Giorgio Linguaglossa
Poetry kitchen
Storia italiana del Covid19
K. scende da una astronave
K. scende da una astronave del 3778 e atterra a Cape Canaveral nel 1962.
Dichiara al mago Woland che ha deciso di intervenire in prima persona negli eventi del mondo.
John Kennedy – è sorridente, come sempre, usa il dentifricio Mentadent plus antiplacca –
telefona al presidente Nixon.
Gli dice che il cosmo è stato conquistato dalla NASA grazie ai cannoni satellitari e ai buchi neri interstellari teleguidati dal sommozzatore galattico John Barison che fa il bagno sulla spiaggia di Copacabana in compagnia di Ursula Andress.
Primo episodio di Star Trek, 8 settembre 1966: «Giornale di bordo del Capitano, data astrale 1312.4. L’impossibile è successo. Abbiamo raccolto un segnale d’emergenza, il messaggio di pericolo di una navicella scomparsa oltre due secoli fa».
Inizia così il primo episodio (intitolato “Oltre la galassia”) di Star Trek, serie tv di fantascienza che fa il suo esordio sulla NBC.
L’ideatore Gene Roddenberry si vedrà dedicato un asteroide (4659 Roddenberry) e un cratere su Marte!
Il commissario Montalbano fa arrestare il segretario del partito democratico Nicola Zingaretti.
Il PD si autoscioglie.
Nascono le correnti.
Escono fuori tanti nanetti di nome Salvini che mangiano sandwich alla nutella.
Al “Papeete beach” la tgirl Korra Del Rio si innamora di Rocco Siffredi e si lanciano col paracadute su Marte.
«Bill Salman è mio amico, non c’è alcun conflitto di interessi»,
racconta l’ex presidente del Consiglio Renzi ai giornalisti.
Ma non è finita qui perché la crossdresser Eva Kant si innamora di Diabolik e viene incorniciata nei fumetti degli anni settanta.
Tex Willer spara un colpo e abbatte il poeta Gino Rago.
Inizia la serie “Stargate SG-1”: Un portale che permette di trasferirsi istantaneamente da un pianeta all’altro.
I due protagonisti, il colonnello Jack O’Neill e il dottor Daniel Jackson, dovranno vedersela con nuovi mondi alieni.
Umberto Eco è il misterioso assassino del romanzo “Il nome della rosa”.
In un universo parallelo il presidente Trump incita i suoi fans alla rivolta.
Sharon Stone, in un altro universo,
accavalla le gambe durante il famoso interrogatorio.
Il generale Massimo Decimo Meridio,
comandante delle legioni del Nord, combatte nell’arena da gladiatore.
2001 “Odissea nello spazio”, un film di Stanley Kubrick. Una scimmia colpisce con un osso di femore le ossa di altre scimmie antropomorfe.
Il 18 settembre 1975 un uomo fugge dal futuro e si va a rinchiudere nella dispensa della abitazione del critico Giorgio Linguaglossa, Ufficio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani 18.
Proprio il giorno della laurea del noto critico.
Il pappagallo Totò se ne accorge, gli dice: «Buongiorno Signor Cogito,
“Noi veniamo dopo.
Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera,
può suonare Bach o Schubert, e quindi,
il mattino dopo,
recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz”.*»
* «Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach o Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz». Sono parole di George Steiner, contenute nella prefazione di Linguaggio e silenzio.
Giuseppe Talìa
20 marzo 2021 alle 17:39
La complessificazione del linguaggio sperimentata dalla rivista e sulla rivista ha avuto il merito di aggregare intorno a un nucleo le diverse indagini degli autori sul frammento e sul polittico che potremmo dire, quest’ultimo, sia la conseguenza del frammento nella costruzione della storia.
La complessificazione del linguaggio, se intesa come paniere di esperienze e di sensibilità, del sapere, saper fare e del saper essere, dovrebbe essere la norma. D’altra parte la complessificazione del linguaggio nel tessuto del verso non è cosa facile. Mi verrebbe da dire che se essa non è retta dal reale, del qui sto e da qui parto, si rivela inefficace.
Apprezzo la produzione poetica degli anni giovanili di Antonio Sagredo. Recentemente ne ho letta una tra i commenti a qualche post, una direi emblematica dell’impatto che la poesia può avere sull’autore, sulla disillusione e sulla presa d’atto che la poiesis è come una matassa che non è facile sbrogliare. La poesia che cito si apre, con la presa d’atto che il libro o la poesia non si faceva con il semplice canto del poeta. Non ricordo altro dei versi della poesia, se non che era equilibrata, ironica, tagliente e molto misurata. Sagredo di Capricci (2017), invece, è discarica di gioielli, di gorgiere, di golgota, di armamenti seicenteschi, giambi, teatro, quindi poetry kitchen.
Giorgio Linguaglossa
20 marzo 2021 alle 18:15
caro Giuseppe,
Ho più volte detto ad Antonio Sagredo che se cancellasse una buona volta l’io onnipresente e pervasivo che infesta e atterrisce le sue poesie e lasciasse soltanto l’involucro, come tu dici (discarica di gioielli, di gorgiere, di golgota, di armamenti seicenteschi, giambi, teatro), sarebbe un ottimo poeta kitchen.
Giorgio Linguaglossa
21 marzo 2021 alle 9:22
caro Giuseppe Talia,
ritorno un momento sulla quaestio: poesia kitchen e/o poesia non-kitchen per aggiungere un altro distinguo.
A mio avviso c’è kitchen se non c’è più il gioco dei significanti.
Inavvertitamente, moltissimi autori di oggi non riescono proprio a pensare di fare una poesia che si sbarazzi definitivamente dei giochi dei significanti. Per esempio nel verso di Carlo Livia:
il Sovrano si è spento nel frastuono degli aporemi
colgo degli echi di un concetto di poesia basata sui giochi del significante. Il verso è fonosimbolico (parente stretto della linea genealogica del fonosimbolismo che va dal Pascoli al primo Montale), vuole introdurre un diapason tonosimbolico mediante la nominazione del «Sovrano» in maiuscolo. È presente in questo verso un concetto fonosimbolico e tonosimbolico di ascendenza simbolistica con pendenza ieratica e soteriologica. Livia opera un impiego della metafora «frastuono degli aporemi» che rimane una scatola vuota, vorrebbe indicare altezze simboliche e invece indica una scatola vuota, vuota anche se leggiamo la frase con il dito rivolto all’implicito rimando ieratico e misterico. Tutte le metafore e le catacresi della poesia di Carlo Livia dipendono da questo concetto: del rimando di un significato ad altro significato, di un significante ad altro significante.
