Marie Laure Colasson, Abstract, Struttura dissipativa, acrilico 40×30, 2019
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MARIO LUNETTA, L’ARTE DELL’ALTERNATIVA
a cura di Gino Rago, con Riflessioni di Francesco Muzzioli e Giorgio Linguaglossa
Mario Lunetta è stato un personaggio fondamentale sulla scena letteraria romana e non solo. Infaticabile organizzatore, suscitatore generoso di energie attraverso antologie, presentazioni, prefazioni, recensioni, in attività su tutti i fronti, nulla dies sine linea, dalla poesia al romanzo, al racconto, al testo teatrale, al saggio, all’aforisma, ha coltivato una scrittura ininterrotta a forte caratura polemica, virata negli ultimi tempi al nero di una visione “inorridita” di un mondo che stava perdendo i suoi connotati e in essi le possibilità di cambiamento in meglio. Una scrittura all’opposizione (come mi è capitato di definirla), tesa all’“invasione di campo” in tutti i campi, per produrre dall’interno di ciascuno di essi una inversione di rotta.
Si potrebbe anche parlare, a proposito di Lunetta, di una poetica della crudeltà. Basta vedere le sue soluzioni narrative, nelle quali i rapporti sentimentali si distorcono, gli agenti sociali sono persecutori appena travestiti, i doppi impazzano; e si arriva quasi sempre alla scena madre, che è anche a buon bisogno una scena oscena, all’appuntamento decisivo che è un appuntamento con la morte. Un colpo di pistola, magari, nel cuore del romanzo o nel culmine del racconto. In ogni caso, viene a trovarsi in una scomoda posizione il lettore che si immedesima nel personaggio, preferibilmente spaesato e decisamente antieroico.
Difficile stabilire se la scrittura lunettiana nasca prima in versi o in prosa. Certo che nella produzione poetica si nota di più, per forza di cose, una continuità senza pause. Iniziata sul declinare dell’attività di gruppo della neoavanguardia e tenuta a battesimo nella “zona aperta” della rivista di Adriano Spatola “Tam Tam”, la poesia di Lunetta compie, fin dalle prime prove, un recupero fondamentale che è quello dell’io, che si era trovato “ridotto” nella poetica dei Novissimi. Ma non si tratta, però, di un ritorno a stagioni precedenti come in quel mezzo-ermetismo che stava rialzando la testa da tutte le parti, in una stantia koiné di “poetese”: In Lunetta, l’io viene rimesso in primo piano ‒ anche, volendo, con nome e cognome e tratti autobiografici riconoscibili ‒ ma non per dare la stura al vissuto né per incentivare investimenti emotivi; l’io è piuttosto un campo di lotta, è un fornitore di materiali di pronta disponibilità, ma anche il parafulmine che consente di rilevare tutte le cariche disgreganti che lo circondano. Fin da un testo come <em>Sherpa</em>, l’io è coinvolto in una dialettica di apoteosi e rovina, dove all’innalzamento a eroico paladino della morale (o, negli ultimi tempi, a iperbolico “immortale sottoscritto”) corrisponde il disastroso abbassamento a residuato bellico e inutile rimestatore del niente. Vediamo per l’appunto <em>Sherpa</em> (1985):
io sherpa di città che frequenta quote modeste
io malandato astronauta io facchino io scimmia decrepita
mordo l’aria coi miei denti gialli di liquerizia
azzanno il nulla coi miei molari cariati
io sherpa derelitto dipinto da questa mano che scrive
in figura di demonio nominato fratello fuoco
con gambe di satiro villose e corna e ali di pipistrello
parlo con la puttana anzianotta accosciata sul marciapiede
con qualsiasi tempo pioggia o vento o sole sfolgorante
davanti alla rovina superba di cotto defunto – parlo
e lei continua a riempire a matita quaderni di memorie
per i posteri aspettando con nonchalance clienti improbabili
davanti alle terme di Caracalla, o di Caracas:
e alle spalle, una muraglia di bandoni sega il campo
ondulato, ferocemente, un grillo mi canta nel sangue,
questa Roma molle come chewing gum si allunga si allunga
scoppia come una vescica obesa nulla mi sfiora
tutto mi attraversa io sherpa io vecchia stupida scimmia
in abiti borghesi in pantaloni di velluto e faccia
da minchione e barba (…)
Sosia scoronanti accompagnano l’io nella sua discesa negli inferi della società contemporanea.
Quanto alle forme, va detto che la poesia di Lunetta è rimasta fuori dalla discussione tra forme e chiuse e forme aperte. Capacissimo di rinnovare le modalità più classiche, il sonetto, l’uso della rima, l’acrostico e via dicendo, il nostro autore ha sperimentato spesso con ottimi risultati il verso lungo, in particolare con andamento cadenzato. Si veda come esempio questa strofa di Roulette occidentale (2000):
le mura coperte di arazzi di verde luminoso nel mattino
le edicole grondano stampe locandine avvisi minacciosi
e ricatti gentili in un sudore di menzogna e idiozia
nella città dei balocchi capitale del paese di cuccagna
avvenire avventura bruscolini maquereaux floreali
Mimmo Frassineti, Acrilico su tela, ritratto di Mario Lunetta, 50×40, 2008
L’importante è che il verso sia condotto da un impulso ritmico che coincide con un impulso polemico. La poesia di Lunetta si intride di sarcasmo e di grottesco in presenza della realtà contemporanea. La sua idea politica è rimasta fedele nel tempo all’utopia politica. Nel 1991, all’atto della metamorfosi opportunistica del Partito sarà uno dei partecipanti alla Mozione dei poeti comunisti; e quella parola “comunista”, per molti ancora oggi impronunciabile, si ritrova anche negli ultimi suoi componimenti, come affermazione provocatoria:
io qui oggi mi azzardo / col mio minuscolo ego / a dire
che non c’è bisogno di carità / che è sempre stata solo un alibi
di classe / ma di retta uguaglianza dei punti di partenza /
giusta distribuzione delle risorse / punti di vista conflittuali /
o il più possibile condivisi / fine dello spreco dei talenti /
e delle sane volontà / fiordalisi con qualche spina di interpretazione /
lucida e ferma / insomma si non di vagues emotive ma di spinta /
agonista / verso quell’altro quid / che quasi nessuno ormai si prova
più a nominare / e che ha ancora il giovanissimo nome di
comunismo
È insomma sì, datata 1° maggio 2014.
