crepuscolo, l’assenza di luce
    e solo come maschere di ombre sventoliamo
    le lenzuola, dando segnali di combattimento

    solo così si danza nell’ansia tisica
    dei corpi che nessun grafico potrebbe
    incidere le carni, ma solo marmi bianchi
    di Carrara!

    Nikita Alexandrovna
    (trad. dal russo di A. Sagredo, 2020)

  14. Più disimpegnato di Jan Wagner:

    Appunto.

    Termolatex è il tuo migliore alleato.
    L’ombra di un eschimese da trasporto, finto latte.

    Intervallo.
    Dammi la mano e sorridi. Senza.

    Bucaneve e tre tovaglioli. L’apripista.
    Da Gennaro, con l’abitudine di dire Buona sera.

    Tramonto sul Po.

    (May, apr 2021)

  15. caro Lucio,

    non c’è dubbio che tu segui una tua personalissima linea di ricerca nell’ambito della poetry kitchen che io ho denominato Instant Poetry. Vedo che la persegui con astuzia e tenacia. Le parole sembrano galleggiare nell’albume del vuoto, zattere linguistiche alla deriva che inseguono un senso-non-senso istantaneo, legato all’istante di tempo. A tuo modo tu decostruisci il logos proposizionale della tradizione e lo congeli nell’attimo, oltre il quale non c’è nulla, e prima del quale c’è il nulla. La tua educazione Zen ti porta naturalmente verso questi lidi perigliosi e oscuri. In questa deriva però devi fare molta attenzione a non cadere nella maniera, nel trastullarti con dovizia di particolari nella cura del nulla. Nei tuoi momenti migliori si trovano zattere che galleggiano. E questo è già tanto, di più non si può. Quelle zattere, ognuna presa per sé non significano niente, inutilmente il lettore abituato alla vecchia metafisica ricerca il senso, quello è scomparso, inabissato, è andato a fondo.
    Io che seguo il tuo lavoro posso soltanto sollecitarti a raccogliere le perle che tu spesso lasci cadere qua e là. La Instant poetry è anche il duro e faticoso lavoro di collazione delle perle lasciate cadere.
    Il tuo è un gioco delle perle di vetro. Con il vetro screziato, però, e più ti avvicini ad esse più le screziature risaltano e brillano.

  16. Jacopo Ricciardi

    Queste poesie di Jan Wagner sono timide. Ossia si trastullano intorno a un particolare reale del mondo, e lo pettinano e arricciano nelle varie direzioni seguendo inclinazioni di sensualità della cosa. La cosa è la parola del titolo, ritratta nella poesia indirettamente, ma non da lontano con occhio complessivo, bensì con l’occhio attaccato a essa. Questa perdita di confine (della cosa stessa) è strumentale e liricamente pretenziosa, anche se gentile, per finire nel bonario. È un confine dissimulato in un ballo. I particolari però non si mascherano (forse dovrebbero) come se la realtà fosse evidente. È questa evidenza materialistica, da sensibilità da prodotto pubblicitario, da passatempo, che mina la profondità dei testi, che rimangono a galla (e si potrebbe credere e pretendere ‘nell’imprecisabile del mondo’, da cui tutta una serie di precisazioni e nessuna prevale sull’altra) nella compravendita della sensibilità di oggi. È la condizione di ‘serietà’ intellettuale che queste poesie dismettono direttamente credendo di riaccedervi indirettamente per una condizione ‘flou’ dell’intorno reale. Ma se il buon intellettualismo, pur portando grande profondità e complessità al testo, si chiude nella paternità egotica dell’autore, e Jan Fabre ci mostra un allontanamento dall’intellettualismo, egli forse non si allontana abbastanza dall’autorialità. Lo spruzzo di parfum d’ego ne consegue.

  17. … continuando la riflessione di Jacopo Ricciardi, che condivido, aggiungo questa postilla:
    che il rango proprio di ogni discorso poetico si misura secondo il modo e la misura in cui esso articola il problema dei limiti del proprio linguaggio, e non c’è dubbio che Jan Wagner, pur essendo un poeta dotato di grandi capacità linguistiche e stilistiche, ad un certo punto si arresta, arresta la gittata della innovazione perché intuisce, sa, che oltre una certa misura di innovazione il suo linguaggio entrerebbe in crisi. In questo modo ottiene il duplice risultato di mantenere la griglia dei tropi e della retorica della tradizione per innestare su di esse un «quantum» di innovazione.