Ovviamente, ciascuno può fare con il linguaggio ciò che vuole, ma è bene dire che questo uso e impiego del linguaggio rimane ancora nell’ambito della ontologia estetica del tardo novecento, e di lì non muove alcun passo in avanti.
Anche nella poesia di Antonio Sagredo v’è disseminato un impiego del linguaggio di ascendenza simbolistica volto a rimarcare e sottolineare i valori tonosimbolici e fonosimbolici. Siamo sì nell’ambito del modernismo europeo ma fuori della poetry kitchen. È bene essere chiari in proposito.
Nella pseudo poesia limerick di Guido Galdini invece noto che questa problematica è assente, Galdini ha metabolizzato questa problematica e l’ha circumnavigata verso una poesia pseudo limerick che dimora stabilmente nel «fuori significato» e nel »fuori senso»:
c’era un poeta il primo giorno di primavera
che non sapeva come fare a tirare sera
né cosa mettere a cena nella minestra
se un cavolfiore o qualche verso della Ginestra
Giuseppe Talìa
21 marzo 2021 alle 16:24
Caro Giorgio,
Non ho mai pensato ai limerick se non prima di averli letti con Guido Galdini, che sappiamo essere un esploratore. Concordo con te quando dici che la poesia di Carlo Livia è costitutiva del significante misterico e ieratico che la abita completamente. Il significante, però, essendo simbolo del significato, in realtà regge la comunicazione, purché non si basi esclusivamente sulla reiterazione come unica stampella.
Allo stesso modo mi viene da pensare che il modello della poesia di Carlo Livia abbia messo in crisi la poesia ultima di Sagredo. Anche se siamo su piani di invenzione molto distanti circa le origini, la genesi e la fede dell’uno e dell’altro.
Le tue rime, mi hanno fatto sorridere e riflettere.
Ci ho trovato Eva in sapEVA, caso in cosa, servo in verso, resa in sera.
Marie Laure Colasson
20 marzo 2021 alle 19:23
Guy Debord ha coniato la definizione “società dello spettacolo” nell’omonimo libro del 1967 per indicare lo stadio ultimo e la mutazione qualitativa del capitalismo. Lo “spettacolo”, per Debord, “non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini”; esso descrive l’ultimo stadio dell’accumulazione capitalistica, che vive una sorta di “transustanziazione” e fantasmagorizzazione del capitale in una forma immateriale, in una fantasmagoria spettacolare. Il capitale giunto ad un alto grado di accumulazione diventa immagine, fantasmagoria, irrealtà.
Lo spettacolarità della poesia di Linguaglossa, e di tutta la poetry kitchen in genere, ricalca le orme impresse dall’alienazione del capitale sugli umani, che corrisponde alla stessa natura linguistica e comunicativa del linguaggio, che isola il linguaggio in una sfera separata in cui esso non rivela e non comunica più nulla. Lo spettacolarizzazione dello spettacolo in fantasmagoria e fuoco d’artificio iconico e linguistico indica senza equivoci lo sradicamento dell’uomo di oggi dalla sua dimora nella lingua. La spettacolarizzazione dello spettacolo ammicca, accenna a qualcosa come una possibilità positiva: che oltre di essa non è possibile andare. È invece proprio grazie a questo sradicamento estremo che diventa per la prima volta possibile fare esperienza del linguaggio stesso come medium, della sua essenza sorgiva, che poi appartiene alla stessa essenza linguistica dell’uomo, il fatto stesso che si parli. è, in sé, fantasmagoria, fuoco d’artificio.
Giorgio Linguaglossa
21 marzo 2021 alle 12:53
Lo spettacolo del linguaggio.*
Guy Debord faceva parte degli intellettuali che Agamben frequentava a Parigi negli anni settanta, e alla sua memoria (morì suicida nel 1994) Agamben dedicherà Mezzi senza fine (1996). Su Debord scriverà inoltre vari saggi, tra cui la prefazione alla traduzione italiana dei Commentari sulla società dello spettacolo (poi inclusa in Mezzi senza fine, 60-73), pubblicata lo stesso anno de La comunità che viene (e di cui, come gli altri scritti su Debord più o meno contemporanei, ripete i concetti). Come nota Yoni Moland (in AD 53-54), le prime menzioni da parte di Agamben, non di Debord, ma del progetto situazionista di cui egli era l’esponente di spicco, sono piuttosto critiche: in L’uomo senza contenuto il “progetto situazionista di un superamento dell’arte inteso come realizzazione pratica delle istanze creative che in essa si esprimono in modo alienato”, fa pienamente parte della “metafisica della volontà, cioè della vita intesa come energia e impulso creatore”, in cui culmina l’estetica occidentale (L’uomo senza contenuto, 108); questa critica è ripresa in uno scolio di Stanze sulla reificazione del processo creativo, in cui dei situazionisti si dice che, “nel tentativo di abolire l’arte realizzandola, finiscono invece col dilatarla all’intera esistenza umana” (Stanze 63).
Quello che interessa ad Agamben è piuttosto la critica debordiana del feticismo della merce, che egli estende fino a comprendere il linguaggio stesso. A partire dalla fine degli anni Ottanta, la terminologia debordiana della “società spettacolare” entrerà permanentemente nel lessico agambeniano, tanto che un breve scritto del 1991, “Violenza e speranza nell’ultimo spettacolo”, eleva le analisi di Debord al rango di quelle heideggeriane di quarant’anni prima (cfr. “Violenza e speranza nell’ultimo spettacolo”, in AA.VV. I situazionisti, manifestolibri, Roma, 1991, pp. 11-17 14)
da Carlo Salzani Introduzione a Giorgio Agamben, Il melangolo, 2007
Jacopo Ricciardi
21 marzo 2021 alle 11:35
Nella Poesia di Carlo Livia “partogenesi di alcuni sacrari nell’equinozio” ogni strofa, più articolata o meno, svela una verità di vuoto mentale, o spazio mentale vero, o pieno mentale vero; i testi cadono fermi nel vuoto della mente e lì galleggiano. Ogni strofa cade nello stesso punto. Perché non scriverne solo una o due oppure un milione? Il piacere di questa poesia che si protrae di strofa in strofa è dato dal fatto che tutte le cose cui si riferiscono le parole sono ombre di quelle cose esterne e pur divenendo ‘cose’ simili, o simili ombre, conservano la loro diversità che discende dalle cose esterne a cui si riferiscono, ossia sono ombre diverse le une dalle altre; per questo la mente non si stanca di recepirle perché il loro far cadere (decadere) l’ombra nella stessa sospensione libera e vera della mente conserva l’inesauribile varietà delle cose apparse nella realtà, e questa inesauribilità del processo dà il carattere dell’esperienza della densità della mente.