Una poesia politica che insieme alla positiva rivendicazione del piacere materiale univa la critica senza resti e quasi l’orrore verso la realtà mercificata. Senza regressioni, negli anni della ripresa del privato neo-lirico, la “poesia della contraddizione” di Lunetta (uso il titolo dell’antologia da lui curata con Franco Cavallo nel 1989) è stata un ottimo esempio di alternativa dell’arte; anzi, direi proprio di arte dell’alternativa, perché alla tinta cupa del significato si accoppiava sempre una straordinaria creatività del linguaggio e delle forme poetiche.
Alla capacità di mutazione formale, per cui di volta in volta si inventava o reinventava la scrittura con un lancio di dadi stilistico, Lunetta accoppiava un inesausto “piacere della materialità della vita” e insieme della dignità del pensiero che aprivano il suo “senso della letteratura” alla intransigenza dell’impegno civile. Come pochi, come ormai quasi nessuno.
(Francesco Muzzioli)
*
«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».1
Le strutture ideologiche post-moderne, dagli anni settanta ai giorni nostri, si nutrono vampirescamente di una narrazione che racconta il mondo come questione «privata» e non più «pubblica». Di conseguenza la questione «verità» viene introiettata dall’io e diventa soggettiva, si riduce ad un principio soggettivo, ad una petizione del soggetto. La questione verità così soggettivizzata si trasforma in qualcosa che si può esternare perché abita nelle profondità presunte del soggetto. È da questo momento che la poesia cessa di essere un genere pubblicistico per diventare un genere privato, anzi privatistico. Questa problematica deve essere chiara, è un punto inequivocabile, che segna una linea da tracciare con la massima precisione.
Questo assunto Mario Lunetta lo aveva ben compreso fin dagli anni settanta. Tutto il suo interventismo letterario nei decenni successivi agli anni settanta può essere letto come il tentativo di fare della forma-poesia «privata» una questione pubblicistica, quindi politica, di contro al mainstream che ne faceva una questione «privata», anzi, privatistica; per contro, quelle strutture privatistiche, de-politicizzate, assumevano il soliloquio dell’io come genere artistico egemone.
La pseudo-poesia privatistica che si è fatta in questi ultimi decenni intercetta la tendenza privatistica delle società a comunicazione globale e ne fa una sorta di pseudo poetica, con tanto di benedizione degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.
(Giorgio Linguaglossa)
1 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017
*
Di famiglia piccolo borghese, Mario Lunetta nasce e cresce a Roma. Sperimentatore nei più diversi generi letterari e artistici, ha collaborato ai programmi culturali della RAI, a giornali, a riviste italiane e straniere (L’Unità, Corriere della Sera, Il Messaggero, Rinascita, Il manifesto, Liberazione); ha curato importanti antologie (Il surrealismo, Roma, Editori Riuniti, 1976; Poesia italiana oggi, 1981, e, in collaborazione con Franco Cavallo, Poesia italiana della contraddizione, 1989, entrambe edite a Roma, Newton Compton). Ha introdotto e curato opere, tra gli altri, di Italo Svevo, Emily Brönte, Émile Zola, Federico De Roberto, Gustave Flaubert, Dino Campana, Velso Mucci. Sullo stato di salute di certa poesia contemporanea Mario Lunetta scrive:
«La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore. La ideologia attualmente diffusa in gloria di quella recentissima specie zoo(il)logica che sarebbe il poeta da spiaggia o da stadio […] che ‘canta’ al grado zero le sue passioni le sue frustrazioni le sue esaltazioni in versi intrisi di ‘incantevole’ primitivismo semianalfabetico, è l’ultima invenzione del mercato delle lettere (insomma, del mercato) perfettamente omologa al presente del gusto medio radiotelevisivo/rotocalchesco. È l’ultima mistificazione in letteratura, in poesia». E così parla della nuora perché suocera intenda».
Nel marzo del 2013 Mario Lunetta perde Maria Pia, sua compagna per oltre mezzo secolo, e vede la sua luce il Canzoniere della scomparsa, per Robin Editore. Nei 31 componimenti del libro, nello sgomento quotidiano della perdita della compagna, fa i conti, per dirla con il Roland Barthes del Diario di lutto tradotto in Italia come Dove lei non è, con una nuova poetica, la poetica della «presenza dell’assenza»:
Sotto i portici dell’esedra, il refrigerio dell’ombra:
e subito, dipoi, quell’incredibile avvertire accanto a sé,
al suo fianco, un alito di freschezza, un respiro leggero
che era niente e era tutto, nella pace silenziosa
cui finalmente sembrava approdata la Scomparsa
che nel momento in cui il sospetto immortale, ormai morto anche lui,
le rivolse la parola, svanì dissolta nell’aria umida,
come un volo di farfalla – e il defunto supposto immortale si sta
chiedendo da tre giorni dove sia cominciato il sogno, quando
sia finita la realtà, in questa scacchiera di caselle vuote
dove tutto è trasformato nel suo contrario e la via
è soltanto un accumulo di surrogati e succedanei finti.