    La sua operazione potrebbe essere riassunta così: Wagner procede per variazioni sulla variazione partendo da un punto fisso, mantenendo inalterato il punto fisso del soggetto artifex al di fuori della composizione, nella versione di homo faber, homo peritus. e di lì incornicia una certa quantità di metafore lungo l’asse sinonimico. Le sue qualità manieristiche sono fuori discussione, quello che qui si contesta a questa operazione è il non tentare di andare più in là nel quantum di innovazione, nel fermarsi ad una posizione di comodo che consente all’autore di cogliere l’approvazione dei versanti moderati, quelli della tradizione e di solleticare i modernisti che preferirebbero una innovazione maggiore. In questa posizione di rendita di posizione Jan Wagner può raccogliere così il massimo dei consensi con il minimo sforzo e dispendio di energie.

  18. Mimmo Pugliese

    IL RUSCELLO

    Il ruscello è altezzoso
    sfiora nòccioli e torsi di mela
    si rincorre in un arcipelago di canne
    e spacca occhi di plastica.

    La porta girevole dell’albergo è triste
    ha alito di pietra
    in memoria ha troppe cravatte troppe valigie
    vorrebbe avere le ali.

    Partorisce nuvole il promontorio
    solo stoppie ostinate nascondono
    i cunicoli scavati dalle talpe
    finchè non passerà qualche ladro.

    Vogliono sparare alla luna
    hanno fucili di precisione
    sulla collina la notte non arriva mai
    un riccio attraversa la strada.

    Non si sa dove finiscano le foglie
    quali siano i sogni migliori
    maghi e prestigiatori brindano infelici
    hanno dita senza destino.

    La campanula è fiorita
    vicino alla panchina macchiata di ruggine
    non smette di piovere
    nella pozzanghera annega una pulce.

  19. Rileggendo la poesia di Jan Wagner mi sono accorto di quanto sia bravo il poeta tedesco, di come sia quasi perfetto, anzi, direi proprio perfetto: le immagini scorrono via veloci, puntuali, variegate, sorprendenti quanto basta per non stupire e per non annoiare il gentile pubblico, intelligenti quanto basta per non umiliare le persone non intelligenti che leggeranno queste poesie. Direi che si tratta di un capolavoro di poesia “pop” di nuovo conio. Tutti gli aspetti elegiaci sono stati filtrati, tutti i piaceri «caldi», anche, c’è una disilvoltura di nuovo conio, una abilità da prestigiatore, di calembours, di arlecchino delle immagini (e questo è sicuramente un tratto squisitamente pop), c’è un immaginario leggero e disinvolto, urbano… che si riferisce ad un immaginario di persone interconnesse e connesse tramite smartphone, tablet, Fb, Instagram, Twitter Tik Tok, utilizziamo la moneta elettronica, mandiamo baci virtuali, corteggiamo le nostre signore con sms via Fb…
    Quella di Jan Wagner è poesia tecnicamente riuscita, ben disegnata e tratteggiata; la perfezione tecnica può essere messa al servizio del senso, del non-senso o del fuori-senso. ma il poeta tedesco sceglie di non scegliere, sta di qua e di là, sta in un interludio e in un intertempo. Non sceglie.

    Il fatto è che siamo diventati un super pubblico di persone interconnesse (e sconnesse), siamo sempre connessi, a tavola, in autobus, mentre camminiamo guardando le stelle, quando siamo con gli amici, quando facciamo l’amore e squilla lo smartphone. Siamo diventati androidi senza nemmeno accorgercene.
    Recentemente, leggendo tante, tantissime poesie di auto autori di poesie elegiache, sono rimasto perplesso nel constatare la loro perfezione sublime, la loro perfezione normale: la perfezione della dabbenaggine, la normalità della perfezione diventata dabbenaggine. E molti di questi poeti accedono con disinvoltura alla collana bianca dell’Einaudi e a Mondadori!