Nella poesia di Giorgio Linguaglossa “Poetry Kitchen. Storia del Covid-19, I parte” la questione si articola maggiormente, le ‘cose’ riguardano strati narrativi, discorsi diretti e indiretti, riflessioni, concezioni, situazioni, procedimenti retorici, personaggi esistenti o inesistenti, reali o fittizi, toni, registri, e ogni cosa pronta a tradire l’altra, in un andamento di somma atemporale che raccoglie queste ‘cose’ come fa una ruspa che travolge tutto senza ordine e ne ridà la massa informe, costantemente inaffidabile, creando una pluralità ‘eterodiretta’ (intermittente) di cedimenti strutturali che travolgono e rigenerano il testo in un borbottare mentale, un rumore di fondo, un cuocersi di mente e realtà insieme, di fisico e non fisico, un proliferare della mente che sfida (e vuole vincere) la varietà delle cose esterne. Leggendo questo testo si sente in sé un ribollire del luogo della mente in un frazionamento sempre rinnovato che è il testo, che è la mente, che è la realtà. I temi della politica, della socialità, del desiderio sessuale, divorati l’un l’altro sopravvivono come ombre di quel pulsare sotterraneo e oscuro che si trova nella mente, e risultano ridimensionati, piccoli lembi o sprazzi, ironici (autoironici), ‘cose’ trovate in una discarica, come lacerti di un io che si trova in ‘periferia’ del pieno della mente, che ora domina visitabile e abitabile. Questa lettura ci dice chiaramente ‘chi’ non siamo e ‘cosa’ siamo. E quel ‘cosa’ è un punto di partenza che riregola la vita.
Questa poesia ci dice quanta importanza ha l’elaborazione del testo poetico, e che ogni dettaglio deve essere visitato, studiato e portato alla luce, per costituire le distanze abissali tra ogni elemento, prendendosi il tempo di non tralasciare nulla. La qualità di un’operazione è ancora un bene assoluto.
Gino Rago
21 marzo 2021 alle 16:53
Riflessioni su Storia italiana del Covid19 di Giorgio Linguaglossa, come modello di Poetry kitchen
Già i versi di Tadeusz Różewicz che il poeta sceglie e in epigrafe adotta dicono tantissimo sulla porzione di mondo su cui Giorgio Linguaglossa vuole linguisticamente stare:
il poeta degli immondezzai è vicino alla verità
più del poeta delle nuvole
gli immondezzai pieni di vita
di sorprese.
E nel suo commento lucido Marie Laure Colasson (“Questa tua poesia è un grande scoppio, un Big Bang di una grande discarica a cielo aperto. Una gigantesca esplosione. Il Vesuvio ha eruttato. Anzi continua ad eruttare. Frammenti della tua vita privata e della vita pubblica italiana, persone a te vicine (Lucio Tosi, io, Gino Rago) insieme a persone da te lontane (Santanchè, Salvini, Olga Kamjenska, Zaia etc.), insieme a personaggi da te inventati, di film (The Chase) e di romanzi (Josef K.), tutto questo è saltato per aria in una gigantesca eruzione”) lo coglie pienamente.
La poesia è un «Polittico», vale a dire, una composizione di strutture differenti che, tutte insieme, cambiano dall’interno la significazione di ogni singola parte.
Linguaglossa organizza il testo poetico con il metodo direi della «de-localizzazione», del soggetto e dell’impersonalità; il soggetto non appare mai come io-poetante, la sua presenza è in ogni parola del testo senza però mai apparirvi.
Il testo poetico si avvale della dinamica del nascondimento e dell’apparizione, secondo una personale nozione della molteplicità del reale.
In questa poesia esemplare della poetry kitchen, a parte le novità del dialogo e del polittico, Linguaglossa ripresenta una «situazione» di conflitto tra Storia e pensiero che muove la praxis.
Per questo occorre un nuovo linguaggio e un nuovo concetto della poiesis. Di qui il rigetto d’ogni ricerca di sublime, dell’inseguimento del significat,della tanto diffusa quanto limitante idea del linguaggio poetico epigonico e l’idea di un nuovo paradigma inteso come una nuova comunicazione all’interno di un grande patto comunicativo tra l’autore e il lettore.
La poetry kitchen è l’ultimo stadio della nuova fenomenologia estetica, fase avanzata di un nuovo paradigma e della rottura del «patto comunicativo» poeta-lettore del novecento poetico italiano fondato sulla idea di soggetto logologico che presuppone la «monade individuale» come soggettività autosufficiente in un regno chiuso su sé stesso. Nella nuova poesia il soggetto è decentrato e frammentato, lo spazio e il tempo sono presenti non dal punto di vista di un soggetto centrale panottico ma da disparati punti di vista che, tutti insieme, reclamano un nuovo modo di vedere il reale.
È noto che in linguistica ogni parola può essere analizzata sotto due aspetti, quello denotativo e quello connotativo. Se la denotazione è il semplice significato letterario di un termine, la connotazione è, invece, il contenuto emotivo, diremmo gli aloni di suggestioni che è in grado di produrre lo stesso termine e, per estensione, un testo poetico.
Il carattere connotativo di un termine è un fenomeno assolutamente personale, soggettivo.
In questa poesia, o meglio, in questa composizione-dialogo il baricentro è tutto spostato sull’aspetto connotativo delle parole e sul mix di registri linguistici con l’uso diffuso di sintagmi appositivi, fondati sull’impiego di sostantivi e non di attributi affidati agli ormai oziosi e sgradevoli aggetti qualificativi, per tutte le strofe del testo poetico linguaglossiana, compresa la strofa finale con l’incipit kafkiano de Il Processo.
.
Un senso di procreazione continuo.
Quello manca.
Sagredo e Livia ancora se lo contendono.
Un grado di sopportazione ultimo. L’ultima sigaretta.
Il plotone e lì.
Con pallottole vaganti, con il razzolare continuo della Nanin. E poi non hai ancora chiusa quella porta?
Invano inseguimmo un tumulto.
La stasi invertebrata. Avevamo espanso ogni parola. La criogenesi in uso nelle popolazioni del ventiduesimo secolo. Il quadro.
Cosparsero le polveri da sparo, le ceneri e le testuggini. Divorate tutte le colombe.
(Minestra, Ginestra è una apoteosi kitchen! – Grazie Galdini!-)
Grazie Ombre.