( da Canzoniere della Scomparsa, Robin Edizioni, Roma, )
Come in questo, anche negli altri 30 componimenti Mario Lunetta non cede mai alla autocommiserazione, al verso intriso di lirismo piagnucoloso e disarmato e un critico letterario per questo atteggiamento di Lunetta di fronte alla morte segnala l’epitaffio di Samuel Beckett: «è finita, continua a finire e io in questa fine continuo» come modello della postura lunettiana di resilienza dopo l’evento morte che da noi stratta la persona amata, e si conferma come scrittore loico, laico, materialista, razionalista, incapace di cedere alla retorica del sentimentalismo e del lirismo strappa-anima o strappa-cuore, scansando tutte le forme di petrarchismo, alzando barriere verso ogni tentazione di “umbertosabismo”, evitando «gli abissi melodrammatici dell’Ego interiore».
Anzi, nei 31 componimenti del suo Canzoniere della scomparsa Lunetta fa di più, fa sparire totalmente l’Io poetante inventando l’espediente estetico dell’« i.s.» che il poeta romano intende e usa in tutto il libro come «immortale sottoscritto». Fa retrocedere l’io alla terza persona e come “ i. s.” il poeta si rivolge a Maria Pia, alla Scomparsa.
Come ad esempio Mario Lunetta fa in questi altri versi del suo Canzoniere della scomparsa:
Pare accertato che di frequente, nella sua corsa immobile
sul binario dell’angoscia come un carrello senza guida
che giri intorno a se stesso in una miniera abbandonata, l’i.s.
si rivolga alla sua ragazza a voce alta, chiedendole assenso
& complicità, annaspando nel vuoto del suo delirio in una
pratica ventriloqua di cui pure comprende l’insensatezza ma
di cui può tuttavia apprezzare il povero succedaneo della realtà,
ormai per sempre perduta nel suo nulla senza conforto.
(da Canzoniere della scomparsa, Robin Edizioni, Roma)
Anche per questi aspetti, della vasta esperienza poetica lunettiana, Giorgio Linguaglossa parla di «forma informe» e a tal proposito scrive: «La realtà è diventata muta, impresentabile, e la forma-poesia che le corrisponde risulta dissonante; la forma informe è diventata qualcosa di ultroneo sia al concetto di rappresentazione sia a quello di testimonianza. Lunetta capisce subito, fin dai primissimi anni settanta, che la poesia non deve testimoniare nulla a nessuno, non obbedisce alle regole dell’economia monetaria dello stile e dell’ economia culinaria della bellezza sostenute dai poeti interessati al mantenimento dell’ordo rerum».
(Gino Rago)
Mario Lunetta
Ki parla? Ki askolta?
Poema pesce
E tuttavia sedevamo ancora dietro la porta in rovina
deliberando i destini del mondo.
Bertolt Brecht
L’artista non è qualcuno che trascrive il mondo,
quanto piuttosto il suo rivale.
André Malraux
La liberazione dei morti avviene al rallentatore.
Heiner Müller
1.
Ki mi parla? Ki mi paràbola, parabellum paradossale, ki mi parla all’orecchio,
all’erta, orakolare, alors, allegro, allegorico alibi maldestro, ki, ki,
ki mi sussurra, susssss, ki mi grida, ki urla, ur, ur, Ur dei Kaldei, hurrà! Là in quelle
lingue antikissime perdute, ikiissime, eeerdute, kon èki kissà kome
pieni di frenesia, di freee, free klimber, di freeesko vento kolossale
fra le kolonne, i rokki, i rock ‘n roll, rollando, rockkettando,
nel pap, nel papillon, nel padiglione, nel kondotto, mentre porgea gli orecchi
al suon della tua voce?
Ki mi grida, ki urla, ki sussurra? Mi susssss? Mi sugge, mi suggella?
Ki tace invece? & kome? & in base a kuali disposizioni, a kuali
regolamenti, dérèglements, regaglie, regalìe? In base
a kuali ordinanze del maxiracket, akkà, stasera o stamattina, akkà nisciune,
stabat, stamme, sotto nu ciele ke vommita eskrementi, ke vooommita, reggae
giamaikano, già? & ness, nessuno se ne akkorge, se ne akkkkk
(o finge di)? – kontinuando a ko, kontinuando a kooovare nel kovile
le sue proprie amarezze & amaritudini, arezze, itùdini agrodolci, ascoltando
più niente ke non sia kuesto rhum (giamaicano ank’esso, forse), kuesto rumore
profondo di rovina, kaduta, precipizio delle kose, delle koske dello spirito
– spiritosamente?
La burocratizzazione dell’ass, dell’assassinio: kuesto
sì ke è, peut-etre, un problemino non da poko: pur se non
da moltissimo, per vero – magari da moooooltiplikare
in silenzio, mentre mi kie, mi kiedo ki mi grida, ki urla, ki
mi susss, susssss, mi sussurra nel timpano, sursum korda, nella tu, nella tuba
di Eustakio, mi kie, kiedo, ki insomma ki è mai, ki sia stato
in kuel momento svanito in un singhiozzo, ki sarà domani, ke è sempre
un altro giorno, komme on dit, nulla di nuovo, nulla, nihil
sub sole novi, nel mutamento delle forme, delle formule del ka,
del kaaapitalismo: della sostanza sua sempiterna, se non vo, se non vado
errato (ma lo potrei, lo ammetto, hamm, dash:
in kuesto Grande Sonno).