    Scriveva Jean Baudrillard nel lontano 1977:

    «… Sorge tutta una generazione di film che staranno a quelli già conosciuti come l’androide sta all’uomo: artifici meravigliosi, senza il minimo difetto, simulacri geniali a cui manca solo l’immaginario – allucinazione forbita che costituisce il cinema. La maggior parte dei film che vediamo oggi (i migliori) è già di questo tipo. Barry Lyndon (1975) ne è l’esempio più bello: non è mai stato fatto di meglio, non si farà mai di meglio in… cosa? Nell’evocazione no, non si tratta neanche di evocazione, si tratta di simulazione. Tutte le radiazioni tossiche sono state filtrate, tutti gli ingredienti sono presenti, rigorosamente dosati, non un errore.
    Piacere cool, freddo, nemmeno propriamente estetico: piacere funzionale, piacere “equazionale”, piacere di macchinazione. Basta pensare a Visconti (Il gattopardo, Senso, ecc., che per certi versi ricordano Barry Lyndon) per cogliere la differenza non solo nello stile dei registi, ma nel senso stesso dell’azione cinematografica. in Visconti, c’è del senso, c’è storia: una retorica sensuale, tempi morti, un gioco appassionato, non solo nei contenuti storici, ma anche nella regia. Niente di tutto questo in Kubrick, che manipola il suo film come se fosse una scacchiera, fa della storia un copione operativo. E non si pensi di doversi ricondurre alla vecchia opposizione tra l’esprit de finesse e l’esprit de géométrie, che ha ancora a che fare con il gioco e con la posta in gioco del senso. Noi entriamo in un’era di film che, propriamente, non hanno più senso, un’era di grandi macchine di sintesi, con una geometria variabile…».1

    1 J. Baudrillard, L’effet Beaubourg. Implosion et dissuasion, Paris, Galilée, 1977, trad. it. Simulacri e impostura, Cappelli, 1980 p. 11

  20. Mimmo Pugliese

    La nuova poesia tedesca tende ad inserire la significazione del linguaggio poetico nel rapporto parola-evocazione-immagine. E’ uno sforzo importante anche se in essa si rintracciano ancora legami troppo stretti con un modello parlato e schematico .Magari evolve, seppur lentamente. Allo stato può definirsi “in-espressiva”.

  21. antonio sagredo

    Scrive Linguaglossa, sfiorando del sublime giudizio l’ironia:

    “Rileggendo la poesia di Jan Wagner mi sono accorto di quanto sia bravo il poeta tedesco, di come sia quasi perfetto, anzi, direi proprio perfetto: le immagini scorrono via veloci, puntuali, variegate, sorprendenti quanto basta per non stupire e per non annoiare il gentile pubblico, intelligenti quanto basta per non umiliare le persone non intelligenti che leggeranno queste poesie. ”

    Anche io (perdonate il mio IO ) sono d’accordo col Linguaglossa, anche se non posso che ammirare quel “quanto sia bravo… di come sia quasi perfetto, anzi, direi proprio perfetto”… mi piace quel “quanto” e quel “quasi” e squisito:
    è quel “proprio”. Di mio ci aggiungerei un “troppo”!!!
    Il resto, come si dice è letteratura, che essendo davvero un “resto” non deve “offendere”, “umiliare”.
    Davvero deve essere così. Guai a offendere e umiliare: faremmo una brutta figura. Anche con versi così sublimamente semplici bisogna stare attenti; di solito preferisco offendere e umiliare l’autore, ma il pubblico o il lettore, mai!!!
    Chissà cosa avrebbe detto o scritto p.e. Majakovskij, o Heine tantissimo ammirato dal russo per il suo sarcasmo, oppure il Karl Kraus, chissà cosa avrebbe detto Sagredo, o semplicemente Carmelo Bene.
    Forse senza esserne cosciente, più di tanto non si può, il Pugliese ha indovinato è: poesia inespressiva (senza il trattino).
    Il povero Wagner ha un cognome troppo pesante e grande per poterlo sopportare: non poteva che risultarne una poesia scialba, il contrario di una musica….

    as

  22. antonio sagredo

    Non so come siano stati tradotti i versi di Jan Wagner: chiederò aiuto ai miei amici germanisti, alcune precisazioni che riguardano i concetti e i contenuti… ma in generale il senso resterà invariato.
    Il mio giudizio sui versi di questo poeta tedesco non cambierà, così come il valore dei giudizi che lo hanno premiato. La poesia tedesca merita molto di più di questi che credono di rappresentarla ln massimo grado, e invece sono il gradino più basso. Non dissimile è lo stato della poesia italiana e francese.

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