RITRATTO DI POSTO SECCO SU CIRCOLARE
Il Genere si fermò un attimo per allacciarsi le scarpe
quindi salì sul tram.
– In Persona, l’ho visto in persona-gridò un predellino-
poi non ha più parlato perché c’era una guerra
e diossina grondava sul petto di Bibi.
S’avvia con un App e in fondo
Si tratta di allacciare un serpente al suo nido
-Oggi sono il mezzobusto seduto alla tua sinistra.
La metà che non vedi è una tribù di Comanches.
Viaggiava con me provando a leggersi.
Dov’era quel vento che apriva l’Idiota?
La Casa dello Studente si incurvò a salutare
-Tutto bene?
I lampioni erano cresciuti fino al decimo piano
e occorreva lasciare il Mekong prima del lungomare.
Un ailanto con ciuffo mohicano si prestò
al salto d’epoca e d’un tratto sintonizzò radio Tirana.
Gli ultimi comunisti cantano “Fin che la barca…”.
Una radiolina alimenta due pile.
Il porto si riprende dallo shock di aver perso i figli biondi
Tutto questo vinile assorbirà la cavalcata delle valchirie.
Non vedi i Nixon sulla scala di Duchamp?
L’ultimo che inciampa è Paperino.
Accidenti, ce la faremo ad avvisare Petrone.
La corrente restituisce bandiere rosse e draghi made in Puglia.
Al ritorno in carne di Mao-Non è di Signorelli…
Risponde Nuvola Nera, noto cacciatore di teste.
La partita a ping pong è finita con una torre abbattuta
mentre due alfieri pieni di tequila barcollavano intorno al Re
e le sartie riprendevano il largo fino a Palos.
Scusa il disturbo disse la Nike e avvitò il Tempo alla testa
Mentre un predellino riprendeva vigore nell’algoritmo.
(Francesco Paolo Intini)
La complessificazione del mondo richiede un nuovo linguaggio volgare.
Occorre liberare il discorso poetico dalla tirannia della tradizione. Il che significa aspirare ad una parola neutra, una parola normale quale è la parola dell’uomo comune che parla il volgare dell’umanità ir-redenta che non sa di vivere in modo clandestino (il destino del clan), appunto in quanto senza destino, e quindi senza storia; adottare una parola che vada in accordo con la sua prassi di uomo qualunque e della sua storia ir-redenta.
Il discorso poetico che chiude il suo passato nel passato diventa semplice prosa, cioè pro-versa, rivolta in avanti, in vista del futuro benché aleatorio e incerto.
Quando si usa un linguaggio normale, un linguaggio che si pone in continuità con la tradizione presunta, vuol dire che dell’universo si ha una idea sicura e precisa, che si pensa che il mondo sia fondato su un fondamento stabile, o stabilmente instabile. Oggi è quasi impensabile impiegare un linguaggio normale, che sia certo certo nell’incertezza, in un mondo retto da principi probabilistici ontologicamente indeterminato, un mondo gerarchizzato dove i rapporti stessi tra l’io e il non-io, tra l’uomo e il cosmo sono indeterminati, occorre usare un linguaggio abnorme, ultroneo. Il mondo ha oggi limiti indeterminati, frontiere incognite, le eccezioni alla norma linguistica adottate dalla poiesis kitchen significano allora che il rapporto tra l’io e il mondo è diventato critico, problematico, non è più un rapporto tradizionale retto da un complesso di norme stabili.
Il mondo di ieri, quello del nome del Padre, ha lasciato un posto vacante, che va occupato, semanticamente occupato. Il sistema semantico mediatico ha messo in atto una vera e propria occupazione militare a cui occorre replicare con la normalità della eccezione.
Con l’eccezione linguistica diventata norma il poeta della poetry kitchen accetta l’idea che lo stato di eccezione linguistica sia equivalente allo stato della normalità linguistica ed extra linguistica. Con la poetry kitchen cade quella certezza epistemologica e gnoseologica che caratterizzava la letteratura e la poiesis dell’epoca dell’experimentum. Il linguaggio normale è diventato ultroneo, abnorme che considera attuale e fattuale la possibilizzazione del molteplice e del non verosimile.
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Castello come Astronave: possibile?
Ma il Fatto è che quando incontrai per la prima volta K. nel 1962, un anno prima che giungesse sulla Terra (di nuovo?), l’anno 3378 era già trascorso da alcuni lustri e la Poesia attendeva il suo Rinascimento, proprio come K., che s’era appisolato sotto le mura del Castello in attesa di essere chiamato dal Custode. Ma K. Dopo tutto non desiderava entrarvi: gli importava più essere presente al Processo dove si sarebbe celebrato il trionfo della Condanna che l’avrebbe spedito alla Colonia Penale -Volle essere accompagnato da Orson durante il tragitto in discesa vero il Ponte Carlo dove ad aspettarli c’era Nezval che cercava di istigare il Pellegrino al suicidio, altrimenti non l’avrebbe cantato nel suo celebre poema l’Edison. Il Pellegrino però voleva dapprima che il Poeta gli cantasse alcuni versi di Poesia Kitchen, prima di essere tradotto in altre terre, come p.e. in Amerika, dove di certo lo aspettava uno dei più grandi prosatori statunitensi, se non il più grande, e cioè JOHN CISTERNA, che prima di morire su un marciapiedi di una square malfamata della metropoli gli aveva inviato l’inizio di un lungo racconto di tradizione picaresca del West
E cominciò a cantare, o spro-sprolosquare:
—
Me ne andai sbattendo i portali della 77-ma street e mi insozzai alla JG Melon o forse giù di lì era road, street, way, path, avenue… non compresi le insegne orientali – mi trovavo a chinatown o no? – confuse o fuse dal neon elastico e l’occhio basedowico era compresso dall’emortaggia dei papaveri rossi… pioveva a scartamento dirotto come sulle rotaie un treno pulpcult e il passo non poteva essere felpato a chiazza di leoprado mentre me ne andai bastendo i portali della 77-ma street e mi insgozzai alla JG Melon o forse giù di lì era road, street, way, path, avenue… non compresi le insegne orientali – mi trovavo a chinatown o no? – sconfuse o sfuse dal bombastic neon elastico e l’occhio basedowianico era compresso dalla raggìa dei papaveri rossi… pioveva a carstamento dirotto come sulle rotaie un treno pulpcult e il passo non poteva essere felpato a chiazza di leopardo e che per questo la sera era intrascorsa dai riflessi lucidocatramosi degli asfalti dall’umidore e dal colore giallognolo del piscio umanoostico sulla neve incalpestata che sul Ponte delle mie Legioni mentre scannavo i pietrosi angeli non sapevo ancora quali metafore di cariatidi m’offrivano catastrofi sulla neve incalpestata se l’occhio basedowianico generò lo sgiardo… lo sgiardo?