Assumere l’indispensabilità, ta ta ta ta ta, & in parallelo
la necessità inderogabile inkommerciabile inkontestabile indubitabile
indomabile (& pratikabile palpabile respirabile instankabile immutabile
socializzabile spiegabile inspiegabile insurrogabile) – & dimostrabile kontra,
della politika: opposizione kategorika al lib, al liber, al libeeerismo
(ke è lirismo specializzato in allestimenti sempre ult, ultrà, sempre ulteriori
di sistemi karcerari, guerre senza konfini di spaaaaazio & teeeeempo,
amori militari & raffike di piombo sotto il disgusto della lu, il disgusto
della luna)…
Extra, in esergo estrapoliamo gli effetti katastrofici, katarifrangenti,
magari kàtari o katarì (anke in kueste misere strofe, si vous voulez)
& rimettiamoci all’askolto, sia pure senza, senza aver decifrato
la vox, le voci (& il senso) di ki ci parla, ci paràbola, parabellum,
ci sussurra, susssss, sussi & biribissi, ci allaga di sangue i kondotti auri,
auricolari, & memoria & meningi: & non ci dice il suo nome.
2.
Ki askolta nelle tene, nelle tenebre del senso, della Sensucht, ki
si naskonde sotto kave di granito, dentro le nu, le nuages ke sono kavalli
& sono kavoli, kavilli & kave, appunto, kome già detto, o caveaux,
nel cielo o nell’inferno del business universale, dove il verso
non ha korso, & la per, la pertinace peeerversione della specie
s’impingua & si skatena? Ki, kuando, dove mai sempre semper
insiste nella sua opera pia innocentemente kriminale, pragmatismo
selvaggio, idealismo retoriko, oro nero oro bianko, petrolio, akkua,
aria, ke se la respiri muori, ki kome kuando & perché poi
– ki è pa, patron, patriota, padrone insomma nella partita di kuesta
passatella globale senza inizio
& senza konklusione?
Oh lo sviluppo integrato, lo sviluppo sostenibile, soste,
viluppo, atti, attività prometeica & multiforme
ora ke la nato, la natura ride di sé per non piangere, nell’oskuro
intestino del senso del nonsenso mentre
trema la terra, vogliamo forse fa, forse diesis, forse fare
un’inkiesta rigooooorosa su, per esempio, les Nouveaux
Maitres du monde, per dirla kon l’illustre prof.
il kui nome si può leggere, si può, su… su… (ma dove? Dove mai?)
prima ke tutto sia divorato dall’incendio ke si vede
avanzare dalla fo, dalla for, dalla foresta: ke si vide avanzare
– ke si vide, kuando già – vekkia fissazione dell’impero –
Woodrow Wilson buonanima aveva diffuso lo slogan
“Rendere il mondo più demokratiko”?
Ma ora finalmente, ora ke kue, ke kuesti tempi benedetti
da God & da Godot (dal dog di God & di Godot) hanno portato
benessere & libertà su kua, su kuasi tutta la terra, è giusto
konoscere grazie a kuale motore sia avvenuto
il mirakolo: & il motore, il General Motor, è kuesto, è quì,
& ci ama & ci arma ci sokkorre ci governa con ange, con angelika
sollecitudine
Banka Mondiale è il suo nomignolo
in kod, in kodice: ma in realtà il suo nome di battesimo
è World Bank Group, ke impiega poko più
di 10.000 funzionari, ed è pro, probabilmente, fra tutte
le organizations interstatali, kuella ke fornisce
all’opi, all’opinione pubblika le informazioni più komplete
sulle proprie stra, sulle proprie strategie, stragi, progetti
& aktivities – un flux and fluxus kuasi ininterrotto
di stati, di statistike, di opuskoli esplikativi & di analisi
teo, teorike: & tutto, per grazia di Dio, si di, graziosamente si diparte
dalla sua fortezza in vetrocemento, al 1818
di Northwest Street, Washington, sorry.
3.
Poi c’è la psike, c’è la psi, questa mia psike
ke non è più mia, non è più di nessuno, labile
più di un gas, più suppliziata di un supplì. Sarebbe bene, diko,
rivestirla di un giubbotto antiproiettile
antiruggine antiuomo anti-igieniko antiallergiko
antikongelante antikonformista (da animista blasé),
nella speranza disperata di un kam, di un kambiamento
non di status ma di specie: diventando
– metamorfosi zoologika & metallika –
prima un kammello attraverso la kru, la kruska di un ago,
di un’agorafobìa, poi un karrarmato, me voilà! – per vincere magari
kuesta guerra infinita, kuesta infinita
batrakomiomakìa gordonflash, kuesta gran fiera
di bistekke al sangue, sciakkuandomi le mani
kon un tokko di sapone Marsiglia, fiskiettando
anke sotto la pioggia la Mars, la Mars, La Marseillaise enfin:
mentre lo spe, lo spek, lo spekkio va in frantumi, & la mia faccia
ride, kome kuella immortale
di Buster Keaton, please, ke non ride mai.
1 aprile 2004*
EUROBOND EUROPA
In pochi, mi pare, si sono accorti che l’Europa è a Gaza,
a Gerusalemme, a Giaffa (dove anche i pompelmi
sono bombe a orologeria).
Che l’Europa è a Baghdad, nella nuova Mesopotamia
delle Mille & una Morte
& di “Antica Babilonia”, sorry.
Che è in America Latina, la maledetta Europa.
Che è in India, in Cina, in Australia, in Canada,
nelle Antille, laggiù, verso la Florida
piena di patrioti strafatti di coca, & di contras
che aspettano solo l’ordine di attacco.
Che l’Europa si chiama anche Africa, okay, dove la Comare
allestisce ogni giorno dell’anno
il Festival del Sangue
& milioni di marmocchi fanno da concime gratis
prima di essere inscatolati
come Dio comanda.
Oh sì, la gente è distratta, & non ha
troppo tempo da perdere. Appunto in pochi si sono accorti
che l’Europa è negli Stati Uniti, okay,
& gli Stati Uniti sono qui, anche quando dormiamo, cullati
dai nostri sogni sognati da altri.
Facciamo sì che questi pochi
siano sempre meno pochi, fino a diventare
maggioranza, popolo sterminato,
pianeta.
In pochi sanno, ancora,
che troppi sono stati i rapimenti d’Europa, & che i suoi ratti
non sono favole mitologiche, ma rapine
& spoliazioni, ladrocinio & borseggio
a cielo aperto.
Facciamo sì che finalmente
non solo gli europei marcati come bufali
con le impronte digitali
comincino a saperlo.
Facciamo sì che lo sappiano
anche gli animali e lo diffondano nel vento
nelle loro lingue che sempre più somigliano alle nostre
perché sono anch’esse le lingue dei vinti,
dei depredati, dei destinati all’ingrasso del capitale
senza confini, senza principi & senza fine.
Facciamo sì che lo sappiano
anche i morti, che continuano a abitare
questo mondo di orrori & di dolcezze possibili
– & lo diffondono ben oltre i loro cimiteri,
le loro fosse comuni, i loro mattatoi, in quelle lingue
silenziose & cifrate che sempre più
somigliano alle nostre.
Non vorremmo, no, che in Europa
ci fosse meno Europa che in tutti gli altri luoghi
della terra. (Fate attenzione).
È un progetto a cui lavorano alacremente
i suoi assassini, che non di rado
vi sono nati & ne parlano gli idiomi truccati
perché il loro vero idioma
è l’esperanto della sopraffazione
& del dominio, che conosce soltanto
il colore dell’oro, il peso leggerissimo
della carta moneta
& il sorriso del teschio.
20 maggio 2004*
da Mappamondo & Altri luoghi infrequentabili, Campanotto, 2006 p. 45 e segg.
«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità»1 di cui ci parla Maurizio Ferraris corrispondono a quel dispositivo ontoteologico governamental provvidenziale che ha guidato e guida le de-politicizzate democrazie occidentali, il dispositivo del consenso volontario e del soggiogamento spontaneo delle masse alla invisibile Autorità democratica. Quello che lega con un cordone memorial-ombelicale la poesia della contraddizione, targa Mario Lunetta e la mia (nostra), targa poetry kitchen o poesia buffet, è la presa d’atto della liquidazione della tradizione poetica italiana considerata alla stregua di una simil-tradizione e dello psudo stile del lirismo e dell’anti lirismo elegiaci soggiacenti della poesia italiana di questi ultimi decenni che si nutre omeopaticamente di un linguaggio poetico a vocazione maggioritaria.
Penso che valga la pena di riflettere sulla mappa alternativa a quella maggioritaria della poesia italiana di questi ultimi decenni, Mario Lunetta è stato un fiero oppositore delle officine poetiche posiziocentriche di Roma e di Milano, ed è stato messo in sordina e nel dimenticatoio perché poeta scomodo e riottoso ai compromessi con le élites letterarie, il nostro scopo invece è quello di restituire alla storia culturale del nostro Paese il profilo di una poesia di lotta e di opposizione che, in quanto scomoda e ostile alle transazioni, è stata oggetto di silenziazioni e di censure tribali.
Mario Lunetta pensa l’arte come espressione della falsa coscienza dell’arte e dei suoi adepti benpensanti ammaestrati al culto della dea della bellezza e riconduce il problema dell’estetica all’interno di una lettura del conflitto tra le classi e tra i singoli intellettuali i quali prendono posto, consapevolmente e/o inconsapevolmente, presso una delle due parti in lotta. Il poeta romano pensa l’arte materialisticamente come praxis entro le strutture ideologiche postmoderne portatrici del destino storico della crisi della cultura occidentale come crisi della tradizione. La bellezza estetica, teorizzata nella modernità come epifania mistica e inafferrabile, fa sorridere di scherno il poeta romano il quale capovolge il piano di lettura della crisi dell’arte ammaestrata investendo con scherno derisorio i suoi rappresentanti, insulsi salariati al soldo della borghesia finanziaria e immateriale che detiene i quattro quinti della ricchezza del capitalismo globale.
Agamben ha scritto nel 1970: «Ogni grande opera contiene una parte d’ombra e di veleno,contro la quale non sempre fornisce l’antidoto». In un certo senso, l’opera poetica di Mario Lunetta, nel suo insieme, fornisce un formidabile antidoto contro la poesia ammaestrata degli ultimi decenni. Aiuta a mitridatizzarmi avverso la poesia elegiaca che ha imperversato e imperversa in Italia e in Occidente.
1 M. Ferraris op. cit.
da Il Riformista.
Sono stati resi noti stamattina i dodici titoli che correranno per la LXXV edizione del Premio Strega. La cinquina sarà votata il 10 giugno. L’anno scorso, a vincere per la seconda volta il prestigioso riconoscimento letterario, eguagliando il record di Paolo Volponi, era stato Sandro Veronesi con Il colibrì (La Nave di Teseo). I 12 titoli:
Andrea Bajani con Il libro delle case (Feltrinelli), proposto da Concita De Gregorio;
Edith Bruck con Il pane perduto (La nave di Teseo), proposto da Furio Colombo;
Maria Grazia Calandrone con Splendi come vita (Ponte alle Grazie), proposto da Franco Buffoni;
Giulia Caminito con L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani), proposto da Giuseppe Montesano;
Teresa Ciabatti con Sembrava bellezza (Mondadori), proposto da Sandro Veronesi;
Donatella Di Pietrantonio con Borgo Sud (Einaudi), proposto da Nadia Fusini;
Lisa Ginzburg con Cara pace (Ponte alle Grazie), proposto da Nadia Terranova;
Giulio Mozzi con Le ripetizioni (Marsilio), proposto da Pietro Gibellini;
Daniele Petruccioli con La casa delle madri (TerraRossa), proposto da Elena Stancanelli;
Emanuele Trevi con Due vite (Neri Pozza), proposto da Francesco Piccolo;
Alice Urciuolo con Adorazione (66thand2nd), proposto da Daniele Mencarelli;
Roberto Venturini con L’anno che a Roma fu due volte Natale (Sem), proposto da Maria Pia Ammirati.