No! Era, ah, lo sguardo otrantino levantino salentino di Brunswich… accanto a quel punto del ponte che vigilava gli occhi della Marina ed è ormai la quarta sera che infilo nel cappotto un pezzo della città vltavina notturna, nebbiofangosa e fumocaliginosa, con un ponte ora in lontananza, ora d’un tratto con te, proprio davanti agli occhi vado da qualcuno offertomi per caso dalla sequela degli affari quotidiani o dalla memoria, e con la voce rotta ti consacro in quell’abisso di lirica abbagliante…
Me ne andavo squassato dai selciati e sparsi frammenti del piano sonanti il soldiesisminore…..
ecc. ecc.
Se il presente è vissuto come “crisi”, come limite estremo e decisivo di un percorso di alienazione (la “metafisica”), il superamento della crisi non viene cercato né in un ritorno passatista a stadi storico-culturali più “autentici”, né in un superamento totale che si liberi completamente dei tratti del presente, ma piuttosto in una piena e cosciente assunzione di questo presente come “proprio”. Il Signor K. che scende dall’astronave nel 3778 e atterra sulla terra nel 1962 è una palese ingiuria e uno sberleffo al tempo cronometrico e alla civiltà di tipo Zero (secondo la classificazione che ne ha fatto il fisico Michio Kaku) basata sullo sfruttamento dei combustibili fossili. Ma la poesia non è soltanto una ingiuria o sberleffo ma anche una orchestrazione di alti e bassi, di diapason e di ralenti tutti rigorosamente verosimili o inverosimili, il che è lo stesso.
Si tratta di una poesia anti-fantascientifica, che mette alla berlina sia la fantascienza che la civiltà che la produce, con John Kennedy che telefona (da morto?) al presidente Nixon (altro palese anacronismo), così, da errore cronostorico ad ossimoro ultroneo (Rocco Siffredi e la sua bella trans che atterrano su Marte), la poesia attraversa i «nanetti Salvini» che mangiano «sandwich alla nutella» a Renzi che benedice Bill Salman. C’è il tutto e il contrario di tutto, proprio come la poesia buffet raccomanda, ciascuno può scegliere ciò che più gli aggrada.
Noto con piacere che Antonio Sagredo si è affiliato alla poesia buffet (più buffet che kitchen direi), però il risultato è senz’altro encomiabile… se tenesse sotto controllo il dilagare dell’io la sua prosa impoetica se ne avvantaggerebbe! Però, preferisco la prima parte alla seconda.
TEOREMA
(Per coloro che si incontrano nei sogni)
A quest’ora l’eternità è quasi deserta.
La notte liturgica, piangendo, si offre al branco.
Passa una brezza nuda, senza pensieri.
Due cieli isterici, coi capelli del pazzo.
Un morto solitario, stralunato insegue la sposa per le scale.
Il sogno proibito, fuggito dal museo,
cerca fra le macchine la rugiada delle fanciulle.
(Voce bianca, singhiozzante, inginocchiata davanti al Cosmo )
Lo scopo dello schianto è addentrarsi nella Dea.
Dovunque si sente il ragno triste, che sposta la notte.
Vestitini al vento rimpiangono altre ostie.
In sogno ricevo la Ferita. E uccido le belle penombre cinesi.
Nel simulacro somministrano stanze dorate,
moncherini che gridano, ipostasi nane, gallerie sotto giuramento.
Se danzi nuda nell’antropocene, l’Altro ti vede i lutti,
se spartisci le catene fra i beati,
l’abitacolo si muove solo verso l ‘Architrave.
La follia di due merletti antichi
sporca venti, cavalli, santi in bilico sui palmizi.
La signora delle vallate convoca il delirio nel clavicembalo.
Clessidre pazze furiose fuggono
con tutti i morti in mano.
Nel cielo quasi bianco,
passeggiatrici bevono alabastro e nostalgia.
Il fossato delle femmine fulve spaventa le consustanziazioni.
Ragazze con code di Dea in disordine entrano nude nel sacrario.
La tristezza sciolta nell’acqua benedetta sospira –
amore, vieni con la corona di spine!
In giardino il picco ipnotico pascola serpi dell’Ultradio.
La brezza impudica accarezza il dogma
e lascia morire celebri corsieri.
(Riflessione nel cielo sottile)
The mind enclosed in the soft macchine
reclines at the fake dusk.
Shattered sky, why don’t you play anymore?
L’estasi della madrina si perde
in sette precipizi soffici.
Si sente un fruscio d’acqua
arrampicata nell’altro Universo.
La tentatrice appena risorta fugge sulle grondaie
spargendo pomeriggi scandalosi.
Nel silenzio di garofani l’incesto s’inginocchia
nel tuono a Sud dell’Impero.
Lotto col profeta che precipita.
Donne inesplorabili tramontano a distesa
in stelle marine adornate di verdi peccati.
Les amants entrent dans l’image qui tombe
sur les escaliers tourmentes par les miracles.
Invece di anime il vento porta frange di tristezza
tagliate da una scure.
Il sinodo delira sfumato in vertici di plutonio.
E io ripeto dal fondo della Dea
– questo è il prezzo di un secolo di silenzio.
Le belle cariocinesi sfuggono
dall’angolo buio della metempsicosi.
Preghiere irte di spigoli e farmaci
sciamano dal catodo slacciato.
L’ultima ha una ferita
da cui cadono donne scarlatte.
Una breve riflessione, partendo dai versi di Tadeusz Różewicz citati da Gino Rago:
il poeta degli immondezzai è vicino alla verità
più del poeta delle nuvole
gli immondezzai pieni di vita
di sorprese.
Vi è sì una sostanziale differenza tra il poeta (il poeta degli immondezzai) e il poeta intellettuale (poeta delle nuvole) ed è questione di memoria, che nel poeta intellettuale è memoria di libri e letteratura; di solito è poeta citazionista, problematico o no, concettuale o no, sempre alle prese con un reale altro da sé (ci si chiede se il poeta intellettuale non esca mai a bersi un caffè…).
Ecco un passaggio su cui sono pienamente d’accordo.
Scrive Linguaglossa:
“La complessificazione del mondo richiede un nuovo linguaggio volgare.
(…) Il linguaggio normale è diventato ultroneo, abnorme che considera attuale e fattuale la possibilizzazione del molteplice e del non verosimile”.