A selezionare i titoli, tra i 62 proposti dagli Amici della domenica, il Comitato direttivo del Premio composto da Pietro Abate, Valeria Della Valle, Giuseppe D’Avino, Ernesto Ferrero, Alberto Foschini, Paolo Giordano, Helena Janeczek, Melania G. Mazzucco, Gabriele Pedullà, Stefano Petrocchi, Marino Sinibaldi e Giovanni Solimine. A presiedere il Comitato direttivo Melania G. Mazzucco che ha descritto così i titoli finalisti: “Fra i sessantadue titoli proposti abbiamo notato il ricorrere della distopia e dell’autobiografia, e una generale diffidenza nel romanzo di intreccio e di genere. Le autrici e gli autori prescelti rappresentano più generazioni, con un’escursione anagrafica agli estremi di ben sessantatré anni. Nella maggioranza però sono nati negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. I titoli selezionati nel 2021 raccontano per la maggior parte storie legate al vissuto personale dell’autrice o dell’autore, al suo mondo privato e prossimo (amici, parenti, conoscenti), e alla geografia locale, provinciale, talvolta rionale. In qualche caso questo vissuto incrocia la grande storia, più spesso si tratta invece di microstorie intime”.
La scrittura poetica di Mario Lunetta documenta l’uso non strumentale del linguaggio, la originale sfasatura di ogni soggettività rispetto all’attivo dispiegarsi del linguaggio, il soggetto produce una scrittura solamente abbandonandola e spargendola, perdendola e inviandola. La disseminazione è il perno stesso della scrittura lunettiana. La logica della disseminazione è la logica dell’innesto e dell’ibrido, la disseminazione si produce sempre attraverso innesti su innesti, ibridi su ibridi precedenti. Quando un sintagma viene innestato in un contesto inedito rispetto a quello in cui è stato concepito, lo decostruisce ed al contempo il concetto viene ricaricato di un nuovo significato. Analogamente avviene con il lapsus, che segna un inceppamento ma anche una ripresa del discorso, un rilancio del discorso. Così il contesto viene ulteriormente disaggiustato e nuovamente riarticolato seguendo questo processo senza termine ultimo o punto di arrivo, fino alla intermittenza e alla interferenza continua che il testo è costretto a subire.
Tale e quale è anche la procedura dell’impiego delle coloriture del quadro di Marie Laure Colasson nel post odierno: la coloritura sfuma e interferisce con altra coloritura attigua e contigua deformandola e mutandola fino al punto della susseguente interferenza con altro colore vicino e lontano, con il quale entra in contatto, in collisione e in fibrillazione. E così la pittura si costruisce nel mentre decostruisce se medesima.
Per chi volesse avvalersi di una base per ricerche future su Mario Lunetta, un autore dalle “ampie e sfaccettate dimensioni” (Muzzioli) e volesse avere una sorta di punto di partenza nell’itinerario d’arte e di pensiero di questo scrittore all’opposizione ma nella sua “rigorosa coerenza e nell’aspra ripulsa delle soluzioni di comodo e delle mode di volta in volta dominanti”, segnalerei il saggio:
Francesco Muzzioli, Mario Lunetta. La scrittura all’opposizione, Roma, Odradek Edizioni,2018)
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Francesco Muzzioli
Insegna Critica letteraria e teoria della letteratura presso l’università “La Sapienza” di Roma. Attivo inizialmente con il gruppo “Quaderni di critica”, ha lavorato nel corso degli anni soprattutto su due direttrici, da un lato la storia e le problematiche delle avanguardie europee, dall’altro la discussione teorico-metodologica sulla critica letteraria, in polemica con le derive postmoderniste.
Tra i suoi contributi: Le teorie letterarie contemporanee (Carocci, 2000), Quelli a cui non piace (Meltemi, 2008), Letteratura come produzione (Guida, 2010), Piccolo dizionario dell’alternativa letteraria (ABEditore, 2014).
Per l’editore Odradek ha pubblicato Il gruppo ’63. Istruzioni per la lettura (2013); Un colpo di pistola nel concerto. Il dibattito su politica e letteratura tra il ’17 e il ’68 (2016) e, curato con Mario Lunetta, i quattro Almanacchi Odradek usciti tra il 2003 e il 2007.
Mario Lunetta, una forte personalità come ce ne sono poche in Italia, ribelle e sempre critico contro un mondo basato sulle Banche multinazionali, un vero marxista ateo senza compromessi… Le cene a casa mia, a casa sua e al ristorante erano sempre sotto il vigore dell’humour e del piacere di stare assieme. Era un amante della vita, amava mangiare e bere e le sue battute erano sempre pertinenti. Era un amante dell’arte, ha seguito sempre il mio lavoro pittorico con grande generosità e curiosità. Gliene sono molto grata. Aveva sempre un ultimo libro di cui ci faceva dono, a me e al mio compagno di allora, il pittore Renato Fascetti, sul quale apponeva una dedica in grafia artistica. Sapeva ascoltare gli amici, non aveva bisogno di essere il protagonista della serata (lo era naturalmente). Era sempre generoso con gli amici e i conoscenti che gli chiedevano uno scritto o una prefazione. E poi, la vita è quella che è, quando l’ho incontrato l’ultima volta, così ammalato, il mio cuore si è stretto. E’ riuscito lo stesso ad essere brillante sul palco del teatro. Tornato a sedere, gli ho detto che gli volevo molto bene, ci siamo abbracciati a lungo sapendo entrambi che sarebbe stata l’ultima volta che ci vedevamo.