Ma, come sostiene Giuseppe Talia: “la complessificazione del linguaggio nel tessuto del verso non è cosa facile. Mi verrebbe da dire che se essa non è retta dal reale, del qui sto e da qui parto, si rivela inefficace.”
Sempre Giorgio Linguaglossa, su limerick di Guido Galdini, che possiamo estendere a tutta la poesia kitchen:
“una poesia (pseudo limerick) che dimora stabilmente nel «fuori significato» e nel “fuori senso”.
“È invece proprio grazie a questo sradicamento estremo che diventa per la prima volta possibile fare esperienza del linguaggio stesso come medium, della sua essenza sorgiva, che poi appartiene alla stessa essenza linguistica dell’uomo, il fatto stesso che si parli. è, in sé, fantasmagoria, fuoco d’artificio.” g.l.
“Anche nella poesia di Antonio Sagredo v’è disseminato un impiego del linguaggio di ascendenza simbolistica volto a rimarcare e sottolineare i valori tonosimbolici e fonosimbolici”.
DIFESA DELLA POESIA (e anche della mia Poesia):
Se vi è ascendenza non è certo simbolista, se mai è PROTOSIMBOLISTA E POSTSIMBOLISTA, SALTANDO OVVIAMENTE LA CENTRALITA’ DELLA POESIA SIMBOLISTA CHE SAGREDO HA SEMPRE COMBATTUTO…
(basta scorrere le centinaia e centinaia di annotazioni su Mandel’štam, Pastenàk e Majakovskij \e di riflesso a Blok principe del simbolismo russo-europeo e tant’altri\ per notare l’avversione di Sagredo verso il simbolismo in generale… annotazioni che solo gli specialisti sono in grado di stabilirne gli inizi e i limiti).
Si deve dire comunque INTEGRAZIONE senza alcuna contaminazione dei toposimbolismi e degli acmesimbolismi.
Questa “mossa del cavallo” gli ha permesso di evitare i trabocchetti degli stilemi avvizziti di un simbolismo becero e di un postfuturismo evanescenti per approdare a una costruzione dove POESIA E TEATRO POTESSERO CONVIVERE PER BENEFICIO DI ENTRAMBI: SI HA BISOGNO DI UNA ALTA TECNICA COMPOSITIVA CHE METTA IN DISPORTE per SEMPRE IL CONCETTO DI SUBLIMITA’, p.e. – uno degli aspetti dei versi di Sagredo è il totale disincanto per ogni forma teorica e prartica che possa inquinare il CANTO:
La poesia come la intendo va sempre oltre ogni significazione già storicamente condannata alla fissita’ dell’IO cadaverico… cosa che i miei versi non contengono affatto se non sotto le spoglie del sarcasmo e del grottesco, che fanno parte di un contesto teatral-recitativo, che la rende dinamica e attraente e altro, e allo stesso modo quello dei riferimenti culturali più o meno abbondanti e mai ridondanti
—-
…i tasti si tenevano a braccetto le note durante il requiem, le lacrimose come i fili delle luminarie erano spezzati ——————————————————–Che “il modello della poesia di Carlo Livia abbia messo in crisi la poesia ultima di Sagredo”…. è una affermazione\dicharazione che mi fa sorridere… non credo che quel modello possa metterla in crisi – non ne è all’altezza! – né la prima e né l’ultima poesia dell’autore…
e si può iniziare dalla visionarietà che è il fondo su cui strisciano tutte le immagini sagrediane, e quanto più strisciano più diventano levigate e lucide da rasentare la brillantezza, a cui da tempo la poesia italiana non ne ri-conosceva il valore, senza mai cadere nella sublimità che aborre!
E poi la concettosità di origine metafisica-baroccheggiante è solo un pretesto che il poeta prende a prestito, e non è affatto la sua natura originaria, per non parlare di armonie compositive rotte d’un tratto e non adagiantesi sotto alcuna alcova simbolista.
Nemmeno le varie correnti europee hanno scalfito l’immaginario sagrediano… la poesia post-modernista gli è estranea assolutamente e né si può dire di un neo-simbolismo e altre sciocchezze.
Dei versi come questi che seguono più in avanti possono apparire datatissimi, non lo sono affatto perché bisogna coglierne il sarcasmo e l’inutilità di riproporli e quindi suonano come uno sberleffo non tardivo, e sono invece un ammonimento a non scrivere più in questo modo, eppure la stragrande maggioranza dei poeti italiani e europei (sono informatissimo e non è affatto presunzione) seguita a scriverli… bontà loro:
—
La mimosa è caduta.
È caduta la mia piccola mimosa accanto alla casa di campagna.
È caduta.
A marzo non vedrò più
i suoi soffici batuffolini gialli.
Non li vedrò più… la mimosa è caduta.
22 novembre 2019
caro Carlo,
la tua è una poesia sacra, derivazione diretta del «sacro» numinoso. Il linguaggio che adoperi sta tutto dentro il perimetro del «sacro». Jacopo Ricciardi in un commento di alcuni giorni fa ha scritto un pensiero molto accurato sulla tua poesia, ha scritto che la tua poesia (cito a memoria) cade sempre in un luogo (il sacro), e lo ripete in eterno, che insomma non sa o non può uscire dal suo luogo (il sacro). C’è una impossibilità, una impasse, un muro che la relega al suo luogo, tutte le tue metafore, le immagini che usi sono come corto circuitate in un circolo dove la soggettività gira a vuoto e nel vuoto. Io penso che tu devi sfondare quel muro, quel circolo… ma non puoi. E così potresti continuare all’infinito.
Anche la poesia di Antonio Sagredo è di derivazione in-diretta del «sacro», ruota attorno al proprio io, non sa e non può liberarsene, e così anche la sua poesia è costretta a ripercorrere tutti i punti del suo circolo senza poterne uscire. Lui sta bene in quel circolo, il suo linguaggio è il linguaggio del circolo. Infatti, la seconda parte della sua poesia postata qui sopra pecca perché si ripete, ripete le medesime ossessioni dell’io all’infinito. E così potrebbe continuare all’infinito
La complessificazione del mondo richiede un nuovo linguaggio volgare.
Occorre liberare il discorso poetico dalla tirannia della tradizione. Il che significa aspirare ad una parola neutra, una parola normale quale è la parola dell’uomo comune che parla il volgare dell’umanità ir-redenta che non sa di vivere in modo clandestino (il destino del clan), appunto in quanto senza destino, e quindi senza storia; adottare una parola che vada in accordo con la sua prassi di uomo qualunque e della sua storia ir-redenta.