Per me, e penso anche per la poesia italiana, è stata ed è una grande perdita. Mi manca.
È morto ieri il poeta polacco Adam Zagajevski
NON SI DA’ TRASCENDENZA SENZA IL QUOTIDIANO
https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/12/20/poesie-di-adam-zagajewski-scelte-e-commentate-da-giorgio-linguaglossa-traduzione-a-cura-di-krystyna-jaworska-sul-tema-dellisola-dellutopia-non-si-da-trascendenza-senza-il-quotidiano/
«La luce guarda l’ombra dall’alto».
(da Adam Zagajewski Poesie a cura di Krystyna Jaworska. Adelphi, 2012, p. 227 € 20.00)
Adam Zagajewski nasce a Leopoli, 21 giugno 1945, poeta e saggista polacco, risiede a Parigi dal 1981 al 2002. In seguito di trasferisce a Cracovia, dove insegna letteratura presso la University of Chicago. È noto soprattutto per il poema Try To Praise The Mutilated World, uscito a puntate sul periodico statunitense The New Yorker e divenuto celebre dopo gli attentati dell’11 settembre 2011, e per le sue pubblicazioni sul poeta connazionale, Czesław Miłosz Premio Nobel per la Letteratura nel 1980. Ha vinto il Neustadt International Prize for Literatur nel 2004; è il secondo polacco, proprio dopo l’amato Miłosz, a vincere il premio conferito dall’università statunitense.
Commento di Giorgio Linguaglossa
Il metodo di composizione di Zagajevski è ben visibile in questa breve poesia che inizia con la voce dell’io narrante il quale dichiara: «io ancora non ci sono», distico appena preceduto dalla annotazione stenografica e storica: «Anni Trenta». Il prosieguo della composizione è qui: una serie di annotazioni che hanno sembianza di ovvietà, così come ovvi sono gli eventi che accadono: «germoglia l’erba»; «una ragazza mangia un gelato alla fragola»; «qualcuno ascolta Schumann». Apparentemente, tutto è in ordine, il mondo va come dieci o cento anni prima, tutto appare normale, anche la poesia risulta costruita con annotazioni normalissime, sembrano delle fotografie, delle istantanee. Anche se andassimo a strologare su che cosa c’è di speciale in questa poesia dovemmo arrenderci perché lì non c’è proprio nulla di speciale o di eccezionale. Tutta la poesia è appesa a un filo, quell’«io ancora non ci sono», che fa mormorare il poeta «che felicità». La felicità del personaggio parlante è appesa appunto a quel non-esserci, a quel filo sottilissimo, perché subito dopo si scatenerà la più grande mattanza del genere umano che si sia mai vista sulla scena del mondo.
Anni Trenta
Io ancora non ci sono
Germoglia l’erba
Una ragazza mangia un gelato alla fragola
Qualcuno ascolta Schumann
(il folle Schumann,
smarrito)
Che felicità
Io ancora non ci sono
Sento tutto.
Ha scritto Zagajevski: «Non sono uno storico, ma mi piacerebbe che la letteratura assumesse, consapevolmente e in tutta serietà, il ruolo di una cronaca storica. Non voglio che segua l’esempio degli storici contemporanei, perlopiù pesci freddi che hanno passato la loro vita in archivi polverosi che scrivono una lingua burocratica brutta e inumana, una lingua di legno prosciugata di tutta la poesia, piatta come un pidocchio e grigia come il giornale quotidiano. Vorrei che tornasse a esempi più antichi, chissà, addirittura greci, all’ideale del poeta storico, una persona che ha visto e sperimentato direttamente quel che descrive, oppure ha attinto alla vivente tradizione orale della sua famiglia o della sua tribù, che non teme né il conflitto né i sentimenti, ma ha tuttavia a cuore la ricostruzione scrupolosa della vicenda che narra». (citato in John Lukacs, Democrazia e populismo, traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti, Longanesi, 2006, p. 179)
«Uno scrittore che tiene un diario lo usa per registrare ciò che sa; nelle poesie e nei racconti mette quello che non sa». (citato in Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci, Feltrinelli, 2004, p. 138).
I testi di “Lettera morta” (alcuni qui riproposti dalla sezione “Area di contagio”) furono composti da Mario Lunetta più di venti anni fa ma sconcertano alla lettura per l’aderenza quasi cronachistica all’attualità, ai fatti dei nostri giorni, al momento storico che ci coinvolge e travolge. E ciò è più sorprendente pensando ad un tipo di “poesia critica”, praticata instancabilmente da Lunetta, una sorta di “meditazione sulla vita offesa” a colpi di invettive, polemiche e ironie disarmanti, o per meglio dire umorismo «nero, iroso, sinistro» per usare la definizione di Marcello Carlino. Un “pensiero critico” che marcando porta a porta fatti e contingenze, si pone in apparente contraddizione con la lucida consapevolezza del poeta di riconoscere il fallimento di ogni estetica dell’impegno. La Lettera morta è un’attestazione di impotenza della scrittura e della sua devalorizzazione nella babele dei linguaggi mediatici, là dove la poesia rotolata dal suo scranno e viaggia attraverso il villaggio globale per riduttive ridondanze sentimentali e pubblicitarie. Il disincantamento conseguente, così come la débâcle di classe dell’intellettuale engagè, non limitano e non indeboliscono la posizione forte di responsabilità nei confronti della società e della storia di Mario Lunetta.
Mario Lunetta, Lettera morta, Fermenti, Roma, 2000
(Da Area di contagio)
Inverosimile secolo
Inverosimile secolo. Anche gli insetti, infimi
tra gli infimi, hanno difficoltà a sopravvivere.
Viviamo una vita fossile. In me la sola forma di energia
è l’ira. Tutto è radioattivo. Ognuno ha perso
La propria ombra.
Si cammina per le strade come su pareti
glaciali di grattacieli. Qualcuno fuma di nascosto
sigarette che, è risaputo, producono “collateral damage”,
come i bombardamenti degli F15 o la furia degli “Apaches”.
Gli specchi ridono di noi. I pipistrelli
ci disprezzano.
Si continua a fare dei film che –direbbe il vecchio Krauss –
mostrano soltanto la nostra “indicibile infamia”.
Con la malafede cultural-politica si allestiscono
confezioni “sweet” o “salty”. Il mondo crepa
Tra singhiozzi e ululati: è solo un lupo ubriaco.
Chi mi chiama? Mi sta chiamando qualcuno? Da dove?
Da un secolo fa? Dal prossimo maledetto millennio? Mentre
tento di dormire? Mentre mi chiudo in cantina, invitato
a un party di topi?
Non voglio più deglutire. Il respiro comporta
Una responsabilità schiacciante. La morte è una pretesa
costosissima. Credete che io sia un demonio: mon dieu ragazzi,
ma se non sono che la copia malriuscita
di un angelo sciocco, che una volta cantava nei nights, e
pensava di essere immortale. Il povero idiota
dalle cravatte sprezzanti. Lo scemo del villaggio globale
in mocassini Clark. L’illuso. Il deluso. Che ora
non vede quasi più nulla, nella sua sordità. E nella
sua cecità non sente più niente, o quasi: con qualche ingrata eccezione.
(Aprile 1999)
Nient’altro
Perdo un miliardo di neuroni al giorno:
è un’andata senza ritorno.
Il mio sguardo è sempre più ottuso
Per la lunga attesa, il lungo uso.
Vedo solo questo mondo perduto,
lo vedo desolato, muto.
Ho una discreta voglia di morire:
non ho nient’altro da dire.
(Giugno 1999)
Sogni d’oro
Dopo, solo un po’ dopo, vennero
pattuglie di iene ben inquadrate, guardinghe, con appena
una lieve aria di sospetto. Avevano gli occhi chiusi, come
sigillati di cera. Da sotto le corazze
mimetiche usciva il loro caratteristico fetore.
Leggevano libri di versi, si suppone, ne storpiavano
le parti più imponderabili, i nessi più indigesti
e forse velenosi. Poi, stranite, stridendo,
vi defecavano sopra. Si addormentavano, quindi, facendo
molto probabilmente sogni d’oro.
(7 luglio 1999)
Buongiorno amici, mi accodo in ritardo a quest’articolo poiché l’avrvo volutamente lasciato in “sala d’attesa”, cercando un momento propizio, in termini di tempo a disposizione per intoltrarmi nella lettura dei testi di Mario Lunetta. Devo ammettere che pur conoscendolo di fatto come nome nel campo della produzione poetica, non ne avevo finora scandagliato a dovere la potenza espressiva e la portentosità dei suoi versi e perciò ho preferito approfondirlo a dovere. Sono sinceramente rimasto folgorato dalla sua capacità di “forgiare” letteralmente la parola: amo particolarmente l’applicazione fabrile, artigianale alla parola che la poesia, più di qualsiasi altro mezzi scritto è in grado di esercitare e così come l’artigianato è la massima espressione delle qualità creative nel campo della produzione industriale – fino al punto di costituirne il contraltare qualitativo nei confronti della logica puramente consumistica della produzione in scala – analogamente la creazione “sartoriale” della parola ne esalta la grandezza rigeneratrice, in contrasto con il piattume, lo scialbore, la bulimia di scritti poetici che ci invade. Quando mi capita – purtroppo quasi quotidianamente – di vedere la parola poetica profanata, vilipesa da questa pelago indiscrimanto di presunti testi poetici che ormai dilagano ovunque, che trasfigurano la poesia in un puro simbolo di presenza nell’ordine costituito del mondo “social” o l’ ostentazione di un appannaggio, di un blasone, alla stregua di un titolo onorifico, temo di trovarmi davvero di fronte ad una via senza uscita, una pandemia (persino più aggressiva e virulenta del covid stesso) di fronte alla quale servirebbe probabilmente un accadimento palingenetico che spazzi via tutta la “fuffa” per restituire alla poesia la dignità che le compete per sua ontogenesi, Basta però rituffarsi nella lettura dei veri poeti per riappacifarsi con il senso stesso della creazione poetica, con il suo soffio vitale, la sua capacità di costruire mondi e cosmologie, in grado di sradicare la patina superficiale della realtà convezionale e fornirci una bussola interpretativa del nostro tempo .Lunetta estrinseca in modo eccellente tali doti, abbinandovi una grande tendenza all’ironia, alla levità che senz’altro contribuiscono a svecchiare e scalfire il poetare ieratico tradizionale. Sicuramente siamo di fronte – e sono certo di affermare una cosa probabilmente scontata per la maggior parte di voi – ad un grande artifex della poesia, un interprete della poetry kitchen ante litteram, Buona giornata a tutti.
L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
MARIO LUNETTA