Il discorso poetico che chiude il suo passato nel passato diventa semplice prosa, cioè pro-versa, rivolta in avanti, in vista del futuro benché aleatorio e incerto.
Quando si usa un linguaggio normale, un linguaggio che si pone in continuità con la tradizione presunta, vuol dire che dell’universo si ha una idea sicura e precisa, che si pensa che il mondo sia fondato su un fondamento stabile, o stabilmente instabile. Oggi è quasi impensabile impiegare un linguaggio normale, che sia certo nell’incertezza, in un mondo retto da principi probabilistici ontologicamente indeterminato, un mondo gerarchizzato dove i rapporti stessi tra l’io e il non-io, tra l’uomo e il cosmo sono indeterminati occorre usare un linguaggio abnorme, ultroneo. Il mondo ha oggi limiti indeterminati, frontiere incognite, le eccezioni alla norma linguistica adottate dalla poiesis kitchen significano allora che il rapporto tra l’io e il mondo è diventato critico, problematico, non è più un rapporto tradizionale retto da un complesso di norme stabili.
Il mondo di ieri, quello del nome del Padre, ha lasciato un posto vacante, che va occupato, semanticamente occupato. Il sistema semantico mediatico ha messo in atto una vera e propria occupazione militare di questo posto vacante a cui occorre replicare con la normalità e la modalità della eccezione. L’eccezione ultronea deve diventare la regola della nuova prassi.
Con l’eccezione linguistica diventata norma il poeta della poetry kitchen accetta l’idea che lo stato di eccezione linguistica sia equivalente allo stato della normalità linguistica ed extra linguistica. Con la poetry kitchen cade quella certezza epistemologica e gnoseologica che caratterizzava la letteratura e la poiesis dell’epoca dell’experimentum. Il linguaggio normale è diventato ultroneo, abnorme, è questo linguaggio che occorre mettere in sordina e nel cassetto dei numismatici. È il linguaggio dell’eccezione quello che considera attuale e fattuale la possibilizzazione del molteplice del verosimile e del non verosimile per adire alla complessificazione del mondo della odierna fase della civiltà.
di un autore che ci segue, Mimmo Pugliese, copio e incollo la poesia che ci ha inviato.
Quando passa la luna
la bocca ride ai tulipani
Dentro il nido sognano le rondini
Gli alberi del viali si sentono fieri
Rivoltano se stesse le lunghe strade
Le terrazze indossano l’abito di gala
Più dolce è il sapore del mostro
Parlano tra loro gli animaletti di terra
Il fumo dei camini è cum grano salis
Bottiglie e conchiglie restano in silenzio
Sono bianche le onde che ridono sulle scialuppe
Albicocche e ciliegie lucidano i binari
La notte strozza i pensieri del gallo
Ma sono belli gli occhi tuoi
In tempi di infopandemia parlare di mutismo come fa Giorgio Linguaglossa è quanto mai pertinente . Nel romanzo ‘ Foe ‘, riscrittura di Robinson Crusoe, l’autore, J.M.Coetzee, Premio Nobel per la letteratura, ripropone il personaggio di Friday, il nativo che Robinson incontra sull’isola deserta, ma lo presenta muto, gli hanno tagliato la lingua. Non viene svelato l’autore di tale mutilazione, ma tutto fa pensare che si tratti di una metafora del colonialismo. Eppure il mutismo di Friday ha nel romanzo un altro valore simbolico : in mancanza di un linguaggio adeguato è preferibile il silenzio. Un mutismo, quindi, di lotta e di resistenza. Credo che la riflessione sulla necessità di un nuovo linguaggio politico e poetico sia di primaria importanza, altrimenti non ci resterà che il silenzio ostinato e il mutismo per non soccombere all’omologazione. Che il mutismo, però, non duri troppo, il pericolo è che venga scambiato per arrendevolezza.
Nell’Ottocento i pittori scoprirono il bisogno di avere sempre un modello da guardare; nel Novecento scoprirono che l’unica cosa da non fare era guardare un modello […]
[Gertrude Stein nel libro Picasso, edito da Adelphi]
Oggi, nel nuovo millennio, è caduta perfino la nozione e il ricordo di un «modello», sicché non c’è da guardare a nulla, ovvero, il nulla in quanto il silenzio è diventato rumore e il rumore si è convertito in silenzio. Le parti si sono invertite.
lo Spettacolo del linguaggio (quale?) è simile alla Poesia del linguaggio (quale?): trovare un punto in comune e si avrà il Buffet della Poesia.
Riprendo questo appunto di Jacopo Ricciardi:
«Nella Poesia di Carlo Livia “partogenesi di alcuni sacrari nell’equinozio” ogni strofa, più articolata o meno, svela una verità di vuoto mentale, o spazio mentale vero, o pieno mentale vero; i testi cadono fermi nel vuoto della mente e lì galleggiano. Ogni strofa cade nello stesso punto. Perché non scriverne solo una o due oppure un milione?»
Una volta espressi questo concetto ad un poeta milanese che gode di grande considerazione, gli dissi che la sua poesia, dal primo libro all’ultimo, a distanza di più di trenta anni, ripercorreva lo stesso lessico, le medesime figure, le medesime metafore, i medesimi aggettivi, il medesimo giro frastico, però con delle piccole variazioni, che il suo stile corrispondeva ad uno «sperimentalismo rovesciato».
Questo io lo chiamo linguaggio parassitario, linguaggio già pronto, linguaggio automatico che va per clichè e modus eloquendi. Allora, quando un linguaggio diventa automatico, lì c’è solo letteratura, perché non c’è più ricerca.
Inutile dire che il poeta in questione da allora mi ha giurato inimicizia assoluta.
Il nemico peggiore per un poeta è quando padroneggia alla perfezione un linguaggio. Questo è il pericolo più grande. Il bravo poeta è a mio avviso colui che non ha linguaggio e lo va cercando ovunque.
Il pericolo massimo è quindi quando un poeta possiede il linguaggio.
«L’eliminazione dell’indicibile dal linguaggio» di cui parla Benjamin in una sua lettera a Buber è anche il compito che mi sono prefisso con la mia poesia, dove la parola dice quel che dice e basta, senza alcuno sfondo simbolico e/o allegorico, senza che la parola rimandi ad Altro da sé, in modo che la parola sia finalmente sgravata da ogni peso (teologico, filosofico, politico, psicologico, sociale etc.), sia liberata da ogni peso e zavorra, libera anche di dover dimorare in un linguaggio poetico, libera anche di dimorare in una soggettività, una parola che non ha più niente da dire. Questo però mi spinge a dover rischiare in ogni momento, mi spinge in avanti, con il rischio di cadere in ogni momento…
Nella lettera indirizzata a Giorgio Caproni che riporta la data 1-5-1982, Agamben scrive:
Caro Caproni,
è con emozione e con gioia che ho aperto il “ Franco cacciatore”, come quando ci si sa alle soglie di ritrovare qualcosa come la musica della propria vita, che si ha sulle labbra senza poterla cantare. È presto per dirle delle impressioni precise, anche se ho ritrovato nel libro tutto quanto amo di più della sua poesia. Soltanto questo, per ora: un testo come il primo “inserto” prosaico è così vicino a quanto io cerco di pensare che mi dà quasi le vertigini. Io cerco di situare con ogni forza le mie parole in quella zona di bianca disperazione (è stato lei – mi pare alla prefazione del “terzo libro” – a parlare della bianchezza della disperazione) nella quale tutto ridiventa possibile: gioie e speranze – e anche il dio che si era definitivamente cancellato. Non so se lei ricorda, nel Decamerone, la straordinaria novelletta che ci dà il più bel ritratto immaginabile di Cavalcanti, con quel suo salto finale al di là della morte. Boccaccio dice, qui, che Guido «uno dei migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale» cercava «se trovar si potesse che dio non fosse». Io intendo qui la parola “trovare” nell’originale senso tecnico che essa ha nel provenzale “trobar”, che indica l’esperienza stessa della parola poetica. Cavalcanti cercava, cioè, se si potesse scrivere una poesia che non facesse sempre già essere dio (prima e fuori di sé). Poiché dio è il nome indicibile che ogni parola presuppone senza poterlo mai dire (e questa è la sua disperazione). Ma se l’uomo riuscisse a trovare una parola che non lasciasse più essere dio, allora questa sarebbe veramente la sua parola. E – in questa parola – come lei dice, tutte le libertà diventerebbero possibili – compresa quella di cercare un dio (non più undio indicibile e fuori dalle parole, ma tutto sciolto in esse: fides ex auditu!). Poiché una tale parola – che non presuppone più alcun passato e non si destina piùad alcun futuro – non ha più nulla da dire, è nella sua assoluta purezza. E, proprio per questo, semplicemente dice.
Essa ha compiuto quella cristallina eliminazione dell’indicibile dal linguaggio, di cui Benjamin parla in una lettera a Buber, e che è per me lo scopo di ogni vera parola e di ogni vero pensiero. In questo modo parla, nel libro, la sua poesia, a volte con la spezzata ed antiritmica movenza della canzone cavalcantiana («donna mi prega…»). Anche per questo lei è il poeta che mi è più caro nel ‘900: il poeta più grande, direi, se, a fronte della semplicità e della limpidezza del dettato, queste parolenon suonassero inutilmente enfatiche.
Con l’amicizia e la gratitudine del suo Giorgio Agamben.
Ps
Mi ha telefonato da Genova Verdino per invitarmi a partecipare in extremis al libro di omaggio. Purtroppo non mi è stato possibile finire in tempo il saggio che avevo cominciato e che conto di portare a termine nei prossimi mesi. (Il mio omaggio sarà quindi più tardivo – ma ci sarà). Penso, a partire da il
10-12 maggio, di essere a Parigi per due settimane. Se potrò tornare entro il 22, verrò ugualmente a Genova se non altro per festeggiarla e per vederla nellasua città. Altrimenti sarei felice di poterla nuovamente incontrare a Roma almio ritorno, se avrà ancora un momento per me.
SANGUE DI PRUGNA
Dal sangue della prugna esce
sperduto uovo di aquila
sepolta sul tombolo dalle gambe secche
conquistate dai ragni adesso che il giorno è ieri.
Ha scalato piramidi, sentito ruggire il vulcano
visto navi salpare
sui tuoi gomiti c’è la lampada della sera
ai bimbi presta i suoi dittonghi
su ciniche scale musicali.
Dondola sull’amaca
incanta le foglie dei gelsi rivolti al mare
quando arriva la primavera suona la banda
perfora la luna una eco di aghi.
Il colore coinvolge. E una storia si dipana.
Quando arriveremo su Marte, la Luna resterà un vulcano. “Ai bimbi presta i suoi dittonghi”*. Il colore diventa un suono. Forse un silenzio. Ogni Venerdì Crosue si perde indifferentemente sullo schema orizzontale o verticale. La trama azzurra, “incanta le foglie dei gelsi rivolti al mare”*. -Elevatore nobis necesse est. -*
*(cit.: da mimmo pugliese e da “il sorpasso” Dino Risi.)
Per me indicibile è quel che nel mondo dei perbene non si può dire. Il mondo appartiene ai perbene, questa è la ragione culturale che sta alla base del sistema capitalistico (idem per altri ipotetici sistemi). Dovunque ti trovi, qualsiasi cosa tu stia leggendo o guardando, o rimirando, puzza di ipocrisia.
Se “la soggettività non ha più niente da dire” è perché viene costantemente ricondotta al mondo delle credenze perbene: le scomode rassicuranti, le istituzionalizzate. Le personalità sono distorte, innaturali; il soggetto è malato e lo sa, lo percepisce: è in dormiveglia, sempre allerta; è in angoscia…
E la ragione è il sonno (del poeta).
Il limite del linguaggio, la soglia dell’indicibile, a me sembra anzi tutto una sfida mentale (la mente non tollera i propri limiti); ma si ha anche la percezione che l’indicibile, nel linguaggio, sia la perdita di senso. Le parole indicibili non hanno senso, sono dei fuori-senso. Quale poeta oserà mai…
Il tentativo di cogliere l’esperienza fondamentale dell’evento di linguaggio, la sua indicibilità, se condotta alle sue estreme conseguenze, ci mostra la sua inafferrabilità assoluta. Ma proprio questo tentativo estremo, ci permette di compiere un movimento circolare che ci riporta veramente a noi stessi, ma dopo aver compiuto un viaggio che strema le dimensioni dell’essere, mostrandoci, per la prima volta, la sua vera dimora abituale, quella in cui siamo da sempre.
La «Voce» come evento fondamentale del linguaggio, come istanza di significare il mondo, si può cogliere solo come il contrario del silenzio,
come rumore, come ottenebramento, essa indica – proprio attraverso questo rumore e questo ottenebramento – l’unica etica possibile per l’uomo contemporaneo: il suo essere deiettato non nel Nulla ma nel rumore.
(mi complimento con le poesie di Mimmo Pugliese che mi sembrano ardite e ben calcolate).